Quando per prima la torre sud e subito dopo quella nord del World Trade Center rovinarono su se stesse fra le 10.05 e le 10.28 dell’11 settembre 2001, Germano stava contemplando il fondoschiena della sua amata Lisa, in un’aula della facoltà di fisica, nel cuore di Città Studi. Era un’operazione che gli riusciva particolarmente bene poiché la ragazza - rispetto al tavolo su cui stavano studiando – poggiava le ginocchia sulla sedia e aveva il sedere che formava sì e no un angolo di 100 gradi con il busto, mentre lui era leggermente più distaccato, obliquamente rispetto alle spalle della compagna. Rifletteva su quanto gli sarebbe piaciuto trascorrere una notte con lei nell’appartamentino dei suoi a Diano Marina, un desiderio che, a dirla tutta, già molte altre volte aveva accarezzato, ma che per un motivo o per l’altro non gli era mai riuscito di esaudire. La scena infissa nella sua mente era sempre le stessa: Lisa che si insinuava tra le coperte dell’unico letto a due piazze presente nella casina di villeggiatura, con addosso solo gli slip, e che, dopo avergli solleticato ben bene i prorompenti pettorali che lo caratterizzavano, si abbandonava completamente ai suoi prensili tentacoli. Lisa, al contrario, quel dì non aveva molta voglia di scherzare e tantomeno di lasciarsi andare a chissà quali elucubrazioni a sfondo erotico aventi come protagonisti lei e Germano. Si sentiva un po’ giù di corda. Non faceva che pensare al padre, al quale avevano trovato qualcosa che non andava al pancreas e che ora doveva sottoporsi a una lunga serie di esami che non preannunciavano niente di buono. Come se non bastasse anche la madre non era molto in forma, da quasi un mese praticamente allettata per colpa di una brutta frattura al femore. Era concentrata sul libro che aveva davanti da sé. Voleva approfondire il cosiddetto concetto di gravità quantistica, un’espressione che il giorno prima a lezione aveva sentito pronunciare da Fabrizi, l’assistente di Forte, il docente di fisica II, e che, riferito genericamente alle teorie che tentano di conciliare la relatività generale alla teoria quantistica, lei non aveva ancora avuto modo di affrontare, nonostante i numerosi esami fin lì sostenuti. Inconsapevole del fatto che Germano stesse almanaccando senza pudore sul suo mirabile fondoschiena, a un certo punto si ritrovò a leggere ad alta voce un passaggio scritto del testo, forse con l’intenzione inconscia di voler coinvolgere il compagno nella sua meditazione:
“Il carattere chiave di qualsiasi teoria quantistica della gravità - lesse - è che la forza gravitazionale deve essere trasportata da una particella detta gravitone, un bosone, la quale svolge un ruolo simile a quello del fotone nell’elettrodinamica quantistica…”.
Finito di leggere zittì per qualche secondo; fissò la luce bianca che filtrava dalla finestra abbacinandola; si mordicchiò - com’era solita fare tutte le volte che era soprapensiero - il labbro inferiore; poi si girò di scatto verso Germano dicendogli:
“Pensi che possiamo partire da questa traccia per approfondire l’argomento?”.
Germano cadde letteralmente dal pero, preso com’era dall’ultima fase del suo elettrizzante sogno, quella in cui i suoi tentacoli mollavano definitivamente la presa, lasciando che fossero ora quelli di Lisa a impensierire gioiosamente la sua libidinosa quiescenza. Il viso del ragazzo si fece rosso come un pomodoro maturo. E solo quando – diversi secoli dopo - ebbe finalmente la caparbietà e la lucidità mentale di avvedersi che la sua compagna non solo lo aveva colto in pieno tergiversare viziosamente e maliziosamente sulla sua anatomia, ma le aveva anche chiesto qualcosa di specifico, trovò la forza di risponderle:
“Beh, sì, sai...”.
“Concetto profondo”.
“Per dire”.
“Cosa?”.
“La teoria quantistica la dobbiamo affrontare nel prossimo semestre…”.
“Quindi?”.
“Di Max Planck e Richard Feynman in questo momento potremmo farne a meno”.
“Ah sì?”.
“Beh, sì”.
“Scusa ma cosa vai blaterando?”.
“Perché?”.
“Sto parlando di quello che ha detto Fabrizi stamane”.
“Appunto?”.
“Va beh, buonanotte”.
E fu esattamente in quell’istante che squillò il cellulare di Lisa.
La ragazza recuperò il telefonino dalla caotica borsetta con la quale era solita barcamenarsi per le strade e le piazze del mondo e le aule e i corridoi dell’università, strapiena di accessori per acconciarsi come si deve, creme, spiccioli, e foglietti fraudolenti riportanti l’indirizzo di qualche nuovo locale dove andare a passare le serate. Era Andrea, il suo ragazzo.
“Andre, che palle…”.
In effetti la coppia, in quel periodo, brancolava nel buio. Soprattutto per colpa di lui. Il fidanzato di Lisa era drasticamente cambiato da quando s’erano conosciuti anni prima in una discoteca del pavese; da quella volta in cui si erano regalati un principesco viaggio alle Maldive per compiacersi di un amore che non avrebbe avuto eguali, confini e padroni. Alla ragazza, talvolta, pareva addirittura di avere a che fare con un estraneo, un sedicente e impietoso sconosciuto. Borioso, gradasso, presuntuoso: ecco quello che era diventato il suo Andrea da quando un improbabile cugino aveva fatto di lui un pezzo grosso della moda milanese. Ormai gli giravano in tasca troppi quattrini, che audacemente e spregiudicatamente spendeva senza giudizio. Parecchie spasimanti gli rimbambivano il cervello e tentavano di boicottare la sua storia più importante. Si faceva frequentemente di cocaina. Come se non bastasse, recentemente, gli avevano ritirato la patente per guida in stato di ebbrezza.
“Pronto? Ciao Andre. Cosa? Cosa stai dicendo?! No, non ci posso credere! Stai scherzando?! E adesso? Va bene, ciao”.
Lisa sbiancò e cominciarono a sudarle le mani. Ripose nella borsetta il telefonino e, nuovamente, tornò a farsi illuminare dal candore che stillava dalla finestra. Non riusciva a capacitarsi di quello che aveva appena sentito dire da Andrea: gli Stati Uniti erano stati attaccati da due aerei kamikaze. Pensò immediatamente al fatto che mai prima d’ora era stato violato il territorio Usa, nemmeno durante la seconda guerra mondiale… forse nel corso della guerra di Secessione, con gli indiani, macchè indiani… guardò Germano con gli occhi stralunati e gli disse:
“Due aerei si sono infilati nelle torri del World Trade Center a New York e c’è chi dice che dentro ci siano almeno ventimila persone. Andrea mi ha detto che è stato un attentato”.
Germano sussultò.
“Sei pazza?”.
“No”.
“Cosa ti ha detto?”.
“Così”.
“Non può essere vero. Sarà un’altra delle sue balle”.
“Ormai le balle di Andrea le so riconoscere bene”.
“Con ciò?”.
“Con ciò ti dico che non stava affatto scherzando”.
“Ma è una cosa assurda”.
“Sembra un film”.
“Puoi dire giuro”.
I due tacquero per un po’.
“Sei qui in macchina? – chiese Lisa a Germano.
“Sì”.
“Andiamo?”.
“Dai”.
In fretta e furia sistemarono libri, quaderni e astucci e si catapultarono all’esterno.
In via Celoria era tutto assolutamente normale, quasi una beffa se paragonato a quello che avevano appena udito: il respiro eterno dei platani che proteggevano la strada; il correre avanti e indietro dei bus di linea; il brontolare in su e in giù degli studenti con le cuffie del walkman infilate nelle orecchie; i vetri opachi del dipartimento di fisica; i manifesti di Lotta Continua. Difficile credere che al di là dell’oceano si stesse davvero scatenando l’inferno.
“Ho la macchina all’Isu – disse Germano a Lisa.
“Ok, andiamo”.
La giovane – senza premeditazione – raccolse la mano di Germano e verosimilmente, per un attimo, più vicini del solito nel fisico e nella mente, percorsero il breve tratto di strada che li separava dall’istituto per il diritto allo studio universitario. Brillava un sole sbiadito e svolazzavano alcune foglie.
Raggiunta in pochi minuti la Citroen Due cavalli del ragazzo - maldestramente in bilico su un angolo di marciapiede - vi si infilarono all’interno. Accesero la radio e in religioso silenzio ascoltarono il terrificante mugugno di uno sconosciuto.
“Due aerei kamikaze si sono schiantati contro le due torri gemelle di New York, mentre un altro si è abbattuto sul Pentagono. Ancora nessuna notizia precisa dell’aereo precipitato in Pennsylvania”.
Germano e Lisa, con gli occhi fuori dalle orbite, si fissarono increduli. Avevano appena ascoltato qualcosa di assolutamente più in là di qualunque loro aspettativa, di qualunque loro immaginazione. Un risvolto del vivere quotidiano troppo ingombrante per i loro cuori non ancora del tutto svezzati al cinismo e alle catastrofi dell’esistenza; non erano mica le solite quattro pirlate di cronaca che perentoriamente si rincorrevano da un telegiornale all’altro, da un bar all’altro, da un salumificio all’altro; il politico di destra che aveva pestato il politico di sinistra, un tentativo di stupro ai danni di una pecora disabile, un accoltellamento in via Dante, nei pressi del civico 14, vicino alla latteria della signora Saveria Tumiati, vedova Ranieri. Lo speaker radiofonico tesseva un mosaico di vicende a dir poco apocalittiche e spettrali, tirando sovente in ballo un certo Osama Bin Laden, un nome che fino a quel momento nessuno dei due ragazzi aveva mai sentito. A quanto pare c’era di mezzo l’Afghanistan. L’Asia. I paesi arabi. C’era di mezzo un credo e forme d’arte diverse da quelle con le quali erano solito ravvedersi. Forse c’era di mezzo perfino Maometto e i musulmani, Allah, il Corano… c’era di mezzo un mare immenso di domande e perché.
“Allora è tutto vero – mugugnò malinconicamente Lisa.
“A quanto pare”.
“Oddio”.
“Dio mi sa che non c’entra niente”.
“Sempre che ci sia un Dio”.
“Appunto”.
“Se succedono queste cose”.
“Appunto”.
Dagli occhi di Lisa per poco non sgorgarono le lacrime. Mentre Germano veniva travolto da un tumulto di pensieri assolutamente lontani da qualunque logica:
“Chissà che cosa staranno facendo in questo momento le universitarie di Kiev… chissà quante di loro avranno in programma di uscire a bere qualcosa stasera…”.
I due giovani, miracolosamente, figurarono protagonisti di un lungometraggio hollywoodiano: l’ambo al quale l’umanità aveva inaspettatamente affidato le sorti del mondo. C’erano dei mostri giganteschi da affrontare, un cielo perennemente buio, venti gelidi e tempeste. Navi affollate di genti che non riuscivano a salpare. Navicelle mastodontiche in partenza verso nuovi e improbabili sistemi solari, stelle che non avevano ancora smesso di ingraziare vita e domani. Rompicapi da risolvere in una manciata di minuti. Passarono le ore come briciole di ricordi; Lisa e Germano soccombettero a sentimenti strani, assolutamente originali e travolgenti; soprattutto una specie di trepidazione soggiogata dall’idea che davvero la Terra potesse saltare in aria da un momento all’altro. Interruppero il vocio della radio. Davanti ai loro occhi – solo ora se ne rendevano conto - troneggiava un enorme cartellone pubblicitario di Calzedonia: sorrideva una bellissima ragazza che Germano diceva di aver incontrato al Factory, una discoteca milanese dove era solito recarsi con gli amici. Quindi i loro sguardi danzarono di nuovo assieme. Quello di Germano era un misto di malinconia e fermento. Quello di Lisa un misto di angoscia e… Lisa percepì di nuovo la morbida e rassicurante mano di Germano. Forse aveva voglia di dargli un bacio. Ma non riusciva a capire il perché. Probabilmente con Andrea era arrivato veramente il momento di darci un taglio.
“Bin Laden? – bofonchiò Lisa.
“Bin Laden – cincischiò Germano.
“Un pazzo”.
“Come minimo”.
“Un nuovo Hitler”.
“Hitler?”.
“Adolf Hitler”.
Il cellulare di Lisa prese a strillare di nuovo. Era ancora Andrea. Ma questa volta la ragazza scelse di non dargli soddisfazione. Il suo fidanzato – adesso lo aveva bene chiaro in testa - non faceva più per lei.
“Germano…”.
“Che c’è?”.
“Ti va di darmi un bacio?”.
“Scusa?”.
Germano fissò la sua interlocutrice con la faccia di chi ha appena scoperto di aver vinto la lotteria, ma di aver gettato via il biglietto: quattro enormi herpes erano sbocciati in quei giorni sulle sue labbra, e adesso anche solo l’idea di baciarsi l’unghia del mignolo gli pareva verosimile tanto quanto l’ipotesi di volare su Marte con un carro trainato dai buoi. Lisa si convinse quasi divertita dello scempio di bollicine di origine virale che campeggiava sul volto del compagno di studi ed emise un gemito:
“Scusa, non c’avevo fatto caso”.
Si avvicinò a Germano, gli diede un calorosissimo bacio sulla guancia, e corse a prendere il treno.
Il ragazzo restò immobile come un palo e guardarla trotterellare verso la stazione, insistendo sulla sua meravigliosa chioma e sulla contagiosa eleganza con la quale si affidava allo starnazzare del vento. Imboccò frastornato la strada di casa pensando a tutto e a niente, guidando nervosamente e a scatti. Al semaforo di via Palmanova recuperò una delle tante cassette che custodiva nello zaino, lasciando che Hallelujah di Leonard Cohen deflagrasse l’aere dell’abitacolo in cui risiedeva. Alzò il volume al massimo: stranamente aveva voglia di pregare e forse, questo, era l’unico sistema a lui noto per farlo.
(Pubblicato sulla rivista letteraria Prospektiva)
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