martedì 22 ottobre 2013

Ferragosto # 2


6.

La Cesira strabuzzò gli occhi, terribilmente angustiata.
«Cos'hai detto?».
«C'è scritto "scusatemi"».
La Cesira squadrò l'amica senza parole.
«Secondo te cosa significa?».
«Non lo so e forse non vorrei nemmeno saperlo».
Il Giannino le fissò dall'alto col volto stranito, incapace di immaginare quel che potesse essere accaduto al prete; benché di certo, rifletté con soddisfazione, tutte le malvagie insinuazioni sulla sua pigrizia avanzate dalla Cesira, si fossero ormai dimostrate palesemente infondate.  
«Che faccio?».
«Dai un'occhiata alla casa per assicurarti che sia tutto in ordine, anche in giardino, e poi scendi a mostrarci quel che hai trovato», disse la Maria, in tono un po’ sgarbato.
Il ragazzo sbuffò e si mise in cerca di eventuali altre tracce che potessero fare luce sulla sparizione del prete; ma non trovò nulla di strano.
Corse dabbasso e sottopose la missiva alle due compaesane, che esaminarono il reperto con grande attenzione, maneggiandolo con la delicatezza riservata normalmente agli oggetti più preziosi e delicati. 
«C'è proprio scritto così», mugugnò affranta, la Maria, «"scusatemi", ma cosa starà a significare?».
«Mah, a meno che…».
«Stai scherzando?».
«Stai pensando anche tu a quel che sto pensando io?».
«Perché, a cosa state pensando?», chiese il Giannino, rompendo il loro idilliaco botta e risposta, rammaricandosi del fatto di non essere ancora riuscito a elaborare una valida tesi che potesse giustificare il misterioso destino del pievano.
«Lascia stare», disse la Cesira, «non corriamo troppo. Questo messaggio può voler dire mille cose. Ma non pensiamo subito al peggio».
«Povero don Filippo…», blaterò il giovane, tormentato dai dubbi.  
Passò la Ilma Casiraghi, parente alla lontana del sindaco Raimondo Boffalora, che si stupì nel vedere quel terzetto improvvisato e furtivo alle spalle della casa di don Filippo; diede, dunque, sfogo alla sua proverbiale curiosità, facendosi avanti con una battuta scontata, ma ideale per farsi spazio nella conversazione.
«Si lavora sodo stamattina, eh».  
Le due donne dondolarono la testa e le fecero cenno di avvicinarsi:
«Ilma, don Filippo è scomparso».
La donna sorrise di gusto, credendo che le stessero tirando qualche stupido giochetto per divertirsi e arrivare a sera con piglio irriverente.  
«Cosa?».
«Scomparso. Guarda cosa abbiamo trovato».
La donna lesse il biglietto e cambiò subito espressione:
«Che vuol dire?».
«E' il biglietto che ho recuperato dalla scrivania di don Filippo», disse il Giannino.
«Oddio», tartagliò la Ilma, «non posso credere che…».  
«Neanche noi», fece la Cesira, intuendo quel che intendesse insinuare l'amica, con l'aria sempre più scombuiata, «tuttavia questo messaggio potrebbe essere fin troppo eloquente».
«Oh, Santa Maria Vergine», esclamò la nuova arrivata, «e adesso che si fa?».
«Dobbiamo comunicarlo agli uomini, al più presto», disse la Cesira, «sarà il caso di provare a cercarlo, prima che sia troppo tardi. Da qualche parte sarà pur andato».
«Ma adesso tutti gli uomini sono al lavoro», precisò il Giannino.
«Allora spargiamo la voce, a chiunque», reclamò la Ilma, «non perdiamo altro tempo, magari qualcuno l'ha visto in giro. Gli uomini li informiamo all'ora di pranzo, quando rientrano dalla campagna. Che ne dite?».
«Aspettate», intimò il Giannino, «a quest'ora il Marengo dovrebbe essere in casa. Andiamo prima da lui, e sentiamo cosa ci dice. Poi capiremo come muoverci».
«Giusto, il Marengo», recitò la Maria, con il suo tipico entusiasmo giovanile. «Di solito la mattina se ne sta nel suo studio a scrivere, a pensare, a studiare qualche nuova legge… facciamogli vedere il biglietto e vediamo cosa ne pensa».

7.

Era l'uomo più in vista del paese, ancor più del sindaco; in pratica, il saggio della comunità, a cui tutti si appellavano per un consiglio, un aiuto, un'intercessione. Abitava in una vecchia e isolata casa sul confine con l'amministrazione di Ornago, verso cascina Rossino. Si riconosceva anche da lontano, poiché spiccava in mezzo ai campi di frumento e granoturco, come un gigantesco fungo su un sottile e marcescente strato di aghi di pino.
Le tre donne e il Giannino si misero in marcia per la casa del Marengo, senza sapere bene cosa stessero facendo, percorrendo in fretta e furia la via centrale del paese e poi il curvone che conduce al confine col villaggio dove sorgeva il famoso santuario dedicato alla Beata Vergine del Rosario. Bussarono con forza alla sua porta, né più né meno come avevano fatto poco prima a casa di don Filippo, ansiosi di potere dare l'incredibile notizia al loro luminare.
«Che diavolo è tutto sto chiasso».
Il Marengo stava consultando un saggio di numismatica, con un paio di occhiali che anziché migliorargli la vista, gliela peggioravano. Non seppe spiegarsi il motivo di tanta foga. Sapeva che da un po’ non pioveva, che i campi ne stavano risentendo, e che tanti buraghesi erano preoccupati per le scorte invernali, tuttavia gli sembrò davvero fuori luogo che alcuni di essi potessero correre da lui per un motivo del genere, risaputo e scontato. Doveva esserci dell'altro di ben più grave. Un'impellenza. Forse qualche paesano s'era fatto male nei campi; non era raro che qualcuno rimanesse ferito con una pala o un forcone.
Lasciò di malavoglia la scrivania e raggiunse l'uscio, dove trovò i quattro compaesani con le facce sconvolte, come se avessero appena visto un fantasma.   
«Diamine, che succede signori? Cos'è tutta questa agitazione?».
La Cesira fece una smorfia assurda, con gli occhi che per poco non sputarono sangue. Acciuffò con rabbia la mano del Marengo e gli spiaccicò sul palmo il foglietto trovato da don Filippo.
L'uomo sbigottì, strizzò gli occhi e lesse ad alta voce:
«"Scusatemi"».
E subito dopo:
«Che vuol dire? Chi ha scritto questa cosa?».
«Marengo», fece la Cesira, «non la riconosce la calligrafia? E' quella di don Filippo!».
Il Marengo inarcò le sopracciglia mostrando tutto il suo stupore: all'improvviso gli parve di essere precipitato in un incubo.  
«Quindi?».
«Don Filippo è scomparso», incalzò il Giannino, «sono entrato dalla sua finestra della cucina, sollecitato dalla Cesira che pensava stesse ancora dormendo, e… ho trovato questo biglietto».
Il Marengo scosse la testa, meditabondo.
«Calma signori, calma».
Gli parve impossibile che davvero il pievano fosse sparito così, dall'oggi al domani, senza alcun preavviso, lasciando solo quel misero e criptico straccetto di cellulosa sulla scrivania. Capì che qualcosa non quadrava e che andava immediatamente dato il giusto peso e valore alla vicenda.  
«L'altra sera don Filippo era in giro per il paese, abbiamo scambiato due chiacchiere, l'hanno visto tutti», rifletté il Marengo. «Non capisco dove e come possa essere sparito. E non mi sembrava certo depresso da pensare di compiere qualche gesto sconsiderato».
Al suono di queste parole la Cesira rabbrividì, non osando minimamente immaginare che don Filippo potesse avere perso la testa fino a smarrire i lumi della ragione. Lei stessa lo poteva confermare meglio di chiunque altro, che spessissimo si trovava a vagabondare fra le sue mura di casa: don Filippo era l'uomo più felice e tranquillo della terra. Impossibile credere che potesse aver compiuto qualche gesto sconsiderato. Ma allora cosa era successo?
«Ci penso io», disse il Marengo, congedando i quattro. «Mi metto io sulle tracce del prete, ma intanto portatevi avanti e fate sapere a tutti della sua sparizione».
«E come rimaniamo d'accordo?», domandò il Giannino.
«Se non abbiamo notizie di don Filippo entro sera, ci vediamo dopocena in piazza per un'assemblea, con tutti gli uomini del paese».
«Un'assemblea?», chiese la Maria.
«Organizzeremo insieme il da farsi, senza farci prendere dal panico», chiuse il saggio della comunità, «vedrete che ritroveremo don Filippo sano e salvo».

8.

Dopo il pasto serale si raccolse nella piazza centrale del paese gran parte degli abitanti di Burago. I loro volti erano tirati e preoccupati: le indagini del Marengo non avevano dato alcun frutto e a chiunque parve assolutamente inverosimile che don Filippo potesse essere sparito. Sparito dove? E perché?
Erano le domande che si accavallavano con maggiore frequenza, coinvolgendo un po’ tutti, grandi e piccini. Per i più piccoli, per la verità, fu anche motivo di divertimento: nella loro vita non si erano mai trovati a vivere un momento così critico, che l'innocenza aveva tramutato in una specie di fiaba agrodolce. La folla si ricompose e il silenzio calò, quando dalla parte opposta all'ingresso principale della chiesa comparvero il Marengo e il sindaco del paese, Raimondo Boffalora; che il primo aveva interpellato subito dopo la visita delle tre donne e del Giannino.
Il Marengo aveva la faccia scura, come raramente era capitato di vedere. L'intero giorno trascorso senza avere scoperto nulla, gli aveva procurato una forte apprensione, al punto che era arrivato a temere il peggio; in cuor suo s'era immaginato che prima del calare della sera, il pievano sarebbe ricomparso fra i suoi fedeli, rassicurandoli su ogni cosa, dissipando qualunque funerea previsione; ma così non era avvenuto e ora c'era davvero da capire in che modo muoversi per cercare di venire a capo dell'incredibile enigma.
I due uomini cavalcarono un piccolo palchetto, riservato di solito alle cerimonie religiose o ai festeggiamenti, e presero a interloquire con i presenti con grande solennità:
«Cittadini di Burago», esordì il Marengo, come il grande capo di una tribù zingara, «oggi abbiamo ricevuto questa inaspettata e indecifrabile notizia, che immagino sia ormai di dominio pubblico. Don Filippo è ufficialmente sparito. Ma non sappiamo ancora nulla. Non sappiamo se è scappato, se si è fatto male da qualche parte, o se si è…»
La folla brontolò angustiata.
«L'unica cosa che abbiamo è questo biglietto… c'è scritto "scusatemi". Ma non lanciamoci in conclusioni affrettate. Può volere dire ogni cosa. L'importante, in questo momento, è non farci travolgere dall'emozione».  
Con un cenno del mento, invitò il sindaco a proseguire.
«Io e il Marengo ci siamo riuniti oggi pomeriggio e abbiamo deciso di organizzarci in questo modo. Domani sospendiamo qualunque attività, per dedicarci unanimemente alla ricerca di don Filippo. Se è scomparso come sembra, qualche traccia dovrà pur esserci. L'appuntamento è con tutti voi per le sei in punto, qui. Ci organizzeremo in due gruppi. Il primo, con il Marengo, passerà al setaccio la parte settentrionale del paese; il secondo, con me, quella meridionale. Dopo cena ci ridiamo appuntamento in questa sede, per vedere cosa abbiamo raccolto e… nient'altro, questo è quanto».
La folla si espresse con un potente brusio, ma nessuno se la sentì di opporsi all'invito del Marengo e del sindaco, benché tutti fossero consapevoli del fatto che, saltare un giorno di lavoro, in piena estate, non era certo una bella cosa.
«Se qualcuno ha delle domande da porre, questo è il momento giusto per farlo», recitò il Marengo.  
Nessuno fiatò. Il sindaco si guardò intorno perplesso in cerca di un'eventuale battuta a tempo scaduto, ma non si sentì volare una mosca.
«Bene, allora… possiamo andare a dormire, un buon riposo farà bene a tutti noi: domani ci aspetterà una lunga giornata». 

9.

4 agosto

L'ultimo ad arrivare in piazza fu il Giannino che aveva trascorso la notte perseguitato dagli incubi. In uno c'era don Filippo trasformato in un cadavere vivente che cercava di mangiargli la testa; un sogno tanto terribile da ridestarlo completamente nel cuore della notte, obbligandolo a girare per casa come un mentecatto.
«Allora ci siamo tutti», gridò il Marengo, «facciamo un po’ di attenzione».
Il sole era ancora basso sull'orizzonte e il braccio che il Marengo allungò davanti a sé non inventò alcuna ombra, rendendo ancora più lugubre l'imponente puntello.
«Alla mia destra, con me, alla mia sinistra, con il sindaco. Come dicevamo ieri… setacciamo nord e sud, senza farci scappare nulla, anche l'indizio più banale potrebbe rivelare qualcosa di importante».
«Le donne rimarranno a casa con i bimbi più piccoli», precisò il sindaco, con volto segnato da un risveglio troppo brusco, «torneremo per l'ora di pranzo. Se non abbiamo trovato nulla riprendiamo le ricerche nel pomeriggio».
Si misero in cammino come profughi in fuga da una terra devastata da epidemie e pestilenze, per un lungo tratto in fila indiana, come accade in processione.
Giunsero a un paio di chilometri dal centro abitato e, in corrispondenza delle prime boscaglie, si sparpagliarono ovunque, cercando di intuire quale direzione avrebbe potuto prendere il prete. Sperando, dunque, che fosse scappato e null'altro.
Ogni anomalia del paesaggio poteva essere potenzialmente utile alle indagini; così qualche brandello di vestito o i segni del passaggio di un cavallo al galoppo.
Il gruppo del Marengo perlustrò la zona a nord di Burago, dai confini con i giardini di villa Sottocasa, alla strada per Roncello, aiutandosi con dei bastoni per vincere i punti più impervi. Il giovane Andrea Brambilla, noto per la sua eccessiva sensibilità, tirò un urlo quando vide dietro un cespuglio di rovi uno scheletro. Vari uomini accorsero per capire cosa fosse accaduto, ma non ci volle molto a intuire che si trovavano di fronte al banale resto di un roditore, o forse di una volpe. Il severo Domenico Carimati, cugino del sindaco, gli tirò uno scappellotto ammonendolo di non sollevare cagnara per niente. Il ragazzo non si scompose più di tanto e riprese le sue ricerche come un cane bastonato.
A sud, invece, poco oltre i confini della strada che conduceva a Omate, gli uomini del sindaco girarono intorno a un pericolante cascinotto che pareva contrassegnato, in corrispondenza della porta d'ingresso, da macchie di sangue.
Lo stesso primo cittadino attirò l'attenzione dei perlustratori rimasti nel suo raggio d'azione, perché venissero a esprimere la loro opinione ed eventualmente a dargli una mano a sfondare l'uscio.
Pochi istanti dopo la questione venne risolta dall'arrivo improvviso e furibondo del padrone della piccola costruzione, che nonostante il disappunto spiegò loro l'origine del liquido ematico che aveva impiastrato parte della sua tenuta: era quello proveniente da una gallina che la moglie aveva sgozzato il giorno prima, per cuocerla in padella. Alla fine si risolse tutto con una risata isterica.
A mezzogiorno nessuno dei due gruppi aveva scovato granché. Tornarono in paese e, mangiucchiando qualcosa, si confrontarono sulla battuta appena conclusa.
«Siamo ancora in alto mare», disse il sindaco.
Il Marengo lo fissò perplesso.
«Sono anch'io dubbioso. Ma magari oggi pomeriggio andrà meglio».
Il Giannino storse la bocca, rincuorandosi che il saggio della comunità potesse avere anche solo un briciolo di ragione.

10.

Ripresero le ricerche all'una, puntando verso le radure che dividevano Burago da Cavenago, una zona presa poco in considerazione dal vivere quotidiano, anche per via delle numerose macchie boscose che in certi punti rendevano davvero difficoltoso il cammino e improponibile il transito di carri e buoi.
Il sindaco e i suoi uomini si diressero verso sud, dalle parti di cascina Trivulzina, in anticipo di qualche metro sui terreni che davano su Caponago e Cambiago. Chiesero agli abitanti del piccolo centro cavenaghese, se per caso avessero visto da qualche parte don Filippo. Ma la risposta fu negativa.
«Gli è successo qualcosa?», chiese una donna sulla cinquantina, particolarmente curiosa di ciò che accadeva a Burago, da cui proveniva il suo ramo materno.
«Non sappiamo che fine abbia fatto. Non si trova da almeno ventiquattro ore».
La donna ebbe un sussulto.
«Oh, Maria Vergine, ma com'è possibile?».
Il sindaco non volle darle troppa corda e la congedò con un misero cenno del capo. Salutarono tutti e tornarono sulla loro strada, affaticati dal calore e da ore e ore di cammino sulle spalle, senza alcun risultato.
Nei pressi del confine con Omate, si soffermarono su un cippo che pareva essere stato mozzato da poco nella parte superiore, alterando la scritta che indicava le distanze da Monza e Melzo. 
«Raimondo, guarda qui», si fece avanti Carlo Bucchi, il panettiere.
Il sindaco si avvicinò al cippo e lo accarezzò con la mano destra, impolverandosela.
«Strano, qualcuno deve essersi divertito con una vanga o un badile».
«Qui è addirittura saltato via un pezzo di granito».
Il primo cittadino guardò l'amico con sufficienza.
«Ma non saprei in che modo collegarlo alla sparizione del prete».
Il Carlo fece una smorfia buffa, rendendosi conto dell'inutilità della scoperta, ma anche del fatto che ogni tanto valeva comunque la pena soffermarsi su qualcosa di anomalo, benché banale; dando così un minimo di senso alla giornata; altrimenti sarebbe stato solo un continuo guardarsi intorno monotono e preoccupato, che nel giro di poco avrebbe ridotto a zero l'umore dell'improvvisata truppa.  
Sull'altro fronte le cose non andarono meglio. Dopo aver perlustrato i boschi fra Burago e Cavenago, ed essere finiti più volte circondati da minacciosi rovi, il Marengo e i suoi uomini si ritrovarono senza forze e speranze nei pressi del famoso laghetto, il piccolo stagno che sorgeva a metà strada fra i due paesi, e che d'estate si copriva di una spessa coltre verdognola, dovuta all'accumulo esagerato di materiale algale.
«Sarebbe utile che qualcuno andasse a farci un giro».
«Ma è pericoloso», disse Ferdinando Sala, un contadino della periferia buraghese.
«Ci vado io», si propose l'Ambrogino, il figlio di Pia la lattaia.
Il Marengo lo guardò affranto, rendendosi conto che, in effetti, avrebbe potuto correre dei rischi.
«Sei sicuro?».
«Sicurissimo».
«Va bene, ma stai attento: non avvicinarti troppo alle sponde… sai che possono trasformarsi in una trappola mortale».
«Non ho paura di niente, io».
«Ma la prudenza non è mai troppa».

L'Ambrogino lo fissò esaltato, orgoglioso di avere ricevuto un incarico tanto importante. Partì con foga, quasi di corsa, e in una decina di minuti fu a destinazione. 

mercoledì 16 ottobre 2013

La festa del maiale


LA FESTA DEL MAIALE

Dalla campagna si vede arrivare 
Giuan da Zin con il suo sferragliare
Mille coltelli, una spada, un bastone
Senza difetti e nemmeno un padrone

Freddo fa freddo per forza è gennaio
Sbattono i denti perfino in pollaio
Ma non c'è tempo, passato è il Natale
Oggi è un gran giorno, si ammazza il maiale

Meglio non farlo vedere ai bambini
Troppo crudele, son troppo piccini
Gelido e impavido sussurra il vento
Chi l'ha mai visto un maiale contento

Tutto è ormai pronto, sta per cominciare
Giuan da Zin si avvicina al maiale
Con il coltello più grosso che ha
Lo taglia in due senza alcuna pietà

Sangue dabbasso, daccapo, per terra
Corrono donne che sembrano in guerra
Niente si spreca del porco maiale
Né la più putrida via intestinale

Piange, grugnisce, si arrende il porcello
C'era una volta quel bel praticello
Dove c'andava per fantasticare
O per una scrofa da riconquistare

Giuan da Zin e un bicchiere di rito
Per festeggiare il lavoro finito
Saran salami, cotenne e chissà
Il cotechino che faccia farà

Per la campagna si vede sbiadire
Giuan da Zin con le sue mille lire
Con le cartucce, la fionda e il coltello
Anche se il prossimo sarà un vitello

2013

lunedì 14 ottobre 2013

FERRAGOSTO # 1


FERRAGOSTO

1.

Burago Molgora, 3 agosto 1855

Per colpa di una famigliola di topi che si era accasata nella sua credenza, aveva vissuto un risveglio a dir poco rocambolesco. Era caduta un paio di volte per inseguire il roditore più sveglio, che si era infilato da tutte le parti, impedendole di spazzarlo fuori con una brutale scopata. La Cesira aveva una fretta del diavolo e guai se qualunque altra cosa, animale o persona, le avesse fatto perdere altro tempo prezioso. Il punto è che doveva recuperare le quattro casse di legno in cima alla sacrestia, e cominciare a rammendare, lustrare, stirare i paramenti e gli stendardi con cui festeggiare degnamente l'Assunzione, fra le feste religiose più sentite nella comunità; era un lavoro lungo e noioso che tutti gli anni portava avanti con forza e stoicismo, quasi sempre da sola, benché più donne del paese si fossero fatte avanti per darle una mano. E soprattutto le occorreva l'approvazione di don Filippo che, come sempre, tendeva a rimandare gli impegni più barbosi, esasperando la buona volontà dei fedeli. Davvero, il tempo stringeva.
S'incamminò verso la casa del prete con passo sostenuto, la testa bassa e la faccia scura, consapevole che per convincere, per non dire obbligare, il curato a prendere la scala dal cascinotto della curia e salire in soffitta a rovistare fra ragnatele e nidi di rondine pieni di sterco, avrebbe dovuto fare i salti mortali. Questa volta, però - forse per via dell'arrabbiatura mattutina che in qualche modo le aveva infondato maggiore fiducia in se stessa - non si sarebbe arresa tanto facilmente: se ne sarebbe andata solo dopo aver ottenuto ciò che voleva. In fondo era per il bene della comunità e della santissima Vergine: come faceva don Filippo a non capirlo? Ogni anno era sempre la stessa storia.
Fra i due, peraltro, non scorreva ottimo sangue; e dunque il loro rapporto non sarebbe stato dei migliori, anche se tutto fosse andato a meraviglia. La donna non capiva come un prete potesse sempre essere così allegro e pacioso, in antitesi all'asciuttezza dei santi e dei sacerdoti che lo avevano preceduto e coi quali amava rapportarsi, in virtù di quella intrinseca morigeratezza che, dal suo punto di vista, doveva contraddistinguere ogni uomo al servizio della croce. Prima di lui c'era stato Omobono Farina, che la Cesira adorava; la sua pacatezza, la sua severità, il suo timor di Dio, erano prerogative caratteriali che don Filippo poteva solo sognarsi. Era un vero prete, un prete vecchia maniera, dai metodi ortodossi, ma efficaci e dalla fede incrollabile.
Per la Cesira don Filippo aveva in mente solo una cosa, mangiare; o al limite, dormire. Non poteva accettarlo. Il suo dogmatico senso del dovere scalpitava.
D'altra parte don Filippo trovava la fedele davvero troppo petulante e fastidiosa, sempre in apprensione per qualcosa, come se da un momento all'altro il paese avesse dovuto subire una delle dieci piaghe d'Egitto; mentre tutti sapevano che non c'era alcun pericolo del genere: bastava stare tranquilli, e la Provvidenza avrebbe risolto ogni cosa.
«Cesira, dove vai così di corsa?».
La interpellò la bella Palmira, da poco maritatesi con Giovanni Galbusera, l'arrotino, di ritorno da Carlo il panettiere.
«Corro dal prevosto per dirgliene quattro».
«Oddio, che succede di tanto urgente?».
«Ferragosto è dietro l'angolo e non si è ancora fatto niente per abbellire il paese».
«Ma ce n'è di tempo».
«Il tempo non basta mai. Poi le donne se la prendono con me».
Palmira dondolò la testa incredula di fronte all'esasperazione della compaesana. Non capiva come potesse prendersela tanto per una sciocchezza del genere; un giorno sarebbe valso l'altro per sistemare qualche addobbo. Ma dopo il primo disappunto, rifletté sul fatto che, probabilmente, per una donna come lei, che non aveva figli e non s'era mai sposata, le cose dovevano avere un valore diverso dalle persone comuni, prese da faccende familiari e obiettivi oggettivamente più concreti.
La salutò dolcemente, osservandola avanzare come un uragano verso la dimora del pievano, indifferente al caldo che già dalle prime ore del mattino aveva cominciato a soffocare il piccolo borgo del vimercatese.

2.

La Cesira conosceva molto bene la casa di don Filippo, essendovi stata innumerevoli volte, per risolvere incombenze di ogni tipo, sempre e comunque a beneficio della parrocchia e dei parrocchiani. Era una classica abitazione di fine Settecento, povera e scialba, umida e trasandata. Al primo piano c'era una grossa cucina e un grande camino e una vicina stanzetta dove il pievano si raccoglieva per meditare e pregare, dove non era raro vedere circolare cani, gatti e galline; il secondo era occupato dalle camere, quasi sempre fredde e rugiadose; quella del sacerdote era la più spaziosa e dava su un piccolo giardinetto che lui stesso curava. Il bagno era all'esterno, nei pressi del pollaio, un buco lugubre e fatiscente costruito ancor prima della casa parrocchiale per soddisfare le esigenze dei contadini al soldo di un altolocato che abitava una villa nelle adiacenze. Quasi sempre, però, i bisogni venivano risolti dove capitava; don Filippo, per primo, non si faceva certo tanti scrupoli a calare le braghe nel suo orticello per liberare il corpo dalle impurità e più o meno consapevolmente ridare vigore ai pomodori che incredibilmente crescevano più belli e resistenti di quelli di tutti gli altri compaesani, anche se la perpetua aveva appena aperto le finestre e avrebbe tranquillamente potuto vederlo in desabillè.  
Strano, però, che la mattina del 3 agosto, nessuno avesse ancora spalancato le imposte e i vetri appena sostituiti dopo un terribile temporale. La perpetua se ne accorse ancor prima di giungere al cospetto della curia, fotografando un orizzonte inspiegabilmente quieto, benché rischiarato da una luce accecante. Lo notò poco dopo esserci congedata dalla Palmira: l'intero paese era ormai sveglio da un paio d'ore, ma in casa del parroco sembrava che la notte non fosse ancora finita. Sapeva che la perpetua non c'era, essendo partita da qualche giorno per andare a fare visita ad alcuni parenti del comasco, ma doveva esserci don Filippo, che intorno alle otto non aveva niente da fare, se non preparare qualche lettura, un nuovo canto, i vespri per il pomeriggio. Vinta dall'ipotesi che stesse dormendo, le salì una rabbia che la fece vacillare. Ancora una volta giudicò malamente il reverendo. Non poteva credere che con tutto quello che c'era da fare, il pievano non si fosse ancora accorto che il giorno era già iniziato da un pezzo.
Bussò alla porta con forza belluina, facendo addirittura traballare il manico del catenaccio, che nemmeno un energumeno sarebbe arrivato a tanto. Passò una manciata di secondi e non ricevendo risposta il sospetto che don Filippo fosse ancora perso nel mondo dei sogni, si trasformò in sentenza scritta.
«Dio benedetto, don Filippo, sveglia!».
«Cesira, che succede?».
Era la voce dell'amica Maria Casiraghi di passaggio dalla casa del prete per una confessione al volo: il giorno prima aveva ferito il marito con un coltellaccio da cucina e, benché il gesto fosse stato del tutto involontario, si riteneva colpevole di non essersi mossa per casa con sufficiente malizia, negligenza che solo l'assoluzione divina avrebbe potuto distoglierlo dai suoi pensieri.    

3.

«Don Filippo dorme ancora, roba da non credere», blaterò la Cesira.
«Mica potrà essere ancora a letto, a quest'ora?», domandò, incredula, la Maria.
«Don Filippo non ha voglia di fare un bel niente, non l'hai ancora capito? Non ci sarebbe da stupirsi se sta ancora sognando».
La Maria storse la bocca stupefatta, non aveva nulla contro il curato del paese, ma l'ipotesi che potesse essere ancora a letto, scandalizzò anche lei.
«Bussiamo di nuovo, magari non ha sentito».
Lo fecero in due, provocando un boato lungo la via. Ancora nulla.
«Dorme, dorme, roba da pazzi», disse la Cesira, girando su se stessa come una trottola e fissando le nuvole nel velleitario tentativo di chiedere un aiuto al cielo.
«Proviamo a dare un'occhiata dalla finestra», propose la Maria che, per via del trambusto, s'era già scordata il vero motivo per cui era passata di lì.
Percorsero pochi metri e raggiunsero il fianco dell'abitazione di don Filippo, tappezzato di parietarie e celidonie mezze appassite, che dava su una piccola stradina polverosa, che d'inverno tutti evitavano perché sempre impantanata. La Cesira si avvicinò alle imposte serrate senza alcun tentennamento, convinta che in casi come questo non ci fosse nulla di male nel curiosare in casa altrui. Volarono, spaventati, alcuni piccioni, quando prese a gridare il nome del pievano con rinnovato vigore:
«Don Filippo, don Filippo, ci sente?! Don Filippo dobbiamo preparare le cose per l'Assunzione!! Don Filippo!!».
La Cesira era costernata: dalla casa del sacerdote trapelava il silenzio più assoluto, e non c'era motivo di credere che il prete se ne fosse andato chissà dove, lasciando la casa sigillata come uno scrigno prezioso da conservare per i posteri; di fatto, anche quando usciva per stare via dalla mattina alla sera, magari per dire messa in qualche villaggio vicino, non dimenticava mai di regalare al sole le umide mura della sua dimora, in accordo con la perpetua che spesso lo seguiva nei suoi vagabondaggi nel nome del Signore. Era peraltro un domicilio che cadeva a pezzi e se anche fossero entrati i ladri non vi avrebbero trovato granché. Insomma, inutile girarci intorno: le imposte e le finestre della curia ancora piombate a quell'ora del giorno erano un pessimo segno.
«E se gli fosse accaduto qualcosa?», domandò la Maria, colta da un presentimento tragico.
La Cesira la guardò con la faccia contratta. Tutto era possibile, ma don Filippo era troppo giovane per morire. Un colpo? Mah. Poteva, però, essere stato vittima di un attacco di ulcera, di una peritonite, della malaria, della pellagra… La verità è che non stava in piedi nulla; qualunque buraghese avrebbe potuto confermarlo: don Filippo godeva di ottima salute e, stando com'erano le cose, sarebbe campato cent'anni. Piuttosto era verosimile supporre che potesse essere andato a Como con la perpetua. Ma anche questa tesi, che la Cesira valutò in una frazione di secondo, pronta a confidarla alla compaesana, non era percorribile: la perpetua era già partita da qualche giorno, e fino a ieri don Filippo l'avevano visto tutti aggirarsi per il paese e durante le funzioni in chiesa; verso sera s'era perfino messo a giochicchiare a pallone con alcuni piccoli della comunità che si trovavano in piazza con i genitori in cerca di un po’ di refrigerio. Il mistero s'infittiva. Per un attimo le due donne rimasero come statue una di fronte all'altra, senza sapere che pesci pigliare.   

4.

Trovarono ispirazione notando il passaggio trafelato del Giannino, il simpatico e brioso figlio del porcaro di Cascina Amadio, che anche quando non aveva niente da fare, sembrava l'uomo più affaccendato del mondo.
«Giannino!», gridò la Cesira.
Il ragazzo strizzò gli occhi, per vincere l'abbaglio e vedere chi lo stava chiamando con tanta veemenza. Scorse la Cesira e tirò un respiro profondo e rassegnato, intuendo che, il richiamo della bizzarra compaesana, non avrebbe di sicuro celato qualche bella sorpresa.
«Abbiamo bisogno di te», disse la donna, lapidaria.   
Il Giannino storse la bocca e si avvicinò al duo, come si va incontro alla morte.
«Che succede? Che è accaduto di tanto grave?».
«Ti sembra normale che don Filippo stia ancora dormendo?».
Il Giannino corrugò la fronte infastidito.
«A me lo chiedete?».
Vide lo sguardo deluso delle donne e cercò di andargli incontro.
«Magari è nell'orto».
«E queste, allora, come le spieghi?», incalzò la Maria, indicando al giovane le finestre ancora mortificate dalle tenebre.
«Non saprei che dirvi. Avete provato a bussargli?».
«Eccome», disse la Maria, «ma sembra che non ci sia in casa nessuno o che, appunto, don Filippo stia ancora dormendo».
Il Giannino fissò insofferente le due donne, non sapendo davvero in che modo poterle aiutare.
«Tu non riusciresti ad aprire le imposte?», gli chiese la Maria.
Il ragazzo strabuzzò gli occhi, parendogli un'azione imponderabile quella di scardinare gli scuri della casa del curato.
«Potrei anche farlo, ma non vorrei che poi saltasse fuori qualche casino. Non ci conviene provare di nuovo a bussare?».
«Giannino, abbiamo già bussato, non risponde, prova anche tu se vuoi», disse la Maria con aria impaziente.  
«Don Filippo! Don Filippo!», urlò il ragazzo con la sua voce potente, ma anche in questo caso senza ottenere risultato.
«Hai visto?», reclamò la Cesira.
Il Giannino insospettito si avvicinò alla finestra del prete e cominciò a scuotere le persiane. Non gli ci volle molto ad allentare il gancio interno e a far sì che le imposte si aprissero. Le due donne lo guardarono soddisfatte e ansimanti.
«E adesso?», domandò il giovane.
«Prova a vedere se riesci a forzare i vetri», disse la Cesira, in fibrillazione.
Il ragazzo la squadrò preoccupato.
«Non le sembra di esagerare?».
«Prova almeno a scrutare», disse la Maria, «non possiamo stare qui con le mani in mano».
Il Giannino puntò alla finestra coprendosi gli occhi con un braccio per vincere i riflessi.
«Non vedo nulla. C'è buio pesto».
«Guarda bene», disse la Cesira.
«Niente».
«Fai fare a me», s'impose la donna, senza un minimo di riconoscenza.
«Vedi qualcosa?», domandò la Maria.
Temporeggiò per qualche secondo, lasciando presagire che potesse aver individuato qualcosa. 
«Un accidente».
Guardò il Giannino facendogli capire con uno sguardo assassino che c'era un solo modo per risolvere il problema: qualcuno doveva forzare le lastre per introdursi clandestinamente nella casa del prete.  
«No, questo no».
«Su, non fare il difficile».
«Ma se sta dormendo, lasciamolo dormire».
«Lo devi svegliare, se sta dormendo, ci sono mille lavori da fare!», gridò la Cesira.

5.

Il Giannino non ebbe modo di protestare. Con davanti due donne del calibro della Cesira e della Maria che, non dimentichiamolo, poche ore prima aveva rischiato di mandare al creatore il povero Galbusera, capì al volo che ogni protesta sarebbe stata vana. Fu costretto a obbedire anche perché fin da piccolo i suoi genitori gli avevano insegnato a portare il massimo rispetto alle persone più anziane, specialmente a quelle del proprio paese. Allorché, spinse le finestre con malizia riuscendo senza grandi difficoltà a vincere i cardini degli scuri, aprendosi così un varco per le inviolate secrete della casa del prete. I tre compaesani si guardarono come se si fossero trovati di fronte a un inestimabile tesoro, pronto da mettere in tasca.
«Don Filippo! Don Filippo!», gridò la Maria, nell'ultimo tentativo di evitare la spudorata violazione di una proprietà privata. Ma ancora una volta non si sentì anima battere ciglio.
«Dai!», disse la Cesira, «non perdiamo altro tempo. Andiamo a svegliare quel dormiglione».
Il Giannino dondolò la testa immalinconito, ancora mezzo incredulo di fronte a tutto quel can can mattutino.
«Mi fate fare una cosa che disprezzo».
«Su, non fare storie, lo fai per il bene della comunità», insistette la Cesira, «un punto in più per il paradiso».
«E va beh».
Con l'agilità propria di chi non ha ancora compiuto vent'anni, il Giannino fece forza sulle braccia, e con un abile gioco di reni, saltò dentro la casa di don Filippo; dove percepì immediatamente un odore stantio, come se la casa fosse stata chiusa da parecchio tempo, benché chiunque fosse al corrente che fino alla sera prima i locali erano stati arieggiati come consuetudine. 
«Dove vado?», domandò, palesando il suo disagio.
«In fondo a destra c'è la scala che porta alle camere», gli indicò la Cesira, con piglio sgarbato. «Datti una mossa che non possiamo aspettare tutto il giorno».
«Ma non si vede un cavolo».
«Non avrai paura del buio, grande e grosso come sei!?», replicò la Maria, che lo fissava con aria divertita.
Per la verità grande e grosso non era, anzi, da bambino lo chiamavano "chiodino" per via della sua esilità. In ogni caso abbandonò le due donne e, seguendo le indicazioni della più insopportabile, si inoltrò nel covo del curato. Muovendosi tentoni, badò bene di non andare a sbattere da qualche parte e rompere qualcosa; o rompersi qualcosa. Ci mancava solo quello per glorificare la giornata.
Individuò le scale, vagamente rischiarate da un filo di fotoni scappati da chissà dove, e prese a inerpicarsi come uno stambecco degli alti monti valdostani, che i buraghesi conoscevano solo per sentito dire. Affrancato al corrimano fu, in poche falcate, al piano superiore.
Indovinò la camera del prete per via di un grosso e un po’ inquietante crocefisso che troneggiava al suo ingresso, visibile nonostante la ridotta luminosità. Con una certa apprensione fece forza sulla maniglia e vinse l'eremo sacerdotale non trovando altro che un letto immacolato e una scrivania quasi del tutto spoglia.  
«Questa è bella», mugugnò fra sé.
Con due balzi felini guadagnò il lato opposto della stanza e spalancò le finestre che davano proprio sulla vietta presieduta dalla Cesira e dalla Maria, illuminando e riossigenando il locale. Vi si affacciò e, non privo di stupore, comunicò il verdetto alle compaesane:
«Nessuna traccia del prete! Il letto è fatto e… non c'è in giro anima viva».
La Cesira ci rimase di stucco: tutte le sue congetture andarono a farsi benedire. Ma se don Filippo non stava dormendo, dove poteva essere finito?  
«Dai un'occhiata anche nella camera della perpetua e…», continuò la donna.
Ma la Cesira non riuscì a completare la frase; il Giannino si riaffacciò sgomento con un biglietto in mano, trovato sulla scrivania del prete, nell'angolo più buio, sotto una specie di fermacarte.   
«C'è solo questo», disse con le mani tremanti.
«Che diamine è?», domandò la Cesira.
«E' un bigliettino con una scritta».
«Quale scritta?», chiese la Maria.
Il Giannino deglutì conturbato.

«C'è scritto "scusatemi"». 

venerdì 11 ottobre 2013

Buone nuove dalla Polonia

benché manchino info a riguardo... ma si poteva immaginare, non vengono da Cincinnati 


Niepozorna fanka kóz kochająca muzykę równie bardzo co jej zdrowo szurnięty kolega poznają się w 2011 roku, gdy ONA prosi go o akompaniament na konkurs piosenki. On się zgadza i tak się zaprzyjaźniają, że po miesiącu prób znajdują wspólny 'muzyczny' język i postanawiają założyć zespół, którego styl i skład krystalizował się przez długie 2 lata. Ona fanka klasycznych brzmień i spokoju. On lubiący bas wiercący dziurę w brzuchu i eksperymenty z dziwnymi dźwiękami. To my tworzymy The Dumplings.