Il vero nome di Dante era molto meglio non farlo: Dante era solo un soprannome preso in prestito dal protagonista di un film, Clerks, lungometraggio low-budget degli anni Novanta girato da Kevin Smith, imberbe regista statunitense, vincitore del Sundance Film Festival. Il motivo va ricondotto al fatto che quest’ultimo non era una persona qualunque, voglio dire, un brianzolo standard, di quelli che – tanto per fare qualche esempio - si alza presto la mattina per andare al lavoro, va a messa la domenica e fa finta che tutto vada sempre bene: Dante era il più grande spacciatore della zona. Con ciò era indispensabile far circolare il meno possibile le sue generalità. Le sue vere generalità. Non si poteva fargli correre il rischio di finire al fresco. Altrimenti sarebbero stati guai per l'attentatore ignaro. All'uscita dal carcere, Dante avrebbe di sicuro rintracciato e conciato per le feste il colpevole. Oddio, non vorrei esagerare, e magari provocare inutili patemi d’animo, eppure molti giovani, che malauguratamente avevano contravvenuto a questa legge insindacabile, avevano poi subito delle conseguenze anche gravi. Per un certo periodo, per esempio, si parlò di un certo Johnny il coguaro che perse addirittura un testicolo per via di un violento scontro con Dante. Il boss lo aveva atteso fuori da un panettiere di Caponago e, poi, pedinatolo per un discreto numero di passi, lo aveva massacrato di botte, non lontano dallo storico edificio dei conti Caglio. Le voci relative al deprecabile episodio di cronaca si diffusero a macchia d’olio per tutta la regione, tuttavia le vere motivazioni che avevano spinto l’abominevole malfattore a scagliarsi con tanta cattiveria su un pusillanime subalterno non vennero mai chiarite.
Parlare di Dante significa parlare anche del suo aspetto fisico. Eufemisticamente particolare. Metteva l'ansia solo a guardarlo. Non era brutto, ma era circondato da un'aurea che profondeva agitazione. Volendo colorare il concetto, si può dire che sembrasse un individuo appena spuntato da una voragine direttamente collegata a uno dei peggiori gironi infernali danteschi. Il giovane aveva la carnagione scurissima: sebbene fosse un caucasico, le tonalità del suo epidermide richiamavano quelle di certe popolazioni centro africane. Era una pelle screziata, qua e là disseminata d'incredibili cicatrici e profonde ferite più o meno rimarginate. I suoi occhi, quasi sempre raggelanti, iniettati di sangue, parevano inumani. Si scorgeva in essi un profondo velo di tristezza, ma anche e soprattutto un'inaudita rabbia. Era poi contraddistinto da labbra perennemente screpolate, sopracciglia folte, capelli neri - riccioluti all’inverosimile – braccia così lunghe da apparire sproporzionate rispetto al resto del corpo. Inutile divagare sul suo vestiario. Non erano abiti quelli che indossava, ma stracci raccattati chissà dove. E perciò l’odore che emanava era quanto di peggio si potesse percepire nel raggio di vari metri.
Definito, non a torto, il brutto ceffo per antonomasia, Dante era comprensibilmente mal visto da chiunque. Le mamme e i papà raccomandavano ai rispettivi figli di starne alla larga. I preti e le suore ammonivano il suo comportamento profondamente immorale. Le maestre a scuola lo portavano come il classico esempio da non imitare. Pertanto, chi veniva visto al suo fianco anche solo per pochi secondi, diventava all’istante un drogato senza speranza, un alcolizzato reticente, un malavitoso da spedire al più presto a San Vittore. Eppure c’era chi, di quest’ultimo, non poteva farne a meno. Il riferimento è all’eccezionale numero di giovani e giovanissimi che abitualmente lo interpellavano per rifornirsi di materia prima: hashish o marijuana. Di alternative, d’altronde, non è che ce ne fossero molte: o si andava da Dante o si doveva puntare su Milano, non proprio dietro l’angolo; in piazzale Loreto, c’era sempre un gran via vai di poveri cristi pronti a vendere anche l’anima.
Da Dante ci andavano tre tipi di persone: i drogati, gli spacciatori, e i ragazzi bene (almeno sulla carta). I primi erano persone avvezze al consumo di stupefacenti, per i quali l’erba non era altro che un diversivo, un buon pretesto per mettersi a guardare il cielo rilassati dopo il down patito alla fine dell’effetto di una droga più pesante. I secondi erano i cosiddetti pesciolini, ragazzetti marginalmente consci di quello che facevano, il cui scopo era sostanzialmente quello di recuperare dal pesce grosso, la materia prima per poi smistarla essi stessi per vie traverse. Infine, il terzo gruppo, al quale appartenevo anch’io con la mia cricca, era quello di normali giovanotti di provincia, che solevano solo saltuariamente abbandonarsi al sapore agrodolce dell’illecito (in realtà c’era chi si esprimeva in tal senso quotidianamente), se non altro per non correre il rischio di essere ancora una volta bollati come impenitenti paolotti-bigotti.
In particolare ebbi modo di approfondire il mondo marcio che gravitava intorno a Dante tramite Luciano, Roberto e Luca detto Pisquino, abituali frequentatori dello zingaro metropolitano. Molte volte li accompagnavo nelle loro battute di caccia, e spesso mi divertivo a vedere, osservare, annusare come un cane segugio il variopinto mondo concernente queste insolite e avventurose scampagnate. Tuttavia l’episodio legato al pusher che più degli altri mi è rimasto impresso è quello in cui mi capitò di andare da solo a fargli visita, probabilmente per fare un piacere a uno dei tre miei amici che – ora non ricordo più per quale motivo - era bene che non si facesse più vedere dalle sue losche parti: forse aveva nominato il suo (vero) nome invano!
Erano gli ultimi giorni di settembre di un giorno qualunque di metà anni Novanta. A bordo della mia indistruttibile Renault 14, raggiunsi il paese dove Dante era solito operare: siccome l’abile rivenditore di stupefacenti - nonostante l’inesorabile trascorrere del tempo - è ancora oggi in giro a fare danni, il nome della località preferisco tenerla taciuta, non si sa mai, ci tengo ai miei testicoli… lungo il tragitto fantasticai attorno ai meravigliosi colori dell’autunno, sgargianti più che mai in quei dì grazie alle foglie degli aceri, dei faggi, e delle querce. Pensai poi al mio professore di botanica delle superiori che a suo tempo ci aveva spiegato con vivace trasporto le dinamiche fisiologiche che portano certi vegetali a perdere le loro foglie con il sopraggiungere della stagione più malinconica:
“Poi interviene l’acido abscissico – raccontava il professore - l’ormone vegetale caratterizzato da 15 atomi di carbonio, 20 di idrogeno e 4 di ossigeno che, prodotto nelle foglie mature e nei semi, favorisce il distacco del verde dei vegetali e la dormienza delle gemme…”.
Abbandonata l’automobile in un parcheggio della zona periferica del paese, nei pressi di una fabbrica che produceva stoviglie, m'inoltrai lungo una strada dissestata che portava nei campi. Non c’era in giro anima viva, un po’ per l’orario, un po’ perché, oggettivamente, da quelle parti ci si andava solo per due scopi: imboscarsi con qualche ragazza o, appunto, rifornirsi di erba. Notai con stupore che nemmeno certi tipi di animali come i pipistrelli - di solito compagni fedeli di chi erra per la Brianza in bocca all’imbrunire – erano felici di svolazzare per l’aere.
Scorsi Dante con un paio di irriverenti sgherri al suo fianco, abbarbicato in cima a un muretto pregno di scritte e tentativi andati a male di murales. Ai loro piedi furoreggiavano esemplari vigorosi di parietaria e celidonia, specie vegetali tipiche dei luoghi più isolati, sinistri, e tendenzialmente malsani della zona. Mi convinsi del fatto di trovarmi nei paraggi del luogo in cui negli anni Ottanta si andavano a nascondere i bisunti pacchi di Le Ore recuperati lungo i fossi delle provinciali, uno dei nostri passatempi preferiti. Quindi, per associazione di idee, mi venne in mente di quella volta in cui il Casiraghi, mio compagno di classe delle medie, ne aveva recuperato uno in perfette condizioni – cosa che accadeva di rado – e lo aveva momentaneamente e giudiziosamente poggiato sul tavolo della sala in attesa di dar sfogo ai suoi barbari istinti sessuali. All’improvviso però era rientrata sua madre – decisamente in anticipo sul consueto orario di rientro dal lavoro – e aveva visto quel gioiellino dell’editoria nazionale aperto su una pagina quantomeno raccapricciante: c’era un macho che infilava tutto il suo braccio nella vagina di una biondina. Alla madre del Casiraghi per poco non venne un ictus. Il ragazzo impallidì di botto, cercando in tutti i modi di spiegare a mamma che il giornalino non era suo, ma di Patrick – un compagno di classe – che lo aveva dimenticato: Patrick era l’amico sul quale scaricava tutte le colpe ogni volta che qualcosa andava storto. Inutile dire che il suo sforzo si rivelò assolutamente vano: da quel giorno il Casiraghi non fece più parte della nostra compagnia, manica di depravati e pervertiti.
Di fianco agli spacciatori troneggiava impudica una radio malandata. C’erano le casse audio che erano tenute assieme da strisce sudice di scotch. Alcuni adesivi, le cui scritte erano illeggibili, vi erano appiccicati qua e là senza criterio. Al momento del mio arrivo andava una canzone rap. Mi parve di averla già sentita. Forse era una canzone contenuta in un disco di LL Cool J, un nastro che mi aveva da poco prestato un amico. Con un vago timore mi avvicinai al terzetto, preceduto da un paio di compassati acquirenti. Arrivato il mio turno mi rivolsi a Dante e gli dissi:
“Ciao Dante, hai un deca?”.
Dante non rispose.
“Ciao Dante, hai un deca? – ripetei.
Ancora nulla.
Lo spacciatore indossava un paio di pantaloni beige e una maglietta arancione. Aveva il solito viso stanco ed emaciato, e la consueta pelle frantumata da chissà quali sinistri. Il capo dei pusher si mise a parlottare con uno degli scagnozzi che lo affiancavano, come se il sottoscritto nemmeno esistesse. Ricordo comunque di aver pensato con supponenza che non stavano certo filosofeggiando sull’ultimo fiacco lavoro di Chris Whitley, né sull’Insostenibile leggerezza dell’essere con cui mi ero confrontato da poco. Il primo dei suoi due aitanti guerrieri aveva una vistosa cicatrice che gli tagliava la faccia in due, rimandandomi curiosamente alla scena del celebre film Shining, in cui Jack Nicholson rincorre la sua preda con in mano una scure; immaginavo dunque che, una qualche buonanima fuori di sé, per chissà quale leggiadro mistero, potesse aver colpito quest’ultimo con un attrezzo del genere, lasciandogli quel segno indelebile e straordinario sul volto. Aveva poi una fasciatura lurida, untuosa e sanguinolente che gli ricopriva quasi tutto l’avambraccio destro e un paio di scarpe tanto consunte da far sembrare le mie All Star bianche del ’92, un eccellente articolo da esibire in un qualunque emporio del Quadrilatero della Moda a Milano. Il secondo, dei tre, era di sicuro il più accettabile. In questo caso, a starnazzare sul suo corpo, erano soprattutto una bandana verde che gli fasciava la fronte e una comune canottiera bianca, tale però da rimandarmi a certe scene di film aventi come protagonisti soldati stupratori nella guerra del Vietnam. Cominciai a sentirmi profondamente a disagio. Passarono diversi secondi, lunghi come una vita, poi Dante, con un ghigno sprezzante, mi domandò:
“Che cazzo vuoi?”.
“Vorrei un deca – dissi con un filo di voce.
“Vuoi un deca?”.
“Sì”.
“Beh, allora aspetta il tuo turno”.
“Ma se non c’è nessuno”.
“Adesso vedrai che qualcuno arriva”.
“Quindi…”.
“Quindi se vuoi il tuo deca devi aspettare”.
Non ci fu molto da discutere. Lo sapevo benissimo. Non avevo molta esperienza in questo campo, ma ero ben conscio del fatto che qui le regole del vivere quotidiano tra persone civili non valevano un fico. Se volevo il mio deca dovevo aspettare, e stop. Dunque mi allontanai intristito dai tre manigoldi per andare a sedermi a una decina di metri da essi, su un pericolante muricciolo non più alto di 40 centimetri, la cui utilità al momento mi sfuggiva: forse c’entrava qualcosa con le acque di scolo, riflettei. Sopra la mia testa gravitava una pianta di sambuco rinsecchita. Emanava un cattivo odore. Come se - da qualche parte intorno ad essa – ci fosse stata una carogna marcescente. Davanti ai miei occhi brillavano i vetri di un enorme magazzino. Era un prefabbricato fatiscente che conoscevo di fama. Al suo interno, ridotti in condizioni pressoché disumane, in semischiavitù, lavoravano molti extracomunitari, cinesi soprattutto. Una volta, su commissione della Gazzetta della Martesana, avevo intervistato il capo della struttura indagato per faccende poco chiare legate al traffico clandestino di animali esotici: ragni, scorpioni e altri artropodi simili. In quella occasione vidi con i miei occhi una scena a dir poco deplorevole. C’era un responsabile del magazzino - un grassone di almeno 150 chili - che se la prendeva con un cinese.
“Devo mangiare – gli diceva l’asiatico – cerca di capire!”.
“Dobbiamo rispettare gli accordi”.
“Dammi almeno i soldi per il lavoro di oggi”.
“Niente da fare”.
“Ti prego”.
“Sparisci merda”.
Trascorse un quarto d’ora. Nel frattempo erano sfilati davanti a me diversi altri clienti di Dante, individui che evidentemente – al contrario del sottoscritto - beneficiavano delle grazie del pusher. Vidi ripetutamente lo spacciatore affettare con eccezionale eleganza un parallelepipedo di hashish che stringeva fra le mani come una reliquia preziosa, una pagnotta di cioccolato così grande da rintronarmi il cervello. Infine arrivò anche il mio turno. Ancora una volta rimasti soli io e i tre della Ave Maria, osservai Dante agitare un braccio nella mia direzione, dandomi chiaramente ad intendere che dovevo raggiungerlo.
“Posso venire? – domandai.
Di nuovo non ebbi risposta. Dato quindi per scontato che mi stessero invitando a tornare sui miei passi, precipitai nuovamente al loro cospetto. Dante stava già tagliuzzando una minuscola fetta di hashish.
“Che cazzo vuoi? – mi domandò, con la stessa arroganza di pochi istanti prima.
“Beh, come ti dicevo, volevo un deca”.
“Un deca?”.
Cominciai a farmela sotto.
“Un deca – tartagliai.
I due scagnozzi si misero a ridere sguaiatamente. Poi Dante, fissandomi per la prima volta negli occhi e annichilendomi con quella particolarissima luce assassina che da essi scaturiva, assecondò la mia richiesta consegnandomi finalmente ciò che gli avevo chiesto.
“Grazie – gli dissi.
Feci scivolare nelle sue mani putride diecimila lire, dopodiché volai via.
Ripresi il cammino di casa sdilinquito e amareggiato, sebbene fossi arrivato fin lì pieno di speranza: ciò accade sempre quando ho il raro privilegio di confrontarmi con il fascinoso mondo della mala, un privilegio che verosimilmente vale solo per il sottoscritto. In quel frangente però qualcosa era andato storto. Qualcosa aveva fortemente stuzzicato le mie interiora, la gioia del mio vivere quotidiano, la mia opulenta spensieratezza. Ma non era per la paura di aver corso chissà quale rischio, soprattutto alla fine, quando ero rimasto solo con i tre malavitosi, lo dico sinceramente… era qualcosa che probabilmente aveva a che vedere con risvolti caratteriali assai profondi dell’animo umano come… come, forse, la compassione. Strada facendo, soffermandomi di tanto in tanto sul rosseggiare del cielo, e ancora una volta sulle sfumature della vegetazione, mi vennero in mente alcuni passaggi de Le notti di Parigi di Restif de la Bretonne, dove si fa spesso riferimento a questo nobile sentimento della natura umana. Ormai nei pressi del parcheggio, dove avevo lasciato la Reanault, presi a calci svogliatamente dei ciottoli sparpagliati lungo il sentiero semicampestre. Nel mio palmo destro della mano stringevo stretto stretto il frutto della mia operazione clandestina; nel mio cuore stringevo stretto stretto un vivido sentimento molto vicino alla pietà.
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