mercoledì 3 marzo 2010

Brianza Borderline: "San Giovanni non vuole inganni"

L’ondata di caldo anomalo che aveva investito la Brianza dai primi di giugno non si era ancora attenuata, e per le strade le persone boccheggiavano come gli zappaterra del Gilardelli ormai prossimi all’ora di pranzo, tra le foglie rossicce degli aceri indiani. Un’afa del genere non la si vedeva da tempo. I fiumi erano in secca, le piante e gli animali soccombevano alla sete. Il lezzo delle porcilaie di cascina Amadio investiva le strade e le piazze del paese. Al manubrio della mia inseparabile “Leri Muggiò” azzurra metallizzata – chilometri e chilometri di Camel Trophy in campagna e asfalti periferici colabrodo sulle spalle – correvo sollazzante contromano in via Madonnina. A mo’ di provetto equilibrista, sfrecciavo sul minuscolo marciapiede che costeggia il tratto di strada nei pressi del punto in cui, negli anni Settanta, c’era il fotografo Villa, dirimpetto alla sartoria Tremolada, lasciando che l’aria accarezzasse i miei glabri pettorali da culturista della domenica: un vero toccasana per la carne e per i sensi, del quale non avevo quasi più memoria.
Mia intenzione era raggiungere il negozio di Amelia, di fronte al panettiere Poma, in piazza sant’Eusebio, per soddisfare le esigenze dell’attempato direttore della “Gazzetta della Martesana” – rinomato settimanale locale, tra le letture preferite di casalinghe, zitelle e simili – il quale mi aveva esplicitamente intimato di portargli entro breve, che voleva dire l’indomani, uno di quegli articoli di costume del tipo “Cosa fanno gli uomini della Brianza quando le giovani mogli vanno in vacanza con i bambini, i suoceri e le suocere?”, che tanto piacciono ai lettori. Me li chiedeva sempre, durante i mesi estivi, per sopperire alla carenza cronica di notizie che imperversava abitualmente con il sopraggiungere della bella stagione. L’anno prima, per dire, avevo raccontato con ottimi risultati di quando, da queste parti, si andava in giro con la carrozza trainata dai cavalli, e recarsi a Montevecchia era come oggi volare in prima classe a Santo Domingo. Erano perfino arrivate delle lettere in redazione che sottolineavano come l’articolo fosse piaciuto molto e che ci esortavano a pubblicarne altri di simili.
«Bravo – mi aveva detto il direttore, solitamente avaro di complimenti, e perennemente con quell’aria da bonsai rinsecchito – vai avanti così!”.
In realtà, l’impresa si sarebbe rivelata ben più ardua di quanto potessi immaginare. Questo perché, scegliendo il 23 giugno per andare a far visita ad Amelia, non sapevo che la donna avrebbe avuto ben altro da fare che dare retta a un ragazzino munito di carta e penna, pronto a subissarla di domande irriverenti: il 23 giugno, non a caso quasi in coincidenza con il solstizio d’estate, l’ormai prossima ottuagenaria inquilina di piazza sant’Eusebio sarebbe stata tutta presa con la festa di san Giovanni Battista, ricorrenza sconosciuta alla maggior parte dei brianzoli più giovani, ma assolutamente viva nell’immaginario di chi era più in là con gli anni.
Il rituale legato alla ricorrenza concerneva, in particolare, la raccolta di erbe e piante da utilizzare per scopi diversi, fra cui tenere a bada le streghe: nella notte tra il 23 e il 24 giugno si dice infatti che simili creature siano eccezionalmente attive, poiché si recano in volo verso il Grande Noce di Benevento, albero mitologicamente legato ad arcani riti longobardi attinenti al culto della vipera d’oro. Fra costoro, peraltro, ci sarebbero anche Erodiade e sua figlia Salomè, avuta da Erode Antipa, figlio di Erode il Grande, entrambe condannate a vagare per il mondo su una scopa per espiare la colpa di aver fatto decapitare il santo del fiume Giordano.
Morale della favola: quel dì avrei sì fatto visita ad Amelia, ma senza cavarne un ragno dal buco.
«Mi dovevi portare la storia di Amelia e del suo negozio, della Brianza all’epoca dei bombardamenti e delle retate dei soldati – aveva reclamato il capo, il giorno dopo la mancata intervista, imbestialito come non mai, e assolutamente immemore degli elogi dell’anno prima – e invece mi scrivi un elenco di piante con cui facilitare la digestione, vincere il mal di testa e scacciare i vampiri!».
Sicché avevo abbandonato la redazione mogio come un sole ridotto dalla foschia a una pallida biglia da bowling alta sull’orizzonte e, una volta a casa, mi ero rimesso a pensare a qualcos’altro. Tuttavia, quell’incontro con Amelia mi aveva segnato indelebilmente, a tutt’oggi non saprei dire se nel bene o nel male; era stata una delle esperienze più incredibili della mia vita. Ancora adesso, a ripensarci, mi sembra pura follia; una vicenda che giudicare paranormale sarebbe un eufemismo e che, per paura di essere preso per matto, non ho mai trovato il coraggio di raccontare a nessuno.
Ma ora credo che sia finalmente arrivato il momento di farlo.
Da via Madonnina virai verso piazza sant’Eusebio, piegando pericolosamente come un audace pilota di enduro, nel punto in cui oggi sorge il bar Centrale e dove una volta, stando almeno alle leggende locali, era attiva una casa di appuntamenti. Raggiunta la piazza, che l’amministrazione Brambilla non aveva ancora rimesso a nuovo, fissai la bicicletta alla rastrelliera che sorgeva di fianco ad alcune colonne in granito sdraiate su se stesse per una malintesa finalità di decoro, e presumibilmente recuperate dalle macerie di qualche vecchio edificio settecentesco. Pensai a quella volta che, su quegli stessi amalgami affusolati di rocce plutoniche, Ivan detto il Bogia aveva scambiato il parroco per una ragazza: il sacerdote, per combinare uno scherzo al mio amico, gli era comparso all’improvviso alle spalle e, come si usa fare, gli aveva impedito di vedere coprendogli gli occhi con le mani. Il Bogia, palpeggiandone goffamente la tonaca per cercare di capire chi fosse, si era messo a sbraitare:
«Ma tu hai la gonna! E due belle tette! Quindi non puoi che essere una bella ragazza!».
Poi si era girato, aveva visto il pievano ed era sbiancato…
Mi diressi con decisione verso l’emporio di Amelia. Varcai la soglia del minuscolo esercizio – sovrastato dalla caratteristica insegna, voracemente corrosa dal trascorrere del tempo, che riportava l’obsoleta, ma pur sempre efficace scritta “Merceria” – alle 16 in punto. Ebbi la conferma di ciò dai quattro rintocchi di campane provenienti dalla cima del campanile, come di consueto accompagnati dallo svolazzare improvviso e strepitante dei piccioni.
La porta si aprì a fatica. Alcuni sassolini, che vi si erano incuneati sotto, sfregarono rumorosamente sul pavimento, mentre i cardini che la reggevano, probabilmente arrugginiti e logorati da decenni di entrate e uscite con pioggia, sole e nebbia, emanarono un fischio acuto. Quell’orchestra di rumori mi procurò un brivido intenso. Mi sembrò strano: non era certo quella la prima volta che mi intrufolavo nel pittoresco negozietto di Amelia.
All’interno del locale mi resi immediatamente conto del gran disordine che, come consuetudine, vi regnava. C’erano calze, collants, mutande, canottiere, pancere, bretelle, matite e pennarelli sparsi dappertutto. Dei barattoli di vetro opaco, dall’inimmaginabile contenuto, giacevano sinistri su una mensola situata a destra dell’ingresso: sembravano quelli che, nei musei o nei laboratori scientifici, contengono animali sotto spirito. Scatole e scatoline di latta, plastica e cartone poggiavano confusamente su una credenza, tappezzata all’interno da fogli di carta colorata. Soprammobili, appendiabiti e vari articoli di bigiotteria erano ammucchiati alla rinfusa tra gli scompartimenti di un mobile alto fino al soffitto, devastato dai tarli e sormontato da un vaso di fiori secchi impolverati. In una rientranza del bancone, scheggiato in più punti e terribilmente consunto in altri, furoreggiavano bene in vista le tinte sgargianti di numerose varietà di caramelle, cioccolatini e altri dolciumi; articoli caoticamente composti all’interno di contenitori in plastica, contrassegnati da etichette rotte a metà, vittime di incomprensibili e violenti strappi. Ai miei piedi si muoveva con calma serafica uno scarafaggio. Comicamente indeciso sul da farsi, compiva due passi avanti, poi si fermava e riprendeva a trotterellare dalla parte opposta. All’improvviso si precipitò a gran velocità verso la porta d’ingresso, scomparendo in un ammuffito anfratto del muro. Dall’unica finestra dell’esercizio potei esaminare con curiosità dei timidi raggi di sole insinuarsi tra le minuscole particelle di polvere che svolazzavano in aria senza meta, fenomeno sul quale mi soffermai, ripensando alle miriadi di altre volte che mi era capitato di osservarlo tra ruderi e case abbandonate della Brianza.
Tra gli articoli accatastati in vetrina sonnecchiava un micio tutto nero, con la sola punta delle orecchie bianca. Era un bel gatto, grassoccio, pulito. Giaceva immobile, nonostante il mio tonitruante sopraggiungere, al punto che pensai potesse essere stato drogato o imbalsamato. La sua presenza non era casuale. Si dà infatti il caso che Amelia amasse i gatti forse anche più degli esseri umani. Di solito erano ben più di uno quelli che scorrazzavano beati nel suo negozio durante il giorno, tra il viavai divertito dei clienti; solo la notte li spediva fuori – soprattutto in inverno, quando era più frequente il tentativo dei felini di nascondersi in qualche tiepido cantuccio – aiutandosi con una scopa in saggina, più che altro per non correre il rischio di vedere i suoi gomitoli di lana trasformarsi in matasse informi, che poi sarebbe stato impossibile vendere. La mia mente infine scivolò al mitico Safarà, il negozio di Hamlin, il subdolo ed enigmatico personaggio compagno di tante avventure del bonelliano Dylan Dog. E corse anche a certe letture di Pessoa, che come si sa aveva un vivace debole per l’esoterismo e la teosofia:
“Non credere o cercare: tutto è occulto”.
Amelia comparve nel negozio dopo un paio di minuti. Entrò da una piccola e rudimentale porta situata alle spalle del bancone, che dava su un cortiletto zeppo di erbacce, dove nei primissimi anni Ottanta, in piena epoca “Culture Club” e “The Smiths”, le coppiette andavano indisturbate a pomiciare e a imprimere con l’indelebile sui muri frasi del tipo: “For the world you are nothing, but for someone you are the world”, “Sii sempre te stesso, nessuno potrà accusarti di farlo in modo sbagliato”, “Meglio una canna sotto le stelle che un buco sotto la pelle”, “L’amore immaturo dice: ti amo perché ho bisogno di te. L’amore maturo dice: ho bisogno di te perché ti amo”.
Fece capolino con indosso una camicetta rosso mattone e una gonna marrone scuro che pareva di lana, nonostante nella merceria ci fossero come minimo trenta gradi. Spille fuori moda spiccavano nella parte superiore della camicetta, che sembrava un frammento del centrino di nonna su cui poggiavamo il telefono, nonché chincaglierie varie vinte alla pesca dell’oratorio.
Una specie di legnetto in cima alla nuca obbligava all’immobilità i suoi capelli ingrigiti, ma incredibilmente luminosi, per la tipica acconciatura detta crocchia o, alla francese, chignon. Un paio di orecchini di esagerate dimensioni pendevano dai suoi oblunghi lobi, evidentemente abituati a reggere simili pesi. Una considerazione che mi riportò alla visione di certi documentari su alcuni popoli africani, le cui donne arrivano addirittura a subire delle irreversibili lacerazioni della pelle pur di indossare ornamenti il più possibile pesanti e appariscenti. Notai infine che non portava gli occhiali, circostanza che giudicai insolita per una persona alla quale mancava poco per passare gli ottanta. Desunsi pertanto che potesse essere miope e che, come tanti miopi, non indossasse le lenti all’interno di spazi angusti e ristretti, entro i quali normalmente non si presenta il problema di vedere da lontano.
«Buongiorno, giovanotto. – esordì severamente, ma cordialmente, Amelia – Desidera?».
«Buongiorno, Amelia. – feci io in modo brillante – Sono venuto per farle un’intervista. Lavoro per la “Gazzetta della…”».
«Ah! Un giornalista! E che ci fa qui da me un giornalista?», domandò la donna, facendo svanire di colpo in me ogni entusiasmo.
«Volevo chiederle se sarebbe disposta a rivelarmi qualche curioso aneddoto sulla Brianza. In particolare, mi piacerebbe sapere qualcosa sul suo negozio che, si dice, sia uno dei più vecchi della zona», tentennai.
«È vero. – disse la donna con fare sbrigativo – Ce l’aveva già mio padre prima di me».
«Ah, però!».
«Proprio così… Pensi che, in tempo di guerra, qui vendevamo anche la frutta e la verdura».
«Addirittura?».
«Addirittura», mugugnò Amelia.
Ci fu un attimo di silenzio poi la donna disse: «Adesso, però, mi scusi, ma ho da fare».
«Ma…».
«È così, mi dispiace… Se vuole che le racconti qualcosa di me o della Brianza di un tempo, sarà bene che ripassi in un altro momento: un giorno della settimana prossima o dell’altra ancora…».
«Signora Amelia, mi perdoni, ma… un altro momento per me potrebbe essere troppo tardi. – tentai di ribattere, sconsolato – Il direttore del giornale vuole dal sottoscritto un pezzo su lei e la sua attività entro domani».
«Oggi non ho tempo! – ribadì con veemenza la mia interlocutrice – Mi attendono impegni che lei non può nemmeno immaginare. E dunque, capirà, l’ultima cosa che potrei concederle in questo momento è proprio un’intervista!».
«Mi consenta almeno un paio di domande».
«Ho detto di no».
«Come vuole, allora. – conclusi demoralizzato – Se il capo mi darà un’altra possibilità di intervistarla, ripasserò più avanti, altrimenti… pazienza. Arrivederla», salutai mogio.
Girai i tacchi e puntai alla porta quando, inaspettatamente, Amelia riprese a parlare:
«Aspetti, giovanotto! – la donna aveva l’aria pensosa – Aspetti ad andarsene. Ora che mi ci fa pensare… Ma lo sa che è proprio di uno come lei che avrei bisogno io?».
Ero senza parole.
«Intendo dire… Se raccontassi a lei ciò che sto per fare, della festa di San Giovanni e delle varie usanze che sono legate ad essa, chissà quanti paesani ne potrebbero beneficiare…».
«Mah… Poco fa non mi aveva detto di non avere tempo?».
«In realtà, le parrà strano, ma è solo affrontando un argomento simile che non corro alcun rischio di perdere minuti preziosi».
«In che senso?».
«Perché è così…».
«Cioè?».
«Non faccia troppe domande, giovanotto…».
«Come vuole… – biascicai – Al punto in cui sono messo, di qualunque cosa mi vorrà parlare, sarò ben lieto di ascoltarla».
Sul viso di Amelia si aprì un vivace sorriso. Poi, la donna, partì con il suo affascinante racconto:
«La festa di San Giovanni è una ricorrenza del cattolicesimo legata a colui che battezzò Gesù, ma ereditata da riti pagani, praticati da popolazioni italiche pre-romane che con l’Altissimo per antonomasia non avevano nulla a che spartire: simili cerimonie, in particolare, venivano puntualmente celebrate quando ancora andava di moda venerare divinità tipo Giove, il dio della luce».
Amelia corrugò la fronte, poi proseguì:
«In questo carismatico periodo dell’anno, il sole si sposa con la luna, e dalla loro mirabolante unione si genera una straordinaria energia benefica che, diffondendosi sulla terra sotto forma di rugiada, potenzia enormemente le qualità intrinseche delle specie viventi appartenenti al regno vegetale. Dunque, comprenderà, è proprio nel lasso temporale compreso fra il tramonto del 23 e l’alba del 24 giugno che le piante assumono poteri magici eccezionali, tali per cui è indicato raccoglierle, essiccarle, sperimentarle come ingredienti per nuove pozioni, nonché conservarle fino al successivo solstizio estivo. Esattamente, come avrà intuito, ciò che anch’io mi sto accingendo a fare».
Tirò un respiro profondo e si strofinò gli occhi, mentre il sottoscritto, in affanno, prendeva appunti, reggendo maldestramente con la mano sinistra il bloc notes.
In modo quasi incidentale, riflettei sul fatto che non avevo mai sentito parlare Amelia in modo così forbito: sembrava l’ospite di una puntata di “Quark”. Non mi riusciva proprio di comprendere come una donna che conosceva a malapena il dialetto brianzolo – idioma ben preciso, assolutamente da non confondersi con le lingue italo-romanze poiché facente parte delle parlate gallo-romanze, alle quali appartengono anche il ligure, il provenzale, il piemontese – potesse essere padrona di un lessico tanto ricercato: l’utilizzo di termini come “antonomasia” o “carismatico” suonava strano anche a me, che sicuramente ero un po’ più erudito della mia interlocutrice; senza contare l’abilità con la quale lei dimostrava di disquisire con competenza su materie concernenti divinità ancestrali e tradizioni di popoli risalenti a più di duemila anni fa… “Uno spirito saputello, o qualcosa del genere, deve essersi per forza impossessato di lei, e ora le sta mettendo le parole in bocca”, fantasticai divertito, tornando per un attimo tranquillo e rilassato.
«Tra le cosiddette erbe di San Giovanni abbiamo l’iperico – continuò imperterrita Amelia – pianta che alcuni chiamano anche millebuchi, rosa di Sharon, barba di Aronne e, soprattutto, erba scacciadiavoli. Non ci vuole molto a riconoscerla… fa dei fiorellini gialli e il suo stelo, particolarmente coriaceo, è alto anche più di due spanne. La Brianza ne è zeppa. Si può rinvenire lungo i cigli delle strade, tra le sterpaglie dei campi incolti, e persino mimetizzata tra il giallo di fiori inselvatichiti di opulenti giardini. Dallo strofinio dei suoi petali fuoriesce il sangue di San Giovanni!».
Sbigottii, e non nascosi una smorfia di stupore.
«Certo che ha capito bene! – puntualizzò la donna, percependo la mia incredulità – Proprio quello che sgorgò dalla testa del martire subito dopo la decapitazione… Le antiche popolazioni germaniche ne utilizzavano i fiori per addobbare le case. Nel Medioevo, invece, veniva impiegata per guarire dalla rabbia e dalle malattie della mente. Oggi serve soprattutto alle giovani donne per sapere se, durante l’anno che viene, troveranno l’uomo con il quale convolare a nozze…».
«Curioso!».
«Infatti… Le ragazze devono raccogliere durante la notte fra il 23 e il 24 un rametto di iperico per poi appenderlo nella propria camera; l’indomani, se il rametto è ancora fresco e vegeto, significa matrimonio in vista. Abbiamo poi l’aglio – proseguì la donna – che in sanscrito significa uccisore di mostri. Le sue proprietà sono note da millenni. Se ne parla perfino in un papiro egizio del quindicesimo secolo avanti Cristo, nel quale sono addirittura elencati ben ventidue impieghi medici relativi alla specie più rappresentativa della famiglia delle liliacee. Stimola la digestione, ostacola la crescita dei batteri, combatte l’invecchiamento delle cellule. E poi… – e qui Amelia si abbandonò a un ghigno perverso – poi scaccia i vampiri».
«I vampiri?».
«I vampiri».
«Sta scherzando, vero?».
«Niente affatto».
«Ma dài, lo sanno tutti che i vampiri non esistono!».
«Ah no?».
«Be’…».
«I vampiri esistono eccome. Probabilmente lei non ha ancora avuto la fortuna, si fa per dire, di incontrarne uno… E comunque, non divaghiamo. – sentenziò la mia interlocutrice, come se l’argomento vampiri fosse una cosa di tutti i giorni, quindi scarsamente degna di essere approfondita – Tra le altre erbe di San Giovanni abbiamo l’artemisia, utile per neutralizzare la stanchezza accumulata durante un viaggio; la verbena, ideale per proteggere dai fulmini e da molte malattie, tra le quali il mal di gola e i reumatismi… Poi, la felce, che aiuta a diventare ricchi; la lavanda, che porta felicità, amore e pace; la menta, che è efficace nel tenere lontani gli insetti e come garanzia di longevità…».
Ci fu una breve pausa.
«Non sapevo che anche dalle nostre parti esistessero così tante piante medicamentose», affermai.
«Le erbe di San Giovanni!».
«Le erbe di San Giovanni…».
«Lei non sa troppe cose, ragazzo mio».
«Sarà…».
«Tuttavia, non si fermano di certo qui le usanze legate a questa incredibile notte…».
«Che c’è d’altro?».
«Per esempio, l’abitudine di rotolarci, come madre natura ci ha creati, nei campi ricoperti di rugiada, allo scopo di assorbire – come le spiegavo in principio – i poteri magici emanati dall’incontro tra il sole e la luna. Le gerarchie cattoliche associarono però questa pratica al culto delle streghe: non a caso, a Roma, un editto pubblicato il 17 giugno 1755 dal vicario papale Marco Antonio Colonna vietò categoricamente i festeggiamenti per la notte di san Giovanni: chi trasgrediva finiva inquisito…».
La mano con la quale impugnavo la biro cominciò a fare le bizze: mi si informicolò di colpo e mi accorsi che era divenuta calda come quando si ha la febbre. Probabilmente stavo scrivendo troppo in fretta: Amelia ciarlava a mille all’ora e starle dietro era diventata un’impresa quantomai ardua. Fui anche tentato di domandarle di rallentare, ma desistetti: era già tanto che mi stesse raccontando qualcosa, pensai, figuriamoci se avrebbe mai accettato di accondiscendere alle prosaiche richieste di un umile scagnozzo del direttore della “Gazzetta della Martesana”.
«E infine ci sono i contadini…», declamò imperterrita la mia interlocutrice, assolutamente incurante della mia evidente difficoltà a reggere il suo ritmo forsennato.
«Cioè?».
«In occasione della notte del 23 giugno, chi lavorava in campagna era solito accendere dei grandi falò, similmente a ciò che si verifica ancora oggi per la festa di Sant’Antonio».
«Il famoso falò di Sant’Antonio!».
«Sì, ma qui lo scopo era quello di esortare simbolicamente il sole a non tramontare mai e a continuare quindi imperturbabile a irrorare di luce ed energia i campi».
«Capisco».
«C’erano addirittura dei giovani che, temerari, saltavano sopra le fiamme, esprimendo un desiderio che poi, quasi sempre, si avverava. L’usanza di accendere delle pire in concomitanza con il solstizio d’estate risale all’epoca dei fenici; per la precisione, alle feste solenni dedicate al dio Moloch, conosciuto anche dagli ebrei con il termine Mlk, durante le quali venivano addirittura arse vive delle persone, in particolare innocenti fanciulli».
Più tardi, documentandomi, scoprii che tutto ciò che mi aveva detto Amelia era puntualmente vero. Tra i fenici, ma anche tra numerosi altri popoli che vivevano sulla sponda nordafricana del Mediterraneo, si usava destinare al rogo i primogeniti, così da trasformarli in divinità protettrici della famiglia cui appartenevano.
Non saprei dire quanto tempo fosse passato dal momento in cui Amelia s’era messa a raccontarmi i dettagli della festa di San Giovanni quando, all’improvviso, varcò l’uscio del negozietto un individuo alquanto strampalato e inquietante. Era un tipo di uomo che non mi era mai capitato di vedere in vita mia.
Magrissimo, un chiodo, l’espressione un po’ cialtronesca, la pelle del viso solcata da rughe profonde… Avrà avuto una settantina d’anni; portava una cravatta scura, poco più larga di un laccio da scarpe, una camicia rossa, abbottonata fino a metà torace, una giacca e un paio di pantaloni neri e delle scarpe beige, lucide ed eleganti. I suoi occhi chiari, vispi e penetranti, cominciarono a squadrarmi da cima a fondo.
Aveva l’espressione tipica di chi ha davanti a sé un signor nessuno da tenere a debita distanza: per esempio, un gongolante cronista della “Gazzetta della Martesana”… Al suo comparire, Amelia, con una gestualità teatrale, allargò incomprensibilmente e sconsolatamente le braccia. Sul volto dell’anziana donna le pieghe della pelle si organizzarono in confusi disegni. Poi prese a parlare:
«Di là è tutto a posto. – disse rivolta all’uomo, con aria sottomessa – Abbiamo già sistemato la spesa e coperto con dei cellophane la roba».
«Siamo in ritardo. – blaterò furente lui, distogliendo lo sguardo dal sottoscritto e indirizzandolo verso la sua interlocutrice – Gli altri sono già là da un pezzo e tu stai qui a chiacchierare».
«Non sto chiacchierando. – precisò Amelia, sempre più intimorita – Adesso vengo».
Il nuovo venuto sembrò cercare spiegazioni in merito alla mia presenza con un’impennata nervosa del mento, rivolto verso di me.
«Questo ragazzo è un giornalista della “Gazzetta della Martesana”. – tartagliò la proprietaria della merceria – È venuto per intervistarmi. Io gli ho detto che non avevo tempo, ma che comunque avrei potuto parlargli della festa di San Giovanni, visto che solo affrontando certi argomenti è possibile fermare le lancette dell’orologio».
«Ah!!! – gridò il nuovo venuto, inviperito – Forse è meglio se la pianti qui! Non mi pare necessario che tu vada avanti a raccontare anche nei dettagli ciò che accade la notte tra il 23 e il 24. Quanto al tempo, poi… Lo sai che…».
«Eh già! – fece Amelia, sgranando gli occhi e dandomi l’impressione che le fosse tornato alla mente qualcosa di molto importante di cui si stava clamorosamente dimenticando, circostanza che l’avrebbe potuta far finire in un mare di guai – No, no, nessun problema, gli sto solo raccontando delle antiche usanze della Brianza. Null’altro!».
L’uomo tacque. Mi diede un’ultima, feroce occhiata, dopodiché sparì come un fulmine al di là di quella stessa porticina dalla quale, pochi minuti prima, Amelia era piombata in negozio. Uno spettrale e imbarazzante silenzio avvolse la merceria per diversi secondi: né io né la padrona dell’esercizio ce la sentimmo di riprendere immediatamente il discorso; anche se respiravamo regolarmente, era come se i nostri cuori avessero smesso per un attimo di pompare sangue nelle arterie. Un’ondata di tossine riempì le mie arterie, tanto da provocarmi un leggero capogiro; una sensazione di cupa oppressione invase il mio animo.
«Allora, dicevamo… Se non sbaglio, dei falò, sì… dei falò», esordì Amelia apparentemente tranquilla, come se niente fosse successo.
«Scusi, Amelia – dissi io con aria accomodante, tuttavia ancora visibilmente impressionato dalla performance di quel figuro – se mi permetto di interromperla, ma, a costo di apparirle sfacciato, non posso fare a meno di chiederle a cosa accennasse quel signore quando ha usato la parola tempo».
«Tempo?!?», sbraitò sbigottita Amelia, come se le avessi chiesto cosa ne pensasse di E.T. o dei mari di metano su Titano.
«Ma sì, prima… – proseguii – Quando era intenta a spiegare al suo amico della nostra intervista… Gli ha anche fatto presente che non me l’avrebbe potuta rilasciare, se non mi avesse parlato della festa di San Giovanni. Ed ha aggiunto che solo introducendo un simile tema sarebbe stato possibile fermare le lancette dell’orologio».
«Ma lei per caso è suonato, giovanotto?! – berciò indispettita la donna – Non mi sono mai sognata di dire una cosa del genere! Lei deve aver capito fischio per fiasco. Che diamine! Ma che cosa vuole che c’entri il tempo con le erbe da raccogliere ed essiccare per tenere lontani streghe e spiriti ostili!».
«Eppure, signora Amelia, anche quell’uomo ha tirato in ballo il tempo. Ne sono sicuro. E lei, in particolare, ha certamente usato l’espressione “fermare le lancette dell’orologio”. Ci sento bene e poi…».
«Insomma, giovanotto! Lei mi sta dando davvero fastidio! – abbaiò Amelia, mozzando senza remore il mio replicare – Come le ho detto, non so di cosa stia parlando. Dunque, se le interessa ancora sapere qualcosa della festa di San Giovanni e delle tradizioni brianzole ad essa legate, siamo d’accordo; altrimenti, quella è la porta».
Deglutii nervosamente. Ero assolutamente convinto di aver sentito bene. Ed ormai ero altrettanto certo che la furba vecchina volesse tenermi nascosto qualcosa di particolarmente delicato:
«E va bene… lasciamo stare la faccenda del tempo. – ripresi desolato – Ma la prego, almeno, di continuare a raccontarmi della festa del 24 giugno».
A quel punto, però, Amelia parve inspiegabilmente non sentirmi più. L’anziana si mise a fissare la porta d’ingresso come se fosse in uno stato di trance. Aveva la bocca semiaperta e il viso di un colorito cadaverico. All’improvviso compì un gesto inspiegabile: levò in aria il braccio destro e cominciò a rotearlo su se stesso. Poi, un tremolio si impossessò di tutto il suo fragile ed esile corpo; infine, la donna serrò gli occhi e svenne.
«Amelia! – gridai – Signora Amelia!».
Piegandomi sul suo petto, mi resi conto che la mia interlocutrice non dava più segni di vita.
«Amelia! – urlai di nuovo – Amelia!».
Ero sconcertato.
«E adesso cosa faccio? – mi domandai – Che diamine faccio? ».
D’istinto, anziché correre in strada a chiamare aiuto – certamente la reazione più normale che una persona normale avrebbe avuto – mi diressi verso la porta che dava sul retro, lo stesso uscio dal quale era precedentemente entrata Amelia e da cui era uscito quel misterioso uomo. Ma non riuscii che a compiere pochi passi; quel figuro mi anticipò. Con lui c’erano anche due donne, due megere che, nell’aspetto e nell’età, ricordavano la proprietaria della merceria: avevano lo sguardo stravolto, le facce tirate, gli occhi spiritati. Insieme accorsero celermente verso il corpo esanime di Amelia. L’uomo le sollevò il capo e cominciò a tirarle dei ceffoni sulle guance; uno dietro l’altro, con una foga che mi parve davvero eccessiva. Poi prese a scuoterle le spalle. Una della due megere, intanto, si rivolgeva ad Amelia con espressioni pronunciate in una lingua per me incomprensibile, forse latino; mentre l’altra le levava le scarpe e le alzava le gambe, presumibilmente per agevolare l’afflusso del sangue verso il cervello.
Io guardavo e non fiatavo. Vedevo ma non capivo: l’atteggiamento di una trota a cavallo di una duna sahariana potrebbe rendere solo una vaga idea dell’insofferenza che in pochi istanti mi pervase. Infine, l’uomo vestito di nero cominciò a rivolgersi ad Amelia in un chiaro italiano, scandendo bene le parole e servendosi di una specie di locuzione magica:
«San Giovanni non vuole inganni. San Giovanni non vuole inganni…».
E solo a quel punto Amelia, come per miracolo, rinvenne.
«Cosa… cosa m’è successo?», chiese immediatamente.
«Non è successo niente», rispose il figuro, visibilmente turbato.
«Come niente, mi sento…».
«Probabilmente hai avuto un calo di pressione. Null’altro».
«Un calo di pressione?».
«Sì, esatto. E adesso, comunque, non è il caso di star qui a perdere tempo. È giunto il momento di andare».
«Di andare? Di perdere tempo?».
«Oddio! Sì, di andare… Andare di là, dove sai benissimo anche tu».
«Ah già, di là», fece Amelia, per niente convinta di ciò che stava dicendo.
«Piuttosto, prova a vedere se riesci ad alzarti. Dài! Appòggiati a me».
La donna, sollevatasi parzialmente da terra, mi scorse in piedi di fianco al bancone – immobile non meno della mummia di Tutankhamon davanti a lord Carnavon e Howard Carter – e con l’aria abbacchiata; mi diede l’impressione che fosse del tutto ignara del fatto che, fino a pochi minuti prima, mi stava parlando.
«Ma, ma… chi è questo giovanotto qui? – domandò all’improvviso l’anziana – Forse ha bisogno di qualcosa… Di un paio di calze, di qualche matita, di un po’ di caramelle. Lasciate che…».
«Non ha bisogno di un bel niente! – blaterò una delle due altre vecchie – Anzi, il giovanotto ha appena detto che se ne stava andando da dove è venuto! Non è vero, giovanotto?».
Preso alla sprovvista, rimasi interdetto per qualche secondo. Quindi replicai impavido:
«Sì, è vero – dissi, incrociando rabbiosamente gli occhi della megera che mi aveva brutalmente attaccato – Tuttavia… Non posso di certo andarmene da qui senza prima ringraziavi. O meglio, senza prima ringraziare Amelia per avermi svelato così tanti particolari che mai e poi mai mi sarei potuto immaginare… Per avermi raccontato delle erbe di San Giovanni, dell’abitudine di rotolarsi nudi nei prati e, in special modo… del tempo!».
Una vivida preoccupazione si dipinse nello sguardo dei presenti.
«E con ciò… – conclusi sardonico – auguro a tutti voi una felice festa di San Giovanni e… addio!».
Aprii velocemente la porta e me ne andai.
Fuori dalla merceria, una vampata d’aria calda si stampò sulle mie labbra, impedendomi per un attimo di respirare. Mi guardai intorno stordito. Due donne di una certa età, eleganti, stavano camminando verso il bar Passoni: la più robusta stringeva sottobraccio l’altra, che sembrava avere qualche problema di deambulazione. Confabulavano fra loro. Della prima ricordo un appariscente cappello verdognolo, della seconda una sgargiante borsetta rossa. Dall’altra parte della strada, un ragazzo bighellonava giocando con il proprio cane. Conoscevo di vista quel giovane: se non ricordavo male si chiamava Gilberto. Sua madre, che per tanti anni aveva fatto la bidella nella scuola elementare di Concorezzo, spesso gironzolava per le vie del paese con una vistosissima acconciatura biondo ossigenata: i maligni sostenevano che arrotondasse la pensione concedendosi a qualche facoltoso concittadino. Le solite voci di paese, quelle senza alcun fondamento… ma così pregne di verità!
Il cagnolino tirava come un forsennato. A un certo punto, proprio di fronte al supermercato Despar, si arrestò di colpo; levò la zampa al cielo e, con grande disinvoltura, liberò la vescica. Il ragazzo se ne accorse quando era ormai troppo tardi. Imbarazzato, tirò a sé l’animale con una rabbiosa sguinzagliata, riprendendo infine la sua marcia. Attraversai la strada. Raggiunsi la bicicletta. Mi chinai per slegare il lucchetto. La chiave, come al solito, ruotava a fatica: il lucchetto era arrugginito da parecchio tempo ma, forzando senza esagerare, al secondo tentativo la molla scattò. Ricomposta la catena, la fissai alla base della sella, montai in groppa al mio purosangue e partii.
Stavo già spingendo alla Bartali sui pedali quando improvvisamente sentii ancora una volta le campane rimbombare nel cielo azzurro, terso e splendente di quel 23 giugno di fine anni Novanta. Istintivamente mi misi a contare: uno, due, tre, quattro. Quattro rintocchi: lo stesso numero che avevo udito anche prima di varcare la soglia del negozio di Amelia.
Mi fermai. Avevo il campanile alle mie spalle. Intorno a me sfrecciavano automobili e biciclette. Vicino al comune vecchio c’era un uomo che fumava il toscano; di fianco all’edicola, una donna che leggeva i titoli di alcuni quotidiani. Mi volsi e, con un vago senso di inquietudine, fissai l’orologio della chiesa. Rimasi attonito: la lancetta più lunga era sdraiata sul 12, la più corta sul 4. Insieme, era fuori di dubbio, indicavano le 16. Imboccai la strada di casa con la testa in confusione e un leggero imbarazzo allo stomaco.
A destinazione, dove abitavano i nonni, arrivai in un battibaleno. Aprii il portone, abbandonai il biciclo davanti alla porta attraverso la quale si raggiungevano le camere e corsi in cucina. C’erano forse la nonna, alle prese con i ravanelli appena raccolti; il nonno, intento a leggere il giornale; lo zio, che riponeva le chiavi della cantina nell’apposito spazio loro riservato; Luigi, che veniva a riscuotere lo stipendio; il falegname, che rompeva le scatole al nonno, disturbandolo nella lettura, per ribadire che il portone doveva rimanere chiuso senza catenaccio anche durante la notte; e Camilla, accucciata sulla sua poltrona. C’erano forse tutti costoro e forse delle altre persone ancora, tuttavia io non vidi proprio nulla, se non l’inesorabile, suadente e preciso respiro del pendolo: le quattro passate da pochi minuti. Fu dunque quella la conferma che non avrei mai voluto avere: la prova che l’orologio del campanile era perfettamente funzionante e che quindi quell’afoso giorno d’estate, in quel curioso negozietto, il tempo aveva davvero smesso inspiegabilmente di correre.

(Pubblicato sulla rivista letteraria Inchiostro)

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