venerdì 24 febbraio 2012

Per i cannibali del Ghana


Bisogna essere ubriachi
Per parlare di Fabbri Editore
E sentire il mare che soffia
Dovessero poi cadere le foglie
Il vento bastardo
Ti uccide un serpente
E ascolti Echo And The Bunnymen
Ma Massimo Pirotta non lavora più
Al Bloom
Adesso lavora da McDonald
Non tace quando serve
E ignora gli tsunami
Della petroliera che avanza
Gli avanzi del cibo
Per i cannibali del Ghana
Facce da struzzo
Che divorano l'orizzonte B del suolo
Indefessi
Incolpevoli
Volevasi dire altro
Ma non importa

Cinema Apollo, Antica Focacceria, NABA, StraRipa Bar...

111 - Cinema Apollo - Milano

112 - Antica Focacceria San Francesco - Milano

113 - Nuova Accademia di Belle Arti - Milano

114 - StraRipa Bar - Milano

martedì 21 febbraio 2012

Another Sunny Day (2)

 
Lisa Hannigan – Sea Song
King Creosote – Punchbag
Chad Vangaalen – Bones Of Man
The Mountain Goats – Woke Up New
Father John Misty – Hollywood Forever Cemetary
Rachel Sermanni – The Fog
Cam Penner – Flesh And Bone
Jerry Leger – Isabella
Ahab – Lighthin' Bug
Nick Drake – Hazey Jane II
James Vincent Mcmorrow – And If My Heart Should Somehow Stop
Lisa O'neill – On Your Side
The Bony King Of Nowhere – The Garden
Message To Bears – Farewell, Stars
Emily And The Woods – Never Play
The Black Keys – All You Ever Wanted
The Meadowlarks – Graves
Fink – Blueberry Pancakes
Townes Van Zandt – Colorado Girl
This Is The Kit – Moon
Charlie Parr – The B And J Aint Nothin But A Hole In The Ground
CW Stoneking – Talkin' Lion Blues
First Aid Kit – In The Hearts Of Men
Samantha Whates – Village Kids
Animal Collective – Leaf House
Electric President – Insomnia

lunedì 20 febbraio 2012

Antoher Sunny Day



Barb – Havin A Baby *
Belle & Sebastian – Another Sunny Day *
Michael Kiwanuka – Hey, That's No Way To Say Goodbye
Edward Sharpe and The Magnetic Zeros – I Come In Please
This Is The Kit – Waterproof
Josh Bray – Rise
Bowerbirds – In The Yard
Laura Marling – My Friends
Meg Baird – The Finder
Ray Lamontagne – Hey Me, Hey Mama *
Thomas Kitt – The Girl With The Whispered Name
Isobel Campbell and Mark Lanegan – Time Of The Season
Gregory Alan Isakov – One Of Us Cannot Be Wrong

domenica 19 febbraio 2012

Madre Russia


ветер
лягушка
аист
libeccio
высокомерие
жеманность
безнравственность
старческий
странности
малодушный
разрушительный
борьбы с
причина
киска

sabato 18 febbraio 2012

Affari condominiali: terzo piano, appartamento C


Sentendo dello scoppio del reattore nucleare di Chernobyl, Glauco Zanetti non aveva fatto una piega, a differenza della moglie, Carlotta Bordignon, che non riusciva a distogliere lo sguardo dallo schermo, come rapita da un'estasi; ma nell'uno e nell'altro caso, una catastrofe del genere, non l'avevano mai sentita, se si escludono le vicende belliche di cui portavano ancora memoria, già ventenni al momento del conflitto; avevano però ben chiaro dove si trovasse l'Ucraina, visitata un paio di anni prima in occasione di una gita a Kiev organizzata dalla leva: era una terra lontana, nuda e cruda, con inverni rigidissimi ed estati colorate da sterminati campi di girasole. Ma non vi erano finiti per caso: c'era di mezzo, infatti, un gemellaggio fra Omate e un piccolo borgo ucraino, Bilohorodka, sulla strada per Fastiv, mai andato a buon fine, che si stava cercando di ufficializzare a metà anni Ottanta.
«Dio mio, ti rendi conto di quel che è successo?».
«Cosa è successo?».
«Sei sordo per caso? Non senti il telegiornale?».
«Non sarà mica una centrale nucleare che salta in aria in Ucraina a creare problemi agli italiani...».
«E tu cosa ne sai? Dicono che la nube radioattiva potrebbe raggiungere le nostre regioni in pochissimo tempo».
«La tv racconta sempre un mucchio di scemenze».
Erano i due coniugi dell'appartamento C, al terzo piano del palazzone omatese, sopra il covo solitario di Daniele Bettini, il giornalista politologo. Lui un ex operaio della Dimag, un'azienda di Carugate che costruiva escavatori e ruspe, con la barba, la pancia e gli occhiali perennemente calati sul naso; lei un'ex impiegata della Lodi Macherio, una ditta che produceva componenti per l'industria elettronica, bionda ossigenata, con le guance cadenti e una rabbiosa escrescenza epidermica sul sopracciglio destro. Erano in pensione da vari anni, e gestivano le loro giornate senza particolari scossoni, com'era tipico di tutte le coppie di una certa età dell'epoca, ancorate ad abitudini casalinghe e per nulla mondane: non c'erano ancora i centri commerciali e le sale da ballo erano quasi viste come luoghi della perdizione. Sicché, la mattina, uscivano per comprare pane, latte e giornale, frequentando i pittoreschi negozi che si rincorrevano lungo l'unica contrada significativa della frazione, via Cavour, dove tutti erano mezzi imparentati; il pomeriggio lo trascorrevano al bar, per un caffè o una bibita. Qualche volta, col tempo propizio, si recavano in bicicletta ad Agrate, dove, durante il periodo estivo, si fermavano al Ragno Verde, per mangiare il gelato di Luigi e Mariuccia, ritenuto fra i migliori della zona. Non davano grande confidenza ai condomini, coi quali più di una volta erano entrati in combutta per equivoci legati allo smaltimento dei rifiuti o ai parcheggi “comunitari” prospicienti il palazzone. C'era gente che parcheggiava dove non avrebbe dovuto, creando disagi ai pedoni che dovevano transitare per raggiungere l'atrio dell'ascensore. Glauco, però, non disdegnava la compagnia del Vismara del primo piano, sì e no della sua età, col quale settimanalmente si tratteneva per parlare di sport. Entrambi tifavano Milan, con un accanimento ai limiti del buoncostume. Durante le partite del Milan, tutti e due gridavano come ossessi, obbligando, in pratica, i vicini a prendere parte alla kermesse calcistica. Poco prima del patatrac ucraino, per esempio, s'erano confrontati sulla cocente sconfitta subita nel derby: odiavano gli interisti e l'ultimo risultato del 6 aprile 1986 – 1-0 per i cugini - con goal di Minaudo al 77esimo, era stato un boccone assai amaro da digerire.
«C'era da aspettarselo», aveva commentato il Vismara.
«Ma dove vogliamo andare con una difesa del genere?».
«Nuciari, Terraneo e Vettore, dovrebbero giocare in serie B».
«È una squadra senza futuro. Anche l'attacco fa pena. Potessi condurre io la campagna acquisti. Ci vorrebbe un regista alla Rivera, cazzo, quelli sì che erano bei tempi».
«Dovremmo ripartire daccapo con Baresi e Tassotti e tutti gli altri... via».
«Prendere un gol da un esordiente, è il massimo».
«Ma chi cazzo è sto Minaudo?».
Carlotta non amava la moglie del Vismara, che giudicava troppo grezza, ma si trovava qualche volta con Ada Villa, del secondo piano, per pettegolare e ricamare; dalla vicina, provetta sarta, cercava di imparare i trucchi per muoversi con agilità con ago e filo, con l'uncinetto o la macchina da cucire. Dopo un po' di lezioni informali era diventata una specialista nella lavorazione dei maglioni di lana, che produceva con celerità e buongusto, e che distribuiva agli omatesi che lusingavano il suo operato. Negli ultimi tempi, però, i loro incontri s'erano diradati. Era per via della comparsa di una nuova figura maschile in casa Villa: era un tarchiatello di nome Angelo, in vena di romanticherie piuttosto scontate, che dedicava a gran parte delle donne che incontrava sul suo cammino. Tuttavia le due amiche non s'erano mai soffermate sull'argomento. E Carlotta, di ciò, ne era indispettita. Da una parte voleva saperne di più per compensare l'inconscia, benché risaputa unanimemente curiosità femminile di farsi gli affari degli altri; dall'altra non le andava il fatto che Ada potesse non ritenerla sufficientemente degna di venire a conoscenza delle sue tresche, pensando che dovesse averne una, davvero molto piccante.
«Che amiche siamo se non ci diciamo tutto?», le aveva buttato lì un giorno, sollecitandola subliminalmente a rivelarle il mistero della new entry.
«Ma noi ci diciamo tutto».
Carlotta aveva sorriso.
«Non so se ci diciamo tutto, ma io, se avessi delle novità, di sicuro te le confiderei».
Ada non aveva abboccato e, abbassando lo sguardo, aveva messo definitivamente la cosa a tacere.
Glauco e Carlotta vivevano insieme da quasi quarant'anni, essendosi sposati nell'ormai lontano 1948. Era un gelido giorno di inverno, con la chiesa occupata da una quarantina di persone, tutti parenti stretti. C'erano parecchi bambini, agghindati come damerini dell'Ottocento, con lo sguardo attento e vivace. Con i rispettivi genitori, severamente protetti da abiti neri, e un atteggiamento quasi più funereo che non matrimoniale. Ma era così che si accompagnavano a quei tempi all'altare molti figli della Grande guerra, ancora angosciati dalle vicende belliche da poco conclusesi: il 6 agosto 1945 il quadrimotore B-29 Enola Gay aveva sganciato una bomba atomica su Hiroshima, sancendo, di fatto, la resa dei giapponesi e la fine della Seconda guerra mondiale, dopo sei anni di supplizi e 71 milioni di morti. Certo, dalle loro parti, in piena campagna, gli sconquassamenti delle bombe non s'erano fatti sentire, tuttavia con la moltitudine di persone partite per il fronte, sarebbe stato impossibile non patire i brividi dell'apocalisse procurati dalle ire hitleriane. Avevano entrambi da poco compiuto i 25 anni, la giusta età per convolare a nozze prima dei Cinquanta; qualcuno vi arrivava anche prima dei venti, ma erano comprensibilmente mosche bianche. Provenivano da due famiglie di origine veneta. I genitori facevano gli agricoltori: lavoravano due poderi del trevigiano, a pochi chilometri l'uno dall'altro, dimorando in un caseggiato a due piani, costruito in fretta e furia per ospitare più famiglie possibili e agevolare al meglio il lavoro nei campi.
«Una vita da cani», ricordava spesso Glauco, quando si confidava con qualche amico.
In effetti, da piccoli, avevano patito una moltitudine di stenti, arrivando perfino a soffrire la fame e il freddo. Alcuni fratelli erano addirittura morti per i rigori invernali e la mancanza di provvigioni idonee alla crescita dei più piccini. Non c'era il riscaldamento e durante le notti di dicembre e gennaio la temperatura scendeva spesso sotto lo zero, creando non pochi disagi ai contadini. L'unica bella parentesi era rappresentata dai fantasmagorici ricami di ghiaccio che si imprimevano sui vetri e facevano dire a qualche adulto fantasioso che erano passate le fate, rallegrando il cuore dei bimbi. Ma si soffriva anche per la mancanza di affetto e amore. Mamme e papà non andavano al di là delle normali attività parentali, legate all'allevamento dei figli, e perpetrate da chissà quanti lustri, parafrasando l'innatismo animale. Un bacio o un abbraccio erano rari come le precipitazioni nevose in Algeria. E se qualcuno stava male, non erano certo le coccole a favorirne la guarigione, quanto gli sguardi duri e spietati che volevano dire una sola cosa: «Levati presto da quel giaciglio che è ora di darsi da fare». Peraltro s'era sviluppato una sorta di atteggiamento cinico verso i neonati, tale per cui era meglio non affezionarsi troppo ai più piccoli, consci del fatto che se ne sarebbero potuti andare in fretta, lasciandosi dietro nient'altro che una scia di prostrazione. Se è per questo anche gli altri legami non erano granché solidi. Più che la scomparsa di un coniuge, tanto per dire, si piangeva quella di una mucca. Dalla scomparsa di una moglie ci si riprendeva velocemente, ma dalla morte di un bovino, non ci si poteva riprendere più: al suo decesso, infatti, poteva prevedibilmente seguire quello del padrone, che periva per la mancanza di latte e carne da esso forniti. Questa estrema povertà era percepibile in tutta la zona dell'est italiano, comprendente le campagne del vicentino, trevisano, rovighese, e i tanti centri del friulano. In molte famiglie la morte era vissuta come una benedizione e, nel caso di eclissi improvvise, si ringraziava Dio per aver risparmiato ulteriori lacrime. È per questo motivo che molti si sposavano in fretta, per fuggire da quel che veniva ritenuto all'unanimità un inferno, e raggiungere i lidi più felici, che cominciavano a essere decantati dai giornali e dai pochi libri che circolavano, in virtù dei nuovi paradisi consumistici conseguenti la fine della Seconda guerra mondiale e l'imminente boom economico.
Glauco e Carlotta si conoscevano fin da bambini, ma non s'erano mai parlati. Si vedevano perlopiù a messa, o nel corso di qualche festeggiamento locale. Ma una sera, alla fine delle celebrazioni per Ferragosto, dopo essersi scambiati un paio di sorrisi maliziosi, erano finiti fra i campi di Comugna Larga, nei pressi di Annone Veneto, dove avevano consumato la loro prima notte di amore. Non erano servite le parole, il loro lessico era assai povero, non essendo andati oltre la quinta elementare, bastavano i fatti; peraltro non era mancato l'imbarazzo a frenare le loro indefinite voluttà. Sicché era evidente a loro stessi e al mondo intero e che si sarebbero presto sposati, a mo' di una fuitina alla siciliana, per poi puntare le loro prue verso ovest, dove le opportunità di lavoro parevano più vantaggiose. I genitori non s'erano pronunciati più di tanto sulla novità. Sapevano che le cose sarebbero andate così, come se fossero già state scritte. In fondo, non facevano che imitare l'iter comportamentale delle nuove generazioni che con le miserie dei vecchi non volevano più avere a che fare, in nome di un avvenire ghiotto e sereno che si celava ben al di là dei confini della propria malfamata regione. Sennonché erano felici di avere una bocca in meno da sfamare, ma nell'intimo si dannavano per il progressivo depauperamento della forza lavoro. La verità è che, col sopraggiungere del dopoguerra, e la comodità delle otto ore lavorative al caldo, in qualche fabbrica o azienda in via di sviluppo, nessuno più voleva saperne di lavorare la terra. Così era iniziata l'emorragia di migranti dalle campagne alle città. E così Glauco e Carlotta erano alfine approdati in Brianza, dove alcuni parenti del giovane avevano già preso dimora, a Monza, in vecchie case di ringhiera affittabili a prezzi stracciati.
I mesi e gli anni erano, poi, passati in fretta. In un lampo. E, dunque, dopo tanti anni di matrimonio la passione fra i due coniugi era completamente svanita; tuttavia dipendevano così tanto l'uno dall'altro da non poter nemmeno immaginare un futuro da single o al fianco di altri parenti (benché, di parenti, ne avessero ben pochi). I figli li avevano cercati per un po', ma, poi, vedendo che non arrivavano, si erano messi l'anima in pace, senza particolari ansie. «I figli possono anche essere una scocciatura», soleva ripetere Carlotta, auto-convincendosi del fatto che lei non aveva nulla da recriminarsi. «In fondo non ne abbiamo mai sentito la mancanza e adesso che siamo in pensione, anziché badare ai nipotini, pensiamo a goderci la vita».
C'era un po' di cinismo e rassegnazione nelle sue parole, ma era anche per via dell'ambiente in cui erano cresciuti, nel quale non c'era da porsi troppe domande, bisognando accettare la vita per quella che era, con i suoi accadimenti spesso ingiusti e incomprensibili. Era, in pratica, lo stesso fatalismo che contraddistingueva i propri avi, consci di vivere appesi a un filo, dal primo giorno in cui avevano messo fuori il becco oltre i villi dell'involucro placentare. Ma nonostante il destino gli avesse precluso le gioie paternali e maternali, a modo loro continuavano ad amarsi come il giorno della festa di Ferragosto. Litigavano tutti i giorni, per i motivi più banali, tipo quello di aver lasciato per troppo tempo spalancata la finestra della camera, ma mai in modo brutale; si mandavano vivacemente a quel paese, ma poi, nel giro di un quarto d'ora, tutto tornava come prima. Anche il giorno dell'esplosione del reattore di Chernobyl avevano avuto un diverbio relativo allo scaldabagno che aveva smesso di erogare acqua calda. Glauco era andato su tutte le furie perché diceva che spettava alla moglie chiamare l'idraulico; mentre Carlotta era convinta che se ne dovesse occupare il marito. L'uomo di casa, raggiungendo il bagno per farsi una doccia, aveva constatato che l'acqua era ancora fredda e s'era inalberato non poco, dando della poco di buono alla dolce metà.
«Sei lì tutto il giorno a guardare la televisione, come se avessi già ottant'anni».
«Potevi pensarci tu».
«Devo sempre pensare a tutto io».
Ma il disinteresse di Glauco per la catastrofe ucraina, non era per via del battibecco avuto durante il pomeriggio con la moglie, bensì per una faccenda che da giorni lo torturava, un pensiero fisso che s'era insinuato nella sua mente, e non gli lasciava tregua. Il presupposto concerneva il fatto che, prima di rincoglionirsi del tutto, così come vedeva sempre più spesso accadere a chi aveva una decina di anni in più di lui, avrebbe voluto conoscere i retroscena della sua storia familiare, in particolare quella del nonno materno, avvolta nel mistero più assoluto. Fin da piccino gli avevano, infatti, detto che il nonno non aveva avuto una mamma e papà come tutti gli altri, ma dei genitori adottivi. Quand'era piccolino non capiva bene cosa significasse “adottivi”, benché avesse intuito che non doveva trattarsi di una bella parola. Poi, crescendo, i dettagli erano aumentati, fino a fargli comprendere che la vera mamma del nonno l'aveva, in pratica, abbandonato appena nato in un orfanotrofio di Venezia, il Santa Maria della Pietà. Era uno degli orfanotrofi più vecchi d'Italia, aperto fin dal 1346 per volere di Petruccio d'Assisi, un francescano che aveva iniziato a prendersi cura degli orfani del veneziano, affidandoli alla protezione dei vari benestanti presenti in regione; da qui, poi, s'era fatto avanti per proporre una struttura sociale a tutti gli effetti preposta alla salvaguardia dei piccoli più sfortunati. Nei secoli, il Santa Maria della Pietà aveva, dunque, ospitato innumerevoli trovatelli e trovatelle, che in qualche modo erano riusciti a farsi strada nella vita; e uno di questi era proprio il nonno di Glauco. L'omatese di adozione ci aveva rimuginato per un po' e alla fine aveva deciso di mettersi in contatto con l'orfanotrofio. Gli aveva risposto una voce flebile e delicata, quella della signorina Filomena Mazzon:
«Gentile signore, la pregherei di mandarmi una lettera indirizzata al brefotrofio, con riportate le generalità di suo nonno, in particolare nome e cognome e data di nascita, dopodiché vedremo cosa sarà possibile fare».
Brefotrofio era una parola che non aveva mai sentito nominare, ma era stato grato alla dipendente del Santa Maria della Pietà:
«Oh, bene, la ringrazio molto per le sue indicazioni. Le invierò una lettera quanto prima».
Glauco s'era così dato rapidamente da fare per venire a capo della faccenda ricercando le informazioni richieste da Filomena. Ciò che sapeva con certezza è che il nonno si chiamava Vittorio Canestrini, ma non aveva idea del suo giorno di nascita. A chi avrebbe potuto chiedere? Sua madre era morta da tempo... Ma c'era la sorella più piccola di mamma, Assunta Canestrini, che non sentiva da una vita, abitava a Pramaggiore, e doveva avere un'ottantina di anni: forse lei avrebbe potuto dargli qualche ragguaglio in merito. Aveva chiamato Assunta con i primi tepori primaverili, circa due mesi prima del disastro in Ucraina.
«Ciao zia, sono io».
«Oh, meno male che ogni tanto ti fai sentire», l'aveva rimproverato la zia. «Allora come stai? Come va la tua famiglia? I bimbi stanno bene?».
«Zia, guarda che io non ho figli».
«E la piccolina?».
«Zia, guarda che io non ho figli».
«Ma non sei il Luciano?».
«Zia, io sono il Glauco, il figlio dell'altra tua sorella...».
«Oh, il Glauco, quanti anni, quanto tempo che non ci sentiamo... Allora come stai? Come va la tua famiglia? I bimbi stanno bene?».
A questo punto s'era impossessata della cornetta del telefono la badante di Filomena, al suo fianco già da un paio di anni, da quando aveva cominciato a dare segni di squilibrio, forse dovuti a una forma di demenza senile; anche se, nel 1986, erano ancora in molti a credere che la progressiva perdita di memoria fosse semplicemente figlia del normale invecchiamento fisiologico; di fattori come l'arteriosclerosi che, a onor del vero, con la smemoratezza, non c'entravano quasi nulla, essendo il problema perlopiù dovuto all'accumulo di una pericolosa proteina, la beta amiloide, indipendente dal restringimento dei vasi arteriosi del cervello.
«Pronto, chi parla?».
«Sono Glauco, il nipote di Filomena. C'è qualcosa che non va?».
«Non sa che sua zia non è più autosufficiente?».
«È un po' che non la sento».
«Capisco. Ma sua zia non sta bene da tempo».
Glauco aveva storto la bocca, vinto da una sensazione di smarrimento.
«Sua zia mi è stata affidata dalla figlia nell'estate del 1984, dopo averla trovata senza vestiti per strada a parlare coi piccioni. Se vuole informazioni migliori dovrebbe contattare sua cugina».
Glauco era caduto dal pero. È vero che non sentiva i parenti di Pramaggiore da anni, ma non avrebbe mai creduto che le cose potessero essere precipitate a tal punto. Tuttavia gli era bastato poco a riflettere sul fatto che non gli sarebbe giovato granché chiamare la cugina Cleonice; di sicuro non gli sarebbe stata d'aiuto e di sentirla solo per chiederle come andava la madre, gli sembrava, francamente, un atteggiamento abbastanza ipocrita, visto che della zia, in fondo, non gli importava nulla; mentre era evidente che, se le avesse veramente voluto bene, non avrebbe aspettato tanto tempo per impugnare la cornetta e mettersi in contatto con lei, sangue del suo sangue. Sicché s'era rassegnato a scrivere all'orfanotrofio di Venezia basandosi sui pochi dati che aveva a disposizione: suo nonno si chiamava Vittorio Canestrini ed era nato in un imprecisato giorno del 1800; su quest'ultima cifra poteva essere certo visto che lui era del 1923, sua madre del 1899 e suo nonno, verosimilmente, di una data compresa fra il 1879 e il 1859, considerando che di solito i figli si concepiscono fra i 20 e i 40 anni. La speranza, a questo punto, era che le informazioni potessero essere comunque sufficienti a risalire alle origini del nonno. Dopo poche settimane dall'invio della missiva era arrivata la risposta:
«Gentile Signor Zanetti, le comunichiamo che la persona da lei ricercata è vissuta presso il nostro istituto dal 1870 al 1882 e risponde al nome di Vittorio Canestrini, nato a Venezia il 3 giugno 1870. Dai nostri incartamenti risulta figlio di nn. Sperando di esserle stati utili, la salutiamo cordialmente».
Nn? Erano bastate queste due lettere a mandarlo in solluchero e a farlo girare per casa con i capelli all'aria per una decina di minuti, davanti agli occhi esterrefatti della moglie. Cosa volevano dire? Cosa si nascondeva dietro a questa meravigliosa sigla? Si stava già pregustando chissà quali fantomatiche ascendenze quando, recandosi ad Agrate in via don Minzoni, dove sorgeva la biblioteca comunale, aveva scoperto che era tutto molto più spiccio: nn stava semplicemente per nomen nescio, un'espressione latina indicante genericamente l'anonimato di qualcuno, tradotto spesso dall'immaginario collettivo in “bastardo”, significato tutt'altro che nobile. S'era dunque reso conto che le sue ricerche non erano valse a molto: in più rispetto a ciò che gli avevano sempre raccontato, aveva solo una data precisa di nascita, e la certezza che qualcuno avesse abbandonato suo nonno, cose perfettamente intuibili anche senza alcuna ricerca araldica; quindi magre consolazioni. Ma chi erano i suoi veri genitori? E perché avevano deciso di rinnegarlo? Era a questi quesiti che desiderava rispondere, sollecitato dall'ipotesi mai tramontata che dietro a tutto ciò potesse nascondersi qualche incredibile trama: magari quella inerente un altolocato che, in seguito a un rapporto fedifrago, aveva deciso di allontanare il figlio del peccato; la storia di una promessa sposa, rimasta incinta di un amore segreto, non condiviso dalla sua famiglia; la tesi riguardante una migrazione dall'est, dovuta alle persecuzioni patite da un'etnia misteriosa, un tempo ascrivibile al potente regno dei Traci, noti per le loro inestimabili ricchezze. Ne aveva di fantasia Glauco, peraltro rinfocolata da una passione per la storia che non aveva mai coltivato, ma che di tanto in tanto tornava a solleticare la sua scontata quotidianità. Aveva così scritto una nuova lettera indirizzata alla cordiale Filomena - che con sempre maggiore clangore andava chiedendosi che aspetto avesse, identificandola con un affetto da tenere taciuto - nella quale chiedeva esplicitamente qualche notizia più dettagliata relativa ai natali del nonno. Ma anche questa risposta non era stata molto felice:
Gentile Signor Zanetti, dai nostri incartamenti risulta che suo nonno sia stato accompagnato all'istituto da una levatrice di nome Gigliola Punzecchi; la donna che, con ogni probabilità, ha ricevuto il piccolo dalla vera madre, convinta di disfarsene al più presto, per motivi che noi non possiamo conoscere. All'epoca non erano infrequenti le donne che prestavano il loro servizio ad altre signore, si prendevano cura dei figli altrui, prima di recapitarli presso qualche centro comunale o in qualche famiglia disposti ad adottarli. Sperando, nuovamente, di esserle stati di aiuto, le porgiamo i nostri più vivi saluti”.
«Puttana troia», erano le uniche parole che Glauco era riuscito a pronunciare dopo aver finito di leggere la lettera. «E chi sarebbe questa Gigliola Punzecchi?».
Il rebus pareva infittirsi e a questo punto si rendeva conto che solo una persona avrebbe potuto realmente fornirgli indicazioni sui suoi veri bisnonni: Gigliola Punzecchi. Doveva, dunque, assolutamente mettersi in contatto con lei. Ma l'entusiasmo per essere venuto a capo, in parte, di un dilemma che sembrava irrisolvibile era presto svanito, rendendosi conto che, la donna in questione, per ovvi motivi anagrafici, doveva essere da tempo passata al Creatore. Il suo ragionamento non lasciava dubbi. Se Gigliola aveva preso in cura il nonno appena nato dalla sua vera bisnonna, significava che doveva avere più o meno l'età della parente che aveva deciso di disfarsi del suo piccolo. Perciò se il nonno era nato nel 1870, suggeriva che sua madre dovesse essere nata intorno al 1845, sì e no l'età della levatrice. Quindi tirando le somme, nel 1986, Gigliola Punzecchi avrebbe dovuto avere circa 140 anni. Un'età non plausibile. A Glauco erano venute le lacrime agli occhi. Ma forse aveva ancora una carta giocare: contattare i figli o i nipoti di Gigliola, che, magari, avevano saputo qualcosa della storia della sua famiglia... E per fare ciò s'era rimesso in contatto con Filomena. Questa volta, però, impugnando direttamente il telefono, poche ore dopo l'esplosione di Chernobyl, e poco prima che la notizia venisse dipanata dai telegiornali italiani.
«Buonasera signor Glauco».
«Mi perdoni signora Filomena, ma in base agli ultimi dati venuti in mio possesso mi sono chiesto se non ci sarebbe la possibilità di mettersi in contatto con i discendenti di Gigliola Punzecchi...».
Filomena aveva dovuto rimettere testa alla situazione, sconsolata da tanta insistenza.
«Mi faccia riprendere in mano i documenti che le abbiamo girato... Sa, ci contattano in molti...».
Dopo un rapido consulto s'era così capacitata dell'assurdità della richiesta. La signora Punzecchi era verosimilmente morta da almeno una sessantina d'anni e l'istituto non poteva possedere documenti relativi a una persona che, in pratica, non aveva fatto altro che “traghettare” un bimbo nato più di un secolo prima dalla sua vera famiglia alle gelide braccia di un istituto, probabilmente, per racimolare un po' di soldi e sparire il prima possibile.
«Mi spiace signor Glauco, ma non abbiamo dati relativi alla levatrice. Non possiamo nemmeno sapere quanti figli avesse e se sono ancora in vita. Quando veniva affidato all'istituto un bimbo, si pensava solo a regolarizzare burocraticamente il suo avvenire, non di certo quello di chi si faceva carico di portarlo qui. Pensi che, in molti casi, gli accompagnatori non si vedevano neanche: molte volte i piccoli abbandonati venivano trovati in fasce davanti alle porte dell'orfanotrofio, senza nemmeno una lettera di accompagnamento…».
Glauco c'era rimasto davvero male, conscio del fatto che davanti a quest'ultima sentenza, le chance di risolvere i suoi dubbi rasentavano lo zero. La tristezza l'aveva adombrato con tutto il suo fragore, percependo l'inutilità delle domande che, in ogni caso, continuava a porsi: come poteva trovare i discendenti della levatrice? E ammesso di poterli trovare, cosa potevano oggettivamente sapere di uno fra i tanti bimbi allevati dalla madre quando loro, magari, non erano ancora venuti al mondo? Poteva solo rassegnarsi. Sicché, Filomena, interpretando l'abbattimento dell'interlocutore, gli aveva offerto ulteriori delucidazioni, cercando, in qualche modo, di compiacere la sua sete di verità: «Vede signor Glauco, al tempo, erano molti i bimbi che finivano in orfanotrofio, ma il più delle volte non erano che la conseguenza di situazioni familiari disastrose, niente di straordinario. Le tante persone che ci contattano pensano che dietro a questi abbandoni si celino tesori o ingenti eredità. Ma nella stragrande maggioranza dei casi sono solo...». Piccoli e poveri bastardi.
Glauco, con un bolo alimentare che da vari minuti gli ballonzolava fra i denti, non aveva dato retta alle parole dello speaker: nella testa seguitavano ad accavallarsi le ultime parole di Filomena. Si riferivano al fatto che a cavallo dell'Ottocento molte famiglie erano così povere da non poter permettersi un altro figlio e che, quindi, in seguito all'ennesima gravidanza, per campare, non avevano altre soluzioni se non quella di abbandonare il nascituro. All'epoca gli anti-concezionali era come se non esistessero, e dunque le cicogne potevano accavallarsi una dietro l'altra senza tregua, mandando severamente sul lastrico le già provate famiglie dell'Italia orientale. Così c'era chi alleggeriva i nuclei familiari usufruendo di qualche istituto di carità o addirittura vendendo i piccoli indesiderati a qualche altolocato. «Un altro scenario era quello rappresentato da giovanissime o anzianissime donne che per motivi diversi non potevano allevare il proprio bambino», aveva concluso la dolce Filomena. «Una giovanissima donna, in caso di gravidanza indesiderata, poteva andare incontro a gravi problemi di natura sociale; c'erano donne che venivano emarginate e bollate alla stregue di prostitute per un concepimento al di fuori del matrimonio e che poi non riuscivano più a costruirsi una degna esistenza, perché nessuno le voleva; una donna in là con l'età, d'altro canto, avrebbe potuto avere gravi difficoltà a tirare grande un bimbo, dal punto di vista psicologico, ma soprattutto fisico. Le donne di cento anni fa erano molto più provate di quelle di oggi, e a trent'anni potevano già essere considerate vecchie».
Di fatto è presumibile supporre che anche il nonno di Glauco non fosse stato altro che l'ennesimo figlio di una poverissima famiglia, che era stata costretta ad affidarsi a un orfanotrofio per sopravvivere. Così erano quasi sicuramente andare le cose. Ma Glauco non voleva crederci, aveva sperato troppo di poter scoprire chi fossero i suoi veri bisnonni: era diventata una specie di sfida con se stesso e contro il tempo. Le immagini dell'apocalisse ucraina scorrevano sullo schermo, mostrando un reattore squarciato da quella che doveva essere davvero stata una tremenda deflagrazione, con la moglie incollata alla tv come un post-it; ma la sua mente era altrove e s'era messa a viaggiare per confini che non aveva mai esplorato. Ed è qui che, come per magia, aveva incontrato la vera mamma di Vittorio Canestrini: era la figlia sedicenne di un principe dell'impero austroungarico, già promessa sposa di un altro principe, innamoratesi di un pescatore triestino, padre del futuro papà della stirpe materna dell'omatese di adozione. Era, dunque, stata la nobile famiglia austroungarica, in procinto di ampliare il suo areale imprenditoriale in Bosnia-Erzegovina, affiancata dalla potenza tedesca, a obbligare con forza la bisnonna di Glauco a consegnare il bimbo nelle mani di una fidata levatrice veneziana, che – strapagata - non avrebbe fatto parola con nessuno della vera identità della giovane madre. Era un giorno grigio e umido, con una pioggerellina appiccicosa e insistente, che si mischiava alle lacrime di un dolore infinito: la neomamma non avrebbe chiesto altro che poter sposare l'umile popolano di origine carsica, che amava con tutto il suo cuore, e rimanere accanto al suo bimbo per il resto dei suoi giorni.

Libri felici e infelici

Alla luce delle ultime letture mi viene da dire che non esistono libri belli o brutti, ma semplicemente libri felici o infelici. I primi sono quelli che raccontano, che sanno raccontare, i secondi, quelli che bofonchiano. Nei primi, spesso, non accade nulla di eclatante, ma è la dolcezza del racconto che porta a proseguire nella lettura; nei secondi, invece, ci sono sovente trame arzigogolate e dialoghi serrati, che, però, mi lasciano senza speranza. Mi dispiace solo constatare che per confrontarmi con quelli della prima categoria (se si esclude Roth) debba sempre andare indietro nel tempo; fra le nuove proposte, infatti, trovo solo lavori dove si fa un gran baccano, inseguendo la trama più avvincente, dimenticandosi, però, che, a volte, non c'è niente di più affascinante che descrivere un noioso pomeriggio nel giardino di casa propria. Ecco un esempio di quattro libri letti di recente: due felici e due, ahimé, infelici. 

felice
infelice
infelice
felice

sabato 11 febbraio 2012

Retaggi scolastici


Galasso
Un botanico di Milano
Incontra Villa
Un fotografo di Agrate
Curioso l'incontro
Sfocia in un bacio appassionato
I due si abbracciano come fratelli
Insegnandosi a vicenda
L'algebra elementare
E le dinamiche dei reggiseni
TANTO PER COMINCIARE
SENZA DEMONIZZARE
IDENTIFICANDO LE VARIE SPECIE CHE…
Piano, piano, non serve correre
La prego mi passi l'imbianchino
Lo sbianchino
Come diavolo si chiama
Il cancellino
Retaggi scolastici
Tipo Andreis che spiega la meiosi
E la partenocarpia

mercoledì 8 febbraio 2012

Attendendo Andrew Bird...

tre dischi di questi giorni due – quello di cohen e della norah – stanchi, lenti, soporiferi, inutili, scontati – uno – quello di paolo – fresco, giovane, accattivante. attendendo andrew bird per il 6 marzo 

sabato 4 febbraio 2012

Affari condominiali: terzo piano, appartamento B


Alle parole dello speaker Fabiano c’era rimasto di sasso: non aveva mai sentito parlare di una cosa del genere. Aveva provato una sensazione nuova, a metà strada fra l’eccitazione e la disperazione. Era esplosa una centrale nucleare in Ucraina. L’Ucraina sapeva a malapena cosa fosse. Uno stato dell’est, sotto l’egemonia sovietica; ma tutto ciò che arrivava dall’URSS era qualcosa di misterioso da cui, probabilmente, valeva la pena mantenere le distanze. Così la pensavamo molti suoi concittadini, assai devoti alla DC e alle numerose formazioni filo-clericali che con le manie della triade Marx-Lenin-Stalin avevano ben poco a che fare. In molti erano ancora convinti che i comunisti mangiassero i bambini, e che fossero, quindi, da contrastare il più possibile, come vittime della lebbra o di qualche altra malattia pestilenziale; i comunisti erano una brutta razza, facevano delle cose losche – appoggiavano il divorzio e l’eutanasia - e i loro intendimenti non erano mai chiari: usavano i servizi segreti per boicottare le iniziative dell’occidente, la civiltà dell’occidente, ben più avanzata di ogni altra, incentrata sui valori della democrazia e dell’uguaglianza sociale. L’uguaglianza sociale, però, non era anche una prerogativa dei bolscevichi? Mah, su questo punto non aveva le idee chiarissime. In ogni caso era certo che, agli occhi di tutti i suoi consimili (e condomini), ben più lungimiranti erano quelli dell’altra sponda, gli americani, gli USA del presidente Kennedy, anche se il presidente Kennedy era morto da più di vent’anni, assassinato da un mingherlino con gli occhi da furetto. Ma a metà anni Ottanta era ancora viva la sensazione che non ci fosse niente di meglio che affidarsi allo strapotere statunitense emancipatosi dopo l’epopea kennedyana e marylinmoriana. Ogni cosa, del resto, se si escludono i robot giapponesi, derivava da lì. E ancora adesso era qualcosa di incredibilmente affascinante, l’America dei cowboy, l’America di We Are The World, l’America dei film di Steven Spielberg e fra poco sarebbe stato l’America del primo ammartaggio: così aveva letto su un giornale di fantascienza trafugato nella biblioteca agratese di via don Minzioni. Nient’altro da aggiungere. Anche se, per Fabiano, non era esattamente così.
Lui la politica la viveva di sbieco, tuttavia gli ambienti che frequentava erano spudoratamente di sinistra. Proprio come il vicino di casa del secondo piano, il giornalista che si occupava di politica estera, segretamente innamorato della quarantenne del primo piano e con trascorsi affini ai gruppi di lotta armata. Non avevano un gran feeling, essendo entrambi sostanzialmente dei misantropi, ma i sorrisi che si regalavano bastavano a ragguagliarsi in merito alle proprie tendenze e a guardare gli altri con vivo snobismo. In realtà, più che da una vera e propria presa di posizione etica, questo suo atteggiamento era dovuto alla sua doppia professione: barista-batterista. Mai sentito parlare di un barista-batterista di destra? Basta la domanda a suscitare ilarità. Fabiano da almeno dieci anni saltava da un bancone all’altro, preparando cocktail e panini con indubbia maestria. Lo faceva con calma e dolcezza, come se tra le mani non avesse delle bottiglie di vodka o champagne, o fette di salame e prosciutto, ma minuscole opere d’arte da preservare e consegnare intatte ai posteri. La grazia faceva parte del suo DNA. Era un po’ così in tutte le cose che faceva. Pareva di sangue blu e invece era il più plebeo di tutti. Dopo qualche anno di gavetta, felice di avere abbandonato gli studi al terzo anno di elettronica, per un po’ di tempo aveva lavorato a Milano, in un centro di unità proletaria dalle parti di Precotto, benché il suo sogno fosse quello di lavorare al Leoncavallo, dove bazzicava con ardore durante il tempo libero; poi aveva avuto un’occasione a Vimercate, in un bar di piazza Marconi, e s’era trasferito definitivamente, per la gioia della famiglia stanca di vederlo rincasare una sera sì e una sera no alle quattro del mattino. Ma l’unico vero lavoro che amava con tutto se stesso e che lo rappresentava come l’ideale di fraternità per un monaco cistercense era un altro: suonare. 
Accompagnava più gruppi musicali possibili, e grazie a questo suo eclettismo arrivava a raggranellare un dignitoso stipendio con cui pagare il mutuo e mantenere la moglie e la figlia. La moglie era una tipina spigliata e vivace conosciuta per caso durante un incontro all’omnicomprensivo di Vimercate sulla pena di morte. Tra un intervento e l’altro Fabiano e la sua band avevano proposto dei pezzi di Bob Dylan, come suggerito dall’organizzatore della kermesse. La moglie di Fabiano s’era fatta avanti per chiedere a uno dei relatori cosa ne pensasse del fatto che in Cina i condannati a morte sono un’infinità ma non destano alcun interesse, al contrario di quelli dei paesi occidentali. Il relatore s’era scaldato, sostenendo che non si possono fare certi paragoni, perché la politica cinese poggia su presupposti civili lontani anni luce dai contesti sociali statunitensi; peraltro la Cina, dal suo punto di vista, aveva molte cose da insegnare agli americani che con il loro concetto di democrazia stavano devastando e assoggettando il mondo.
“I cinesi dovrebbero essere trattati come tutti gli altri”.
“Le ho già detto signorina, che la sua presa di posizione è fuori luogo. Dovrebbe cominciare a leggere qualche testo sulla filosofia comunista in Cina”.
“Mi basta attenermi a quel che raccontano i media”.
“I media sono strumentalizzati dall’occidente. In Italia sentiremo sempre parlare male dei cinesi perché la loro politica ci fa paura”.
“La paura andrebbe combattuta, non insabbiata”.
“Vede signorina che in fondo diciamo le stesse cose?”.
“Non credo proprio, occorrerebbe una volta per tutte avere il coraggio di fare un passo indietro e contribuire seriamente a un dialogo interrazziale”.
Fabiano aveva notato la grinta della ragazza che aveva avuto il coraggio di confutare parte delle tesi messe in campo durante l’incontro e alla fine non era riuscito a fare a meno di sorriderle invitandola a scambiare due chiacchiere. Aveva un atteggiamento che le ragazze non disdegnavano e anche questa volta era, dunque, riuscito a fare centro. S’erano appartati nei pressi dei gabinetti dell’auditorium, di fianco a un grande cartellone indicante l’imminente rappresentazione de Il lago dei cigni e, fin dall’inizio, s’erano trovati a loro agio: la ragazza si chiamava Simona, e guarda caso – Bob Dylan a parte – amava tutto ciò che non era convenzionale, compresi i ragazzi non convenzionali come Fabiano. L’anticonformismo della nuova conoscenza, del resto, era facilmente perscrutabile: i ragazzi seri non andavano in giro con la maglietta degli Smiths, i pantaloni stretti sul fondo e delle scarpe da ginnastica devastate dall’usura e dall’attività batterica. Da lì era scattata la scintilla che li avrebbe portati nel giro di pochi anni all’altare e alla nascita dell’unigenita, Benedetta.
C’era un palazzone a Omate che faceva proprio al caso loro: il paese era alla giusta distanza dai rispettivi genitori e comodamente raggiungibile da Milano, dove Simona lavorava per l’ufficio stampa di una casa editrice che trattava riviste e manuali per architetti e designer; non era il suo lavoro, ma per partire con la famiglia andava benissimo. In seguito non le sarebbe dispiaciuto gestire la comunicazione di qualche importante gruppo politico meneghino. Aveva un’amica che lavorava per il PCI, Rosalba Mariani, conosceva tutti gli esponenti politici del momento, ed era sempre in giro: una professione davvero affascinante, che, peraltro, le consentiva di mettere da parte un bel po’ di soldi. Il collegamento con Milano era congegnale anche a Fabiano che provava nel capoluogo lombardo, in una sala di registrazione buia e puzzolente ricavata da un ex rifugio antiatomico. Non c’erano le finestre per consentire un’aerazione adeguata e in certi momenti il tanfo prodotto dai presenti, associato alle esalazioni dei muri intrisi di umidità, era qualcosa di assolutamente stomachevole. La visita all’appartamento B del terzo piano s’era risolta in un battibaleno, convincendo fin da subito sia i due sposini che l’agenzia immobiliare. Un mutuo da risolvere in una ventina d’anni era la soluzione ideale per tutti, anche se Fabiano rabbrividiva ogni volta che gli veniva ricordato che fino al 2006 avrebbe dovuto versare alla banca una cospicua parte del suo mensile. Era sostanzialmente identico a quello dei due piani sottostanti. Un gemello dell’appartamento dei Vismara, benché più pulito e ordinato, con un muretto che divideva l’ingresso dal vicino salotto contraddistinto da un voluminoso camino. Simona, nonostante gli impegni di lavoro e Benedetta, riusciva a tenerlo sempre lindo e invitante. Non era certo merito di Fabiano, caotico di natura, e totalmente disorganizzato. Avevano conosciuto fin dal primo giorno i membri della famiglia Tresoldi che abitavano l’appartamento A del terzo piano, con una bambinetta di nemmeno dieci anni. Erano stati così gentili da presentarsi alla porta dei nuovi venuti con una scatola di cioccolatini, mai così gradita dai neo sposini.
Ma erano altri tempi, se non più belli, sicuramente più sereni. Poi Simona, nonostante i buoni propositi di voler cambiare lavoro, era andata avanti a servire le esigenze della casa editrice Floriana; mentre Fabiano passava da un gruppo all’altro, alternandosi dietro ai banconi dei bar in grado di offrigli un buco grazie al quale far quadrare i bilanci familiari. Ma rimaneva la musica la sua grande passione e valvola di sfogo. Di solito le band di cui faceva parte duravano due anni, poi, vedendo che le uniche porte che riuscivano a sfondare erano quelle degli spogliatoi delle ragazze di pallavolo, si muovevano verso nuovi lidi. Con l’ultimo gruppo, però, le cose erano andate decisamente meglio. Aveva, infatti, appena terminato un tour per mezza Europa, diramato da un management coi fiocchi facente capo a un entourage di ex musicisti con base a Zurigo. Avevano suonato soprattutto in Svizzera, Germania, Francia e Belgio, più una data estemporanea in un paesino della Cecoslovacchia, frequentando locali grigi e fatiscenti, nel ventre putrido delle città che sceglievano di invitarli per tenere testa a giovani scalmanati vogliosi di infrangere le regole. Erano in pratica finiti il più delle volte in centri sociali, dove falce e martello troneggiavano ovunque come capitelli dorici in un tempio greco. A Berlino erano stati accolti come dei messia, anche se viaggiavano su un pulmino che perfino un rom avrebbe ritenuto inadeguato al proprio criterio di sussistenza. L’etichetta che li aveva tenuti a battesimo aveva provveduto alla pubblicità e ora i Lazy Pigs erano più famosi all’estero che in patria. L’ultimo disco, intitolato Peace and (no) love aveva già venduto quasi diecimila copie. Anche vari magazine e fanzine italiane ne avevano parlato, giudicandoli degni delle migliori avanguardie londinesi e berlinesi, ma quasi nessuno li aveva seriamente presi in considerazione. Nel 1986 comandavano nel Belpaese, ancora succube dei fasti sanremesi, i vari Venditti e Baglioni, per gli altri c’erano ben poche chance di dettare legge, figuriamoci chi aveva l’arroganza di proporsi addirittura in lingua inglese. Spocchiosi da quattro soldi.
Proponevano un genere musicale indescrivibile a metà strada fra il garage e la new wave. Era un nuovo movimento, per non dire nuovissimo, con un ampio uso di chitarre e synth e ritmi indiavolati di batteria, coi quali Fabiano andava a nozze. Era andato a scuola da Valerio Malara, un batterista con trascorsi con Tullio De Piscopo, ma con un credo unico e assoluto: l’heavy metal. Perciò tutti coloro che passavano dalle sue grinfie finivano per picchiare sui tamburi come un metalmeccanico prossimo alla cassa integrazione che si sfoga sulla carcassa di una automobile da ridurre in cenere. I concerti dei Lazy Pigs prevedevano, pertanto, la distruzione totale dei timpani; e se si aveva la malaugurata idea di starli a sentire sotto agli altoparlanti, addio per sempre all’udito. Gli acufeni avrebbero imperversato fino a far impazzire l’incauto appassionato di musica live. Con ciò non dovrebbe stupire se, chi non aveva dimestichezza con le novità musicali del periodo, il sound dei Lazy Pigs avesse un solo nome: baccano infernale dal quale stare tenacemente alla larga, roba da indiavolati, drogati e nullafacenti, improponibili padri di famiglia condannati a una vita di stenti ed entrate e uscite dal carcere.
Comunque sia, la band omatese poteva dirsi orgogliosa dei traguardi maturati fino al giorno dell’esplosione del reattore di Chernobyl; è per questo motivo che ogni membro dell’ensemble, in cuor suo, nonostante il trascorrere degli anni, e l’inesorabile avanzamento dell’età, in combutta con l’iconografia classica della rock-star, nutriva la seria intenzione di riuscire un giorno a calcare definitivamente questa strada e poter fare il musicista a tempo pieno, abbandonando tutti gli altri lavoretti da proletari sottopagati e super incazzati. Per il momento, però, una volta a casa, c’era solo da rimboccarsi le maniche, soprattutto per chi, come Fabiano, aveva un duo sul gobbo con cui era sceso a patti inderogabili. Dall’ultima tournée era tornato stremato, dimagrito di cinque chili e con le occhiaie che avevano sbiadito anche le guance sottostanti, normalmente rosse e rubiconde.
“Sei conciato da fare schifo”, erano state le parole di accoglienza della moglie.
“Sei gentile”.
“Quando ti deciderai a trovare un lavoro normale, come tutte le persone normali? Non vedi che tua figlia si vergogna di dire a scuola quello che fa suo padre?”.
Fabiano aveva taciuto come un cane preso a sberle. Non era il tipo da ribattere alla moglie. Se qualcosa non andava preferiva chiudersi in se stesso e aspettare tempi migliori. Del resto non era mai piacevole il rientro a casa dopo un tour. Ma in questa occasione era stato ancora più traumatico: l’indomani l’avrebbe aspettato un doppio turno al Fagiano, locale milanese sui Navigli, attivo dalle otto di mattina alle tre di notte, per convincere la moglie che il suo doppio lavoro era una garanzia. Ma la moglie, ormai, aveva perso le speranze nel marito e non ne voleva più sapere delle sue tragiche vicissitudini professionali. Quando ripensava al giorno in cui l’aveva conosciuto, nel corso della conferenza sulla pena di morte, si metteva le mani nei capelli, e versava sommessamente lacrime amare. Come aveva potuto non rendersi conto che quello che aveva appena conosciuto, benché agile con le bacchette, non l’avrebbe portata da nessuna parte? Tuttavia, al momento del disastro ucraino, era ben lontana dalla sua ex dolce metà e, dunque, dal suo sbigottimento di fronte alla inusuale notizia, della quale non avrebbe saputo nulla fino all’indomani, con l’acquisto del Corriere della Sera: da un paio di mesi s’era trasferita con la figlia da sua madre, a Settala, lasciando il marito in condizioni deplorevoli, con l’arduo compito di vendere al più presto la casa in cui avevano abitato per nove anni, e avviare le pratiche di divorzio. C’era anche la faccenda mutuo da regolare, visto che mancavano ancora più di dieci anni dalla sua assoluzione. Non era nell’aria un patatrac del genere, in fondo, più per la figlia che altro, erano arrivati a sopportarsi con eleganza e dedizione: il problema è che Fabiano, questa volta, l’aveva davvero combinata grossa.
Una sera dopo un rocambolesco concerto a Pavia aveva conosciuto una ragazza inglese di nome Catherine. Veniva da Manchester. Manchester era la città preferita da Fabiano e solo per questo chi veniva da lì acquisiva ai suoi occhi vari punti in più. Era la città dalla quale provenivano tutte le sue band preferite e dove secondo lui la cultura aveva tutto un altro tiro. Per quel che il concetto di cultura potesse farlo realmente sorridere. Laggiù si respirava il vero senso del proletariato, l’unico contesto sociale nel quale, pur non riconoscendosi apertamente in un movimento politico, si ritrovava come un piccolo di Labrador nella sua nuova cuccia. A Manchester ci sarebbe andato a vivere, se fosse stato per lui, perfino col cielo perennemente grigio, pregno di acqua e umidità, come lasciavano presagire i racconti del National Geographic, che leggeva ogni volta che andava dal dentista o dal dottore. Lì valeva perfino la pena vivere da mentecatto. C’era poi un altro particolare non del tutto trascurabile: Catherine era oggettivamente uno schianto, con un’aurea da “saltami addosso ora o mai più” che avrebbe rintronato perfino il nonno di Fabiano, in andropausa da un paio di decenni. Era una biondina alla Kim Basinger, tanto avvezza all’alcol quanto alle bottarelle da una notte e via. La ragazza aveva notato Fabiano esibirsi sul palco del Rococò e a fine concerto l’aveva invitato a bere qualcosa. Parlava a stento l’italiano, ma il batterista dei Lazy Pigs riusciva a capirla benissimo, anche grazie alla sua egregia mimica, degna di un’attrice della Scala. Quando aveva dovuto fargli capire che doveva correre in bagno s’era accovacciata alzando la gonna e mostrandogli le mutande con le fragoline, sibilando il classico motivo legato allo scroscio delle acque vescicali. Ma le cose non erano certo finite lì. I due erano andati avanti a bere in tandem fino alle due e mezza del mattino e quando s’erano trovati sul punto di congedarsi – o consumarsi vicendevolmente ai piedi di qualche siepe - a Fabiano era venuta la brillante idea di invitarla a casa sua, tenuto conto del fatto che la moglie era via per lavoro e la figlia dai nonni. Per almeno quarantotto ore se la sarebbero potuta godere in santa pace.
Non era la prima volta che Fabiano tradiva la moglie: in otto anni – se si escludono fugaci effusioni senza tragiche conseguenze - c’erano già stati un paio di episodi, dei quali, naturalmente, la partner non aveva mai saputo nulla. Uno s’era verificato in occasione della citata data in Cecoslovacchia con un’abitante del posto, vogliosa come un babbuino dopo anni di cattività, in compagnia esclusiva di oche, anatre e colibrì, figure secondarie di uno zoo destinato al fallimento. Alta, mora, fisico palestrato, un seno da maggiorata, con i collant rigorosamente bucati in corrispondenza di entrambi gli alluci e una passata di rimmel da sfidare gli occhi di un barbagianni, non aveva perso tempo a farsi “il tipo della band che suonava la batteria”: era filata liscia come l’olio, ma lui era talmente fuori che il giorno dopo non ricordava nemmeno il nome di colei che gliel’aveva appena trastullato con tanta avidità. Ma gli andava bene così: non aveva nessuna intenzione di stringere rapporti con una beota mezzo russa, presumibilmente capace solo di produrre latte in grande quantità.
La seconda performance fedifraga era andata un po’ meglio, con un po’ più di cuore, e aveva avuto come protagonista Monica Bucchi, una giovane di Caponago che seguiva i Lazy Pigs per ogni dove, comprese le suddette performance per l’Europa. Minuta, né più né meno come Simona, ma decisamente più sfrontata, andava in giro con una automobile verniciata di rosa e un abbigliamento a dir poco appariscente, più consono a una ballerina di burlesque che non a una fan dei Lazy Pigs. Vari tatuaggi le ricoprivano il corpo, anche in zone ben esposte, sottolineando a chiunque la sua originalità. Aveva già avuto un flirt con un membro del gruppo, con il cantante della band, Gianluca Remigi, che s’era protratto per qualche mese, prima della sua definitiva capitolazione con una brasiliana conosciuta dopo un viaggio a Salvador de Bahia. Anche qui, dunque, la miccia s’era accesa in seguito a un’esibizione live: Fabiano, con un calice di birra in mano, rubato al bancone del bar appena dimesso il ruolo di musicista, s’era inventato giullare di corte giochicchiando con il ciuffo della ragazza, laccato di fresco, sollecitando inevitabilmente le sue voglie sessuali. Alla fine, dopo aver tergiversato per una buona oretta in un luogo sufficientemente romantico, s’erano concessi l’uno all’altro nel parcheggio della STAR, sotto la provocatoria scritta illuminata da lampadine colorate che inondavano l’intera via Lecco:
“Mi piace fare sesso in macchina”, aveva detto lei.
“Non sempre è comodo, ma ci si può accontentare”.
“Sai essere elegante anche in questi frangenti”.
“Ti ringrazio”. 
Fabiano aveva riso.
“Uno come te è proprio il tipo giusto da sposare”.
“Per sfortuna sono già sposato”.
“Cosa intendi dire?”.
Fabiano le aveva morso il lobo dell’orecchio.
“Lasciamo stare. La notte brama di vita e spensieratezza. Non roviniamola con assurde...”.
“Vieni qui maialino mio”.
Dopo l’episodio c’erano stati altri potenziali momenti per macchiare la propria fedeltà coniugale, ma per un motivo o per l’altro non si era avuto un seguito della vicenda, forse anche perché di lì a poco le attenzioni di Monica sarebbero state catturate dal terzo della lista, Rocco Primula, tastierista della band. Ma con Catherine, Fabiano, aveva oggettivamente passato ogni limite, sconsacrando per sempre il patto sancito di fronte a don Michelangelo, nel piccolo tempio di San Zenone.
C’era da rientrare da Pavia, e non era uno scherzo con tutto l’alcol che avevano in corpo: non sempre finivano per bere così tanto, ma quella sera, complice un pubblico a dir poco eccitato, con fan che si lanciavano dal palco contando ciecamente sulla franca e solidale presa del pubblico, era andata così; non c’erano peraltro altre date nei paraggi e nessuna bettola prenotata nelle vicinanze: non restava, insomma, che rimettersi in carreggiata per il capoluogo. Cristiano Galbusera, il più morigerato della band, di mestiere barista-bassista, felicemente single, con trascorsi dubbi nel campo della moda, s’era preso carico di accompagnare a casa l’allegra comitiva. Capitava quasi sempre a lui l’arduo compito, anche se ogni volta lo si sentiva imprecare gli angeli e la madonna. Ma era un ragazzone così disponibile, che frequentemente chi gli chiedeva un piacere finiva per provare per lui un sincero senso di colpa. A bordo del camioncino tutto scassato della band, Fabiano e Catherine s’erano accucciati nella coda del mezzo, il vano di solito predisposto a ospitare casse, fili, mixer e strumenti vari, con il vivido proponimento di concedersi un viaggio in solitaria; un’asta del microfono s’era conficcata nel didietro della giovane inglesina, ma curiosamente sembrava non darle alcun fastidio; mentre Fabiano ne osservava gli impercettibili spostamenti per trovare in ogni caso la posizione più idonea per proseguire fino a casa.
“Sei comoda?”, le aveva chiesto.
Lei rideva.
“Non ti dà fastidio...”.
“I love you, I love you. And do you love me?”.
Durante il tragitto ci aveva provato spudoratamente, cercando di farsi strada nella lampo dei suoi jeans e gemendo come un bambolotto robotizzato rimasto senza il biberon. Ma il Lazy Pigs, da vero signore, se non altro per rispetto dei commilitoni, l’aveva ammonita con uno sguardo da vero “uomo che non chiede mai”.
“Just a moment”.
Non si potevano fare certe cose in pubblico mentre c’era chi assolveva compiti ingrati teoricamente da risolversi in fraterna collaborazione. Era l’etica del gruppo. Ma l’aveva presa bene, e le aveva regalato una felice sequenza di baci appassionati che avevano mandato in delirio la groupie, auspicando un futuro imminente da Mille e una notte. Andava una vecchia canzone di Van Morrison intitolata Rolling Hills, e nel cielo brillavano le stelle preannunciando un domani soleggiato e pieno di grazia. Per un attimo il ragazzo s’era messo a pensare alla moglie e alla prima volta che s’erano baciati. Si trovavano in campagna, a passeggio, fra le radure omatesi e quelle caponaghesi, sormontati da un inebriante cielo disseminato di nuvolette a forma di batuffoli di cotone. Dopo essersi strattonati qua e là, come fanno i teenager per vincere l’imbarazzo del primo approccio, Fabiano l’aveva presa con forza fra le sue braccia e, fissandola negli occhi come un divo hollywoodiano, l’aveva baciata con un’intensità sopraffina. Se il primo bacio era andato bene, c’erano tutti i presupposti per volare insieme verso nuovi orizzonti, ciò che, in effetti, s’era poi verificato. Come li sentiva, però, lontani quei tempi, e come aveva ragione chi diceva che l’amore è solo un’immensa illusione:
“Speri nell’amore eterno e quel che ti ritrovi in tasca dopo pochi anni è solo una brutale gatta da pelare”.
“I love you, I love you. And do you love me?”.
Arrivati a casa, assonnati come marmotte prossime al letargo, s’erano preparati un doppio caffè e avevano cominciato a darci dentro con una foga, che lo stesso Fabiano, aveva giudicato quantomeno esagerata. Non s’era ancora tolto la maglietta che la giovane stava già dando il meglio di sé per regalare al musicista il godimento più eccelso. La trovava davvero eccitante, ma aveva anche pensato che, evidentemente, una tipa del genere, fosse molto più vicina a una del mestiere che non a una moglie normale come la sua Simona. Al confronto la sua partner storica poteva sembrare addirittura pudica. Ma non erano certo gli scrupoli a interferire con la sua libidine. Fosse stata anche una conclamata donna di strada, per quell’occasione trovava che andasse benissimo. In fondo erano solo quarantotto ore di libertà. Un volta raggiunto il letto, la concubina aveva, dunque, preso a sbattere i pugni contro il muro, saltando come un cavallo al galoppo sul torace dell’impavido batterista, con il cuore in tachicardia. Fabiano era troppo rimbambito per capire quanto stesse accadendo e correre ai ripari e così, nel giro di una decina di minuti, erano partite le telefonate di Zanetti, del piano di fianco, inalberato come pochi. Le prime chiamate erano andate a vuoto, ma al terzo tentativo il padrone di casa non aveva potuto fare altro che scoprire chi cercava di mettersi in contatto con lui con tanta insistenza: sbalestrata di forza la cavallerizza, persa in mondi metafisici, aveva impugnato la cornetta del telefono con la stessa dolcezza con cui sceccherava un Negroni sbagliato, pronto a svelare l’arcano mistero.
“Sì, pronto...”, aveva mugugnato in piena crisi orgasmica.
“Pronto un cazzo, adesso vengo lì e ti spacco la testa!”.
La crisi orgasmica era sbiadita in un nanosecondo, e Fabiano all’improvviso s’era ritrovato coi piedi per terra.
“Cosa succede?”, era l’unica frase che era riuscito a pronunciare, pur conscio della sua totale inutilità.
“Ma che cazzo state facendo? Siete rincoglioniti? Sono le quattro di mattina!”.
Fabiano aveva tossito senza la reale necessità di dare sfogo al diaframma, sospinto, semmai, da un crescente stato d’ansia.
“Sì, no, beh... mi scusi...”.
“Mi scusi un cazzo, siete proprio dei coglioni. Se non la piantate chiamo i carabinieri!”.
Catherine rideva. Rivoli di saliva le scendevano dalle labbra, mentre cercava in tutti i modi di riconquistare la bocca dell’amato, in oggettiva defaillance.
“Forse è il caso di evitare schiamazzi?”, aveva domandato Fabiano, incapace di prendere una valida decisione. 
Ma lei non aveva orecchie e guaiva come se niente fosse e solo per puro caso aveva quindi smesso di prendere a pugni la parete, evitando l’arrivo delle forze dell’ordine; s’era accorta, in effetti, che lo stesso  compiacimento poteva essere raggiunto tirando con forza i capelli dell’amato. Così erano andati avanti fino alle prime luci dell’alba, quando, sfiancati oltre ogni immaginazione, s’erano addormentati uno accanto all’altro.
S’erano ripresi dopo l’ora di pranzo, con gli occhi rimbecilliti e un alito da arma batteriologica, e all’unisono avevano deciso di farsi una doccia. Erano già nudi, per cui il passo per mettere in atto la prima azione pomeridiana era stato breve. Con l’acqua che scendeva s’erano immedesimati di nuovo nel film interrottasi alle 6.30 di mattina, divertendosi ancora come matti, con in più il fascino delle gocce di pioggia che scivolavano sulle loro pelli in escandescenza. Catherine aveva ripreso a ridere senza freni, dando seriamente l’impressione di non avere ancora smaltito la sbornia della serata precedente. Sicché Simona, rientrando con largo anticipo dalla trasferta di lavoro, dopo aver disserrato la porta blindata, non aveva potuto credere alle sue orecchie. Per un attimo aveva temuto di soffrire di allucinazioni acustiche. Non era una cosa così strana. Sua nonna, ormai ultranovantenne, era solita credere che per strada stessero recitando a squarciagola il rosario, col sottofondo di grida naziste, quand’era evidente che era tutto frutto della sua immaginazione. Nel suo caso poteva, dunque, essere colpa dello stress: dormiva male da almeno tre notti e le preoccupazioni per la casa non le davano tregua. Ma la verità era ben più spiccia: le voci che stava sentendo erano vive e vegete, il suo cervello non aveva alcun difetto, c’era qualcuno di troppo nel suo appartamento… Ne aveva avuto prova muovendosi catatonicamente verso il bagno come attratta da un abbaglio miracoloso. Andava la doccia e all’interno del box si intravedeva una massa enorme di carne che si contorceva su se stessa. Non era riuscita a trattenersi e, in preda al presentimento più cupo, aveva aperto con un guizzo una delle due ante del servizio; trovandosi innanzi alla nuda e cruda consapevolezza di essere stata tradita senza ritegno. 
“Ma tu guarda questo lurido porco…”.
Fabiano per poco non era svenuto.   
“E da dove arriva la puttana?”.
Christine non capiva l’italiano, ma aveva inteso ogni cosa e per un breve istante s’era resa perfino conto che forse non era più il caso di ridere come una demente. Quella che si trovava di fronte, con ogni probabilità, era la moglie del tipo che si stava spudoratamente facendo sotto la loro doccia e della quale non aveva mai sentito parlare: aveva gli occhi fuori dalle orbite e se avesse avuto in mano un coltello, si sarebbe scagliata su entrambi eliminandoli senza pietà. Invece era stata molto più contenuta: 
“Sei davvero un porco, lurido, infame. E adesso che gli racconterai a tua figlia?”.
Simona, senza aggiungere una parola di più, se n’era andata devastata da una rabbia sovrumana, ma evitando di versare lacrime. In fondo c’era una considerevole parte di sé che aspettava da sempre questo momento, per mettere una volta per tutte la parola fine alla sua storia malata. Di lì a tre giorni avrebbe preparato le valigie sparendo per sempre dalla miserabile vita del marito barista-batterista.