mercoledì 3 marzo 2010

Brianza Borderline: "Charlotte, la luce buona delle stelle"

A quei tempi Gabriele non vedeva altro che lei: Charlotte. Al mio amico piaceva proprio tutto di quella ragazza: il suo corpo, la sua mente, la sua anima… Gli andava a genio perfino quella specie di voglia gigantesca che le ricopriva buona parte del viso, un capriccio epidermico che aveva il potere di ricordargli il sangue raggrumato. La gente comune - dal panettiere, dal macellaio, dal fruttivendolo - luoghi dove era assai più facile che altrove scambiarsi battute feroci, parlava di quella macchia straordinaria come di uno sberleffo del destino, che la povera ragazza si portava addietro sin dalla nascita; altri, soprattutto le sue coetanee - quelle tanto per intenderci - con lei in competizione nella disperata rincorsa al belloccio di turno, di una bella sfiga che si meritava: altrimenti, data la sua avvenenza, c’era da scommetterci, i ragazzi se li sarebbe portati via tutti lei. I medici, gli specialisti, i dermatologi, avevano fatto del loro meglio, nel tempo, per ridimensionare il più possibile quell'eccentrico e inusuale disegno della pelle, tuttavia i risultati erano stati ben al di sotto delle aspettative. In ogni caso, Charlotte piaceva, piaceva quasi a tutti i ragazzi dell'epoca, e più che mai piaceva al buon vecchio Gabri. Prima di lei, il mio amico, aveva avuto solo sporadiche e pressoché inconcludenti avventure con l'altro sesso. Con Lisa, una compagna di classe delle scuole medie, era stato fidanzato non più di 24 ore: per i tempi che correvano, comunque, un vero record. Era il periodo dell’eccezionale nevicata del 1985. I due avevano deciso di fidanzarsi un pomeriggio nel corso della festa di compleanno di Monica, alunna della loro stessa classe; il giorno dopo si erano lasciati. Un laconico “Addio, non mi piaci più”, gli aveva detto lei, e l'intrallazzo era finito lì. Poi era arrivata Beatrice, con la quale le cose erano andate un pochino meglio. Con quest'ultima, Gabri, percepì per la prima volta il magico calore delle labbra di una ragazza. La nuova arrivata, peraltro, era gradita anche a tutti gli amici di Gabri, me compreso; inoltre ascoltava gli Housemartins, che non erano male, non erano soprattutto le solite melense e agonizzanti nenie alla Claudio Baglioni. Ma ora era comunque arrivato il momento di voltare pagina. Adesso c’era Charlotte. E tutte le altre erano delle emerite signore nessuno. Tutte le altre, al massimo… erano ancora Charlotte.
"Charlotte? - gli domandavano gli amici.
"Già".
"Perché allora non ti fai avanti?".
"Perché...".
"Sì, perché non muovi il culo al posto di star lì come un pesce lesso ad aspettare la manna dal cielo!".
Il punto è che quasi nessuno sapeva quale fosse veramente il carattere di Gabri. E quindi non un’anima era al corrente del fatto che, per il mio amico, era quasi impossibile pensare di farsi avanti con una ragazza secondo le tradizionali tecniche di abbordaggio: inviti al cinema, giretti a Monza, aperitivi al Ragno Verde; appunto, il classico "muovere il culo". Per lui sarebbe stato uno sforzo emotivo troppo intenso: da infarto. Sicché, la faccenda, si risolse in modo a dir poco rocambolesco: Gabri escogitò una mossa quantomeno bizzarra per far breccia nel cuore della sua amata, sempre e comunque curandosi meticolosamente di non correre il rischio di mettere a repentaglio la salute delle sue coronarie. Il ragazzo decise di farsi fotografare in bianco e nero dalla sorella Mariangela, per poi far pervenire - di nuovo scomodando quest'ultima, non a caso compagna di classe della prima - gli scatti a Charlotte. Mediante questa idea geniale, pensava, la sua ambita dolce metà si sarebbe così resa conto che la sua amica aveva un fratello davvero carino, per il quale valeva assolutamente la pena mettersi in gioco: per il quale era necessario trovare al più presto un espediente per poterlo incontrare. Diavolo di un Gabri: da uno come lui, figuriamoci, una cosa del genere non ce la si sarebbe mai aspettata. E invece è proprio ciò che accadde. Il giorno in cui il giovane decise di rivolgersi alla sorella per aiutarlo in questo senso, Mariangela se ne stava quieta e beata rintanata nella sua camera a leggere un libro di fiabe di Yeats. Era un fosco pomeriggio di fine settembre, e mancava poco all’inizio dei corsi propedeutici in università.
"Mari...".
"Sì?".
"Sono io".
"Che c'è?".
"Una cosa".
"Entra”.
"Volevo chiederti un piccolo favore".
"Spara".
"Se mi fai delle foto".
"Sei scemo?".
"No".
"Adesso?".
"No, beh, non adesso, magari uno di questi giorni".
"Il motivo, se mi è possibile domandartelo?".
"Perché vorrei farle avere a una tua amica".
"Eh?!".
"Volevo chiederti se mi puoi fare delle foto per poi mostrarle a Charlotte".
"A chi?!".
"A Charlotte".
"Oddio Gabri, ma sei sicuro di stare bene?".
"Sto bene, Mari, non ti preoccupare, ma...".
"Ah, ti rifai all'altra volta! Al giorno del concerto!".
"Beh, sì, mi sembrava una buona idea per rompere il ghiaccio".
"A me sembra una sciocchezza, comunque…".
"Comunque?".
"Comunque se vuoi te le faccio".
"Lo sapevo che mi avresti aiutato".
Pochi giorni dopo, come previsto, Mariangela, si ritrovò tra le mani una strepitosa sequela di scatti in bianco e nero. Ritraevano il mezzobusto di Gabri come non lo aveva mai visto nessuno, tranne forse in occasione della comunione o della cresima. In alcune foto indossava una giacca grigia, in altre una cravatta blu, in altre ancora un farfallino nero. L'espressione del volto, in compenso, era sempre la stessa: seria, da vero macho. Erano fotografie che viste oggigiorno farebbero morire dal ridere chiunque, ma che più di quindici anni fa, probabilmente, riuscivano a fare la loro eccelsa figura. A tal punto Mariangela fu pronta per recarsi da Charlotte con una scusa qualsiasi per mostrarle il frutto del suo operato. Assolse il compito nel corso di un procelloso pomeriggio di fine settembre: nel cielo erano ancora presenti dei grossi nuvoloni neri, ma brillavano anche degli ampi squarci di azzurro-blu, a testimoniare il fatto che probabilmente la pioggia non sarebbe tornata a nuocere. Non faceva né caldo, né freddo. Si stava bene, si respirava un’aria salubre, pulita, tersa. Aggrappati al cielo veleggiavano - compiendo cerchi tanto perfetti che perfino un Giotto gaudente non avrebbe saputo comporre meglio - degli uccelli neri, forse cornacchie. Mariangela indossava una tshirt blu in tinta unita e un giubbettino in jeans, un paio di pantaloni in cotone della Mash e le Nike. L’appuntamento per quel pomeriggio, le due eroine di piazza sant’Eusebio, se l’erano dato a scuola in mattinata durante l’ora di religione. Don Guglielmo quel dì s’era messo a parlare dell’ascensione e dell’assunzione.
"Spesso le persone le confondono – diceva il reverendo – in realtà con ascensione intendiamo l’ascesa di Gesù al cielo quaranta giorni dopo la resurrezione. Con assunzione indichiamo invece la salita al cielo dell’anima e del corpo della Madonna. È il momento del suo trapasso, chiamato anche dormizione”.
"Grazie don, ma avremmo preferito parlare di sesso, droga e altre faccende simili - aveva mugugnato qualcuno, mettendo in crisi l'anziano sacerdote.
Mari si incamminò speditamente per via Dante, in fondo alla quale abitava la compagna. Aveva con sé un ombrello - non si sa mai - le aveva raccomandato mamma prima di uscire - potrebbe ricominciare a piovere - e naturalmente lo zaino. Dentro lo zaino, oltre ai libri necessari a risolvere lo studio di alcune funzioni, c'erano le foto di Gabri.
Durante il tragitto la ragazza si perse con lo sguardo sui muri della dimessa villa Angiolini, un gigantesco parallelepipedo predisposto per un film di Tiziano Sclavi; in quella casa dove da piccina c’era andata così tante volte con il fratello: a caccia di fantasmi; la prendevano d’assalto dalle cantine e correvano su fino ai piani alti della costruzione, servendosi di una pericolante scala in legno. La villa era soffocata dalla solita boscaglia grigioverde ed emanava la consueta aria sinistra. Poi incontrò l'angolo tra via san Francesco e via Dante, laddove, anni prima, sorgeva il scialbo e maleodorante colorificio di colui che sarebbe presto diventato un pezzo grosso della politica del paese: il vicesindaco per l’esattezza, nonché assessore ai servizi sociali. Infine fu la volta della bella casa di Charlotte, meta della sua breve cavalcata pomeridiana. Era una costruzione contraddistinta da un tetto insolitamente tinteggiato di verde, fortemente spiovente, con l’edera che vi si arrampicava su, quasi fino in cima; da muri con i mattoni a vista, persiane dello stesso candeggio del tetto, eleganti tende rosse vivacemente ricamate alle finestre; due grossi vasi pieni di gerani vermigli - ancora rigogliosi nonostante l’imminente sopraggiungere della stagione fredda - che risaltavano superbamente da una parte e dall’altra dell’ingresso principale. Una casa davvero singolare per gli standard dell'epoca, al punto che, qualunque architetto - o esperto in campo immobiliare - se mai si fosse trovato a doverla esplorare per la prima volta, avrebbe giudicato di impronta molto più mitteleuropea che non brianzola.
In quella dimora Charlotte ci abitava con mamma, papà e un numero imprecisato di fratelli: molto più grandi di lei, questi ultimi, nessuno, a parte gli amici più intimi, sapevano quanti fossero esattamente. C’era chi diceva che fossero in cinque e chi di più. Sul primogenito, in particolare, aleggiava un insoluto mistero. Qualcuno diceva che si fosse arruolato in qualche corpo speciale militare o paramilitare, la cui identità di chi ne fa parte va tenuta segreta anche agli affetti più cari. In ogni caso di questo ragazzo non si era saputo più nulla da quella volta che aveva lasciato casa per una missione speciale in Iran. Con la famiglia di Charlotte abitava anche un bell’esemplare di cane san Bernardo: tanto bello quanto sciocco, paranoico e antipatico. Il suo unico scopo nella vita pareva essere esclusivamente quello di trascinare la sua gigantesca mole dal giaciglio sul quale dormiva alla ciotola - grande come un lavandino - nella quale divorava tutto ciò che gli passava sotto il naso. Il suo nome era Guadalquivir, un nome pressoché insignificante per il mondo, ma non per i genitori di Charlotte: sulle rive del noto fiume spagnolo – 657 chilometri di Andalusia, architettura moresca, flamenco - i suoi vecchi avevano infatti pomiciato per la prima volta, parecchie lune addietro.
“Ciao bella! – disse Charlotte al sopraggiungere dell’amica.
"Ciao bella!".
"Allora?".
"Allora cosa?".
"Tutto ok?".
"Più o meno?".
"In che senso?”.
"Mi fa ancora male il braccio".
"Per ieri a educazione fisica?".
"Già".
"Hai preso una bella botta".
"Puoi dire giuro. Quella stronza della Battisti non mi ha voluto ascoltare".
"Gliel'avevi detto che non potevi fare ginnastica".
"Certo che sì! Le avevo detto che avevo piegato male il gomito a tennis".
"Che stronza".
"E poi mi fa fare pure il salto con la cavallina... si vede che scopa troppo poco".
"Dici?".
"Dico".
"Dai vieni, entra".
L’ingresso della casa di Charlotte si apriva su un soggiorno maestoso, elegante, ordinato. C’erano due divani in pelle, dei tappeti persiani, un paio di piante lussureggianti su un tavolino intarsiato nei pressi della scala che conduceva al piano superiore; quadri antichi alle pareti – il più ingombrante ritraeva un tale con una parrucca settecentesca - una pila di riviste di arte, un pomposo veliero sulla lunga mensola situata di fianco al camino.
"Comunque vediamo di muoverci con questi esercizi di matematica... - disse Charlotte.
"Hai premura?".
"Almeno usciamo prima".
“Hai già sentito qualcuno?":
“Mi ha chiamato Stefano".
"Che dice?".
"Non ci crederai".
"Cosa...".
"Mi ha detto che forse oggi viene in macchina”.
"Non ci credo".
"Giuro".
"Cazzo, era ora".
"Era ora sì".
"Il padre s'è finalmente deciso a mollargliela”.
“A quanto sembra”.
“Che padre rompi coglioni".
Risero entrambe.
Le funzioni algebriche razionali se le erano lasciate alle spalle da un pezzo e ora era arrivato il turno di quelle goniometriche.
"Impestate come pochi, un vero puttanaio - reclamavano i liceali maturandi, zeppi di brufoli e punti neri. Seno, coseno, tangente, cotangente...
In camera di Charlotte, entrambe accomodate alla scrivania, partirono con la prima funzione del pomeriggio: y = ½ (senx - √3cosx – 1). Mariangela - che era decisamente più forte di Charlotte coi numeri - prese a governare i lavori.
“La funzione si può anche scrivere y + ½ = sen(x - ∏/3) - disse la sorella di Gabri - dunque basta eseguire la traslazione degli assi, x = ∏/3 + x, e y = - ½ + y, per avere la nota sinusoide traslata”.
Su un quadernetto degli esercizi, spiegazzato e disordinato, Mariangela compose una linea marezzata, un'onda del mare che proseguiva il suo galoppare all’infinito. Charlotte non disse nulla, ma la sua faccia parlava da sé: era quella di chi fa finta di aver capito tutto, ma non ha capito un bel niente.
"Capirò meglio più avanti - si disse.
“La seconda funzione è y = 1 – cosx/ 1 – senx – proseguì Mariangela –. Qui, stando alle indicazioni del prof, ne abbiamo parlato anche stamane, si tratta di una funzione goniometrica con periodo l’angolo giro...".
Charlotte era sempre più a disagio.
Capirò meglio più avanti.
“Dunque possiamo affermare che la funzione non è mai negativa… e che, in particolare, in questo caso, è definita per x diverso da ∏/2 - Mari accarezzò il labbro superiore con la lingua, come chi è in procinto di assaggiare qualcosa di buono -. La funzione ha l’asintoto verticale di equazione x = ∏/2 e quindi... come tutte le funzioni periodiche, non ha asintoti di altro genere: taglia l’asse delle y nell’origine e ha in comune con l’asse delle x i punti (0; 0) e (2∏; 0)”.
Charlotte...
Capirò meglio più avanti.
“In questi punti la curva presenta due minimi - continuò la sorella di Gabriele -. In particolare la derivata prima è y’ = senx + cosx – 1/ (1 – senx)² = Φ (x) / (1 – senx) ² = 0 per x = 0 (e 2∏) in quanto il valore x = ∏/2 non è accettabile; mentre Φ’ (x) = cosx – senx e Φ’ (0) = Φ’ (2∏) = 1 > 0”.
Mari fece un altro scarabocchio: due sommarie linee che dall’asse delle x scivolavano verso l'alto, lungo l’asintoto verticale dato dall’equazione ∏/2. A questo punto, però, Charlotte non poté fare a meno di uscire allo scoperto:
"Ahhh, Mari, fermati!".
"Oddio che c'è?".
"C'è che non ho capito un tubo!".
"Come?".
"Un tubo, un kaiser, non ho capito nulla!".
"Mannaggia a te! Non potevi dirmelo subito?".
"Pensavo di raccapezzarmi prima o poi".
"Va beh, dai, riprendiamo da capo".
Passate un paio d'ore le due giovincelle si presero una pausa e si misero ad ascoltare a tutto volume The guns of Brixton dei Clash, saltando sul pavimento come dei grilli. Ad entrambe piaceva a dismisura la band di Joe Strummer e con essa tutto il pandemonio sollevato dal movimento punk di fine anni Settanta. A parte The Only Band That Matters c’erano anche i Sex Pistols e i Ramones con i quali amavano abbandonarsi a furiose pogate. Andarono a avanti per un bel po’. Mariangela grondava di sudore, Charlotte non aveva più fiato quando - scartata senza alcun ritegno l'ipotesi di riprendere con l'analisi - decisero di raggiungere la piazza. Ad aspettarle altri giovani della compagnia, mocciose e fetide scarpe da tennis della Brianza fra i 15 e i 20 anni. Ma prima di rimettere a posto lo zaino, Mariangela - facendo passare per insignificante e del tutto casuale l’azione che si stava accingendo a compiere - disse all'amica:
"Amore mio, guarda un po’ qui!".
"Che c'è?".
"Ho delle foto".
"Che foto?".
"Foto di moda".
"Vediamo".
Charlotte strabuzzò gli occhi. Poi esclamò:
“Porca miseria! Ma chi è?”.
“Dimmelo tu".
"E che ne so".
"Sei tarda? Guarda che lo conosci benissimo!".
"Scherzi?".
"Per nulla".
“No... non dirmi che…".
“Che?”.
“Che è tuo fratello Gabri”.
“E invece è proprio lui".
"Non ci posso credere! Ma...".
"Ma?".
"Sembra un modello! Chi può avergli fatto delle foto del genere?".
"Io gliele ho fatte! Con la macchina del papi, non proprio una macchinetta da quattro soldi".
"Porca miseria, è un figo della...".
"Che ti dicevo?".
"Diavolo".
Mariangela fece per mettere via le foto, ma venne interrotta dall'amica.
"Senti... non è che me ne lasceresti una da appiccicare sul diario?".
"Come?".
"No dai, oso troppo...".
"Hai detto che ne vuoi una?".
"Magari".
"Dai scegli".
"Davvero?".
"Ma sì, figurati, a mio fratello non potrà che fargli piacere!".
"Quale prendo?".
"Quella che vuoi".
"Questa?".
"Va bene".
"Grazie mille Mari!".
E fu così che Gabri - come aveva astutamente previsto - divenne il protagonista assoluto di una pagina del disastrato diario di Charlotte; quella riservata a un anonimo martedì, in cui era stato indetto un accidioso sciopero - forse per i caloriferi troppo freddi, o troppo caldi, o forse semplicemente perché quel giorno doveva esserci il sole e invece pioveva! - a fianco di un'immagine di Tom Cruise, della foto del cinese che affronta i carri armati di Piazza Tienanmen, e di una massima che aveva inventato un suo amico marxista-leninista che diceva:
“I ricchi dovrebbero dare la metà del loro capitale ai poveri, se non altro per imparare a spenderne intelligentemente la restante parte”.
They kick at your front door, how you gonna come, with your hands on your head, or on the trigger of your gun. When the law break in, how you gonna go, shot down on the pavement, or waiting on death row. You can crush us, You can bruise us, but you'll have to answer to, oh the guns of Brixton...

Ma ora è necessario fare un piccolo passo indietro. Poiché va sottolineato che Gabri non era affatto uno sprovveduto, tantomeno uno scimunito. Dunque il nostro eroe non si sarebbe mai e poi mai sognato, così di punto in bianco, di far avere delle sue fotografie a Charlotte, una ragazza che, in fin dei conti, nemmeno conosceva; in un caso simile avrebbe quantomeno rischiato di fare la figuraccia del beota, dell’arrapato, del pervertito e un pericolo del genere, un timidone come lui, è certo, non lo avrebbe mai corso. Erano perciò necessari dei presupposti, o almeno un presupposto che, ovviamente, c'era. Il riferimento è a un concerto che Gabri aveva tenuto con la sua band, i Simpathy for the Stratocaster, dalle parti di Trezzo, circa tre mesi prima di quel tempestoso pomeriggio in cui Mariangela aveva mostrato le foto del fratello a Charlotte. Era una serata estiva particolarmente umida e c'erano in giro un mucchio di zanzare. Charlotte se ne stava seduta con la faccia generosamente incipriata sul bordo del marciapiede davanti alla vetrina del Gaviraghi, di fianco all’arcano emporio di Amelia. Stava chiacchierando con la magniloquente Sabrina. Si stavano raccontando qualcosa a proposito dei cani spettro che, secondo le leggende locali, frequentano ancora oggi alcuni luoghi della regione, specialmente lungo il corso di sentieri fuori mano, che conducono a vecchie chiese o a pericolanti cascine.
“Dicono che compaiono in corrispondenza di una siepe, un ponte o un cancello... - affermò Sabrina.
"I punti di passaggio fra il mondo dei vivi e l’aldilà…".
"Infatti".
"Ma si vedono anche in prossimità dei cimiteri".
“In questo caso è per via dell’antica usanza di sacrificare un cane in occasione dell’inaugurazione di un nuovo luogo di sepoltura”.
"In pratica diventano come dei fantasmi".
"Più o meno".
"Ma tu ci credi?".
"Io sì".
"Io non lo so".
"Io sì anche perché mia nonna mi ha raccontato più volte della storia di Ambrogio…".
"Che storia è?”.
"E' una storia pazzesca, da brividi".
"Dai racconta".
"Sei sicura di volerlo proprio sapere?".
"Fa così tanta paura?".
Sabrina ridacchiò.
“La vicenda si svolge sul finire dell'Ottocento... c'era un uomo di nome Ambrogio, un agricoltore, una persona normalissima... che stava tranquillamente percorrendo un sentiero dalle parti di cascina Cavallera...".
“La bella cascina che spicca in mezzo ai campi sulla strada per andare ad Arcore?”.
“Esattamente...".
"Ci siamo passati davanti anche l’anno scorso in bici...”.
"Infatti".
"Ci siamo..."
"Ma mi lasci andare avanti!?".
"Scusa".
“Cammina e cammina... a un certo punto l'uomo si ritrovò a tu per tu con un cane che scambiò per quello di un amico: animale che, in passato, lo aveva azzannato procurandogli una vistosa ferita sulla gamba. Ambrogio ebbe paura. Non voleva fare la stessa fine della volta prima. Sicché tirò un calcio violento sul muso del quattrozampe, con la speranza almeno di fargli cambiare strada... ma il colpo secco, deciso, scagliato senza pietà dall'agricoltore sull'animale, incredibilmente, non gli fece nemmeno il solletico. L'uomo venne sopraffatto dal panico. Non riusciva a spiegarsi come potesse essere possibile una cosa del genere. Voltò le spalle al cane, pronto per darsela a gambe... ma all'improvviso, gli occhi di quest'ultimo, puntandolo con inaudita ferocia...".
"Vuoi dire che…".
"Ambrogio è stramazzato al suolo senza vita. E il suo corpo, istantaneamente, si è trasformato in un pezzo di cuoio bruciato!”.
“In un pezzo di cuoio bruciato!?".
"Hai capito bene".
"Inaudito".
"Me l'ha detto mia nonna".
"Beh...".
"Mia nonna non è scema".
"No però...".
"Fidati Charlotte, i cani spettro esistono veramente. C’è solo da augurarsi di non doverli mai...".
Ma non fece in tempo a risolvere la frase. All'improvviso, ansante, dal pericolante portico che traghetta in via Ugo Foscolo, sbucò Mariangela. La ragazza era da poco rientrata dalla piscina.
“Buongiorno signorine, come ce la passiamo? – esordì felicemente Mariangela.
“Ciao Mari – risposero in coro le due accigliate madamigelle.
“Per la miseria, ma che facce avete?".
Le due non risposero subito.
"Pare che abbiate visto un fantasma!”.
“In un certo senso… - mormorò Charlotte.
“Come in un certo senso?”.
“Nel senso che visti gli argomenti che stiamo affrontando non c’è da stupirsi se abbiamo due facce da zombi - disse Sabrina.
Mariangela fece una mezza smorfia.
“Sentite... ma stasera che si fa? - domandò, cambiando radicalmente discorso.
“Mah – fece Sabrina – non abbiamo ancora deciso niente, aspettiamo anche gli altri, poi decidiamo”.
Mariangela sorrise sorniona.
“Perché tu avresti qualcosa da proporre? - le domandò Charlotte.
“Qualcosa ce l’avrei – sibilò la nuova arrivata.
“Oh, bene! - affermarono le due interlocutrici, ben gaie di sapere che c’era ogni tanto qualcuno che avesse qualcosa di buono da proporre -. E allora sentiamo...".
“Ci sarebbe mio fratello che suona a Trezzo".
"Tuo fratello? - chiese Charlotte.
"Sì, sapete la sua band… com’è che si chiama la sua band?”.
“Chissenefrega – disse Sabrina, acidamente – vai avanti”.
“Beh niente… c’è semplicemente Gabri che suona a Trezzo. E visto che è da tempo che non lo vado a vedere… insomma, mi piacerebbe potergli fare una bella improvvisata”.
"Mi sembra un’ottima idea – berciò Charlotte, lasciandosi definitivamente alle spalle le fosche tinte partorite dalla sua mente durante i raccapriccianti racconti dell’amica -. Tra l’altro è un bel po’ che non ci muoviamo da questo buco".
“Anche a me sembra una proposta accattivante – mugugnò Sabrina.
Arrivarono le nove e il misero spazio di fronte alla vetrina del Gaviraghi fu gremito. Tra i presenti c'erano anche Maurizio e Andrea, gli unici due membri della compagnia a disporre dell’automobile. Mari e Sabrina li presero in disparte e gli chiesero cosa ne pensassero dell’idea del concerto: se andava bene a loro, nessun altro avrebbe di sicuro obiettato.
"Quindi?".
"Per noi va bene - dissero i due.
"Ok, allora possiamo partire".
Salparono per Trezzo intorno alle 21.30. Il paese del famoso castello non era distante da Agrate; ci misero quindi non più di una ventina di minuti per arrivare a destinazione. Ad accoglierli ci fu un grande spiazzo verde delimitato da gigantesche specie arboree probabilmente non lontano dal corso dell’Adda. Mariangela, Charlotte e Sabrina approdarono fin lì in macchina con Andrea, a bordo della sua lussuosa Mercedes. In realtà la macchina era del papà del ragazzo, rispettabilissimo notaio monzese, che di fatto non usava quasi mai: il vecchio preferiva di gran lunga la sua nuova e fiammante Porche, che custodiva gelosamente nel box. Lungo il tragitto, archiviato Brothers in arms dei Dire Straits, un disco che, in quel periodo, gli usciva letteralmente dalle orecchie, erano andati a pescare a casaccio nel disordinato cassetto del cruscotto della Mercedes ed era saltato fuori Bookends di Simon & Garfunkel. Le canzoni degli ex Tom e Jerry newyorkesi fecero da sottofondo a una brillante conversazione sui menhir (dal bretone men hir, ovvero pietra lunga, le grandi colonne di pietra, legate ad antichi riti celtici, diffuse in numerose zone dell’Europa). L'argomento venne intrapreso per via del fatto che Andrea era appena rientrato da una vacanza studio in Inghilterra. Era stato a Stonehenge e quel posto aveva lasciato un segno indelebile nel suo animo. Al loro arrivo Gabriele stava cenando con gli altri componenti della band. Pareva addirittura spossato dall’accanimento con cui gravitava maldestramente su una costina. Nel piatto giacevano anche delle patatine fritte, sovrastate da uno spesso strato di ketchup, e una salamella, che non aveva ancora sfiorato; come bevanda, un calice di rosso della casa. Il ragazzo, alzando casualmente il capo, scorse muoversi nella sua direzione dei giovani. Individuò immediatamente Mariangela, Sabrina e Charlotte.
“Ciao a tutti! – disse con acceso entusiasmo –. Siete venuti ad assistere a un magico concerto dei Sympathy for the Stratocaster?”.
"Non te l'aspettavi, eh? - fece Mariangela.
"In effetti".
"Guarda quanti fan ti ho portato!”.
"Davvero un bello squadrone".
“Quando cominciate?".
“Tra mezz’oretta”.
“Così tanto?”.
“Eh, dobbiamo tiracela un po’... – commentò il batterista.
Qualcuno si espresse con un mogio sorriso.
“Allora ci vediamo più tardi... per adesso un bel in bocca al lupo a tutti!".
“Grazie mille Mari, a dopo".
Mariangela, Charlotte, Sabrina e l’intera brigata al seguito, andarono ad accomodarsi su una lunga panca, a ridosso di un tavolo praticamente ai piedi del palco. Strada facendo – pochi metri per la verità - s’imbatterono in un cameriere con due appariscenti occhiaie e una maglietta blu con incisa la parola staff . L’uomo correva avanti e indietro per il tendone ospitante il servizio bar e la cucina come un mentecatto, sudicio e madido di sudore. Sabrina arrestò il suo affannoso incedere per chiedergli una lista dei prodotti. Il membro dello staff le disse che gliela avrebbe portata immediatamente. Il concerto ebbe inizio intorno alle dieci e un quarto. Gabriele imbracciava una Fender Stratocaster che gli aveva prestato il cugino – 40 anni, nullafacente, patito degli artisti della Motown - da poco fidanzato con una cantante di musica soul, accalappiata in un circolo Arci a Milano.
“Tutto merito di Mustang Sally – raccontava Gabri relativamente alle rocambolesche vicende amorose del simpatico cugino.
Il primo pezzo del concerto fu Take me home, country road di John Denver. Il chitarrista acustico e il cantante si lanciarono per primi. Poi fu la volta di basso, batteria e infine di Gabriele. Non andò male, anche se il batterista, forse a causa dell'alcol, diede fin da subito l’impressione di non rispondere adeguatamente ai dettami del metronomo che ogni buon drummer dovrebbe avere in testa, alla stregua di un acufene singhiozzante a tempo. Le successive canzoni furono Sultan of swing dei Dire Straits, La bamba di Richie Valens, There must be more to life than this di Freddie Mercury, e Pride degli U2. Ma con il pezzo degli U2, cominciarono a rendersi palesi, anche per gli spettatori meno accorti - tra cui un folto e pittoresco gruppo di donne di mezza età in vena di rimorchiare qualche gigolò locale - i limiti della band. Sull’acuto del ritornello della hit di Bono e soci, il cantante tirò infatti una di quelle stecche che nemmeno suor Rosa che canta alla messa delle dieci - provocando crisi di cefalea e in certi casi veri e propri attacchi di angina - sarebbe stata in grado di emulare. Di punto in bianco Charlotte gridò a Mariangela:
“Ma lo sai che tuo fratello è proprio un bel tipo?”.
“Eh?!".
"Tuo fratello è un bel tipo!".
"Non capisco un cazzo!".
Charlotte si avvicinò all'orecchio dell'amica:
"Non è affatto male tuo fratello!".
"Dici sul serio?".
"Serissima. E' un bel tipo".
"Beh allora bisogna combinare".
"Combinare cosa?".
"Tra te e mio fratello".
"Dai non esagerare".
E questo infine spiega il motivo per cui Gabri si mise in testa di farsi fotografare come si fece fotografare, da imbambolato dandy da Actor’s Studio: il suo personalissimo regalo per Charlotte... la sua personalissima messa in onda per cercare in qualche modo di dare un seguito a quella eccitante considerazione di Charlotte sul suo conto, che naturalmente Mariangela non si era dimenticata di riportargli.

Passarono un bel po’ di giorni dalla faccenda delle foto e molti di più da quella del concerto. Poi, con il sopraggiungere dell'autunno, avvenne il primo incontro magico e ufficiale tra i due. Le lampadine dei loro cuori si accesero in concomitanza dell'arrivo delle giostre, evento osannato dai più giovani similmente a ciò che si verifica annualmente a Napoli tra i fedeli che aspettano di vedere liquefarsi il sangue di san Gennaro. Con i cosiddetti baracconi si avevano, d'altronde, chance che in altri momenti dell'anno - o in altri luoghi - non si avevano. Si poteva, per esempio, fare a pugni per inezie davanti a un pubblico folto ed eterogeneo: in molti hanno ancora in mente di quella volta in cui Martino detto l’istrice assassino frantumò i metacarpi di Calogero nato ricco e adesso povero (per via delle numerose puntate al superenalotto), sotto i suoi potenti anfibi da marine dell’ultima ora, solo per aver gridato "puttana gli Indios". E si aveva soprattutto la possibilità di farsi avanti per conquistare qualche bella fanciulla, magari proponendole un giro sui dischi volanti, sul tagadà, sul calcinculo. Dunque, Charlotte, la sera in cui Gabriele prese l'iniziativa di assaltare caparbiamente il suo fardello di tutto sommato nemmeno troppo vaghi e silenziosi tentativi di trovare al più presto la propria anima gemella, si trovava esattamente dalla parte opposta rispetto alla sua della fantomatica autopista Badoer – autentico luogo culto dell’immaginario collettivo giovanile brianzolo. Charlotte, ai piedi delle mastodontiche casse audio - che in quell'istante bombardavano senza pudore La luce buona della stelle di Eros Ramazzotti, in duetto con Patsy Kensit, un briciolo di secondi dopo uno spumeggiante pezzo dei Pasadenas - era in compagnia di Sabrina - quella dei cani spettro - ed altre amiche del ritrovo di sant’Eusebio. Stavano prendendo per i fondelli un gruppetto di giovani che scivolavano spavaldamente sulla pista con un piede dentro e uno fuori dell’autoscontro, correndo il serio rischio di perdere l'equilibrio e finire a terra. Gabriele, di sottecchi, prese a guardare Charlotte, quel giorno più affascinante che mai.
“Un vero gioiello – ricorda ancora oggi nostalgicamente.
La ragazza indossava una gonnellina a fiori, un giubbettino di pelle nero aperto su una maglietta a maniche corte attillata, e un paio di scarpe da ginnastica. Era così femminile che Gabriele cominciò a sudare freddo. Nella sua mente echeggiavano le note di Nobody but you di Lou Reed & John Cale dell’album Songs for Drella, un disco che in quei giorni stava letteralmente divorando. A un certo punto si rivolse a me, al suo fianco - con Matusalemme e altri del giro - e che conoscevo a menadito l’intera storia e mi disse:
"Ti pare una buona idea se adesso vado là e le propongo di fare un giro sugli autoscontri con me?”.
"Magari".
"Come magari?".
"Magari potresti aver successo".
"Hai voglia di scherzare?".
"No, perché?".
"Dai sii serio".
"Potresti provare".
"Dici?".
"Dico".
"Non so".
"Sì ma ti devi dare una mossa!".
"Parli facile".
"Cosa ci vuole? Vai là e le dici tre pirlate".
"Parli facile".
"Vuoi che te la soffi qualcun altro?".
"Spero di no".
"Oggi è una favola".
"Puoi dire giuro".
"E allora buttati".
"Va bene".
"Va bene...".
"Va bene mi butto".
"E se poi ti dice di no?".
"Dai non fare lo stronzo".
"Sto scherzando".
"Vado?".
"Vai".
Gabriele tirò un respiro profondo e partì.
Mezzo Ulisse e Menelao, mezzo Acamante e Diomede, il ragazzo impiegò davvero un infinitesimale numero di battiti di ciglia per raggiungere la sua Elena, impavido di fronte alla bolgia di teenager che affollava il perimetro della autopista. Innanzi a lei, febbricitante, le disse:
"C... c... ciao Charlotte, come va?".
"Bene, grazie, e tu?".
"Io? Io abbastanza bene, grazie".
"Bella giornata oggi, non trovi?".
"Molto".
Charlotte tacque.
"Senti - ripartì il mio amico - siccome ho un paio di gettoni per gli autoscontri... non ti andrebbe di venire a fare un giro con me?".
"Si può fare".
"Si può fare?".
"Certo, perché no? Mi fai strada tu?".
"Si può fare".
Delle forze estranee alla natura umana ebbero a tal punto la compassione di reggere il corpo di Gabri in procinto di crollare su se stesso: Charlotte gli aveva risposto con troppa beatitudine, grazia, dolcezza, con troppo tutto e per il suo animo sensibile questo era davvero troppo. Il ragazzo patì il classico attimo di smarrimento, a mo’ di chi sopraffatto da un attacco d'ansia, si trova a dover respirare all’improvviso moli e moli di anidride carbonica nel vano di un ascensore o in un vagone della metropolitana particolarmente affollato. Ma si riprese in fretta, tanto che la sua spasimante, bontà divina, non s'accorse di nulla. Sicché Gabri indicò alla ragazza la vettura sulla quale si sarebbero potuti accomodare: era la numero sette. L'opalescente e caratteristica vetrata della roulotte dei proprietari dell'autopista - al di là della quale campeggiava pieno di sé il nerboruto figlio del boss, impegnato a selezionare e far girare i dischi - li seguiva dall'alto. La canzone di Eros era finita e aveva lasciato il posto a Another day in Paradise dell'ex Genesis, Phil Collins. Charlotte e Gabriele, agili e scattanti, si infilarono nell’angusto abitacolo della vettura prescelta e quasi contemporaneamente gli altoparlanti emisero la mitica frase:
“Dai che si parte con un nuovo giro! Con una nuova vibrante manche! Forza giovani fate ballare i vostri gettoni, che da stasera sull'autopista Badoer si viaggia gratis!!".
Intanto io e Matusalemme mettevamo a segno il nostro diabolico piano.
Intendevamo rivolgerci al disc jockey per chiedergli di annunciare che la coppia regina - la coppia più bella - dell’autopista Badoer era proprio quella della numero sette: una mossa che avrebbe senz’altro fatto piacere al buon Gabri, ma che l’avrebbe anche fatto pisciare sotto dalla vergogna, ciò a cui noi subdolamente e cinicamente miravamo. Dunque lasciammo ai due l'opportunità di godersi pacificamente i primi giri della pista - su quella vettura che a Gabri parve zigzagare tra le altre come non gli era mai capitato - dopodiché passammo all’azione.
“Hei! – dissi rivolgendomi al capoccia che smanettava dietro il vetro colorato della roulotte, tra dischi e cassette.
Il giovane mi guardò stralunato.
“Potresti megafonare che la coppia più bella della pista è la numero sette?".
Il Badoer non mi rispose.
“Hei! – ripresi.
“Chi?”.
Il capoccia non mi aveva risposto, ma aveva sentito benissimo.
"La numero sette!".
"La numero sette?".
"Esatto".
"Va bene, va bene".
Sicché, una manciata di secondi più tardi - in coincidenza di un innocente e involontario strofinio del braccio di Gabriele sul seno di Charlotte - si udì:
“Siamo pronti a decretare la coppia più bella dell'autopista Badoer!?".
"Sììì!!! - fu il coro bislacco dei tanti giovani assiepati intorno alla pista.
"E allora! Li vedete i due giovani a bordo della vettura numero sette? La ragazza con quel giubbetto di pelle e la folta chioma bionda? Il ragazzo con quella camicia da… da boscaiolo! Ebbene, guardateli bene, osservateli bene, perché sono proprio loro! Sono i due... sono la coppia più bella della autopista Badoer! AHHHHHH!".
Charlotte si piegò in due dal ridere, presto imitata dal sottoscritto e da Matusalemme; mentre Gabri divenne rosso come una peperonata e contorse la bocca fino a farla assomigliare alla cloaca di una gallina indisposta. Sfumò Another day in paradise e partì She drive me crazy dei Fine Young Cannibals. I due ragazzi smontarono dalla vettura e riguadagnarono imbarazzati il perimetro dell'autopista, dove rimasero a chiacchierare indisturbati.
"E' fatta - disse Matusalemme con un pelo d'invidia -. Quella gran baldracca di Gabri s’è rimorchiato una delle più belle sventole del paese. Ma ci pensi?!!”.
"Aspetta a parlare".
"Perché?".
"Hai presente Gabri?".
"Vorrai mica farmi credere che...".
"Aspetta a parlare".
"Non dire fesserie”.

E invece... molti giorni dopo...
"Avevi ragione tu".
"Già".
“Già”.
"Ma cosa diamine gli sarà successo?".
"Non ne ho idea".
"L'altro giorno l'ho visto pregare".
"Pregare?!".
"Stava recitando il Padre Nostro".
"Dove?".
"Secondo te?".
"In chiesa?".
"Bingo".
"Allora deve essere messo proprio male".
"Quindi che facciamo?”.
"Gli parliamo”.
"Che gli diciamo?".
"Per esempio che è un fesso".
"Un idiota”.
"Perché non può farsi scappare una ragazza così...".
"Mica se ne trovano tutti i giorni di Charlotte".
"Appunto".
"Ci manderà a quel paese".
"Così brutale?".
"Probabile".
"E se provassimo con la musica?".
"Cioè?".
"Lo avviciniamo proponendogli l'ascolto di un nuovo disco, magari l'ultimo dei World Party, e poi vediamo come reagisce...".
"Potrebbe essere un'idea".
"Potrebbe...".
Ma i nostri buoni propositi non ci portarono molto lontano:
"Le ragazze bisogna farle tremare di desiderio prima di concedergli un po’ del proprio affetto e amore - fu l'unica cosa che riuscimmo a strappargli di bocca.
Ma la realtà era ben diversa. A Gabri non importava un fico secco di far tremare di desiderio Charlotte. Il nostro amico, molto più prosaicamente, aveva paura. L'’irrazionale paura di chi si fa in quattro per ottenere un risultato, ma che poi, quando l’ha in pugno, insensati miagolii dell'anima come potrebbe non essere come pensavo io, e poi ci rimarrei troppo male, finiscono per farlo desistere dalla zampata finale e risolutiva. Su di lui ebbero così il sopravvento fissazioni assurde, paranoie sciocche, ansie ancestrali; malinconie che, inaspettatamente, gli resero difficile e complicata qualunque relazione e comunicazione sociale. Si leggeva nel luccichio dei suoi sensibilissimi occhi la sacrosanta angoscia di non farcela, di non essere all’altezza, di non riuscire a metabolizzare ciò che si nascondeva veramente nelle sue fameliche intenzioni e, in generale, in quelle di tutti coloro che lo circondavano. Dunque Gabri non spiccò il volo verso chissà quali fortunate e strabilianti gioie sentimentali - come tutti, a questo punto, si sarebbero aspettati - ma si perse in un bicchiere d'acqua, in un vortice malato di idee e sibilline, enigmatiche, congetture. Si isolò. Divenne una specie di larva. Si mise a dormire tutto il giorno e ad ascoltare dischi che nessuno avrebbe mai preso sul serio: 33 giri francesi degli anni Settanta alla Serge Reggiani, Guy Beart, George Moustaki. Precipitò in un baratro, in un onirico e insensato presente che lo allontanò da tutti noi, e soprattutto lo emarginò dai trepidanti sogni della bella Charlotte. Sicché il ricordo di quel meraviglioso pomeriggio alle giostre divenne via via sempre più leggero, lontano, impalpabile. Il tempo si portò via giorni, settimane, mesi. L'autunno finì. Sopraggiunse l'inverno. La temperatura dell'aria si fece fredda e pungente. Cadde la neve. I campi e i giardini brianzoli si trasformarono in bianchi e soffici tappeti punteggiati da timidi abeti. Ottobre, novembre, dicembre, gennaio... finché non fu la volta di una nuova meravigliosa primavera.
Ho così voglia di primavera che sarei disposto a vendere il mio plettro più prezioso. Ho così voglia di primavera che un giorno o l'altro prendo il treno e corro dove la primavera è già arrivata. Ho così voglia di primavera...

Il ragazzo iniziò a stare meglio dalla fine di febbraio.
"Sei uscito dal letargo? - gli chiese un giorno Matusalemme.
"Mai stato in letargo".
"E allora si può sapere cosa hai fatto in tutti questi mesi?".
"Ho meditato".
"Su cosa?".
"Sulla biografia di Eleonora d'Aquitania".
"Mi prendi per i fondelli?".
"Niente affatto".
"Mi prendi per i fondelli".
"Ti ho detto di no. Ho letto. Ho letto un mucchio di libri di storia medievale".
"Cazzo! Stavi proprio a pezzi!".
"Non direi. Ho imparato un sacco di cose".
"Per esempio?".
"Per esempio che l'arcivescovo Rotberto di Tours e la sua scorta, di ritorno da Roma attraverso le Alpi, vennero assaliti e uccisi da briganti dopo che si furono accampati all'aperto".
"Roba da non credere".
Le sue paure così come erano venute se ne andarono. La sua mente riprese a funzionare. Le sue labbra conobbero di nuovo il sorriso. Tutto tornò nella norma e anche il suo cuore, quindi, cominciò nuovamente a dare in escandescenza per quella splendida ragazza che aveva invitato sugli autoscontri e per la quale s'era fatto immortalare come un dandy d'altri tempi. Gabriele, di punto in bianco, come se nulla fosse successo, come se nessun cataclisma esistenziale avesse minimamente indolenzito le sue meningi, tornò alla carica: in fondo erano passati solo pochi mesi dall'ultima volta in cui aveva interagito con Charlotte… un pomeriggio, bighellonando per casa, sulle note di Star me up - evidentemente non aveva nessuna voglia di mettersi a studiare la storia dei Catari, su cui avrebbe dovuto sviluppare una specie di saggio entro una manciata di giorni – capitolò per l'ennesima volta nella camera della sorella. Mariangela, accomodata alla scrivania, stava componendo una lettera a un misterioso spasimante; finalmente le cose cominciavano a girare anche per lei.
"Mari...".
"Sì?".
"Ciao, sono io".
"Ciao Gabri, che c'è?".
"Volevo chiederti due cose".
"Quando esordisci così mi metti i brividi".
"Dai, ti prego".
"Cosa c'è?".
"Come sta Charlotte?".
"Eh?".
"Come sta la tua amica?".
"Bene, perché?".
"E' da un po’ che non la vedo".
"E allora?".
"Allora avrei voglia di rivederla".
"Ti sei bevuto il cervello?".
"Cosa ho detto di così strano?".
"Hai tirato in ballo una storia morta e sepolta".
"Perché?".
"Scusa Gabri, ma si può sapere dove vuoi arrivare?".
"Vorrei solo uscire con lei".
Mariangela impallidì.
"E da me cosa vuoi?".
"Vorrei che tu le chiedessi se anche a lei andrebbe di rivedermi".
"Sei fuori strada".
"Ti prego, cosa ti costa?".
Mariangela fissò allibita il fratello.
"Io con Charlotte, adesso... mi vedo molto meno di prima".
"Ma è sempre una tua amica, o no?".
"Sì, ma...".
La sorella di Gabri dette l'impressione di non sapere che pesci pigliare.
"Cosa dovrei dirle?".
"Se le va di venire alla Caffetteria di Monza con me".
"Sei sicuro?".
"Certo che sono sicuro!".
"Sei sicuro...".
"Sennò non sarei qui".
"Beh, allora come vuoi... domattina le riferirò del tuo invito".
"Sei mitica! Grazie!".
L'indomani la sorella di Gabriele interpellò Charlotte durante l’intervallo. Le tre ore di italiano erano passate in fretta e ora avevano da scontare solo un’ora di inglese e una di latino. Nessuna interrogazione in vista, né compiti in classe. Calma piatta. L’amica era appoggiata al calorifero e guardava fuori dalla finestra. Stalattiti di ghiaccio pendevano dalle grondaie dell’edificio di fronte. Intirizziti degli studenti erano in marcia verso l'auditorium. Due bidelli ciarlavano del più e del meno. Il primo, pingue e sornione, indossava una giacca troppo stretta per la sua capiente vita. L’altro, asciutto e nervoso, vestiva un paio di pantaloni che a malapena raggiungevano le caviglie. Sul capo di entrambi regnava una coppola da autentici boss della mala marsigliese. I rami spogli degli alberi ospitavano di tanto in tanto dei volatili, per nulla preoccupati dall’aria glaciale che perentoriamente investiva le loro minuscole anatomie. Mariangela, alle spalle l’amica, le pizzicò i fianchi. La compagna si volse lentamente e le sorrise.
“Buongiorno Mari”.
"Buongiorno Charlotte".
"Come va?".
"Ok e tu?".
"Così, così".
"Che c'è che gira storto?".
"Mio fratello".
"Tuo fra...".
"Mi ha detto di chiederti se ti va di uscire con lui".
Charlotte strabuzzò gli occhi.
"Eh?".
"…".
"Non è vero".
"E' verissimo".
"Cosa gli è saltato in mente?".
"Non ne ho la più pallida idea".
"Ma tu non gli hai raccontato nulla?".
"Non ci sono riuscita".
"Capisco. E adesso?".
"Non so".
"Certo non posso pensare di tenere il piede in due scarpe".
"Oddio no, questo non sarebbe possibile!".
"Infatti".
"Quindi?".
"Quindi?".
Cadde per un attimo il silenzio tra le due, poi Charlotte riattaccò dicendo:
"Se vuoi ci parlo io".
"Cosa?".
"Potrei provare a parlarci io”.
Mariangela inarcò le sopracciglia.
"Sì, hai capito bene".
"Tu?".
"Ti sembra azzardato?".
"Più che azzardato".
"Dopotutto è da cinque mesi che aspetto di parlargli".
Mariangela ammutolì.
"E' da cinque mesi che aspetto soprattutto di dirgli quanto mi piaceva e quanto avrei desiderato mettermi con lui... e invece... lo sai anche tu come sono andate le cose”.
"E’ andato tutto a puttane".
"Non di certo per colpa mia".
"In effetti".
Ci fu un’altra pausa.
"Allora? – riprese Charlotte.
"Certo non oso immaginare la faccia di mio fratello dopo averti incontrata".
Charlotte corrucciò la fronte.
"Dove?".
"Cosa?".
"Dove gli vuoi parlare?".
"Al Ragno?".
"Quando?".
"Anche domani".
"Domani pome?".
"Per esempio".
"Va bene. Lo sento stasera, e ti dico domani".
"Grazie".
"Grazie a te".
A casa Mariangela colse il fratello in cucina che si stava ingozzando di frutti di mare destinati all’imminente cena. I gamberetti rappresentavano uno degli alimenti preferiti da Gabri. Spesso prima di mettersi a tavola – quando, come quella sera, si presentava l’occasione di cibarsene – il ragazzo arrivava con lo stomaco già pieno. Non la fece lunga. Gli disse semplicemente che se lui era disponibile l’indomani Charlotte lo avrebbe aspettato al Ragno Verde alle cinque.
"Allora?".
"Va bene".
"Alle cinque, ok?".
"Sì, ma perché al Ragno?".
"Perché sì!".
"La Caffetteria non le andava?".
"Non farmi domande inutili".
La ragazza dondolò la testa immalinconita, mentre il fratello riprendeva allegramente (e ignaro di tutto) ad abbuffarsi di gamberetti.
Gabri era al Ragno Verde già da un po’ quando Charlotte - raggiante come una stella cometa il 24 dicembre - capitombolò nel locale di via Battisti. C’erano con lui anche Matusalemme e Schopenhauer, quest’ultimo un diciottenne dall’aria perennemente assorta, appassionato di filosofia e in particolare del filosofo originario di Danzica, di cui sapeva un sacco di massime, tipo:
“L'intelligenza è invisibile per l'uomo che non ne possiede... ciò che ha valore non viene stimato, e ciò che è stimato non ha alcun valore. Veniamo adescati alla vita dall’illusorio istinto del piacere, e veniamo mantenuti in vita dall’altrettanto illusoria paura della morte. Per non diventare molto infelici il mezzo più sicuro è di non pretendere di essere molto felici”.
Charlotte non vide subito Gabri, ma scorse prima di lui il Dorma in pé che parlottava con Luigi; un tale col volto devastato dall’acne che sorseggiava uno spumantino; una coppia di giovinetti alle prese con un videogame. La ragazza raggiunse la sua destinazione muovendosi verso la scala arrugginita che conduceva ai tavoli da biliardo del locale sottostante, l'inderogabile limite oltre il quale - da piccoli - non ci si poteva assolutamente avventurare, poiché regno degli adulti e delle loro spaventevoli perversioni. Gabri e i suoi due amici, accampati sull’ultimo tavolino in fondo alla sala, di fronte a una gigantografia impallidita di Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, notando l'arrivo della giovane assunsero un'aria severa. Quindi Matusalemme e Schopenhauer si alzarono in fretta e furia, pronti per guadagnare l’uscita e lasciare il campo libero all'amico. Incrociando Charlotte Matusalemme le disse:
“Ciao bella, quando ti deciderai a mollarlo, ricordati che ci sono sempre io”.
Ma la ragazza lo ignorò completamente.
Charlotte e Gabriele si ritrovarono uno di fronte all’altro; una volta per tutte, alla resa dei conti. La ragazza indossava un elegante cappottino verde, che metteva in gran risalto la sua folta chioma bionda. Il giovane una anonima giacca scura, di lana pesante.
“Ciao Gabri”.
“Ciao Charlotte”.
“Allora come va?”.
“Io bene e tu?”.
“Io bene”.
“Bene”.
“Bene?”.
“Bene”.
“Siamo loquaci”.
“Molto loquaci”.
Risero entrambi; entrambi tesi come le corde di un violino.
“È un po’ che non ci si vede - disse Charlotte.
"Neanche tanto".
"Neanche tanto?".
"Sarà qualche settimana".
"Sono mesi".
"Eh, il tempo è...".
"Hai chiesto di vedermi?".
"Infatti".
"Perché?".
"Volevo dirti che... dopo averci pensato a lungo... mi piacerebbe iniziare...".
"Aspetta".
"Che c'è?".
"Forse è meglio se vado avanti io".
Gabri acconsentì con un impacciato su e giù del mento.
"Si può sapere che fine hai fatto dopo quel pomeriggio ai baracconi?".
"Scusa?".
"Hai capito bene".
"Nessuna fine".
"Sei completamente sparito".
"No, io...".
"E allora come mai non ci siamo più rivisti?".
"Non...".
"Non?".
"Beh, non lo so".
"Beh, lo so io: tu ti sei completamente dimenticato di me".
"Scherzi?".
"Non penso".
"Ti giuro".
“È questa l'unica spiegazione che riesco a darmi".
"Stai travisando la verità".
"Eppure io ti ho aspettato per settimane e settimane; nella speranza di ricevere un tuo invito… per andare al cinema, a bere qualcosa e invece...".
"In realtà...".
"Senza contare quel paio di volte in cui ci siamo visti per caso per il paese e tu hai praticamente fatto finta di non conoscermi".
"Eh?!".
"Non fare il finto tonto. Ti ricordi quella volta dal Poma panettiere e quella da Abele il tabaccaio? Eravamo a pochi centimetri di distanza l'uno dall''altro eppure tu...".
"Non è andata proprio così".
"E allora come è andata?".
"La prima volta dal Poma non ti avevo visto, e la seconda ero di fretta".
"Così di fretta da non riuscire nemmeno a salutarmi?".
"Forse".
"Mi sembra un'immensa stupidata".
“Io…”.
“Tu?”.
“E adesso? – domandò Gabri.
“Adesso è tutto diverso”.
Il ragazzo tacque.
"Adesso le cose sono... drasticamente cambiate".
"Cioè?".
"Cioè...".
"Cioè?".
“Cioè, Gabri, sono passati cinque mesi”.
“Cioè?!”.
"Adesso sto con un altro ragazzo".
Gabri si sentì mancare. Si grattò il capo e deglutì un paio di volte.
"Come? – mugugnò con un filo di voce.
"Sì, sto con un ragazzo”.
“Non lo sapevo”.
“Si chiama Riccardo".
"Riccardo?".
"Sì".
"Da quanto?".
"Saranno un paio di mesi".
Entrambi zittirono. Passarono un paio di minuti.
"Mi dispiace Gabri, mi dispiace davvero, tanto... tuttavia, per come si sarebbero potute mettere le cose fra noi, ci tenevo essere io a dirtelo... non mi sarei mai aspettata che tu un giorno potessi tornare a farti vivo”.
Gabri fissò come un automa la sua interlocutrice e piegò leggermente il capo. La ragazza si alzò con calma dalla sedia e volò via senza aggiungere altro.
A quei tempi Gabriele non vedeva altro che lei: Charlotte. Al mio amico piaceva proprio tutto di quella ragazza: il suo corpo, la sua mente, la sua anima. Gli andava a genio perfino quella specie di voglia gigantesca che le ricopriva buona parte del viso, un capriccio epidermico che aveva il potere di ricordargli da lontano il sangue raggrumato.
Una bestemmia di Luigi conquistò il cielo del Ragno con imponente solennità, mentre tre signore grasse e pacchiane si accingevano a consumare una cioccolata calda. Il Dorma in pè sfogliava il giornale; il signore dello spumantino ordinava un altro bicchiere; i due ragazzetti continuavano a giocherellare con i videogame. Gabri sorseggiò catatonicamente l’ultimo goccio di succo di frutta e alla fine, anche lui, si eclissò. A casa giunse in un nanosecondo. Dribblò scaltramente Mari - in sala a dare un’occhiata a un vecchio album di fotografie con un’amica di pianerottolo - e corse in camera. Sdraiatosi sul letto, raccolse rabbiosamente ai piedi del comodino le cuffie del walkman e a tutto volume fece partire Eve of destruction interpretata dagli Hot Tuna. Versò delle lacrime. Ma tutto sommato nemmeno troppe. In fin dei conti sapeva benissimo che domani sarebbe stato un altro giorno. E che di Charlotte, probabilmente e purtroppo, non ce ne sarebbero state altre.

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