mercoledì 3 marzo 2010

Brianza Borderline: "Jeff Tweedy, destinazione Leoncavallo"

Wild night dall’album Tupelo Honey di Van the Man era partita da poco come un razzo ed io ero lì che me la spassavo fingendo di impugnare una chitarra elettrica e di esibirmi davanti a qualche migliaio di persone. Era un gioco che facevo spesso, tanto spesso che, probabilmente, chissà in quanti mi avevano colto sul fatto; mi avevano sorpreso quindi, di nascosto, senza un briciolo di pudore, tutto preso da uno strumento superlativo, eccentrico, voluttuoso, eppure assolutamente virtuale, azione che verosimilmente viene assai bene solo a chi ha seri problemi neurologici o psichiatrici. I musicisti con i quali mi accompagnavo in queste biasimevoli e metafisiche orge musicali avevano i nomi più o meno disparati e più o meno noti: c’erano per esempio giganti come Jimi Hendrix, B.B. King, Keith Richards, ma anche personaggi più in ombra, come Graham Parker, Steve Wynn e perfino il Woody Guthrie di This machine kill fascist. La qualità delle performance non era sempre la stessa, ma variava in base ai decibel e alle melodie. Se le casse gracchiavano a volume troppo basso, o le successioni di note ricordavano troppo da vicino nenie mortali alla Gatto Panceri o Biagio Antonacci, non c’era alcun modo di vedermi piegare in due per un assolo fantasmagorico, digrignare i denti e mordicchiarmi le labbra; al contrario l’esibizione era delle più fenomenali quando il caos era davvero infernale o quando a fendere l’aere della stanza di turno che mi accoglieva tra le sue calde braccia, erano capolavori assoluti tipo… Honky Tonk Woman. Che fosse l’uno o l’altro caso, comunque, non c’era affatto distinzione relativamente alle manifestazioni di affetto elargite con così tanto pathos dai cosiddetti miei amici, che magari, da chissà quanto tempo, per l’ennesima volta, si ritrovavano, a mia totale insaputa, a osservarmi furtivi e infami dallo spioncino della porta.
“Ma lo sai che sei veramente fico? Ma lo sei che sei dannatamente cool? – e giù a ridere come pazzi. E io che diventavo rosso come un peperone e me la facevo sotto dalla vergogna.
Le cose, per fortuna, andavano decisamente meglio quando era invece qualche mio familiare a cogliermi nel pieno di un improvvisato spettacolo da me inscenato. In tal caso il commento che ne seguiva, per esempio “dai Jimi, muoviti che è pronto”, oppure “dai Woody che c’è di là Dave Van Ronk che ti aspetta in compagnia di Pete Seeger” infieriva solo marginalmente sul mio orgoglio, sul mio status sociale. Tuttavia, in questa particolare occasione, ero tranquillo, poiché conscio del fatto che non ci fosse nessuno nei paraggi, nessun figlio di cane appostato come un capo Sioux dietro a qualche inviolato pertugio, pronto a sbellicarsi dalle risate alle mie spalle: ero in casa da solo, i miei amici erano quasi tutti in vacanza, e mi trovavo in una posizione praticamente inespugnabile dal punto di vista visivo.
In realtà Van the Man era solo uno fra i tanti nomignoli con i quali veniva tirato in ballo l’autore irlandese. Molti usavano altri vezzeggiativi tipo: ciccione, beone, scorbutico del cazzo. Che lo si chiamasse in un modo o nell’altro per me aveva comunque scarsa importanza. Ciò che consideravo veramente era potermi quasi sempre confrontare con lui in qualità di amico, confidente, padre spirituale. Non saprei dire le volte che ce l’eravamo vista assieme lungo i viali grigi e nebbiosi della Brianza, d’inverno, mentre mi recavo a prendere il pullman per andare a scuola; le volte in cui ci eravamo presi sottobraccio in vacanza, come due checche, d’estate, mentre sbracato a prendere il sole contemplavo le navi punteggiare con le loro bianche vele l’orizzonte. Ma l’apoteosi del nostro straordinario e sostanzialmente unidirezionale rapporto coincise con le due volte in cui mi capitò di vederlo dal vivo, in carne ed ossa, con in braccio il sax prima e la chitarra poi. Fu, in particolare, l’esperienza del 1991, al Palatrussardi di Milano - in cartellone, Van Morrison di spalla a Bob Dylan – che ricordo come fosse ieri.
Dylan si trovava in Italia per la terza volta dopo la toccata e fuga di Roma del ’62, sconosciutissimo menestrello autore di una certa Blowin in the wind, in piena crisi post-Suzie Rotolo e Verona dell’84. Non si sa come ma il suo entourage aveva pensato di affiancarlo non a un supporter qualunque, bensì a un gigante della discografia mondiale, appunto Van the Man. Era una sera in cui ci avevo dato dentro pesantemente con l’alcool, come accadeva quasi sempre in occasione dei concerti; anche se, per il sottoscritto, darci dentro, non significava quasi mai andare oltre il paio di birre: dosaggio, comunque, più che sufficiente a farmi vedere gli asini volare. Si era in piena estate e faceva un caldo dell’anima. All’interno del Palatrussardi mancava l’aria e il fumo delle sigarette (e dell’hashish) aveva praticamente deflagrato tutto l’ossigeno che avevamo a disposizione. Eppure simili disagi non interferirono minimamente con il mio selfcontrol. Ero troppo felice. A parte l’alcool che beatamente cominciava a farsi strada fra i meandri del mio apparato cardiovascolare e a mandarmi piacevolmente in tilt il cervello, era un periodo in cui ero innamoratissimo: da poco mi ero infatti fidanzato con Melissa, praticamente la mia prima moglie. Il cowboy di Belfast ci deliziò con brani vecchi e nuovi del suo traboccante repertorio; e fu una festa di quelle che nella vita – penso seriamente - possono ripetersi solo rarissime volte. Non fece la mia canzone preferita, And it stoned me, tuttavia mi lasciò entusiasta e al settimo cielo come può essere solo un bambino la mattina di Natale dopo aver trovato sotto l’albero l’ultimo modello di playstation. Fuori dal Palatrussardi mi misi a correre come un folle in mezzo al prato e a urlare a squarciagola G.L.O.R.I.A. A petto nudo mi sdraiai in mezzo all’erba, lasciandomi travolgere dal clamore delle stelle.
L’afoso pomeriggio di Wild night era da poco che Erica mi aveva lasciato solo. Fra noi le cose erano andate meravigliosamente bene. Stare con lei mi piaceva parecchio, e anche se aveva un po’ di anni in meno di me, iniziavo seriamente a pensare che sarebbe potuta diventare la donna della mia vita: ormai, per fortuna o purtroppo, Melissa era un ricordo lontano. Non era comunque solo il suo aspetto fisico a sbalordire i miei sensi; i suoi occhi profondi come la notte e il sorriso splendente più di un plenilunio. Era soprattutto la sua anima; un’anima incredibilmente dolce, sopraffina, lungimirante, come non ne avevo mai incontrate. Un’eterea e imprecisata dimensione umana che profondeva letteralmente nella mia: un po’ come accade quando si osserva un bel tramonto, o l’orizzonte del mare e se Dio ci assiste, si ha come l’impressione di squagliarsi in essi. Dunque non era obbligatoriamente necessario lasciarsi andare a chissà quali posizioni da kamasutra avanzato per poter godere appieno della sensazione di vederci trasformare vicendevolmente in una sola entità, come qualcuno potrebbe giustamente presupporre. A soddisfare una esigenza del genere infatti poteva bastare anche qualcosa di molto meno chiassoso: un fortuito incontro all’Aldo Moro, una battaglia a palle di neve, una corsa tra i vivai del principe Trivulzio, un giro in bicicletta lungo il serpentone di polvere e asfalto che scivola fino a cascina Offellera o – guarda caso – proprio un pomeriggio come quello che ci eravamo appena lasciati alle spalle, prima ch’io mi mettessi a scimmiottare Van Morrison. Insieme avevamo ascoltato dei vecchi vinili di Elton John, Goodbye, yellow brick road e Madman across the water su tutti. Dischi che – sapevo benissimo - i veri intenditori di musica – tra i quali annoveravo immodestamente anche me stesso - disdegnavano, ma che sul sottoscritto da sempre esercitavano un certo fascino: ricordo comunque che il signor Taupin, autore dei testi del pianista inglese, è stato, e lo è tuttora, un grande estimatore di dischi come Music from Big Pink, non proprio un prodotto discografico all’acqua di rose. Ero poi perfettamente memore del fatto che alle esponenti del gentil sesso, specialmente se in tenera età e/o in fase di innamoramento, piacevano oltremisura questi lavori; e una simile considerazione era da tener assolutamente presente se si voleva concludere davvero qualcosa di buono con la sgarzolina di turno.
“Bella questa”.
“Ma dai! Vuoi mettere con Tiny dancer?”.
“Tiny dancer… va beh, ma…”.
“Ma?”.
“Goodbye yellow brick road rimane comunque la migliore”.
“Tu dici?”.
“Tu che dici?”.
Picci, pucci.
Picci, pucci e poi… incredibile a dirsi, finimmo col disquisire sul magico, atavico, antropologico, significato delle mestruazioni. E di conseguenza con tutto ciò che, da un punto di vista prettamente teologico, quindi religioso, cattolico-cristiano, con esso ha a che vedere. La principale domanda che ci ponemmo fu la seguente: cosa c’entra Dio con il rosso sangue che spurga dall’organo genitale femminile, seguendo la danza ciclica della luna intorno al cielo? Domanda bizzarra, bislacca; senza dubbio lontanissima da quelle che – per fare uno stupido esempio - venivano tradizionalmente battute all’asta dal Quirico parrucchiere, mentre si aspettava di vedere il proprio scalpo soccombere alle sferzate di una lama impietosa e non c’erano più pagine rosa della Gazzetta da sfogliare. Sottolineiamo: il tema mestruazioni, da queste parti, fa ancora una dannata paura a molte persone; c’è dunque ancora un infinità di soggetti convinti che una donna che ha le sue cose sia davvero da considerarsi alla stregua di un animale impuro; un immondo, un figlio del peccato e della concupiscenza tanto cara a sant’Agostino. Io e la mia giovane concubina ce ne stavamo pacificamente accucciati, fianco a fianco, sul divano della sala e cominciavamo ad abbandonarci alla felice idea di vivere un pomeriggio – come minimo - da consegnare ai posteri. La chimica dei nostri corpi sfavillava. Erica baciava benissimo, ed io, nel mio piccolo - seppure lontano da qualunque pretesa di mostrarmi un amante consumato - cercavo di fare del mio meglio per tenerle il passo. Il mio braccio destro avvinghiato intorno alla sua vita svolazzava disinvoltamente di qua e di là; il suo braccio sinistro appoggiato in qualche modo al mio collo, scivolava allegramente su e giù. Con la coda dell’occhio - a intervalli più o meno regolari - coglievo intanto i raggi del sole infliggere il loro calore agli oggetti di rame situati sulla mensola del camino, gran parte dei quali recuperati nei mercatini d’antiquariato, tanto cari ai miei: una specie di padella nella quale conservavamo i fiammiferi per accendere il fuoco, quando mio padre diceva che faceva abbastanza freddo per avvamparlo, quindi mai; un gigantesco imbuto che non serviva a nulla, se non a reggere un paio di libri del Touring Club, testi che leggeva solo mio nonno le rarissime volte che bazzicava dalle nostre parti.
Levon da Madman across the water – il disco a tal punto girava a rotazione, senza più dipendere dai nostri spregiudicati stop & play, rewind & forward – si era eclissata da pochi secondi. Così come non era da molto che l’inquilino del piano di sopra aveva sollevato le sue voluminose chiappe dall’asse del water: sospettai ciò dal remoto, eppure tenace, rumore dell’acqua di scarico, tenuto conto del fatto che, gli esili muri dell’appartamento nel quale abitavo con i miei, non facevano granché per proteggere l’intimità del vicinato; non solo, come in questo caso, forse, l’epilogo di una tragica abbuffata, ma anche, per esempio, le conseguenze di un aspro battibecco, lo sconquasso dei decibel sprigionati da una new entry dei Sepoltura, gli ansimi derivanti da una performance sessuale particolarmente esagitata. All’improvviso – per chissà quale inspiegabile e contorto meccanismo che governa la ragione umana - sebbene non sia difficile supporre che ci fosse di mezzo, perlomeno a livello inconscio, molto più banalmente la mia verace intenzione di girare sottosopra una volta per tutte la mia partner – si fece largo nel mio cervello un ricordo. Parlo di quella volta in cui mia nonna materna ammonì mia cugina nel pieno del ciclo - forse per la prima o seconda volta nella sua carriera di donna fertile o presunta tale - per aver toccato un vaso di sansevieria, con le aspidistre e i cespugli di aucuba, fra le piante più gettonate di villa Schira.
Le disse:
“Non toccare le piante che altrimenti muoiono!”.
“Questa è bella – pensai -. E perché muoiono?” – domandai a nonna, mentre mia cugina sgomenta, e senza battere ciglio, ritraeva le sue manine dal rigoglioso vegetale.
“Te non ti impicciare e vai a piantare le melanzane con il nonno”.
Sicché arrivai alla risoluzione del giallo per conto mio, un anonimo pomeriggio di tardo aprile, che erano da poco finite le vacanze di Pasqua e la tiepidità dell’aria ormai non era più la sola e unica dimostrazione che la bella stagione era davvero alle porte; si rincorrevano già da un po’ di giorni le rondini, gli alberi avevano cominciato a riempirsi di tante foglioline luccicanti e i fiori selvatici come le veroniche, le celidonie e le fumarie a diffondere i loro pollini per le strade. Mi trovavo in cantina dove spesso andavo a scartabellare pile di ricordi - soprattutto nei momenti in cui non avevo nessuna voglia di piegare il capo sui libri - quando, accidentalmente, mi capitò tra le mani un tomo impolverato riportante l’elenco delle disposizioni impartite dal Codice di Diritto Canonico del 1917. Mi domandai, allibito, da che parte fosse saltato fuori un testo simile – a dir poco criptico, enigmatico, vetusto – ma non seppi proprio azzardare una risposta convincente. Non lo avevo mai visto in vita mia. Peraltro mi pareva assai strano che qualche mio famigliare potesse averlo acquistato. Non che da noi si leggessero solo riviste sfrontatamente easy tipo Quattroruote o Novella 2000, ma per la miseria, ogni cosa doveva avere pure un suo limite. Forse, quel libro, era semplicemente il risultato di una recente vincita alla pesca dell’oratorio o di qualche regalo malriuscito, riflettei. D’ogni modo sfogliai le sue pagine con vivo interesse. Lessi, lessi… finché non lessi ciò che non avrei mai voluto leggere. C’era riportato un ordine tassativo imposto dalla chiesa, secondo il quale le donne non potevano distribuire la comunione, servir messa e predicare. All’improvviso capii. Intuii ciò che si celava dietro alla tremenda ammonizione operata da nonna nei confronti di mia cugina. Compresi che c’era di mezzo la Bibbia e in particolare alcuni passaggi del Levitino. E fu proprio nel rispettabilissimo libro biblico che trovai infine la soluzione a tutti i miei arzigogolati e insormontabili dubbi di adolescente alla giovane Holden.
La donna che al ricorso mensile ha il suo flusso di sangue, sarà segregata per sette giorni. Chiunque la toccherà sarà impuro sino a sera. E ciò su cui essa abbia dormito o si sia seduta nei giorni di quella sua segregazione, sarà impuro. Chi toccherà il suo letto si laverà le vesti e la persona con acqua, e sarà impuro sino a sera. Chiunque toccherà una cosa qualsiasi sulla quale essa si sia seduta, si laverà le vesti e la persona con acqua, e sarà impuro fino a sera. Se un uomo si sarà congiunto con lei nel tempo del suo flusso mensile, sarà impuro per sette giorni, ed ogni letto ove dormirà diverrà impuro. La donna che fuori del ricorso mensile abbia per più giorni perdite di sangue, o alla quale il sangue non cessi dopo il detto ricorso, sarà impura per la durata di tale incomodo, come durante il flusso mensile. Ogni letto ove avrà dormito, come ogni oggetto sul quale si sarà seduta, sarà impuro. Chiunque la toccherà si laverà le vesti e la persona con acqua, e sarà impuro sino a sera. Se il sangue si fermerà, e cesserà di fluire, essa conterà sette giorni dalla sua guarigione. Il giorno ottavo, offrirà per sé al sacerdote due tortore o due colombine, all’ingresso del tabernacolo della testimonianza. Il sacerdote ne sacrificherà una per il peccato, e l’altra in olocausto. E pregherà innanzi al Signore per lei e per la sua purificazione.
E con ciò si spiega anche il motivo per cui in seguito mi ci vollero almeno sei mesi prima di trovare di nuovo il coraggio di riavvicinarmi a mia cugina; alla sua cadenza varesina; alle sue teorie sulla verginità; ai suoi sproloqui sulle amiche della piscina che s’era messa in testa di mandare definitivamente a quel paese perché sapevamo di bigottismo lontane un miglio; a questa poveretta che, finché non si confidò con un’altra anima che, come lei - pur senza averne fatto esplicita richiesta, godeva inspiegabilmente della capacità di rincretinire le piante praticamente con il pensiero – credette di essere una specie di lebbrosa.
Ma torniamo a noi - al pomeriggio trascorso con Erica… Rimasto solo, chiusa Wild night capitolarono in successione Like a Cannonball e Old old Woodstock: la mia chitarra virtuale ancora superbamente salda tra le mie braccia; le labbra della mia dolce conquista ancora vividamente impresse nella mia mente. Udii il citofono squillare. Il risultato del pigio di un indice che istintivamente – dato l’eccezionale impeto che l’accompagnò - assimilai all’azione di un pachiderma seriamente indisposto. Mi dissi:
“Chi è lo scassa palle di turno che viene a disturbarmi proprio in questo momento?”.
Era Nicola (non tutti i miei amici erano in vacanza). Boccheggiava. Mi venne in mente Michael Duane Johnson, campione di atletica texano, al termine della sua specialità preferita.
“Ciao”.
“Ciao”
“Che fai stasera?”.
“Nulla in programma”.
“Ho io qualcosa che fa al caso nostro”.
“Spara”.
“La festa della raccolta”.
“Raccolta di che?”.
“Marijuana”.
“Hai prenotato un volo per la Giamaica?”.
“Andiamo al Leo”.
“Leoncavallo?”.
“Centro”.
“Che c’è di bello al Leoncavallo?”.
“Te l’ho detto, la festa della raccolta”.
“E allora?”.
“Magari si fuma gratis”.
“Tutto qui?”.
“E ci saranno un sacco di gnocche”.
“Mi stai tentando”.
“Alle nove?”.
“Così presto?”.
“Devi lavare i piatti?”.
“Può darsi”.
“Ok, alle nove”.
“Va bene ciao”.
Ore nove: di Nicola nemmeno l’ombra. Ore nove e trenta: di Nicola nemmeno la penombra. Sicché il giovane saltimbanco fu dalle mie parti molto più tardi di quanto avevamo concordato: saranno state sì e no le dieci di sera. Con lui c’era anche Davide. I due ragazzi cavalcavano la macchina del secondo, una Polo di vecchia data, insudiciata da anni di incuria, adesivi, sciabolate di Uniposca e vacanze on the road. Io ero dunque il terzo della comitiva, e ora all’appello mancava solo Panda, altro importante satellite della galassia giovanile brianzola a cavallo fra il Ventesimo e il Ventunesimo secolo. In realtà il suo nome era Emanuele. Fu Nicola ad affibbiargli quel nomignolo, ma non in senso dispregiativo. Era per via del suo aspetto – specialmente per il taglio di capelli il cui limite anteriore disegnava una specie di coroncina sulla fronte – in qualche modo riconducibile al simpatico e caratteristico fissipede himalaiano. Panda ci aspettava a Vimercate. Il ragazzo era da poco rientrato da una lezione di ballo: a dire il vero, più che imparare astrusi passi in quattro quarti e tre quarti, il suo interesse era quello di rimorchiare la affascinante insegnante, una donna di mezza età, indubbiamente attraente e con alle spalle un paio di divorzi. Percorremmo il gap stradale che separa Agrate da Vimercate in men che non si dica: Cascina Morosina, Esselunga, Piazza Marconi, e in breve fummo nei pressi della casa di Panda. Individuammo la sua sagoma inconfondibile sul ciglio della strada, di fronte all’ingresso principale dell’abitazione nella quale viveva con i suoi: una dimora risalente ai primi del Novecento, con i muri deteriorati dalle intemperie e le persiane di un verde emaciato. Panda era parzialmente nascosto dall’ombra di un cedro del libano di maestosa imponenza e, tanto per cambiare, era alle prese con uno spinello.
“Buonasera mister – fece Davide.
“Buonanotte – rispose Panda.
“Sei di malumore?”.
“Non vedi che sto facendo su?”.
“E allora?”.
“Qualcuno potrebbe sentirci”.
Davide fotografò velocemente il paesaggio intorno a sé, poi disse:
“Ma se non c’è in giro un cane?!”.
“Certe persone sanno non farsi vedere”.
“Almeno sali in macchina”.
“Prima fammi finire”.
“Ti vuoi muovere? – intervenne Nicola.
“Oh, ma si può sapere cos’è tutta sta premura?”.
Non conoscendo più di tanto Panda evitai di intervenire. Mi limitai a osservare la scena: il giovane sembrava un partigiano dell’ultima ora, un very strong alla Fenoglio. Vestiva un paio di pantaloni larghi e sgualciti, un soprabito abbondante e sghimbescio, pieno di tasche e taschini, toppe e spille. Un berretto gli calava sulla fronte infastidendogli la visuale. Calzava un paio di scarponi da montagna dell’anteguerra mezzi slacciati e consumati. Aveva le mani infarcite di hashish e tabacco. Il viso trasformato da ridicole espressioni, la pelle della fronte increspata. Era in sostanza il riassunto della sana incapacità, tipica del genere maschile, di compiere più cose assieme; l’esasperazione della difficoltà con cui il ragazzo cercò di gestire la nostra esuberanza, la mobilità delle sue dita, e chissà quanti pensieri filopatologici che quasi sicuramente – stando al tipo che era - stavano prendendo d’assalto la sua vibrante e incandescente massa neuronale.
“Certo che abbiamo premura, ci sono un sacco di ragazze che ci aspettano! – reclamò Nicola, con una punta di ironia.
“Che aspettano te, magari…”.
“Appunto”.
Controvoglia il fissipide salì in macchina. Si accomodò sul sedile retrostante e iniziò a borbottare:
“Non capite un accidenti”.
“Scusa? – gli domandò Davide.
“Vi pare possibile rollare in macchina?”.
“Oddio e adesso?”.
“Se accendo la canna e poi le caccole vanno da tutte le parti non prendetevela con me…”.
E fu così che finalmente, dopo tanto tergiversare, partimmo alla volta del Leoncavallo.
La notte era già scesa da un po’, le tenebre oscuravano i campi, qualche stella luccicava dall’altra parte del mondo; del traffico della sera, ormai, si era persa ogni traccia. Qua e là brillavano le luci di sporadiche e scialbe insegne commerciali e dei sempiterni lampioni che, con le loro velleitarie fisionomie, le loro altezze paradossali, fiancheggiavano le carreggiate. Da alcuni palazzi in lontananza si aprivano finestre di sole. La prova che gli abitanti della nostra amata e odiata regione non erano ancora soccombiti a un’ondata di peste o allo straripamento del Molgora! Viaggiavamo sullo stradone di Vimercate che si snoda all’altezza del gommauto Tagliabue, dove ero solito recarmi con mio padre – periodicamente - per sostituire i pneumatici della mia disastrata Renault 14: da una parte si va a Trezzo, dall’altra a Monza. Si respirava una magica e innaturale atmosfera. Ciò accadeva soprattutto di notte o quando faceva molto freddo, entrambe circostanze in cui il brianzolo medio, senza dubbio, preferisce starsene tranquillamente in casa con le gambe sollevate a vedere la tv o a farsi massaggiare la schiena dalla geisha di turno. E dunque era proprio all’interno di simili cornici onirico-paesaggistiche che riuscivamo come non mai a sentirci noi i soli e unici padroni di questa meravigliosa, seppur spietata, giungla di nebbia e asfalto, trippa e casolari di campagna derelitti, imbrattati di anni e argilla.
Sulla macchina di Davide andava un nastro degli Uncle Tupelo, band amata soprattutto da Nicola e dal sottoscritto. Con essi ascoltavamo anche Jayhawks, Palace Brothers, Sparklehorse. L’autista era invece di un’altra parrocchia. Lui adorava infatti gente tipo Ride, Charlatans, Soup Dragons, che con l’alternative country non avevano niente a che spartire. Costoro rappresentavano l’esercito precursore del famigerato Brit–pop, in voga a partire dai primi Novanta e che in un botto stravolse l’intera galassia discografica con Damon Albarn, Graham Coxon e gli arroganti e burbanzosi fratelli Gallagher, colonne portanti della smidollata Mtv generation. Di Panda non rammento quali fossero i suoi gusti musicali, sebbene una volta, davanti all’ennesima serata alcolica al Dizzy di Oreno - la maggior parte dei clienti si era ormai inesorabilmente dissolta oltre la perenne coltre di fumo che, poeticamente, contraddistingueva il locale - mi rivelò che Amedeo Minghi, Riccardo Fogli, e forse addirittura Garth Brooks! tutto sommato non gli dispiacevano.
Il finestrino destro davanti era completamente abbassato e dalle mie parti soffiavano venti siderali. Panda – seduto al mio fianco - non proferiva parola: probabilmente la droga doveva aver avuto su di lui effetto ben prima del previsto e ora non sarebbe più stato nemmeno in grado di distinguere una brezza forza 2 da una tromba d’aria. Dunque toccò al sottoscritto – suo malgrado ancora nel pieno delle facoltà mentali, lucido non meno di un Yuri Gagarin pronto a decollare di nuovo dal cosmodromo di Baikonur all’interno dell’astronave Vostok 1 per la prima missione umana nello spazio – farsi avanti per tamponare la situazione e non correre quindi il rischio di arrivare al Leoncavallo con il collo tramortito.
“Scusa Nico, potresti tirare su un po’ il finestrino per favore? Qua dietro si gela”.
Il ragazzo si voltò di scatto con gli occhi spalancati, le palpebre arrossate, la fronte crucciata, le labbra rattrappite; il tipico atteggiamento di chi - verosimilmente con le meningi già da lustri in subbuglio - è intenzionato a mandare malamente a quel paese qualcuno:
“Ti sembra una domanda sensata?”.
“Qui si muore dal freddo”.
“Secondo me non ti senti bene”.
“Mi sento benissimo. Dai alza il finestrino”.
“Quanto la fai lunga”.
“Bravo”.
Grigioverdi della Brianza, pallore della tangenziale est, luccichii dell’autogrill, semafori gialli, rossi e verdi di piazzale Loreto, e in mezz’oretta di Polo fummo dalle parti del Leoncavallo. Lo capimmo per via della lunga serie di murales che cominciarono a fare capolino tra un anfratto di muro e l’altro, tra un ponte e l’altro, tra un buio e minaccioso sfondo di un qualche sinistro deposito ferroviario e l’altro. La parete di una casa - risalente probabilmente a prima della guerra – ché quasi tutti a prima del periodo bellico risalgono certi caratteristici edifici meneghini realizzati in stile Liberty, pre-Razionalismo degli anni Venti e Quaranta, contrassegnati da vistose decorazioni e volumetrie volutamente asimmetriche delle facciate, ci raccontava la professoressa di artistica alle medie – riproduceva grossolanamente un mezzo busto di Jimi Hendrix. Vicino alla chitarra infuocata del ricciuto musicista di Seattle potemmo leggere, seppur corrosa dalle intemperie, la scritta Craxi–Berlusconi, la faccia e il culo. Un involuto componimento poetico che, per la verità, avevamo già intravisto da qualche parte, forse al Bloom di Mezzago o all’Area di Carugate, in mezzo ad altri inneggianti alla Brianza–alcolica e alla lotta al proibizionismo. Parcheggiammo la Polo a poca distanza dall’ingresso del centro sociale, qualche centimetro prima dell’inizio delle strisce pedonali di una via a senso unico, praticamente appoggiata a quella dove sorgeva il covo dei potenziali disobbedienti. Giù dal sciancato mezzo verde pisello di Davide ci dirigemmo all’entrata del Leoncavallo.
Marco e Silvia ci stavano aspettando. Li scorgemmo appoggiati al muro del Leo. Non sapevo che ci fossero anche loro. In macchina non ne avevamo parlato. Perciò desunsi che, Nicola o Davide, dovevano aver preso accordi con essi prima di partire e di passare da me e Panda. Silvia aveva la sua solita aria giocosa e felice. Indossava una camicia verde militare, una minigonna piena di curiosi disegni, gli anfibi; sopra il sopracciglio destro luccicava un piercing che non avevo mai notato prima. Marco sembrava più accigliato. Con un giubbetto di renna, un paio di jeans slavati, un paio di scarpe da ginnastica di una marca sconosciuta, rispondeva ai gioielli della ragazza con il solito paio di orecchini voluminosi. I due - avremmo saputo più tardi – si erano appena congedati dalla loro prima notte insieme: tentennavano in questo senso più che altro per colpa di lei, perennemente in bilico tra il concedersi definitivamente o meno a un ragazzo che, per via della sua scarsa determinazione nell’affrontare le cose, un giorno la convinceva e un giorno no. Entrambi avevano la pelle del viso assai rilassata e gli occhi leggermente gonfi. Probabilmente avevano dormito a lungo durante il pomeriggio. Quando fummo al loro cospetto, stavano ancora blaterando a proposito di un viaggio che aveva appena affrontato un amico di Silvia a cavallo, in Sardegna: dalle rocce di Arbatax, agli stagni di Cabras, 350 chilometri di natura selvaggia comprendenti tappe presso il Lago di Flumentosa, il Passo del Gennargentu e Santu Lussurgiu.
“Un giorno lo farò anch’io questo viaggio - diceva la ragazza, non a caso sarda da parte di madre -. Deve essere fantastico poter seguire a cavallo le tracce di antichi pastori; in una terra dove sopravvivono tradizioni millenarie, vivono piante e animali sconosciuti in altre parti d’Italia, e tutti ti capiscono se dici femina risulana, o est macca o est vana (donna che ride sempre, o è pazza o è vanitosa) o muzere bella, maridu corrudu (moglie bella, marito cornuto). E dove è possibile imbattersi nei nuraghi, insediamenti che risalgono all’Età del Bronzo: presente quelle costruzioni preistoriche di forma tronco-conica?”.
“Boh”.
“Magari potresti accompagnarmi”.
“Figurati”.
“Perché figurati?”.
“Con la testa che ti ritrovi è già tanto se domani ti ricordi ancora che esisto”.
“Vittima della società”.
Dopo i tradizionali convenevoli – come va, come non va, sai che sono finalmente uscito con quella lì, che sono andato a mangiare la pizza con quella là, che mi hanno bocciato all’esame di fisiologia, che in media l’uomo fa l’amore 72 volte all’anno, che in media un uomo in tutta la sua vita produce circa 60 litri di liquido seminale (più o meno il pieno di una Golf), che fino a oggi sono vissute sulla Terra complessivamente 30 miliardi di persone, che Mars Express forse troverà l’acqua su Marte – tutti insieme gaiamente, disinvoltamente e spensieratamente, varcammo l’uscio del civico 7 di via Watteau.
“Dio mio che macello! – esclamò Davide.
In effetti non avevamo mai visto prima di allora - nel centro sociale più rinomato di Milano – una folla così imponente. Ci colpirono immediatamente dei giovani sdraiati a terra a mo’ di cavie pronte per essere sottoposte a qualche misterioso esperimento. Giacevano in corrispondenza dei bagni, laddove il via vai incessante di barcollanti pendolari con la vescica pronta a saltare in aria, era paragonabile solo alle immagini televisive che illustrano i flussi di traffico automobilistico durante l’esodo estivo. Marco si assentò un attimo per andare a far pipì.
“C’è un orinatoio nel quale galleggia un prodotto di rifiuto solido del metabolismo umano – ci disse ridendo, riguadagnando la strada maestra.
“Hai intenzione di farci vomitare? – ribatté Silvia.
“È quello che ho visto”.
“Potevi tenertelo per te”.
“Qui c’è troppo caos per i miei gusti… perché non cambiamo aria? - disse Panda.
Il Leoncavallo aveva un grosso cortile interno ed è lì che, seguendo la proposta del fissipede, decidemmo di andare a sbattere la testa, rinunciando a priori al salone principale nel quale era in corso un concerto reggae. In quella specie di cavedio extralarge, fra mucchietti di ghiaia e piante avvizzite, c’era chi si era messo a scimmiottare con la chitarra Manu Chao e Bob Marley intorno a un fuoco acceso, drogato dalla suggestione di trovarsi non in un anonimo, insignificante, cenerognolo spazio metropolitano, ma in un vero e proprio accampamento indiano, tra le verdi e amene distese della Pennsylvania; dei giovani bighellonavano apparentemente senza meta; degli altri, come allocchi all’imbrunire, si guardavano intorno con la sigaretta in bocca o una media fra le mani. Un trio di uomini maturi parlottava e delle ragazze molto giovani ridevano sguaiatamente. Infine ci imbattemmo in un signore in là con gli anni dall’aria sconvolta; i capelli lunghi e sudici, gli occhi infossati nelle orbite, un impermeabile demodè con dei fogli di giornale che gli spuntavano disordinatamente dalle tasche. Compiva degli strani gesti con le braccia - come chi ha davanti a sé uno sciame di moscerini da spazzare via - esprimendo la chiara intenzione di volerci comunicare qualcosa:
“Il regno delle tenebre è vicino! – esordì fissandoci uno a uno come un posseduto.
“Eh?! – fece Marco sbigottendo.
“Il regno delle tenebre è vicino!”.
“Bene, grazie”.
“Il regno delle tenebre è vicino! – ripeté con maggiore enfasi.
“Abbiamo capito”.
“Non avete capito un corno”.
“Cosa c’è da capire?”.
“Che il regno delle tenebre è vicino e voi non siete pronti”.
“Pronti per fare?”.
“Per affrontare il giudizio”.
“C’è già mia madre che mi giudica”.
Risa generali.
“Tu scherzi col fuoco”.
“E tu sei fuori come un balcone”.
“Voi finirete per arrostire all’inferno”.
“Tanto l’inferno non esiste”.
“Esiste eccome”.
“E tu che nei sai? – domandò Panda.
“Io ho visto la luce”.
“Come? – intervenne Davide ridacchiando.
L’uomo fece finta di non sentire. Estrasse dalle tasche un foglio di giornale e si soffiò il naso. Quindi riattaccò dicendo:
“Come Samuele”.
“Samuele? – chiese Marco.
“Il Samuele biblico”.
“Io conosco un solo Samuele e suona il basso in un gruppo di Barlassina”.
“Tu continui a scherzare col fuoco, ma non importa. Un giorno mi direte grazie”.
“Grazie? Per cosa? – domandò Panda incuriosito.
“Per avervi avvertito”.
“Di che, scusa?”.
“Della vostra peccaminosità”.
L’anziano signore digrignò i denti e dondolò la testa come chi non ha più speranze.
“Pecca che?! – domandarono all’unisono Panda e Marco, indecisi se ridere o piangere.
“Peccaminosità”.
“Interessante – fece Panda.
“Interessantissimo – riprese Marco.
“E in cosa consisterebbe quindi la nostra peccaminosità? – aggiunse Panda.
“Nella vostra superficialità”.
“Noi non siamo superficiali”.
“Lo siete invece”.
“Non puoi dirlo senza conoscerci”.
“L’umanità intera è superficiale e voi siete parte integrante dell’umanità. L’umanità di oggi arranca, non ha più fegato, non sa più distinguere il vero dal falso, la poesia, il raziocinio, la spiritualità, dall’immondizia sociale”.
“Che paroloni”.
“Parole sante”.
“Ogni uomo è un caso a sé”.
“Apparentemente”.
“Sciocchezze”.
“Cominciate a redimervi prima che sia troppo tardi! Chiedete perdono dei vostri peccati!”.
“Oddio – bofonchiò Panda.
“Non bestemmiare”.
“Ho solo esclamato”.
“Ma si può sapere per cosa dovremmo chiedere perdono? – incalzò Panda.
“Vi dicono niente queste parole? Egoismo, pressappochismo, indifferenza, vanità, invidia, gelosia, arroganza, lussuria, immodestia”.
“Semplici debolezze umane”.
“È troppo comodo”.
“Chiunque pecca in questo senso”.
“Non i santi”.
“Noi infatti non siamo santi”.
“Ma siete cristiani”.
“Cretini è meglio”.
“Fuorilegge”.
“Ragazzi di provincia”.
“Blasfemi”.
“Studenti universitari”.
“Idioti”.
“Giovani dal futuro incerto”.
“Ma da dove salta fuori questo pazzo? – sussurrò Silvia all’orecchio di Nicola.
“Che dice la fanciulla?”.
“Nulla, nulla – fece Silvia imbarazzata.
“Eppure tu non sei come questa manica di mascalzoni”.
Silvia inorridì.
“Che ha lei in più di noi? – chiese Nicola.
“Lei è pura e candida”.
“Anche stanotte è stata pura e candida, non è vero? – commentò Marco ridendo.
“Ma vaffanculo! – fece Silvia.
“Non siate sciocchi. E tu bella giovane non ti fare traviare da questi bellimbusti”.
“Sono i miei amici”.
“Finché va tutto bene”.
“Cosa intendi dire?”.
“Gli amici si vedono nel momento del bisogno, ma al momento del bisogno, chissà perché, non ci sono mai”.
“Lascia che sia io a giudicare”.
“Senti, non ti offendere, ma noi, adesso, ce ne dobbiamo proprio andare – tagliò corto Marco.
“Quando la verità fa male”.
“La verità della tua mente esaltata”.
“La verità delle sacre scritture”.
“Addio”.
L’uomo fece una smorfia assurda e si perse fra la folla.
“Che strazio – disse Silvia.
“Un caso patologico – fece Marco.
“E tu a dargli retta…”.
“Cosa c’è di male a scambiare due parole con un profeta?”.
“Chiamasi profeta un tipo del genere… – sibilò Panda costernato.
Sicché ci abbandonammo unanimemente a un sospiro profondo: faticammo ad ammetterlo ma quell’uomo, in pochi minuti, era davvero riuscito a metterci addosso una certa inquietudine.
Superato il cortile andammo a picchiare il naso contro una costruzione dimessa, quattro muri in bilico su se stessi, piegati dall’incuria e dall’umidità, addobbati di manifesti di gruppi musicali e slogan politici. Su uno di essi risaltava la faccia paffutella e barbuta di Karl Marx. A fianco si leggeva: il Capitale di Karl Marx per una nuova rivoluzione industriale, per il potere nelle mani dell’operaio. Avevo da poco finito di leggere la biografia di Marx - scritta da Francis Wheen, noto giornalista britannico – e dunque mi eclissai ripensando a uno dei passaggi più commoventi del libro: il momento in cui l’irsuto filosofo ed economista originario di Treveri se ne andò al Creatore, il freddo e ventoso pomeriggio del 14 marzo 1883. Pensai inoltre a quanto fosse stato strano che al suo funerale vi andarono solo 11 persone; un così misero numero di anime per colui che dopo Gesù Cristo nessun altro oscuro personaggio vissuto in povertà ha mai ispirato una tale devozione universale, né è mai stato tanto disastrosamente frainteso.
“A cosa stai pensando? – mi fece all’improvviso Davide.
“Nulla di importante”.
“Sembri assorto”.
“Mi sono imbambolato davanti a Marx”.
“Il tuo amico Marx”.
“Amico…”.
“Hai sempre avuto un debole per lui, o no?”.
“In effetti mi ha sempre affascinato”.
“Da vero comunista”.
“Dai vero comunista… entriamo”.
Trovammo ad accoglierci un gruzzolo di giovani, epigoni tenaci dell’intramontabile trinomio pelo incolto, maglioni di lana grezza fiera di Senigallia e anarchia. Stavano parlottando del gay–pride, che a Roma aveva recentemente coinvolto più di 200mila persone e della consegna delle chiavi d’oro della città di Jesolo, in segno di amicizia e apertura verso la Carinzia, a Joerg Haider, leader ultranazionalista austriaco. I giovani facevano comunella a ridosso del bancone del bar. Dalla altra parte della stanza, su un palchetto, un pusillanime duo di mezza età si stava invece cimentando con Milano e Vincenzo, celebre canzone del 1979 in cui Alberto Fortis se la prendeva con il discografico Vincenzo Micocci reo, forse, di non averlo preso in considerazione abbastanza. Brano che, peraltro, finì col segnare la mia infanzia: con le parole Vincenzo io ti ammazzerò credevo infatti che il cantante volesse ammazzare un mio amico delle elementari che di cognome faceva Di Vincenzo.
Il vocalist più che cantare mugugnava, con gli occhi bassi e inespressivi, e un ciuffo di capelli che gli rimetteva in discussione il volto e lo proteggeva dal severo sguardo dei presenti. Indossava un soprabito nero e un paio di pantaloni scuri in pelle. L’altro sembrava un po’ più disinvolto, ma anche lui dava l’impressione di reggere a fatica il confronto diretto con il pubblico. Più che a qualche celebre cantante–cantautore dello Stivale, trovavo che assomigliasse a un attore, a Philip Seymour Hoffman, il Lester Banks, recensore di musica rock, del film Almost Famous. Ben messo, con quell’aria perennemente stropicciata, ma con una grande voglia di aprirsi un varco nel cielo a suon di riff alla Keith Richards, cercava in tutti i modi di fare del suo meglio, ma è il caso di dirlo, mordendo con eccessivo accanimento il manico della sei corde, erano molte di più le volte che anziché dar vita a un suono graziato, ricavava una melodia acidula e stridente. Preso da bere andammo a sederci sul primo tavolo situato appena superato l’ingresso sulla sinistra.
“Non male questa birra – dissi.
“Fa schifo – sentenziò Nicola.
“Sembra piscia – commentò Panda.
“Bevete e non fate i difficili – arguì Marco.
“Appunto – precisò Silvia.
“Alla salute! – mormorai.
“Alla nostra! – facemmo in coro sollevando i calici.
La nena del Salvador, La sedia di Lillà e Settembre, sempre di Fortis, più altri brani celebri stile compagni il gioco si fa peso e tetro comprate il mio di dietro lo vendo per poco, si accavallarono l’un l’altro, mentre Panda e Nicola confezionavano, con accortezza maniacale, canne a ripetizione. Pronte le prime bombe - solidarizzate da scambi di battute superflue - Marco e Silvia diedero il via alle danze, lasciando al sottoscritto e a Davide il piacere di introdurre un lungo e paradossale discorso avente come tema “l’atipico decentramento urbanistico della chiesa sant’Eusebio ad Agrate Brianza”.
“È davvero strano – commentò Davide eccitato.
“Dunque sei d’accordo? – gli domandai.
“In effetti non ci avevo mai pensato”.
“Pensato a cosa? – intervenne Nicola con gli occhi semichiusi e la bocca semiaperta.
“Al fatto che tutte le chiese parrocchiali brianzole sorgano lungo il tragitto della più vecchia via del paese – rispose Davide, ripetendo in pratica ciò che gli avevo appena confidato.
“E allora?”.
“La cosa strana è che dai noi questo parametro urbanistico non viene rispettato”.
“In che senso?”.
“Nel senso che la nostra chiesa parrocchiale non ha nulla a che vedere con la contrada più antica”.
“Che è via Ferrario”.
“Appunto…”.
“Ma chi dice che via Ferrario sia davvero la via più vecchia del paese? – intervenne Panda.
“I libri e le mappe catastali – affermai, riacciuffando le redini della conversazione da me avviata -. I primi indicano che via Ferrario era una strada romana dove i traffici commerciali erano assai sostenuti; le seconde che era soprattutto a ridosso di questa via che si sviluppava il paese. A contrafforte di quella che un tempo veniva chiamata la contrada della Granda - l’attuale via Ferrario appunto - ci sono infatti un mucchio di abitazioni. Al contrario dalle parti di piazza sant’Eusebio, a parte villa d’Adda e i ruderi del cimitero degli appestati, non c’era un bel niente”.
Panda compì un tiro di canna con eccessiva foga, tanto da subire un violento contraccolpo, che per poco non lo fece precipitare dalla panca. Tossì e mi disse:
“In ogni caso dove sta scritto che tutte le chiese della regione debbano tassativamente sorgere in corrispondenza della via più antica?”.
“Pensa al tuo paese – risposi prontamente.
“Vimercate…”.
“Rifletti sulla posizione della tua chiesa parrocchiale…”.
“L’antica chiesa di santo Stefano, ma anche il santuario della Beata Vergine…”.
“Noterai che entrambe si affacciano lungo il proseguo di via Vittorio Emanuele II, la via più storica del paese…”.
Panda rifletté un attimo poi disse:
“Quindi?”.
“Beh, se a Vimercate, uno fra i centri più importanti della zona, per questioni strettamente legate allo sviluppo urbanistico nei secoli, le chiese principali hanno visto la luce lungo il corso delle vie più vecchie, è più che attendibile supporre che lo stesso sia accaduto anche nella maggior parte degli altri comuni brianzoli”.
“Non mi basta”.
“Ti faccio altri esempi. A Concorezzo, la chiesa parrocchiale, sorge in via Libertà, la via più trafficata del paese, e senz’altro la più antica, che sbocca su via Dante e indirettamente conduce a Vimercate. A Omate, la chiesa di san Zenone, spezza in due l’arteria principale che mette in comunicazione Agrate con Cavenago. A Caponago, la parrocchia di santa Giuliana, nella via omonima, è a una manciata di metri dalla via principale, che è via Roma. E potrei andare avanti all’infinito…”.
“Se così fosse, allora, quale sarebbe secondo te il significato di questa inusuale dislocazione della chiesa parrocchiale di Agrate? – intervenne per la prima volta nella discussione Silvia.
“Secondo me, ad Agrate, la principale struttura parrocchiale, sarebbe inizialmente dovuta sorgere dove oggi si trova la chiesetta di santa Maria, non a caso in via Ferrario, il cuore pulsante del paese, uno dei luoghi di culto più antichi della zona. Ma poi devono essere subentrati dei gran casini, guazzabugli burocratici, farragini sociopolitiche, chiamateli come volete, disordini che, alla fine, contrariamente a quanto previsto, spinsero la curia del tempo a edificarla altrove, in un luogo oggettivamente inadatto a ospitarla: a parte il problema specifico relativo al suo inconsueto decentramento, va in più tenuto presente che, almeno secondo l’urbanistica di ieri, in quella zona aveva inizio nientemeno che la cosiddetta contrada del Malcantone, una via del paese, come si evince dal termine stesso, dove non doveva essere tanto simpatico aggirarsi soli”.
“E a tuo parere, quindi, in cosa sarebbero consistiti questi casini? – domandò Davide.
“Credo ci fossero di mezzo i nobili dell’epoca. Misteriosi precursori dei feudatari spagnoli che, se è vero quanto raccontano i libri di storia, erano continuamente coinvolti in risse, avvelenamenti, rese dei conti. Individui che, ogni tre per due, dovevano vedersela con qualche malintenzionato”.
“Caspita – disse Silvia.
“Ci riferiamo, del resto, a un periodo storico mica tanto simpatico per Milano e la Brianza in generale. Leggevo giusto ieri sera un libro sull’argomento. La città simbolo dell’Italia settentrionale aveva appena subito un duro smacco dai montanari ticinesi nel corso della Battaglia di Giornico. Cicco Simonetta - segretario ducale degli Sforza - era stato fatto decapitare. Un’epidemia di peste aveva sterminato centomila persone. Insomma, credetemi, era davvero un periodo in cui ogni pretesto era buono per eliminare qualcuno… dalle nostre parti, certamente, l’aristocrazia milanese andava a stare meglio, a vivere un po’ più tranquillamente… tuttavia anche qui fu presto indispensabile creare dei validi presupposti per difendersi da potenziali nemici. E secondo voi dove li andarono a trovare questi presupposti i blasoni di Agrate che dimoravano in via Ferrario, dove oggi sorge villa Schira, e in via Matteotti, nel punto in cui attualmente si erge quel che resta di villa De Capitani, se non in piazza sant’Eusebio, praticamente uno dei luoghi più lontani dal centro della vita pubblica?”.
“Forse mi sfugge qualcosa – puntualizzò Silvia -. Ma che c’entrano i presupposti per poter difendersi da potenziali nemici con il desiderio di costruire la chiesa parrocchiale il più possibile lontano dalle proprie ville?”.
“Vi spiego meglio. Parecchi anni fa, in via Madonnina, pressappoco a metà strada tra piazza sant’Eusebio e via Ferrario, dei muratori stavano lavorando all’impianto fognario quando, d’un tratto, incapparono in una specie di tunnel che puntava dritto verso la chiesa. Ci fu chi spinse per verificare meglio ciò che nascondeva quel tratto di strada, ma alla fine, per timore che la Soprintendenza ai Beni Pubblici sospendesse i lavori, la galleria venne ricoperta in fretta e furia e su di essa ricadde l’oblio. Analogamente accadde qualcosa del genere negli anni Settanta in via Ferrario, davanti a villa Schira: questo me lo raccontò mio nonno in persona. Ancora una volta, protagonisti furono degli operai che, alle prese con le fognature, all’improvviso si imbatterono in voluminose arcate in muratura, del tutto simili a quelle individuate poco prima in via Madonnina. Ma anche in questo caso il silenzio ebbe la meglio. Ebbene… io credo che non ci voglia molto a capire: quei ritrovamenti non erano altro che dei piccoli tratti di un unico passaggio segreto sotterraneo che collegava villa de Capitani a villa Schira e da lì alla chiesa sant’Eusebio, (e forse perfino a villa Trivulzio a Omate). E dunque quel cunicolo venne realizzato per consentire all’aristocrazia del tempo di raggiungere velocemente e senza sollevare sospetti la periferia del paese, laddove chiunque avrebbe potuto far perdere le proprie tracce nel minor tempo possibile”.
“Non ci posso credere – mugugnò Nicola meravigliato.
“Cioè… tu vorresti farmi credere che i signorotti di un tempo ordinarono di costruire la chiesa principale in una posizione così decentrata rispetto a via Ferrario, semplicemente per aver la possibilità di filarsela al momento opportuno? – chiese Panda.
“Esattamente. Potrò sbagliarmi… eppure… questa è la mia modesta opinione. E comunque, a sostegno di ciò, c’è anche un documento conservato nell’archivio della chiesa parrocchiale agratese. In esso è riportato che, ad Agrate Brianza, la parrocchia fu eretta grazie ad amichevoli accordi stipulati tra la curia di Vimercate ed alcuni principali signori locali, con atto legale del 1491, in data 3 settembre, rogato dal notaio Cristoforo Ghisolfi”.
“Sei un genio – mi disse Nicola – ma come hai fatto ad arrivare fin qui?”.
“Ho semplicemente collegato fra loro notizie sparse qua e là. Mi sono guardato intorno, ho rispolverato vecchie mappe topografiche. E sono quindi giunto a queste che mi sembrano le uniche conclusioni plausibili relativamente all’insolita ubicazione della nostra chiesa maggiore. Del resto qualcuno di voi se la sente di avanzare un’ipotesi alternativa altrettanto attendibile?”.
Chiudemmo la nostra lunga e sofisticata conversazione contemporaneamente alla fine del concerto del duo pusillanime. Era trascorsa più di un’ora e mezza da quando eravamo approdati fin lì e, a tal punto, all’unanimità, decidemmo di cambiare aria.
“Andiamo di là a vedere cosa si combina – disse Marco, liberandosi dalle labbra di Silvia.
“Buona idea – replicò Nicola, ammazzando l’ultimo hashish.
Riattraversando il cortile del Leoncavallo verificammo una realtà ben diversa da quella che avevamo vissuto all’inizio. C’era in giro molta meno gente. Nessuna traccia dei chitarristi che canticchiavano sulle note di Manu Chao e Bob Marley. I fuochi ormai ridotti a brillanti cumuli di braci. La nostra attenzione venne dunque catturata esclusivamente da alcuni cani semirandagi che s’erano messi a saltellare intorno a dei sacchi dell’immondizia. E da un paio di coppie che - indifferenti alla nostra presenza – si davano da fare su un materasso abbandonato senza cognizione a ridosso di una entrata secondaria del centro sociale. Brillava nel cielo qualche puntino di stella e giganteggiava la luna. Di nuovo nel cuore del Leo questa volta puntammo dritti allo stanzone principale della struttura, quello che, inizialmente, avevano completamente snobbato e nel quale era in corso il concerto di una cover band dei Bad Religion. American Jesus fendeva lo spessore di un’aria divenuta acre e stantia. Dei ragazzi pogavano. Altri se ne stavano comodamente sbracati a terra a fumare un cyloom. Altri ancora dall’aria molto chic, cianciavano tra loro, apparentemente per nulla indispettiti dal baccano irriverente scatenato dagli alti volumi del mixer. Marco stringeva la mano di Silvia. Panda bevicchiava l’ultimo goccio di birra rimastogli. Nicola ed io cercavamo di capire cosa stesse combinando il chitarrista alle prese con assurdi movimenti del mento e delle mani, forse rivolti al tecnico del suono per fargli capire che qualcosa non andava come avrebbe dovuto. Davide, leggermente più avanti di noi, sembrava quindi l’unico veramente interessato al concerto. Proprio lui al quale andavano soprattutto band come Belle & Sebastian e Mojave 3, capisaldi di un genere che con i Bad Religion c’entravano come una peperonata a merenda.
La tappa finale della serata fu la libreria, una decina di minuti dopo la faccenda del concerto messo in piazza dai cloni della più famosa band hardcore punk californiana. Mani Pulite, Travaglio e travagli, Gramsci e Occhetto, punk-revolution, e fumetti dei Freak Brothers for adulty only, sono solo alcuni degli pseudo titoli che ci sfilarono sotto gli occhi. Ma a quell’ora eravamo davvero troppo cotti, per poter discernere e apprezzare correttamente l’argomento di questo e quell’altro libro: politica, sesso, musica… Dunque l’ultimissima cartuccia per tenere in piedi una serata ormai già solidamente nelle mani della nostalgia, la riservò Nicola quando incontro ci venne una giovane travestita da santone indiano. La ragazza, sgargiante come sette soli, ci regalò un sorriso ammaliante e ci disse:
“Ciao ragazzi, avete fatto incetta di preservativi?”.
“Eh? – domandò Nicola.
“In libreria danno i preservativi gratis”.
“Non ci siamo accorti”.
“Se andate a fare un giro magari ne trovate ancora”.
Nicola frastornato le chiese:
“Quando ci facciamo?”.
“Quando vuoi – fu la pronta e inaspettata risposta della ragazza.
“Scherzi?”.
“No”.
“E…”.
“Oggi sei troppo stanco, facciamo un altro giorno eh?”.
“Ma…”.
“Ciao, ciao – fece la ragazza andandosene.
Nicola, allocchito, la guardò sparire tra la folla. Puntò selvaggiamente e malinconicamente il suo divino fondoschiena, dopodichè affermò:
“Ma voi dite che ci sarebbe stata davvero?”.
Le due e mezza. L’ora di tornare a casa. Rivolgemmo senza tante cerimonie il nostro saluto di commiato a Silvia e Marco e riguadagnammo l’uscita.
Sulla strada del ritorno, a parte Jeff Tweedy, nessuno fiatò. La luna brillava alta nel cielo e nei nostri cuori ci sentivamo felici. Semplicemente felici di essere, vivaddio, ancora una volta insieme.

Nessun commento:

Posta un commento