Un tipo che nasce nel 1887 a Hirschberg e muore a Berlino nel
1912. Un tipo che è anche uno dei più leggendari poeti del primo espressionismo
tedesco. Si chiama George Heym. A Berlino, abbandonata la famiglia, frequenta
il cabaret Neur Club di Kurt Hiller. Si dedica alla poesia e in soli due anni
ne compone cinquecento. Ambisce al grande e al sublime, gli piace Nietzsche.
Odia gli scritti di Rilke, ama a dismisura quelli di Baudelaire e di Rimbaud. Vorrebbe
che succedesse di tutto, ma non succede mai niente. Eppure sta per scoppiare la
prima guerra mondiale. Che lui non vivrà mai. Muore, infatti, ad appena 25
anni, pattinando su un fiume ghiacciato.
domenica 17 novembre 2013
venerdì 15 novembre 2013
Uomini e no
amo questa foto per i colori, l'atmosfera, non so che altro, la posto immaginando di postarne altre che avranno lo stesso potere di scuotermi...
lunedì 11 novembre 2013
Ferragosto # 3
11.
Trovò lo stesso
laghetto di sempre, che già altre mille volte aveva visto, benché in compagnia
di qualche amico o parente. C'erano dei tronchi in più che galleggiavano, forse
caduti in seguito al terribile temporale di un mese prima, che anche in paese
aveva causato parecchi disagi. Erano soprattutto i resti di un vecchio platano,
che da chissà quanti anni faceva ombra su quello sperduto angolo del buraghese.
Intorno, la natura brulicava in tutte le sue forme, il sottobosco era molto
rigoglioso, con rampicanti che abbracciavano le arboree più possenti, soffocando
la loro volontà di spingersi verso le nuvole. In autunno alcuni di essi
diventavano rosso incandescente, colorando la radura come in una bellissima
natura morta. Ambrogino non aveva dimestichezza con le opere d'arte, ma un
giorno, in visita alla dimora signorile di Santa Maria Molgora, aveva avuto
modo di soffermarsi su una pittura che rappresentava le sfumature autunnali,
messe ben in vista da una serie di vegetali appena raccolti, agonizzanti su un
tavolone scuro, fra campioni di selvaggina. Gli piacevano i colori della
stagione più malinconica dell'anno.
Si udivano i
suoni di parecchi animali, che Ambrogino non seppe riconoscere. Ma era certo
che si trattasse perlopiù di uccelli. Conosceva il canto del merlo e quello
della tortora, che sapeva imitare, congiungendo le mani per formare una specie
di rudimentale cornamusa, ma faceva fatica a distinguere gli altri e mai, del
resto, aveva provato in vita sua a soffermarsi sugli aspetti dell'ornitologia
locale. Non sapeva nemmeno cosa fosse la branca della zoologia che si occupava
del mondo alato. Quel pomeriggio era come se stesse suonando un'intera
orchestra, come se i volatili della zona si fossero raccolti in quel misero
spazio acquitrinoso, per dare il benvenuto al piccolo buraghese lanciato in
avanscoperta, a caccia di don Filippo. Don Filippo…
A lui,
inevitabilmente, andò il suo pensiero, mentre si mise a circumnavigare il
laghetto, rispettando il comando dell'alta dirigenza e seguendo il bel sentiero
che da secoli disegnava un cerchio quasi perfetto intorno allo stagno. Stava
bene con don Filippo, era un prete che gli piaceva, così allegro e giovanile,
con la battuta sempre pronta, l'unico in grado di trasformare la predica in una
divertente performance teatrale. Tante volte vi aveva avuto a che fare. Come quando
una scheggia di legno gli si conficcò nel pollice destro, dopo essersi messo
maldestramente a saltare per recuperare una vecchia palla finita su un albero. Guaì
come un cagnolino rimasto senza la mamma, percependo l'orrendo dolore provocato
da quel pezzo di corteccia che gli aveva deflagrato un po’ di pelliccia. Don
Filippo l'aveva sentito e gli aveva chiesto cosa ci fosse che non andava.
L'Ambrogino gli fece vedere la mano dolorante e il prete lo invitò a seguirlo in
casa sua, dove con una specie di spillo, opportunamente surriscaldato, gliela
estrasse senza fargli patire alcun male.
«Don Filippo,
don Filippo!», si mise a urlare il giovane senza premeditazione, come se il
sacerdote potesse davvero trovarsi dietro l'angolo e spuntare all'improvviso
dal nulla; proprio com'era accaduto quel giorno che l'aveva soccorso curandogli
la ferita alla mano.
12.
Fece il giro del
lago due volte, ma non vide nulla di strano. Rumori, fischi, profumi, ma niente
che potesse evocare la presenza del prete.
Il sole era
ancora alto, non c'era nessuna fretta, si compiacque di poter sdraiarsi un
attimo ai piedi di un acero campestre, ricordando il motivo per cui amava
smisuratamente quel posto: lì, per la prima volta, aveva baciato una ragazza.
Era la Lina Gervasoni, la nipote del vecchio sagrestano, uno dei più anziani
del paese. Erano in giro con le rispettive famiglie, una domenica che la
comunità aveva deciso di dedicare un'intera giornata allo svago e alle
meraviglie del Signore che proprio la natura sapeva tanto bene esaltare. C'era
anche un cugino di don Filippo che, appassionato di zoologia, aveva fatto da
cicerone, illustrando a chiunque volesse, un po’ di retroscena della biologia
locale. E proprio per questo motivo s'erano isolati dagli altri, con la scusa
di inseguire una farfalla particolarmente colorata, che l'improvvisato zoologo
aveva decantato come una specie assai difficile da riscontrare sul territorio.
S'erano
ritrovati vicino al laghetto, ansimanti e febbricitanti, con le guance
arrossate e le gocce di sudore che scivolavano sulle tempie, lontani dagli
schiamazzi e dai canti dei compaesani. Non era stata una casualità: da tempo si
inseguivano con gli sguardi, sorridendosi, auspicando futuri felici e
disincantati. Sospettavano che non fosse ancora ora per fare certe cose,
vivendo la sessualità come gliel'avevano inculcata i genitori, come un castigo
divino e ogni smanceria poteva essere accettata solo se ricondotta al concepimento.
Ma se la mente ragionava in un modo, non sempre il corpo rispondeva a dovere.
Così L'Ambrogino s'era avvicinato a meno di un palmo di naso dalla Lina, fino a
sentire il calore del suo respiro, e gli effluvi dei suoi pori dilatati. La
ragazza, tutt'altro che imbarazzata, l'aveva lasciato fare; finché le labbra del
giovane non s'erano appiccicate alle sue, per un breve istante, ma così lungo
da farlo sembrare una vita. Poi, come se niente fosse, s'erano rimessi a
rincorrere la farfalla, finita chissà dove, e rincasando strattonandosi come
bambinetti appena svezzati.
Ma le cose non
erano andate come l'Ambrogino avrebbe voluto. La loro assenza aveva, infatti, sollevato
varie malelingue che avevano costretto i genitori della Lina a redarguire la
figlia, ammonendola di non frequentare più l'Ambrogino, almeno fino alla maggiore
età, o a quando si fosse decisa a sposarlo. Tuttavia lo spasimante non aveva nessuna
fretta: l'avrebbe aspettata, sapendo che un giorno sarebbe diventata sua moglie
e avrebbe potuto baciarla all'infinito. E fu, dunque, crogiolandosi in questo dolce
pensiero che intravide qualcosa di strano che galleggiava a pelo d'acqua, di
colore bruno, forse addirittura nero. Si disse che non poteva essere un tronco
perché di colore troppo scuro, e nemmeno un groviglio di alghe, tipicamente verdi.
E allora cos'era? Non gli restò che alzarsi per raggiungere la riva e capire di
cosa si trattasse.
13.
Non riuscì a
vedere bene nemmeno dalla riva, poiché un grosso tronco ostruiva la visuale.
Arretrò di qualche passo e si arrampicò su un cumulo di terra, nella speranza
di mettere meglio a fuoco quell'inusuale macchia scura nel cuore dello stagno. Il
risultato, però, non fu soddisfacente. Provò a dirigere altrove il suo sguardo,
soffermandosi su un punto del bosco in cui due pini si contorcevano, dando
l'impressione di avere tentato con scarso successo una via alternativa verso il
cielo. Tornò con un balzo alla posizione iniziale, e per poco non scivolò
maldestramente, sfiorando con la gamba destra un frammento di roccia sporgente,
che gli procurò la fuoriuscita di un po’ di sangue.
«Ahia», gridò.
Si medicò con uno
sputo, e ripercorse avanti e indietro il lato ovest dello specchio lacustre. Non
poteva andare via senza avere capito cosa avesse intravisto. Eppure da quella
posizione non poteva intuire granché. Per vedere bene doveva scivolare nel vischiume.
Ma odiava l'acqua e sapeva che quello stagno poteva trasformarsi in una
trappola mortale. Il Marengo era stato fin troppo chiaro: non doveva
avvicinarsi troppo alla riva per non finire inghiottito dalle sabbie mobili. Sul
suo volto si disegnò un'espressione affranta. Per un attimo avrebbe voluto fare
finta di niente, fregarsene e tornare a dire agli altri che non aveva trovato
nulla. Ma la coscienza lo trattenne. Lui, in fondo, continuò a ripeterselo come
un mantra per darsi coraggio, non temeva neanche i fantasmi che si diceva
affollassero il vecchio cortile dei Brambillasca, ultimo avamposto prima di
perdersi nelle campagne che conducevano a Ornago. Mosse il primo passo e vide
che il fondale teneva.
«Bene», mugugnò.
La palude lo
avvolse e il fango gli arrivò alle ginocchia. Sentì bruciare la ferita a
contatto con l'acqua, e strinse i denti per trovare la forza di proseguire e
vincere la terribile sensazione di sprofondare piano piano. Tentò di pensare ad
altro, ma nemmeno l'immagine della Lina riuscì a farlo stare meglio. Si
distrasse osservando un paio di rane che gracchiarono spaventate dal suo passo
tracotante e qualche uccello che si librò nell'aria, superando la macchia
boscosa per volare verso il paese. Scostò le lunghe braccia di un gelso della
carta mezzo rinsecchito, e finalmente riuscì a fotografare nella sua completezza
la distesa d'acqua. Il presagio si fece palpabile.
«Oddio»,
mormorò.
Ebbe proprio
l'impressione che quell'informe massa nerastra potesse essere un corpo. Il corpo
di una persona. Una persona che indossava un abito scuro. Il cuore prese a sussultare
come un martello pneumatico. All'improvviso percepì un silenzio sinistro e
sovrumano, come se anche l'universo avesse puntato le sue orecchie e i suoi
occhi per capire cosa stesse accadendo in quell'angolino sperduto di mondo. Compì
un ultimo sforzo, rischiando in modo plateale di finire risucchiato dal vortice
di melma, e con un ultimo passo poté fare luce in modo indistinto su ciò che
aveva di fronte; la peggior immagine orrorifica che gli fosse mai capitata in
vita sua: il corpo senza vita di don Filippo, con gli occhi ancora sbarrati
dalla paura.
14.
«Oddio!!»,
esclamò inorridito, cercando di allontanarsi il più in fretta possibile da
quell'angolo terrificante.
Le gambe gli dettero
scarso sostegno, finché non venne a trovarsi nel punto in cui il substrato
pareva più resistente. Si aiutò con alcune liane, aggrappandosi a esse come un
naufrago abbandonato ai provvidenziali resti di un relitto. Ringraziò il cielo;
per un attimo s'era immaginato di venire risucchiato dalla melma e fare la stessa
fine del sacerdote, divorato dal fango e dalle putridità della terra. Forzò i
muscoli dei polpacci fino a raggiungere la superficie asciutta, dove tirò un
respiro di sollievo e il cuore cominciò a rimbombare nella sua sede naturale.
Per ironia della
sorte continuava a essere una splendida giornata, con i raggi del sole che
filtravano nella selva, regalando colori e profumi di un'estate memorabile. Una
raffica di vento gli suggerì che lo spirito del prete potesse essere ancora nei
paraggi. Sua nonna gli aveva insegnato, e ancora adesso non perdeva occasione
di ribadirgli, che il vento porta con sé tante cose, perfino le anime dei
morti. Succedeva soprattutto quando c'era il sole e l'aria era fresca e pulita.
Si volse per
guardare ancora una volta la sagoma impressionante di don Filippo. Non poteva,
voleva, credere ai suoi occhi. Cosa poteva essergli accaduto?
Ora che l'aveva
visto da vicino, riusciva a interpretarlo correttamente anche da lontano. Giaceva
supino, gonfio, bianco come la neve, con la punta delle scarpe devastata
dall'usura o forse dalla voracità di qualche incredibile creatura acquatica.
Lì, buttato nel nulla, come un cencio, un carretto da bruciare durante il falò
di sant'Antonio, qualcosa che non valeva niente. Era davvero troppo, un'onta
inimmaginabile per un piccolo e inutile borgo come Burago. Lui cosa poteva
fare?
Di primo acchito
avrebbe voluto fare mille cose, compresa quella di recuperare con le sue sole
forze don Filippo dalle sabbie mobili; per potergli stringere la mano, come
sempre, sollecitandolo a ritornare ai suoi fedeli; come se tutto ciò che aveva
davanti agli occhi fosse solo un brutto sogno e si potesse risolvere con un
pretesto qualunque. In realtà gli rimaneva una sola cosa da compiere: filare spedito
dal Marengo e dagli altri uomini per comunicare la terribile notizia, per
cercare almeno di recuperare quel poco che era rimasto del corpo del prete.
Soffocò un urlo
mettendosi a galoppare come una gazzella del Sahara tallonata da un felide a
digiuno da lustri. Aveva trovato don Filippo morto stecchito, nel bel mezzo del
laghetto buraghese, dove aveva baciato la sua Lina e pensò che solo una corsa a
perdifiato avrebbe potuto ridargli un po’ di lucidità e speranza. Corse come un
matto, con le immagini del parroco e quelle della Lina che si sovrapponevano
freneticamente nel suo cervello, danzando un ballo assurdo e frenetico. Alla
fine le effusioni scambiate con l'amata persero il loro spessore, surclassate
dalle immagini oniriche di un prete trasformato in zombie che girava di casa in
casa nella notte per divorare tutti i suoi fedeli. Non si accorse che, nel
frattempo, era giunto al cospetto degli altri popolani.
15.
«Ambrogino, che
c'è da correre con tanta premura?», gli chiese il Marengo.
Non riuscì a
rispondere subito, per via del fiatone. Ma indicò con una mano il laghetto, dando
l'impressione che un animale del Giurassico, con i suoi dentoni affilati, gli
stesse dando la caccia.
«Hai trovato
qualcosa?», incalzò il Marengo, sospettando che il ragazzo avesse davvero
scovato qualche indizio importante.
«Don Filippo»,
mugugnò, «don Filippo…».
Sentendolo
pronunciare il nome del prete, anche gli altri del gruppo lo contornarono
ansiosi e incuriositi. Il capobanda, percependo il momento difficile del
ragazzo, gli appoggiò paternamente una mano sulla spalla.
«Ambrogino, stai
tranquillo, dicci con calma cos'hai visto».
Il giovane si
aprì un varco fra i presenti e andò a sedersi sullo spuntone di una roccia, che
stranamente sbucava in quella radura senza colore; e cercò il modo migliore, il
più adulto e pragmatico, per comunicare agli altri ciò che di terribile aveva
appena scoperto. Vide che la gamba non aveva smesso di sanguinare, ma era così
agitato che il problema di stremare esangue non lo sfiorò minimamente. Fu molto
serafico:
«Don Filippo…
l'ho visto, morto, annegato, nel laghetto».
Gli uomini del
Marengo rimasero impietriti. Increduli. Esterrefatti.
«Che hai
detto?», domandò Pinuccio Villa, che abitava due case più in là del sindaco del
paese.
«Don Filippo… è
morto. L'ho visto con i miei occhi. A pancia in su, galleggiava con le palpebre
spalancate. Una cosa tremenda».
Gli venne quasi
da piangere.
Luciano
Brioschi, il più ciarliero della compagnia, non poté esimersi dal mostrare
tutta la sua apprensione:
«Non può essere
vero. Don Filippo non può essere sparito così. Avrai visto qualcos'altro. Sarà
stato un cane, o un cavallo».
L'Ambrogino lo
fissò con rabbia. Ancora una volta qualcuno non gli dava credito solo perché
era un ragazzo.
«Ti ho detto che
l'ho visto con i miei occhi… con questi miei occhi. Hai capito? Non sono mica
scemo».
Calò una cappa
di silenzio e angoscia sui buraghesi perduti in quello spazio senza tempo,
mentre il vento continuava a soffiare facendo credere all'Ambrogino che don
Filippo fosse ancora lì con i suoi compaesani, pronto a commentare un nuovo passo
della buona novella.
«Allora è vero
quel che andavamo sospettando», sussurrò, tremando, il Marengo.
La domanda del
capobanda sollevò un potente mormorio, dal quale spiccò il commento di
Ferdinando.
«Non ci posso
credere, non posso credere che il nostro parroco si sia…».
«Non osare
pronunciare quella parola, Ferdinando!», lo redarguì Pinuccio, «don Filippo era
un sant'uomo, non avrebbe mai compiuto una cosa del genere».
«Eppure, se è
vero quel che dice l'Ambrogino, non vedo quali altre possibilità ci siano per spiegare
la scomparsa del don», disse malinconicamente il Marengo.
«E il fatto che
abbia lasciato il biglietto con scritte quelle cose, dà ulteriore conferma al
nostro presentimento», precisò Pinuccio.
L'Ambrogino fissò
desolato i suoi interlocutori, conscio di essersi fatto portavoce della notizia
più sconvolgente di tutti i tempi, pentendosi in parte di essersi proposto di
perlustrare la zona più acquitrinosa e impervia del paese. Lui, in fondo, aveva
solo voglia di tornare a visitare il posto in cui aveva baciato la Lina. Mai si
sarebbe aspettato una cosa del genere.
«Forza andiamo»,
disse il Marengo.
sabato 9 novembre 2013
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