mercoledì 30 luglio 2014

Ferragosto # 17


12 agosto

81.

Il Marengo e il Boffalora s'erano dati appuntamento nel palazzo del conte Trivulzio; il quartier generale del paese, in procinto di trasformarsi nel vero e proprio municipio del borgo. Lì venivano conservate e protette tutte le pratiche comunali, i numerosi incartamenti relativi alle attività agricole dei paesani, e varie mappe che consentivano di avere un controllo dettagliato del territorio. Prima dell'arrivo di Raimondo s'era occupato di tutto questo pandemonio Attilio Penati, severo podestà che aveva regnato sul buraghese per quasi tre decenni.  
«Buongiorno Marengo», esordì il Boffalora.
«Eccoci di nuovo».
«Eh già, questa storia non finisce più».
Entrarono nel palazzo nobiliare e raggiunsero la grande sala del “governo”, presso la quale erano soliti fissare gli incontri con gli altri uomini del paese per risolvere le faccende più spinose. L’ultima volta vi erano stati per decidere il punto più strategico dove poter affissare i nuovi comunicati municipali, forgiati per la prima volta con una stampante di nuova generazione che prometteva miracoli. Era necessario un posto in cui tutti i cittadini potessero vedere bene quel che i grandi capi ordinavano; spesso i diktat, peraltro, arrivavano direttamente da Milano, o da Vimercate, e non potevano passare inosservati. Il posto ideale l'avevano individuato a ridosso della curia, di fianco al grande olmo che da almeno un paio di secoli faceva ombra sul cuore del villaggio. Qui avevano installato un grande pannello di legno, dove, d’estate, per mancanza di notizie, venivano appiccicati gli avvisi relativi a oggetti dimenticati in giro per qualche contrada o qualche annuncio funebre.
«Dunque, la matassa si sta sbrigliando», disse il Boffalora, con una punta di orgoglio.
Benché non avesse fatto quasi nulla, si sentiva in qualche modo responsabile dell’attività investigativa del Marengo.
«Così sembra», disse il saggio della comunità.
«E’ incredibile quello che abbiamo scoperto».
«Incredibile è dire poco. C’è una parte di me che ha quasi paura a proseguire nelle indagini, per il timore di scoprire chissà quale altra assurda verità».
«Don Filippo s’è comportato in modo sconsiderato».
Il Marengo fece spallucce.
«Un comportamento troppo superficiale, da irresponsabile, da...».
«Non dica così Boffalora, l'argomento è imbarazzante, ma non abbiamo il diritto di giudicare la morale dei compaesani», sentenziò con aria grave il Marengo. «Io non me ne intendo molto di sentimenti, ma penso che non sia stato facile per il prete e che in qualche modo debba essere giustificato».
«Diamine, Marengo, ma vuole scherzare?».
«Non sto scherzando».
«Come no, suvvia! Mica si tratta di una donna qualunque, ma di una ragazzetta di quindici anni, sedici... si rende conto? Una cosa del genere è degna di scomunica».
Alla parola “scomunica” il Marengo perse il controllo e vergò un violento cazzotto sulla specie di lungo mobile che aveva di fronte agli occhi. Ma si pentì quasi subito per il gesto di stizza e chiese perdono.
«Mi deve scusare Boffalora, ma le ultime ore sono state davvero molto pesanti. Avrei bisogno di riposare un po’».
Il Boffalora comprese il disagio e l'ansia del compaesano e assecondò il suo gesto collerico senza dargli troppo peso.
«Non si preoccupi Marengo, la posso capire».
«La ringrazio».
«Tuttavia penso non ci sia nemmeno il tempo di riposare. Converrà con me che, a questo punto, è davvero arrivato il momento di sferrare il colpo finale».
«Infatti, ci siamo quasi».
«Come pensa, quindi, di procedere?», domandò il sindaco.
«Eh, bella domanda».
«Ma un'idea ce l'avrà».
«Ce l'avrei… ma prima dovremmo raccattare qua e là un po’ di volontari e tornare sul luogo del delitto».
«Intende ritornare al laghetto?».
«Intendo trovare qualche prova in più…  le prove non bastano mai e non vorrei correre il rischio di raggiungere di nuovo i Greppi senza disporre delle armi per stanarli definitivamente».  
Il Boffalora si abbandonò a un sorriso sterile, comunque convinto di seguire i suggerimenti del saggio della comunità: le sue intuizioni, fino a questo punto, avevano fatto tutte centro.

82.

Trovarono alcuni uomini sparsi per la campagna e altri impegnati a dare una mano alle proprie donne a sistemare le rispettive tenute. Il caldo sole degli ultimi giorni aveva provocato non pochi problemi ai pollai e alle riserve di acqua piovana, trasformate in otri di liquidi marcescenti. Molti animali non ce la facevano più ed erano ridotti a pelle e ossa, disidratati e bisognosi di una bella rinfrescata. La siccità continuava imperterrita per la sua strada e stava dando un violentissimo colpo alla regione. C'era, per questo motivo, chi pensava che fosse necessario costruire al più presto un nuovo pozzo, perché di lì a poco non ci sarebbe stata abbastanza acqua per le abitazioni, e di sicuro anche l’irrigazione ne avrebbe risentito. Per fortuna le acque del Molgora continuavano a scorrere felici e beate, benedette dalle inesauribili sorgenti del torrente, poste molto più a nord, che non dipendevano dai capricci del tempo.
D'altra parte, non era la prima volta che un dramma simile si abbatteva sul buraghese. Anche fra i più giovani c’era ancora chi si ricordava della terribile estate del ’45, di dieci anni prima, in cui non aveva piovuto per tre mesi di fila e molte famiglie erano finite sul lastrico. Numerose bestie erano morte, e a causa delle carni marcescenti sparse un po’ in tutto il buraghese, era sorta una specie di epidemia, che nessuno aveva saputo diagnosticare correttamente. Una trentina di persone perirono per il misterioso morbo, dopo essersi riempite di bubboni su mezzo corpo, finendo per assomigliare a dei malati di peste. Gandolfo Brambillasca aveva fatto del suo meglio per curare i compaesani, ma anche lui alla fine si era reso conto che qualunque medicina non avrebbe potuto fare granché contro quella congiura divina. Si arrese e per quanto gli fu possibile sparì per un po’ dalla circolazione, isolandosi dalla sensazione di morte che adombrava l’intero abitato.
C’era un sacrosanto bisogno di acqua, e il Molgora non poteva certo fare miracoli. Così Domenico Carimati, il cugino del sindaco, solleticato da alcune donne che avevano cominciato a dare in escandescenza aveva avuto la brillante idea di calarsi in uno dei pozzi più importanti del paese per verificare il livello delle acque e per poco non era morto soffocato. Dagli inferi aveva gridato che non ce la faceva più, che l'aria era irrespirabile e che ai suoi piedi saltellavano minacciose pantegane con denti da mammut. Grazie a Dio era stato legato a una rudimentale imbracatura che aveva consentito a Dante Cereda di recuperarlo con uno sforzo immane degli avambracci, che per poco non gli aveva fatto saltare le coronarie, già compromesse dalle fatiche di una vita. All'arrivo dei due capi la scena s'era appena conclusa, ma la discussione era ancora in pieno svolgimento.
«Diavolo di un cane», borbottò il Cereda, «se mi volevi morto, c’eri quasi riuscito».
«A me lo vieni a dire? Dovevi esserci tu là in fondo. Sembrava di essere all'inferno», mugugnò Domenico.
«Te l'avevo detto di non andarci», gridò la Maria Casiraghi.
C’erano nei paraggi anche il Giannino e l’Ambrogino con gli occhi sbarrati.
«Pensa se ci lasciava le penne», sussurrò il Giannino all'amico.
«Ci mancava un altro morto, giusto per stare in tema».
Risero sommessamente, mentre il Marengo cominciò a spiegare il motivo della sua capatina.
«Dobbiamo tornare là?», domandò Luciano Brioschi.
«Prima lo facciamo, meglio è», precisò il sindaco.
Si unirono a essi anche Pinuccio Villa e Mario Porta e il gruppo fu completo.
«Pochi ma buoni», tartagliò il sindaco, in affanno.
«Bene, allora, possiamo partire», disse il Marengo, inaugurando l'ennesima missione.

83.

«Sono già stato qui», disse l’Ambrogino, rituffandosi lungo il piccolo sentiero che circumnavigava il laghetto.
«So bene come sono andate le cose», replicò il Giannino.
«In realtà non mi riferivo alla scoperta del cadavere».
«Cioè?».
Rise di gusto.
«Qui ci sono venuto una volta con la Lina».
«Urca, la Lina».
«Quanto mi piace quella ragazza».
Il Giannino rise sotto i baffi e non nascose un vago imbarazzo.
«Vorrei ben vedere, con le poppe che si ritrova».
«Non essere sfacciato, la Lina me la porto all’altare».
«Te lo auguro amico mio, spero anch’io di poter trovare una ragazza del genere».
Poi tornarono al motivo per cui si trovavano in quel posto sperduto del buraghese.
«Certo che, senza di noi, questi brancolerebbero ancora nel buio», disse l'Ambrogino con soddisfazione.
«Puoi dirlo forte», rispose l'amico, «io ho trovato il biglietto e tu il corpo...».
«Sarebbe ora che se ne accorgesse anche il Marengo e ci facesse qualche complimento… pubblico».
Il compagno allargò le braccia in segno di approvazione.  
«Ma com’è che siamo arrivati fino a questo punto?», domandò il Giannino.
«Non ne ho idea, ma certo la chiacchierata fra il Marengo e l'Agnese deve avere cambiato non poco le carte in tavola».
«Proprio non riesco a immaginare cosa si siano detti. E poi cosa potrà mai c’entrare l'Agnese con tutto sto casino?».
«Sei capace di tenere un segreto?». 
L’Ambrogino si morsicò il labbro, ma ormai la frittata era fatta.
«Come no».
«Guarda che è un segreto».
«E allora, ho capito».
«Insomma, c’è una cosa che non sai e che probabilmente sta consentendo al Marengo di muoversi con maggiore sicurezza e rapidità».
«Forza, ti diverti a tenermi sulle spine?».
«Ma no, il punto è che se salta fuori questa cosa il Marengo mi uccide. Ho la lingua lunga. E gli ho promesso che non avrei spifferato parola».
«Cosa sai che io non so?».
L’Ambrogino non seppe più come contenere la curiosità del compaesano. E svuotò definitivamente il sacco.
«L’altro giorno sono andato con il Marengo a casa di don Filippo e abbiamo fatto una scoperta sconvolgente».
«Che diamine mi stai raccontando?».
«Abbiamo trovato una lettera nella casa del don... ed era...».
«Cosa».
«Aspetta! Hai sentito anche tu questo rumore?».
Il Giannino scese dal pero.
«Ma quale rumore?».
«Tipo uno strano sferragliare».
«Senti amico mio, sei sicuro di stare bene? Qui non si sentono altro che uccelli gracchiare e rane gracidare».
«Dimentichi i grilli».
«Tagliala corto con questa pantomima e dimmi quel che mi stavi dicendo».
Il Giannino non aveva abboccato.
«Di che lettera parli?».
«Era una lettera d’amore».
«E allora?».
L’Ambrogino volse gli occhi al cielo, come a voler chiedere un aiuto al padreterno; ma il sovrano dei cieli o chi per lui, ancora una volta, non doveva essere molto attento ai bisogni di buraghesi alle prese con un assurdo omicidio.
«Beh, la lettera d’amore era stata scritta da Agnese, indirizzata a don Filippo».
«Stai scherzando?».
«Figurati».
Il Giannino impallidì.
«Voi dire che...».
Ma non si confidarono altro per almeno mezz’ora.

84.

Si ritrovarono a girare intorno a una delle zone più boscose che circondavano lo specchio lacustre; in un posto dove nessuno dei due aveva mai messo piede, e forse non c’era mai stata anima viva.
«Qui è impossibile muoversi», disse il Giannino.
Rami, fogliame e sterpaglie impedivano ogni sano movimento.
«Adesso salta fuori un lupo e ci sbrana».
«Non credo che i lupi si trovino a loro agio in simili posti».
«Non ne sappiamo nulla dei lupi. Dicono che a Imbersago se ne vanno ancora in giro a seminare terrore».
Si imbatterono in un cespuglio diverso dagli altri; come se qualche animale, o persona, l’avesse attraversato riducendolo in uno stato pietoso. Le foglie erano tutte mezze tagliuzzate e la base del tronco era ripiegata su se stessa, dando l’impressione che un gigante l’avesse appena calpestata.
«Lo noti anche tu?», domandò l’Ambrogino.
«Certo, è evidente che qui ci sia già stato qualcuno».
«Ma potrebbe essere anche passato un cinghiale».
«Siamo ai cinghiali, adesso? Ora di sera abbiamo elencato tutti gli animali del creato».
Risero nervosamente, con il cuore che, in realtà, non aveva molta voglia di scherzare. Stavano in fin dei conti dando la caccia a un assassino; e l’idea che potesse nascondersi fra una delle tante fronde che si trovavano a vincere, come i cercatori di un tesoro perso in qualche lontana foresta equatoriale, non li faceva certo gioire. Non se l’erano rivelati l’un l’altro, per non mostrare un’umanissima debolezza, in antitesi al desiderio di farsi vedere sempre forti e invincibili, ma si respirava un’aria sinistra ed entrambi se la stavano facendo sotto.
«Hai sentito anche tu adesso?», chiese l’Ambrogino.
Questa volta non era un gioco: s’era davvero udito uno strano borbottio e intuito il passaggio di qualcosa o qualcuno.
«Madonna, parliamo a bassa voce. Qui ci sono delle persone», bisbigliò affranto il Giannino.
«Pare proprio così, avanziamo con cautela», sussurrò l’Ambrogino.
«Senti, non mi sembra il caso di ficcarci in qualche pericolo, torniamo dal Marengo e poi vediamo».
Il Giannino fece per andarsene ma l’amico lo trattenne per la camicia.
«Dove vai, vieni qui. Potremmo scoprire qualcosa d'importante. Non arrendiamoci proprio adesso».
«Ah, ma siete voi, ci stavamo prendendo un colpo».
Alle spalle dei ragazzi si materializzarono il Marengo e il Boffalora, che probabilmente avevano seguito un percorso analogo a quello dei due giovani.
«Marengo!», esclamò sollevato il Giannino. 
«Va tutto bene, ragazzi», disse il Boffalora, «senza metterci d'accordo siamo arrivati nello stesso punto».
E con l’ultima parola pronunciata dal sindaco del paese, videro che, poco più in là del cespuglio malmesso, c’era una casetta minuscola e diroccata, divorata dalla vegetazione, che destò immediatamente la loro attenzione.
«Questa è bella», blaterò l’Ambrogino, «un cascinotto in mezzo alla boscaglia».
«A quanto sembra», arguì il Marengo, «anche se non mi pare tanto un cascinotto, bensì un piccolo rifugio per...».
«Forza, non ci resta che visitare da vicino quel coso», tagliò corto il Boffalora.

85.

Si avvicinarono con fare circospetto, temendo che da un momento all’altro potesse spuntare una belva o addirittura l’assassino in carne ed ossa di don Filippo. Il Marengo fece strada, tallonato dall’Ambrogino. Chiudeva la fila il Boffalora che cominciava a non poterne più di spine e pungiglioni che gli si infilavano da tutte le parti, facendolo sentire una specie di vittima di qualche astrusa tortura medievale. Finirono per sbattere contro la facciata più lunga e ben modellata del bugigattolo, dove una piccola finestrella guardava verso un orizzonte inesistente. Fu facile per il Marengo puntare gli occhi al suo interno per verificare cosa potesse custodire; ma la sua azione fu del tutto vana, poiché la porta principale, ora potevano osservarlo con certezza, era stata completamente abbattuta.
«Non c’è un fico secco», disse, deluso, l’Ambrogino.
«Ci avevo quasi sperato», rettificò il Giannino.
Anche i due adulti si guardarono delusi. Sembrava un inutile, sperduto e dimenticato quadrato di mattoni, dove chissà cosa ci avevano fatto in passato.
«A cosa sarà servito un coso del genere in piena foresta?», domandò l’Ambrogino.
«Vorrei tanto capirlo anch’io», blaterò il Boffalora.
«Non vorrei azzardare con la fantasia, ma nei secoli passati da queste parti giravano i briganti. Ci sono tante storie che ancora raccontano delle loro sortite. Non avevano pietà per nessuno. Arrivavano dal nulla e nel nulla se ne andavano, saccheggiando tutto ciò che gli capitava a tiro. Potrebbe essere una loro antica costruzione».
«Diamine, Marengo, mai sentita una storia del genere», disse l’Ambrogino.
«Sei troppo giovane per sapere certe cose... e il Boffalora, viene da troppo lontano».
Il sindaco fece una smorfia, dissentendo della considerazione del Marengo: non era un brianzolo puro del vimercatese, ma non è che venisse dall’Amazzonia.
«Oddio, guardate qua!».
Il grido giunse dal Giannino che s’era momentaneamente staccato dal gruppo, più per il desiderio di non dovere più stare a sentire i nuovi laconici commenti dei compaesani, che per la reale consapevolezza di voler perlustrare il circondario: stava indicando una specie di carretto, rovinato dall’usura, ma probabilmente ancora in grado di cigolare.
«Giannino...», mugugnò il Boffalora.
Cominciarono a ispezionarlo da cima a fondo, come se si fossero trovati di fronte a una reliquia di inestimabile valore. E per tutti fu immediatamente chiaro che la sua presenza in quel punto fosse davvero fuori luogo e che non avesse nulla a che fare con il minuscolo caseggiato, decisamente più vetusto. Qualcuno doveva, dunque, averlo portato lì apposta, per farlo sparire, per non lasciare tracce.
«Sangue!», urlò all’improvviso l’Ambrogino, «Marengo! Qui c’è del sangue!».
Il ragazzo stava meticolosamente scandagliando la parte terminale del carretto, in corrispondenza del punto in cui venivano caricate le merci o i materiali da trasportare.
«Fa vedere», disse il Marengo.
E di nuovo il silenzio cadde come un macigno sul gruppo.

venerdì 18 luglio 2014

Ferragosto # 16


76.

Ripresero il cammino dopo una decina di minuti, mentre dei grossi nuvoloni cominciarono a profilarsi all'orizzonte minacciando tempesta. Erano le nubi, alte e maestose, che Agnese amava di più; e che immaginava, ogni volta che le vedeva, di poter vincere volandoci sopra, per poi affondare in esse come su un tappeto di piume, o rimbalzandoci saltando di qua e di là del mondo. Lo aveva confidato perfino a don Filippo, fanciullescamente, quel giorno che, lontano da casa, oltre i confini di Burago, visse con lui forse la sua giornata più bella. La ricordò con incredibile nostalgia proprio in questo momento di smarrimento totale, a tu per tu con il Marengo, con un uomo che poteva considerare un secondo padre, ma al quale avrebbe preferito non dovere raccontare nulla dei suoi segreti.
Le avevano chiesto di accompagnare don Filippo dalle parti di Varedo, piccolo centro della Brianza occidentale, per fare visita a una vecchia cugina del parroco del paese, che in passato aveva conosciuto anche il sacerdote buraghese. Sentiva di provare già qualcosa per lui, ma era davvero l'alba di un amore che nessuno avrebbe mai immaginato. Tantomeno lei.
La loro storia non era ancora sbocciata, e non ci fu il rischio di malelingue. D'altra parte, occorreva davvero una ragazzetta volenterosa che l'aiutasse a recapitare alcune torte e altri dolciumi realizzati dalla perpetua. Erano stati gli stessi genitori dell'Agnese a insistere per mandare la figlia, quando don Filippo durante un'omelia aveva comunicato che avrebbe avuto bisogno di una mano, e che c'era una nipotina della conoscente che avrebbe giocato volentieri con una nuova amichetta.
Avevano raggiunto Varedo a bordo di un vecchissimo carretto, presente nella curia da chissà quanto tempo e utilizzato per i viaggi non troppo lunghi, da risolversi nel giro di poche ore. E forse proprio in quel frangente era scoccata la scintilla fra i due.
«A cosa pensi?», chiese il Marengo.
«A don Filippo», sussurrò la ragazza.
Il Marengo le sorrise dolcemente, scoprendo che era tornata serena; e che finalmente avrebbe potuto capire di più dello strano rapporto fra i due compaesani.
«Una volta siamo andati a Varedo a trovare una vecchia signora. E da lì, credo, è cominciato tutto».
«Vuoi spiegarmi meglio?».
«Non so perché don Filippo mi fece così impressione; perché mi piacque tanto. Con lui mi trovai meglio che con mio padre e con tutti gli amici della mia età. Don Filippo aveva un fare… non so come spiegare, Marengo, non lo so, era bellissimo stare con lui, era un uomo… Mi sembrava di stare in paradiso. Poi da quel giorno abbiamo iniziato a vederci spesso, anche nel bosco e…».
Il Marengo deglutì amaramente, non comprendendo come potesse essersi instaurata una relazione di simile portata all'insaputa di tutti.
«Quale bosco?», chiese l'uomo mordicchiandosi le labbra, un po’ schifato dall'argomento.
«Dipende, ogni volta cambiavamo, di solito era quello di San Martino, dalle parti di Agrate, ha presente? Ci davamo appuntamento al crocicchio, verso le due, e poi ce ne andavamo per la nostra strada, infilandoci fra gli alberi più fitti».
Era uno dei posti meno battuti del paese, dove almeno un secolo prima, a causa di una disputa per un diritto di precedenza, era stato commesso un omicidio; era poco frequentato perché nonostante gli anni si pensava che ancora fosse infestato dallo spettro della vittima, tutt'altro che amichevole; da tempo era avvolto da un folto manto di robinie, ed era davvero il posto ideale dove potersi nascondere da occhi indiscreti.
«Possibile che non vi abbia mai visto nessuno?».
«Sa che al crocicchio non ci passa anima viva».  
«Ormai è una strada desolata, questo lo so, non l'abbiamo nemmeno preso in considerazione per cercare don Filippo, tuttavia…».
«Sa, non è che ci vedevamo tutti i giorni, magari passavano anche settimane. Ma alla fine non potevamo stare troppo tempo senza vederci».

77.

Al Marengo era passata la fame, ma non alla ragazza, il cui stomaco aveva cominciato a borbottare.
«Mi fa male la pancia».
Il Marengo fece finta di non aver sentito.
«Ho fame».
«Ora ci avviamo verso casa».
«Non so se resisto».
«Non è mai morto nessuno di fame, nemmeno a Burago».
Il Marengo parve non avere così premura di arrivare in paese; difatti intraprese un sentiero che allungava leggermente il tradizionale tragitto per giungere al villaggio.
«Perché facciamo questo percorso?».
«Che c'è di strano?».
«L'allunghiamo».
«E' lo stesso, così ho il tempo di chiederti ancora qualcosa».
«Signor Marengo, la prego, non me la sento più di parlare di don Filippo. Cerchi di capirmi e di mettersi nei miei panni».
«In realtà non mi hai detto molto».
«Le ho detto tutto quello che c'era da dire. Insomma, eravamo innamorati. Alla fine saremmo scappati insieme per vivere come due persone normali, lontano dalle brutte voci, lontano da tutti».
Il Marengo impallidì.
«Ma tu sei proprio certa che don Filippo condividesse i tuoi sentimenti?».
«Perché Marengo, lo vuole mettere in dubbio?».
«Mi sembra una storia così assurda».
«Certe cose si capiscono solo con il cuore, con il cuore in subbuglio, mi deve credere. Anche a me, se ragionasse dall'esterno, parrebbe una cosa impossibile. Eppure… eppure è successo. E adesso sono tramortita da quel che è accaduto e sta accadendo e sembra non finire mai. A volte vorrei sparire, sprofondare da qualche parte e non avere più a che fare con nessuno».
«Non dovresti dire certe cose».
«Le dico eccome, lei, mi perdoni, non può capire. O se avessi almeno la sua età».
«In che senso?».
«Vorrei essere come mia nonna e non dover pensare più a niente».
Sentendosi dare del vecchio, il Marengo corrucciò la fronte; ma non perché si sentì offeso, bensì per la genuinità e la trasparenza della ragazza che emersero in tutta la loro spontaneità.
«E' giusto che tu viva la tua età, invece, senza pensare a queste cose. Ogni periodo della vita ha i suoi lati positivi, bisogna solo sapergli dare il giusto valore. Anche da vecchi si può essere felici. E soprattutto lo si può essere quando si è nel fiore degli anni. Come te».
Ci fu un attimo di silenzio, che ruppe presto il Marengo esordendo con un nuovo quesito. 
«Piuttosto, mi preme sapere una cosa di questa faccenda… sei proprio sicura di non avere mai incontrato nessuno nei vostri appuntamenti?».
L'Agnese si sorprese osservando che il Marengo le stava ponendo una domanda che le aveva rivolto solo pochi istanti prima. Pensò, dunque, che potesse avere qualche problema di memoria, proprio come stava accadendo a sua nonna che da un po’ di tempo la chiamava Arianna. Ma fece finta di niente e gli rispose senza problemi.
«Le ho già detto che sì, cioè no, non ci ha mai visti nessuno. Sapevamo di correre dei rischi e badavamo bene a come muoverci. Soprattutto don Filippo, che a volte pareva proprio angosciato da questa eventualità. L'idea di incontrare qualche buraghese lo turbava tantissimo».
Camminarono in silenzio per qualche metro, lasciandosi cullare dal frastuono dei grilli e di alcuni uccelli che gli sorvolavano il capo in cerca di qualche carcassa da spolpare. Poi, all'improvviso, l'Agnese ebbe un'illuminazione.
«Ora che ci penso bene, però, una delle prime volte…».
«Cosa?».
«Beh, una delle prime volte che ci vedevamo, a essere sincera, è invece capitato di avere a che fare con delle persone».
«Scherzi?».
«Erano due tipi strani, che non avevamo mai visto prima, sicuramente non era gente di Burago. C'eravamo quasi persi, spingendosi all'interno di una fitta boscaglia. Certo che lo ricordo bene… ci prendemmo un colpo, ma siccome non sapevamo chi fossero, alla fine, non ci demmo molto peso e li dimenticammo».
«Due brutti ceffi?».
«Non erano belle persone. Ma non ci fecero nulla di male e a quanto pare passavano di lì per caso. Uno dei due si congedò con uno strano ghigno prima di andarsene».
«Vi hanno scorto in intimità?».
«Intimità?».
«Mentre stavate amoreggiando?».
L'Agnese arrossì, vergognandosi.
«Non so, ma è probabile. Quel giorno lo ricordo perché…».
Il Marengo era così preso dalla conversazione che non si accorse di una striscia di bava che gli pendeva dal lato sinistro della bocca e che per poco non scivolò oltre il labbro inferiore macchiandogli la camicia.
«… perché ci siamo baciati per la prima volta».

78.

«Baciati?», domandò allibito il saggio della comunità.  
«La prego, Marengo, non mi giudichi, non mi faccia passare per una…».
«No, non ti preoccupare, non è mio compito indagare la morale delle persone… per quelle cose ci sono… i preti».
Rise fra sé.
«Ora è necessario capire chi fossero i due che vi hanno visti, piuttosto».
«Non ne ho la più pallida idea, guardi, davvero».
«E non vi è più capitato di vederli?».
«Assolutamente. Mai, mai più».
Il Marengo si fece pensieroso, ma capì che il cerchio in qualche modo si stava stringendo. Un po’ di cose cominciavano a combaciare, a tornare. La sua mente si mise in moto a mille all'ora, cercando nuove risposte pratiche che potessero dare una bella sterzata al corso delle indagini.
«Mai più…».
Il silenzio cadde di nuovo sui loro capi e quasi senza accorgersi si ritrovarono alle porte del paese, inconsapevoli del tempo che avevano trascorso insieme. 
Li vide Luciano Brioschi che si mise a sbraitare come un lupo durante una notte di luna piena.
«Marengo! Bello passeggiare per la campagna, eh?».
Il Marengo non ci fece granché caso, ma fu come sempre cordiale.
«Corri Luciano che il piatto si raffredda».
«Appunto, corro, corro».
Anche all'Agnese scappò un sorriso.
Poi fu la volta della Maria Casiraghi che, vedendoli, abbassò il capo. Li salutò con uno sguardo fugace e proseguì per la sua strada.
«Bene, Agnese», disse il Marengo, ormai in faccia all'ingresso del panettiere e, quindi, della casa della giovane. «Direi che abbiamo fatto una bella chiacchierata, quello che ci serviva per proseguire nelle indagini ce l'abbiamo e lo devo a te».
L'Agnese strabuzzò gli occhi, affaticata e desiderosa solo di poter dormire per un secolo.
«Mi scusi, Marengo, ma in che modo la mia storia potrebbe favorire le ricerche?».
«Ci sono un po’ di nuove cose su cui potrò ragionare, ma non è il caso di spiegartele adesso».
«Però, io…».
Il Marengo capì che la ragazza avrebbe desiderato un abbraccio, ma non se la sentì di compiere il primo passo.
«Stai tranquilla, nessuno ti criticherà per quello che è successo».
«Ma io preferirei che non si dicesse in giro che io e don Filippo…».
«Agnese, voglio essere sincero fino in fondo con te. Per venire a capo di alcune cose è necessario essere limpidi, espliciti, trasparenti. Non dobbiamo e non possiamo vivere nella menzogna. Quel che è accaduto a te e a don Filippo, può succedere a chiunque. Occorre solo il buonsenso, vincere la paura delle malelingue, perché quel che conta veramente sono solo l'intelligenza e la volontà di aiutare chi sta peggio di noi. Il resto è solo appannaggio dell'essere primitivo, di chi non ha cuore e non usa la testa come si deve. Tu hai una bellissima famiglia e hai ancora tutta la vita davanti a te. Vedrai che le cose si sistemeranno e un giorno non dovrai più penare per quel che hai passato».
All'Agnese vennero le lacrime agli occhi. Strinse forti i pugni e scappò via passando per il retro della casa che la ospitava da quando era bambina, convinta di non voler incontrare nessuno, tantomeno il padre. Il Marengo tirò un respiro profondo, mentre voltò su se stesso per raggiungere la propria dimora; nell'istante in cui attraversò il suo cammino la Marta Bucchi, che gli sorrise malignamente.

79.

Mangiò due fettine di prosciutto e qualche prugna appena raccolta dal pezzettino di verde che sorgeva di fianco alla sua abitazione; ma la fame era andata a farsi benedire. Aveva troppe cose su cui ragionare, compresi i tumulti legati a una libidine che pensava sopita per sempre. Anche la digestione non fu particolarmente felice, ritrovandosi contemporaneamente a pensare al suo passato che forse avrebbe potuto prendere una piega diversa se avesse incontrato la donna giusta, e alla morte di don Filippo che cominciava a diventare sempre meno nebulosa, ma paradossalmente più problematica. Pensò che più tardi avrebbe fatto visita al sindaco Boffalora, per decidere il da farsi.
Si stese un attimo sul divano e si appisolò per più di un'ora, facendo sogni confusi e rocamboleschi. Lo risvegliò il miagolio di un gatto simile al Gaetanino, che però non aveva mai visto dalle sue parti e che, alla fine, cacciò via con un fischio. Fu in strada in pochi minuti e in breve raggiunse la casa del sindaco.  
«Boffalora, ci sei?», berciò dalla finestra semiaperta della cucina.
Non udì parola. Ma sentì un rumore simile all'acqua che scroscia e va a sbattere su una superficie dura, tipo marmo. Pensò a qualche suo famigliare, intento a lavare qualcosa.
«Marengo», esordì la moglie del sindaco, «venga, la prego. Cerca il Raimondo? Vado subito a chiamarglielo».
«La ringrazio».
Il Marengo si ritrovò nella casa del primo cittadino, che rispetto alle altre volte che l'aveva visitata gli parve più piccola e più buia. Si soffermò sul mobile più ampio della cucina, dove erano appesi vari quadretti dedicati alla Madonna. Si stupì nel constatare che il sindaco fosse tanto devoto.
Se lo ritrovò davanti pochi istanti dopo.
«Marengo».
«Sindaco».
«Si accomodi, vuole un digestivo?».
«Considerando che non ho mangiato quasi niente…».
Non finì la frase e la moglie del primo cittadino gli porse un bicchierino di liquore.
«Beva, non faccia complimenti», disse il Boffalora. «Dunque, sarà venuto qui per raccontarmi qualcosa su don Filippo».
«E' proprio così».
Il Boffalora fece cenno alla donna di andarsene.
Il Marengo la vide sconsolata volare al di là della stanza dove erano soliti accomodarsi per pranzo e cena.
«Allora, mi dica».
«La faccenda sta prendendo la piega giusta».
Il Marengo raccontò per filo e per segno com'erano andate le cose. Dalla scoperta della lettera, alla chiacchierata con Agnese. Alla fine il sindaco non seppe nemmeno cosa dire, frastornato dagli incredibili sviluppi della storia. Aveva la bocca aperta come un bambino di fronte al più bel giocattolo che avesse mai visto, e per la prima volta anch'egli si rese conto che il caso, probabilmente, poteva non essere più tanto lontano dalla soluzione.
«Vorrebbe dire che lo ricattavano?».
«Lei cosa penserebbe?».
«Penserei la stessa cosa».
«Infatti, tutto torna».
«I due ceffi che andavano dal prete erano gli stessi che avevano visto i due in intimità».
«D'accordo, però continua a scapparci il vero movente», rifletté il Marengo, «che motivo c'era di assassinare don Filippo? In fondo, lui gli dava quello che volevano, e le cose sarebbero potute andare avanti così. Cosa è successo? Perché la situazione è precipitata?».
«Ci manca, peraltro, una controprova a tutto questo», aggiunse il sindaco, «non crede che sarebbe il caso di risentire Felice? In fin dei conti non abbiamo la certezza matematica che le due circostanze siano fra loro assimilabili».
«Potrebbe essere una buona idea, anche se non ho dubbi che ci fosse di mezzo un ricatto bello e buono».

80.

Trovarono Felice alla Locanda del gelso, un posto molto antico, dove da secoli le persone si davano appuntamento per trascorrere momenti di serenità, bevendo qualche bicchiere di vino o giocando a carte. Nella parte alta dell'edificio c'erano le camere che, seppur raramente, venivano affittate a viandanti e nobili in giro per affari. Una leggenda diceva che vi si era fermato perfino un re di Francia, che però nessuno sapeva correttamente menzionare; si diceva solo che avesse fatto tappa a Burago, per via di una sorgente di acqua fresca e pura.
«Felice», gridò il Marengo, vedendo il ragazzetto correre su e giù per le scale.
«Marengo, che c'è?».
«Abbiamo ancora bisogno di te».
Felice stette sulle spine: avrebbe fatto volentieri a meno di dover ancora dar retta ai grandi del villaggio.
«Vi prego, non portatemi di nuovo a cascina Branca», recitò sconsolato il ragazzo.
«No, niente di tutto ciò», disse il Boffalora, «piuttosto dovresti dirci bene quel che hai sentito quel giorno in cui capitasti per caso alla casa di don Filippo».
Il giovane dondolò la testa.
«Ve l'ho già detto, non saprei cos'altro aggiungere».
«Prova a ripensarci insieme a noi».
Felice sbuffò.
«Insomma, emerse cascina Branca e che… quei due erano dei poco di buono. Erano vestiti male, con delle brutte facce, sembrava gente cattiva… ve l'ho già detto!».
Il Marengo prese a girare su stesso pensieroso, in cerca di una domanda che avrebbe potuto fare davvero luce sulla tormentata questione.  
«Non ti viene in mente altro?», incalzò il sindaco.
«Nulla», disse il ragazzo.
«Pensaci bene».
«Nulla, accidenti. Se è nulla, è nulla».
Felice si accorse di essere stato un po’ sfrontato e si ricompose immediatamente.
«Ma perché, cos'altro avete scoperto?».
«Le indagini stanno proseguendo bene, ma ci mancano dei passaggi chiave, diciamo delle conferme», raccontò il Marengo.
«Non saprei come aiutarvi».  
«Per esempio, non ti è capitato di sentire la parola "ricatto" o…».
Si guardarono l'un l'altro i due uomini della comunità, e al cenno di sì del Marengo, il sindaco proseguì con il suo interrogatorio.
«O Agnese».
Il ragazzo sbalordì.
«Agnese? L'Agnese Bucchi? La figlia del panettiere?».
«Zitto», lo ammonì il Marengo, «non serve gridare».
«Ma cosa c'entra l'Agnese?».
«Niente, niente, vogliamo solo sapere se hai sentito il suo nome».
«Macché, dell'Agnese non ho proprio sentito parlare».
I due uomini non seppero più che pesci pigliare.
«L'unica cosa che posso aggiungere è che il prete a un certo punto s'inalberò».
«In che senso?».
«Si spazientì. Alzò un braccio al cielo e gridò qualcosa».
«Cosa?».
«Ma non lo so».
«Sforzati, santo Dio», blaterò il Boffalora.  
«Forse qualcosa del tipo, "svuoterò il sacco"».
«Come?», domandò il Marengo.
Felice cominciò a tremare.
«Oddio, non lo so, non ricordo, potrebbe avere detto così, ma anche no».
«Pensaci bene, potrebbe essere molto importante», lo supplicò il Marengo.
«Disse forse "dirò tutto", "parlerò", non lo so, ve lo giuro…».
«E solo adesso ci confidi una cosa del genere?».
«Ma perché tutta questa premura? Cosa c'è di tanto strano?».
«Ha ragione, Marengo», disse il Boffalora, «lui non è al corrente degli ultimi sviluppi. Non può dare senso a un particolare, se non è in grado di offrirgli un contesto».
Il Marengo comprese che il sindaco aveva ragione. Diede una pacca sulla spalla al ragazzo in segno di riconoscenza e lo lasciò libero di tornare ai suoi diletti.
«Va, torna pure a giocare. Ci hai detto abbastanza».
«Posso andare? Davvero?».
«Sì, certo, e… grazie di cuore per il tuo aiuto».
Felice li guardò stralunato e allibito da tanta devozione: il mondo dei grandi continuava a sembrargli lontano, ostile e incomprensibile.
«Va beh, come volete, arrivederci allora…».
E si catapultò di nuovo in cima alle scale, a rincorrere qualche altro fantasma giovanile. 

mercoledì 9 luglio 2014

Ferragosto # 15


71.

L'Agnese arrivò dal Marengo con i vestiti fradici e la faccia paonazza, il fiatone e due gote più rosse di un melone maturo. Ne aveva "già fatto una pelle", così avrebbero detto i vecchi del villaggio, per spiegare l'animosità di una giovane come lei, tanto scombuiata da risa grosse, salti all'aria aperta e tuffi. Anch'essa, peraltro, come la Lina poco prima, non fece molto per tenere a bada le sue forme e mandare in crisi il pover'uomo, che ne aveva già avuto abbastanza di ormoni che all'improvviso parevano essersi ridestati da un letargo lungo decenni. Pochi secondi, però, perché questa volta il Marengo riuscì facilmente a controllarsi, a domare le pulsioni, a dire no all'impeto del corpo, con la convinzione che fosse davvero arrivato il momento di smettere di comportarsi come un adolescente in calore e di iniziare seriamente a ragionare su come riuscire a convincere l'Agnese a raccontargli qualcosa. Già s'immaginava che non sarebbe stato facile, non meno del tentativo di estorcere qualche informazione alla perpetua.
«Buongiorno Marengo», disse la giovinetta con un filo di voce.
Non aveva la più pallida idea di cosa volesse da lei, e in tutta onestà avrebbe preferito continuare a giocare con gli amici. Anche se il Marengo era una brava persona, e sapeva che non aveva nulla da temere. Ma ne aveva sempre avuto molta soggezione, ritenendolo un capo villaggio severo ed esigente, col quale, in fin dei conti, era meglio non avere a che fare; un uomo, di certo, ben diverso dal suo grande amore... dal suo don Filippo. In realtà, mentre salutava il gran capo, l'idea che la sua presenza potesse essere legata alla relazione fra lei e il prete del paese, non la impensierì minimamente. Ormai il curato di Burago era morto e sepolto, che senso aveva continuare a parlare di lui?
Certo, non era facile tirare avanti, soprattutto per lei; a pochi giorni dalla sua dipartita, era davvero impossibile non pensarci o fare finta che fra loro non ci fosse stato niente. Ma si impegnava con tutte le forze per dimenticare, doveva farlo, se voleva sopravvivere, benché convinta che non ci sarebbe stato mai più nessuno in grado di comprenderla come lui, a cui avrebbe potuto liberamente confidare le sue pene e progettare un domani felice e generoso.
Doveva, voleva, fare finta di niente. E in parte ci stava riuscendo. Aveva alti a bassi, che si alternavano di ora in ora. La disperazione più cupa l'attanagliava per un po’, ma poi si affievoliva fino a trasformarsi in un banale ricordo, come tanti altri. Era diventata vittima di un bipolarismo umorale frenetico, che anche lei non sapeva spiegare perché vissuto per la prima volta. L'uomo con cui aveva sognato di trascorrere l'intera vita, fuggendo magari in un paese lontano, per lasciarsi alle spalle malelingue e pettegolezzi, non c'era più, e ora cercava di aggrapparsi a tutto pur di liberarsi da una situazione a dir poco soffocante e claustrofobica.
«Buongiorno Agnese, ti va di fare due passi?».
Il Marengo non perse tempo e andò subito al dunque; tanto valeva essere schietti e lasciar perdere con le smancerie, rifletté. La situazione era incredibilmente intrigata, ma percepì che solo adottando un atteggiamento risoluto e sincero avrebbe potuto indurre la ragazza ad aprirsi. L'onestà pagava sempre alla fine. La squadrò come si fissa una figlia che ha appena combinato una marachella, particolare che non sfuggì alla diretta interessata, che si sentì ancora più a disagio.    
«Come vuole, ma non posso fare troppo tardi», sbiascicò l'Agnese, cercando una scorciatoia al calvario che le parve profilarsi all'orizzonte.
Il Marengo le diede la mano per aiutarla a vincere il tratto più impervio dell'argine del Molgora.
La ragazza visse con apprensione la forte presa dell'uomo, che con una spinta violenta avrebbe potuto farla volare dall'altra parte del torrente.
«Non ti preoccupare», la rassicurò, «ti ruberò solo pochi istanti. Sono passato da tuo padre stamattina e…».
«Mio padre? Che c'entra?».
«Nulla, non correre».
«Io non ho fatto nulla di male».  
«Oh no, dunque, aspetta…».

72.

Era un piccolo sentiero ricoperto di robinie che si spingeva fino alle porte del cavenaghese, dove si diceva che in passato avesse ospitato uno scontro con alcuni soldati del Barbarossa. Lo conoscevano molto bene, perché spesso veniva percorso dai buraghesi come alternativa alla strada principale per raggiungere la parte orientale della regione, compreso il tragitto per spingersi fino al confine con la bergamasca; tramite una diramazione a metà del cammino, portava al laghetto dove era stato trovato il cadavere di don Filippo, e si incrociava, poco più in là, con quello battuto dall'Ambrogino per fare luce sulla vicenda più ingarbugliata della storia del paese. Per i primi minuti nessuno dei due fiatò, e per l'Agnese fu un'angoscia davvero opprimente e difficile da soffocare con un passo tranquillo e spensierato. Iniziò la conversazione il Marengo, dopo essersi reso conto che il sole cominciava a essere alto sull'orizzonte, e che nel giro di poco tempo sarebbe stata ora di andare a pranzo. Non c'era da perdere del tempo prezioso, dato che, forse, se n'era già perso abbastanza.
«Dunque, Agnese, troverai strana, questa mia richiesta di parlare con te, posso immaginarlo; però, non devi avere paura. Non devi avere nulla di cui temere, nessuno vuole metterti in difficoltà, o crearti problemi. Ormai mi conosci bene, sono molto amico di tuo padre, mi conosci da quando sei nata, e sai che tutte le importanti decisioni riguardanti la comunità dipendono da me. Compresa quella relativa a don Filippo…».
La guardò con gli occhi languidi di un padre premuroso, regalandole un po’ di sollievo. E lei - strizzandosi i capelli più per alleviare il nervosismo, che non per una reale necessità di asciugarsi la chioma - gliene fu grata; benché non capisse ancora il motivo del suo coinvolgimento.
«Lo so Marengo, lo so benissimo che è lei il capo del villaggio».
«Bene».
«E non il sindaco».
«Cosa c'entra il sindaco?».
«Volevo confermarle che anche per me è lei che comanda».
«Oddio, no, non volevo marcare questo particolare».
«In che senso?».
«Non confondiamo i ruoli. Il Boffalora ha altre mansioni».
«Che mansioni?».
«Diciamo, più pratiche. Io, al contrario, mi occupo soprattutto di migliorare le condizioni dei cittadini dal punto di vista… sociale, etico, filosofico».
Erano parole che all'Agnese suonarono strane come i termini usati dal famoso zoologo, amico di don Filippo, che era giunto in paese tempo prima.
«Filo che?».
Il Marengo sorrise.
«Lascia stare, non è così importante».
Giunsero nei pressi di una radura, ormai a un passo dal confine con Cavenago. Il Marengo sentì che cominciava a fare caldo, e che ormai la giornata era sbocciata in tutto il suo fragore agostano. Colò dalle sue tempie il sudore e sentì la camicia appiccicarsi all'addome. Comprese che fosse giunto il momento di sferrare il colpo decisivo. Era arrivato il momento di sapere.
«Sono stato a casa di don Filippo», sibilò come un fulmine a ciel sereno.
L'Agnese arrestò il suo cammino e indietreggiò di qualche passo, come se qualcuno l'avesse spinta a prendere le distanze dal saggio del villaggio. Cercò di mantenere un certo contegno, ma le fu difficile: l'esordio del Marengo era stato devastante. Perché don Filippo?
Il cuore cominciò a batterle come un tamburo e per un attimo ebbe l'impressione che intorno a lei girasse tutto, come se si fosse trovata a bordo di un'immensa trottola. C'era una buchetta lungo il percorso, provocata dallo sradicamento di un pino, perse l'equilibrio e per poco non cadde; ma per l'assurda situazione che stava vivendo, pensò che, forse, sarebbe stata una benedizione, il pretesto giusto per cambiare subito argomento.  
«Non capisco», mormorò con un filo di voce, vicino al silenzio.
Il Marengo intuì di avere fatto centro, verificando l'irrigidimento dei lineamenti del viso della ragazza.  
«Non è stato facile ottenere il permesso della perpetua, ma alla fine sono riuscito a setacciare la camera del curato».
L'Agnese riacquistò un po’ di coraggio e provò a tenere testa al suo interlocutore, deviando completamente il discorso.

73.

«Spero che siate riuscito a scoprire qualcosa. Sarebbe ora che saltasse fuori il vero motivo che ha portato alla morte di don Filippo. E' stata una perdita così grave per il nostro paese».
«E' stata una perdita molto grave, e non sarà facile scoprire come sono andate veramente le cose. Ma forse tu potresti essermi d'aiuto».
«Io? Io non c'entro nulla con don Filippo, sono solo una ragazzina, cosa vuole che c'entri io con tutto questo? Se don Filippo è morto non è certo per colpa mia».
La ragazza s'incaponì oltremisura e al Marengo non sfuggì il suo imbarazzo.
«Non voglio dire questo, assolutamente. Non ho dubbi sul fatto che don Filippo sia morto per colpa tua, ci mancherebbe. Ho dubbi su un'altra faccenda».
Il Marengo la fissò conturbato, inarcando le sopracciglia.
L'Agnese sorrise, cercando di rendere meno angosciante la circostanza.    
«Quale faccenda?».
La domanda dell'Agnese arrivò mentre una folata di vento scoteva le fronde più alte degli alberi, sollevando anche un po’ di polvere, che non risparmiò le iridi dei due buraghesi, facendogli strizzare gli occhi. Erano dei grossi pioppi bianchi, che coprivano parte della radura appena raggiunta. Al di là del tremolio delle foglie si celava un immenso cielo blu, come solo le giornate più limpide di un mese estivo sanno regalare. L'Agnese, tergiversando su quell'immensa finestra di azzurro, avrebbe desiderato un paio di ali per rimbalzare fra le sue nuvole, convinta della loro morbidezza e sublime elasticità. Ma era ancorata a una terra che inesorabilmente sentì ostile e traditrice, che con la sua gravità l'attirava a sé, destinata a qualche girone infernale.
Diamine. Non si era mai sentita così, nemmeno nei momenti più bui della sua vita, compresi quelli in cui sembrava che anche il suo amore con il curato non avrebbe avuto futuro.  
«Secondo me per procedere nelle indagini è necessario scavare nella vita di don Filippo, per provare a considerare aspetti che ancora non si conoscono; come ben saprai, ognuno di noi tiene in serbo segreti e sentimenti che è sempre meglio non fare sapere troppo in giro».
Il Marengo la prese larga, cercando di vedere se la ragazza si tradiva con qualche strana espressione, o palesando paura e angoscia.
«Per questo sono stato in camera sua».
L'Agnese non fece una piega, anche perché, probabilmente, non aveva minimamente preso in considerazione il destino che avevano preso le sue lettere; tantomeno l'ipotesi che don Filippo avesse potuto addirittura conservarle.
«Capisco, ma ancora non vedo il motivo che l'ha portata a interpellarmi. Sono sicura che le sue indagini proseguano per il verso il giusto, ma glielo ripeto, io non so nulla del curato».
«In realtà, scartabellando qua e là sono saltate fuori tracce inequivocabili».
«Può spiegarmi in parole più semplici?».
«Abbiamo trovato indizi che portano direttamente a te».
L'Agnese si mise a ridere.
«A me? Sta scherzando? E poi perché adesso parla al plurale?».
Il Marengo si accorse solo ora di averlo fatto, tirando indirettamente in ballo l'Ambrogino, al suo fianco durante le ricerche. Ma ritrovò al volo la strada maestra pronunciando una mezza balla.
«Parlo al plurale riferendomi alla comunità…».
«Alla comunità?».
«Insomma, Agnese. Quel che ti voglio dire è che, lo ripeto, le tracce che abbiamo trovato indicano il tuo nome». 

74.

«Ancora con questa storia?», ridacchiò nuovamente la ragazza, convinta che il Marengo si stesse arrampicando sui vetri. «Non vedo in che modo delle tracce in casa del prete possano avere portato a me. Io in quella stanza non ci sono mai stata in vita mia».
Il Marengo perse la pazienza e per la prima volta dall'inizio della passeggiata fu sfrontatamente diretto.
«Agnese, basta con le menzogne. In casa del prete abbiamo trovato le tue lettere. Non serve che tu sia stata in quella stanza. Basta sapere che c'erano delle cose tue personali».
Calò sul duo un silenzio di tomba, comprensibile solo pochi istanti prima il boato di un terremoto.
L'Agnese finse di reggere il colpo, esprimendosi con uno sguardo indifferente; ma dentro di sé, già si aprivano squarci di terrore. Come quando si prende una brutta botta: il dolore tarda ad arrivare, ma se giunge al cervello, sono pene infinite. Lasciandosi accarezzare dal venticello che cresceva sempre di più, trovò, comunque, la forza e il coraggio di dare una spiegazione al Marengo, benché le ipotesi di un trionfo fossero lontane quanto l'orbita di Nettuno, scoperto da una decina d'anni.  
«Le mie lettere? Marengo, la prego, non so proprio di cosa sta parlando. A quali lettere si riferisce? Io so a malapena scrivere».
Il Marengo girò la testa su se stesso, insofferente all'ennesimo tentativo della ragazza di sviare le indagini. Ormai l'aveva in pugno, ma non voleva che quella mattina si trasformasse in un calvario senza fine. Smise di indugiare.
«Non importa. Pur sapendo scrivere male, si possono comporre delle belle lettere… delle belle lettere d'amore».
Alla parola "amore" l'Agnese ebbe un sussulto. Deglutì amaramente, quasi del tutto incapace di disserrare ancora le labbra per donare al vento nuove parole. Dovette tuttavia trovare il modo di farlo, cercando di difendersi: avrebbe preferito morire piuttosto che fare sapere in giro che aveva una tresca col prete.
Fu pervasa da bruttissime sensazioni e si pose domande che non riuscì a confortare con risposte appropriate. Come aveva fatto il Marengo a scoprire le sue lettere? E com'era possibile che don Filippo potesse averle lasciate in giro?
«Allora?», la incalzò il Marengo.
Camminarono per qualche metro, e l'Agnese tentò l'ennesima e inutile carta per raddrizzare una situazione senza speranza.  
«Ah, quelle lettere… oddio Marengo, sì, ora mi viene in mente, si figuri… una sciocchezza! Un giorno stavamo scherzando sul sagrato della chiesa, e per via di una cerimonia dedicata ai più giovani, don Filippo mi aveva chiesto di fargli vedere come si compone, come si può comporre, una lettera d'amore. Feci finta di indirizzarla a lui per vedere che faccia faceva».
Il Marengo non abboccò.
«E cosa c'era scritto sulla lettera?».
«Ma niente, due parole messe in croce, niente, davvero, di speciale».
Il Marengo non fiatò, ma si mise a frugare nelle tasche, estraendo un foglio ormai ridotto a una pallottola di cellulosa, che spiegò sotto i suoi occhi.

75.

«E di questa che mi dici?».
L'Agnese rabbrividì.
«Cosa?».
«Vuoi prenderla? O la facciamo volare via?».
Alla ragazza tremarono le mani, ma non poté far altro che afferrare ciò che il Marengo le offriva: la lettera che lei stessa aveva scritto mesi prima a don Filippo, rivelandogli tutto il suo amore. Prese a leggere le prime righe:
«Come dirvelo, come dirvelo, don Filippo, che ormai il mio cuore è tutto per voi. Per voi che aveva riempito il mio cuore di amore e di bontà. Don Filippo, non posso mai scordare i nostri incontri nel bosco e tutto quel che ci è stato fra noi e i nostri bei cuori del Celo. Io sono appena giovane ma quando donna divengo voglio stare per sempre con lei e la sua bontà…».
Non ce la fece ad andare avanti.
«Agnese…».
E a questo punto la giovane si sciolse in un pianto irrefrenabile.
«Marengo, Marengo, la prego, la prego, mi perdoni, non so nemmeno io quello che ho fatto, Marengo, io, io…».
Il saggio della comunità non ebbe bisogno di spiegazioni; sapeva bene che la ragazza non aveva nessuna colpa e cercò di rincuorarla.
«Agnese, calmati, non ti preoccupare, ora vediamo come andare avanti. Ascoltami».
La giovane non riuscì a calmarsi e seguitò a singhiozzare e a disperarsi.
«Io, io, amavo davvero don Filippo e non avrei mai voluto che…».
Zittirono, osservando le cime dei pioppi sopra le loro teste dondolare con vigore, sospinti da un vento che cresceva sempre di più. Il Marengo sospettò che entro sera sarebbe potuto scoppiare un bel temporale, ce n'era bisogno, ma non ebbe tempo per soffermarsi sui capricci della stagione. Davanti ai suoi occhi una ragazzetta, che sarebbe potuta essere sua nipote, reclamava un conforto che probabilmente nemmeno un angelo sarebbe stato in grado di fornirle.  
«Agnese», riprese il Marengo, «quando si diventa adulti le cose si fanno più difficili, e ancora più difficili sono per un prete. Succedono purtroppo cose che nessuno è in grado di gestire e valutare, perché se è vero che la testa raccomanda certe azioni da intraprendere, poi non sempre il cuore obbedisce ai comandi della mente. Succede così proprio con i sentimenti. E' successo così evidentemente anche a te e a don Filippo. Non c'è da parte mia la volontà di redarguirti, ma solo di fare chiarezza su una faccenda troppo ingarbugliata. Don Filippo è morto, e noi dobbiamo provarle tutte per fare luce sulla sua scomparsa».

L'Agnese tirò un respiro profondo, e mossa da un bisogno irrefrenabile di aiuto, si strinse al Marengo in un abbraccio pieno di malinconia. L'uomo non se l'aspettò, e ci mise qualche minuto prima di sciogliersi definitivamente, calibrando una carezza sul capo della ragazza.