venerdì 27 settembre 2013

Laila # 14


14.

Una visita inaspettata

Oddio, il citofono. I miei vicini? Impossibile. Il vicino che è tornato per farmi la pelle? Poco probabile. Chi sarà mai? M'infilo i pantaloni, inciampo, rischio di cadere, come un comico alle prime armi, e con gli occhi totalmente incatramati dal sonno sbircio dalla tapparella che dà sul cancello di ingresso: non ci posso credere. Corro in bagno per darmi una rinfrescata e indosso la prima camicia che mi capita fra le mani. Sono proprio loro: mi stanno aspettando sull'uscio, sono Ginevra e Orso. Che ci fanno qui? Grido al citofono che sto per arrivare, ricordandomi a malapena il giorno della settimana e il numero che mi metto a indagare forse per scaricare la tensione, e mi catapulto all'esterno nei panni di un maratoneta di New York. Gli amici hanno il volto sorridente di chi sa di avere appena vinto la lotteria; Ginevra è più bella che mai, un miracolo della natura, con due occhi che sprizzano un'inaudita contentezza.
«Che ci fate qui? Siete impazziti?».
«Siamo venuti a fare visita al nostro fuggitivo», dice Ginevra. «Al nostro eroe… fuggitivo».
Orso mi dà una gran manata sulle spalle congratulandosi, e bofonchiando un termine dialettale che non comprendo; ma mi sfugge anche tutto il resto. Basito, lo osservo come si fissa un animale allo zoo che lotta contro se stesso per vincere le sbarre.
«Guarda un po’ qui», dice Ginevra, piantandomi in faccia una pagina del quotidiano Il Giorno.
Il titolo è fin troppo eloquente, ma mi ci vuole del tempo per capire che si riferisce proprio al sottoscritto. Si legge: "Il vicino di casa la salva dal suo aguzzino". Sotto: "Senza il suo intervento i soccorsi avrebbero ritardato condannandola a una lenta agonia". E nel pezzo vero e proprio viene addirittura menzionata la parola "eroe". Eroe? Eroe. Rido sotto i baffi.
«Ti rendi conto?», continua Ginevra esagitata. «Sei sul giornale!».
Non si capacita di una simile notizia, trovandola in antitesi con l'idea che si era fatta di me, tipo asociale e introverso, ben distante da qualunque forma di pubblicità.
«Questa è bella!», va avanti colma di entusiasmo. «Ma adesso ci devi assolutamente dire che cosa è successo!».  
Per un attimo vorrei sprofondare.
«Fa vedere».
Le strappo, in pratica, il giornale dalle mani, scoprendo, per mia grande meraviglia, che davvero è riportato il mio nome: l'uomo che in piena notte, attratto dalle grida, s'è precipitato nella casa dei vicini per salvare una donna sottoposta a un pestaggio violento, non posso che essere io (e non un omonimo). In effetti, senza il mio sos le cose sarebbero potute andare molto peggio. Provo, senza darlo a vedere, un senso di grande sollievo, stupore, e mi lascio trastullare da un brivido di felicità che mi percorre da cima a fondo; all'improvviso mi sento l'uomo più contento della terra, consapevole di avere salvato una vita e forse definitivamente me stesso. In una frazione di secondo il mio umore subisce una brusca impennata, disintegrando il tradizionale savoirfaire che mi contraddistingue venendo a contatto con gli altri. Abbraccio i miei due interlocutori e li bacio come se fossero appena tornati da un viaggio durato secoli. Mi guardano allibiti, ma anch'essi non possono fare altro che gioire per l'epilogo dell'incredibile vicenda.  
«Allora ci vuoi dire cosa è successo?», incalza Ginevra.
«Vi dirò tutto. Ma non qui in mezzo la strada. Volete salire da me?».
Per la prima volta invito qualcuno ad accomodarsi nel mio eremo immacolato. Il disordine regna sovrano, ma sono troppo euforico per pensare che Ginevra e Orso possano soffermarsi su un dettaglio tanto banale. Ho salvato una vita, e difeso la mia storia con Laila. Sì, Laila, proprio lei. L'ho difesa, e sono finalmente giunto a darle il giusto peso, il significato più appropriato, la sentenza delle sentenze, l'ultimo grado di giudizio. Cambia così il mio divenire, mentre indago la realtà che mi circonda da un nuovo punto di vista, più consono alla classicità dei tempi, alla quotidianità più spiccia. Il mio pensiero si fa più leggero, niente al confronto di quello sopportato in tutti questi mesi, anni, secoli di lontananza dalla mia vita precedente. La mia vita prima del 1983… Perfino la Vian, ora, sospira dietro l'angolo, pronta a riaccogliermi fra le sue braccia. Benché non abbia nessuna intenzione di tornare sui miei passi. E' giunto ormai il momento di buttarmi completamente, di lasciarmi andare verso l'orizzonte luminoso che per tanto tempo ho avuto dinanzi agli occhi, coperto da una coltre buia, indefinita, spettrale, che non mi faceva vedere correttamente; una coltre che giorno dopo giorno si dissolve sempre più, s'è ormai quasi del tutto dissolta, dandomi modo di fotografare il futuro nel quale non riuscivo più a sperare. Lo sapevo e non lo sapevo che le cose sarebbero andate così. Il subconscio ci parla continuamente, ma quasi mai siamo in grado di dargli credito. Mi ha parlato in tutti questi giorni di perdizione, ma era come se non ci fosse: a vincere era solo il dolore di non avere più Laila intorno a me. Presto o tardi confiderò ogni cosa anche a Ginevra e a Orso. Ginevra sa già, in parte, ma il succo della storia deve ancora conoscerlo. Non manca molto. Li faccio accomodare in salotto, proponendogli una tazza di caffè.
«Due, grazie!», dice Ginevra, guardandosi intorno con curiosità infantile.
Dalla finestra rimiro il sole che sta spavaldamente facendo capolino sbucciando le vernici del davanzale. Ho proprio detto "sole". Incredibile, non ci sono nuvole. C'è solo il sole che brilla, una stella contenta, la prima volta che la vedo spuntare con tanta voglia di fare il suo dovere. Ormai non ci speravo più. Con tutti i giorni e le notti di freddo e gelo trascorse, mi ero messo in testa che la terra stesse andando incontro a una nuova glaciazione. Il sole, meravigliosa alternativa a Dio.  
«Si può sapere cos'hai combinato?», mi chiede Orso, mentre gli porto il caffè.
Gli amici non stanno più nella pelle: mi fissano drogati da un invincibile desiderio di conoscenza.  
«Non mi sono mai andati a genio… avevano orari strani, troppo strani, erano strani, non capivo che lavoro facessero… un giorno, l'unica volta in cui posso dire di avere avuto a che fare con essi, si sono presentati alla mia porta con una torta, ma non gli ho mai dato corda».
«La torta, almeno, era buona?», mi domanda Ginevra, ridacchiando.
«Squisita, se è per questo, ma c'erano troppi ma, anche per uno fuori dal mondo come me».
Gli racconto delle notti in cui sarebbe stato evidente anche a un bambino che in quella casa c'erano movimenti sospetti. Le luci, i suoni, le tende che danzavano sospinte da indefinibili energie… troppe cose non quadravano. Poi, la sera appena trascorsa, ogni mio dubbio è svanito.
«E' partito un urlo lancinante, tipo nei film quando qualcuno viene pugnalato… mi ha fatto sobbalzare. Sono uscito con la scusa di accedermi una sigaretta, cercando di capire cosa stesse accadendo; poi la situazione è precipitata. Non s'è udito più nulla, più nessun movimento. L'uomo è uscito di corsa, totalmente fuori dalla grazia… è salito in macchina e se n'è andato chissà dove. A quel punto ho sentito la spinta a farmi avanti… mi sembrava impossibile addormentarmi con l'apocalisse a un passo da me».
«Madonna», sussurra Ginevra con gli occhi sgranati. «E poi, cosa è successo?».
«Non ci ho messo molto a inoltrarmi nel covo dei vicini, trovando ogni uscio spalancato, le luci accese, la strada deserta... di fronte a me il finimondo: tutto sottosopra, divelto, volato via… il chiaro segno di una violenta colluttazione. Ho raggiunto il salotto e… lì ho visto la donna, la vicina, la stessa che mi aveva consegnato fra le mani la torta, mesi fa… ho pensato che potesse essere morta, non si muoveva, pareva di marmo; ma avvicinandomi al suo corpo straziato, mi sono reso conto che respirava ancora».
«Porca puttana», fa Orso, allibito, «e lì ti sei deciso a chiamare l'ambulanza…».
Annuisco.
«Aveva la bava alla bocca. E io ero terribilmente scombussolato. Non sapevo cosa fare. Alla fine ho chiamato i soccorsi che, evidentemente, hanno permesso alla donna di salvarsi… sennò sarebbe morta per emorragia».  
«E' quel che dice, infatti, il giornale. Se i medici non fossero arrivati o avessero ritardato sarebbe giunta cadavere all'ospedale: aveva un grosso ematoma in testa che, se non trattato tempestivamente, non lascia scampo».
Alla parola ematoma mi sento di nuovo cedere le gambe, ripensando, peraltro, alla cantante dei Fairport Convention e alla sua triste fine, che si sarebbe potuta evitare se qualcuno l'avesse soccorsa in tempo. Ma non è come le altre volte. Il fantasma di Laila, finalmente, ha tutto un altro spessore; ora c'è la consapevolezza di averla salvata e di avere espiato la mia colpa.  

Ritagli di giornale

Quando Laila mi mostrò di nuovo i segni delle punture sulle braccia persi la testa. Era già da qualche mese che non ci recavamo più dal professore di Lucca ed ero convinto ormai, che avesse vinto la dipendenza. Raggiungeva il lavoro da sola, mi sembrava che non avesse più alcun problema e fosse in grado di difendersi dai morsi dell'astinenza. E invece non avevo capito nulla. Non so quando riprese a farsi, non l'ho mai saputo; rideva, mentre mi dava la terribile notizia, dandomi l'impressione che non si rendesse veramente conto di quel che mi stava raccontando, persa nei mondi immaginari dell'eroina. La prima volta me ne ero andato girovagando senza meta per non so quante ore, ma in quest'occasione la rabbia ebbe il sopravvento. Puntai i piedi e gliene dissi quattro. Imprecai. Bestemmiai. Battei i pugni contro la parete della roulotte. Ero incontenibile. Non capivo. Non ci potevo, volevo, credere. Da troppo tempo lottavamo per vincere il demone che la perseguitava, e ora, vedermelo confidare così, su due piedi, come se stesse dicendo di voler andare a caccia di more per i boschi, mi fece salire il sangue alla testa.
Lei continuava a sghignazzare, molto probabilmente, in pieno viaggio chimico. Ed io non riuscii più a trattenermi: le mollai un violento ceffone che la fece traballare e cadere a terra, pestando il capo, con lo spigolo di un mobiletto che spuntava di fianco alla scaletta per raggiungere il vano abitativo. Ero troppo esasperato per razionalizzare quel che stava accadendo, per metabolizzare le potenziali conseguenze del mio gesto. Mi accorsi che si stava alzando da sola, agilmente, con quel solito ghigno orribile sul volto, e mi convinsi che non si meritava altra indulgenza da parte mia; rivolsi gli occhi cielo, come quando nella desolazione più totale si cerca un appiglio celeste per poter credere ancora in qualcosa, e me ne andai, giurandomi che l'avrei rivista solo se si fosse messa in testa di dare un taglio netto alla sua vita da tossicodipendente. Quel poco di fiducia che avevo in lei s'era sgretolato in un nanosecondo.
Passarono due giorni che trascorsi immergendomi nel lavoro come un ossesso, cercando di non pensare a Laila e ai casini che erano sorti per via del suo terribile vizio. Ma non ero abituato al suo silenzio e rincasando mi sentivo peggio di un orfano. Con gli occhi persi chissà dove, comprendevo che la mia vita senza Laila non aveva alcun senso, avevo un assoluto bisogno di lei, anche se si drogava, anche se avesse fatto tutto ciò che voleva a discapito di se stessa e del sottoscritto. Avevo bisogno di lei. Come si ha bisogno dell'aria per respirare. Non potevo vivere senza i brividi che mi procurava ogni volta che la guardavo. Quarantotto ore senza incontrarla, baciarla, sentire il suo profumo, mi parvero un eternità. E alla fine smontai qualunque tentativo di resistere fino alla sua telefonata di redenzione. Decisi di tornare al suo eremo con la coda fra le gambe, disposto a tutto, anche a farmi sbranare. Ricordo molto bene il pomeriggio alla Vian in cui presi commiato per l'ennesima volta dai colleghi, per inseguire un sogno che piano, piano, si spegneva sempre più, tre giorni dopo il mio proverbiale congedo dal giallore cerealicolo della famosa landa. I colleghi mi guardavano come se si fossero trovati di fronte a uno zombie, con la pelle marcescente, in cerca della dose di carne quotidiana, umana, da mettere sotto i denti.  
«Sei sicuro di stare bene?», mi aveva chiesto Filomena.
Non le risposi, ma allo specchio del bagno compresi l'apprensione della mia compagna di banco: sembravo davvero un figuro proveniente dall'oltretomba. Gli occhi erano sprofondati dietro a una montatura ossea da neandertaliano. Chiesi al capo due ore di permesso, che mi diede senza battere ciglio, come sempre grato al mio lavoro costante e preciso. E prima di sera ero già al cospetto del fantascientifico mondo di Laila.
Rivedere da lontano il suo carrozzone malato e sbilenco, perso nel torpore di quella distesa agricola inqualificabile, mi regalò dieci anni di vita. Ritrovai me stesso e tutte le meraviglie che avevano accompagnato la nostra storia d'amore. Respirai profondamente, pregustandomi l'idea di poterla presto riabbracciare. Ma notai che c'era qualcosa che non andava, inoltrandomi a piedi lungo il brullo e mai abbastanza battuto sentiero che conduceva alla sua dimora. Dei nastri adesivi circondavano il camper, come l'imbracatura di uno scatolone pieno di cristalli preziosi, calato dall'ultimo piano di qualche palazzone. Strizzai gli occhi per vedere meglio, ma non servì a molto; tuttavia, avvicinandomi, fu molto più chiaro: erano i segni con cui si marchia un luogo posto sotto sequestro. Non compresi, ma poi girandoci intorno, vedendo che non c'era proprio modo di poterlo vincere come avevo sempre fatto, cominciai ad agitarmi. Cosa diamine era successo in tutto il tempo che ero rimasto via? Dov'era Laila? Perché il camper non era più agibile? Non seppi che pesci pigliare.
Rimasi per un'ora, inebetito, a fissare la roulette cercando una spiegazione, ma senza trovare degne risposte. Forse, pensai, durante la mia assenza, aveva ospitato uno spacciatore che incautamente s'era tirato dietro gli sbirri sulle sue tracce da chissà quanto tempo. In breve mi convinsi che Laila fosse al fresco da qualche parte, in compagnia del suo amato pusher. Ma in che modo avrei potuto saperlo?
Rimuginai sulla faccenda per un'altra mezz'oretta, dopodiché mi venne in mente che nel paese più vicino c'era una piccola biblioteca che offriva la possibilità di consultare giornali e riviste in gran quantità: c'ero andato anche con Laila una sera, in occasione della presentazione del libro di un autore russo. Mi dissi che, se c'era stata una retata della polizia come supponevo, sicuramente, la cronaca locale ne aveva parlato. Mi precipitai in auto e come un pilota di Formula Uno raggiunsi il piccolo borgo appenninico. Nell'apposita sala del ricovero letterario, cominciai a sfogliare un quotidiano dietro l'altro, soffermandomi soprattutto sulle pagine di cronaca. Fra i presenti c'è chi mi osservò allibito, trovandomi un personaggio decisamente fuori luogo, e fin troppo agitato per poter consultare comodamente dei giornali. Purtroppo non ebbi molto tempo per indagare le caricature dei miei amici lettori, poiché arrivai a Laila in un nanosecondo, dopo aver letto un titolo agghiacciante: "Giovane ragazza muore dopo una colluttazione fra spacciatori".
Lessi l'articolo in preda al panico, con le lacrime che lentamente cominciarono a organizzarsi in una cascata senza confini. Scoprii che l'avevano trovata senza vita con un grosso ematoma alla testa, dovuto, probabilmente, a una lite con qualche esponente della malavita legata al mondo della tossicodipendenza. Così c'era scritto, senza entrare in particolari dettagli, se non quelli relativi alla consapevolezza che la ragazza si drogasse e che avesse ancora ben impressi i segni di uno schiaffo. Il mio schiaffo. Le mie cinque dita. Quando muore un tossico anche la polizia non sta tanto a perdere tempo: è più importane capire le dinamiche di un traffico di stupefacenti, che non le reali responsabilità di un omicidio in cui la vittima è un abituale consumatore di droga. Un tossicomane non ha grandi prospettive… Lasciai cadere a terra il giornale. E tremando raggiunsi l'uscio della biblioteca. Non so cosa accadde dopo.
Non so per quanti giorni e quante notti vagai senza meta, come un vero assassino ricercato dalla polizia, mentre sapevo benissimo che nessuno sospettava di me. Quando ebbi di nuovo la capacità di capire e interpretare il mondo che mi circondava, pensai che sarebbe stato utile rivolgermi alle forze dell'ordine, per rivelare com'erano andati precisamente i fatti. Ma a che pro? Non avrebbe tolto la mia pena, né allentato il mio immane senso di colpa e soprattutto non mi avrebbero ridato Laila. Chi aveva voglia di barcamenarsi in una storia simile? Stropicciai gli occhi vedendo il mare, cornice di un'alba abulica: senza rendermene conto avevo raggiunto un promontorio calabrese abbandonato, un posto che in un altro momento, magari proprio al fianco di Laila, avrei potuto assimilare al paradiso. Fissavo il mare come si guarda un dio ineffabile e crudele, disperato come il peggiore tagliatore di teste, in cerca di una carezza che non arrivava da nessuna parte. Potevo avere ucciso la persona che amavo di più? Era un pensiero devastante e insostenibile.  
Ripresi la strada di casa come un mentecatto, un uomo che non c'è più, che ha perduto i suoi confini, quelli psichici, la materia era già altrove. Non esistevo più. Avrebbero potuto dirmi che avevo il naso al posto delle orecchie e non mi avrebbero minimamente coinvolto. Riuscivo solo a pensare che non avrebbe avuto più alcun senso ripresentarmi alla Vian e continuare nella mia vita di sempre. Bussai alla multinazionale solo per comunicare la mia irrevocabile decisione di abbandonare l'azienda, per migrare in un posto che non avevo ancora deciso, ma che speravo il più possibile lontano da tutto e tutti. Non è stato difficile. Al capo, dopo il primo sbigottimento, è bastato guardarmi negli occhi per capire che qualunque azione persuasiva nei miei confronti sarebbe stata vana. Così, come ho già raccontato, sono finito per agonizzare a Concorezzo, il paese dei catari, dove, però, le cose non sono andate esattamente come avevo previsto. Oggi posso urlarlo a gran voce: fortunatamente.  

(Ri)epiloghi matrimoniali

E ora eccomi qui; solo nella mia piccola grande dependance, che mi ha accolto mesi e mesi fa come un naufrago, ridandomi a poco a poco fiducia, respiro e speranza. Doveva essere la fine, la mia lenta e inesorabile agonia e invece… Sto preparando gli ultimi scatoloni, perché io e Ginevra andiamo a vivere insieme. Abbiamo trovato un appartamento a Vimercate, a due passi dal centro, con le finestre che si affacciano su una vietta medievale, quasi sempre piena di gente che pettegola come se non avesse meglio da fare. Ogni cosa, ogni passaggio, discussione, è avvenuta con estrema naturalezza, e non escludo che presto o tardi potremo perfino… sposarci. Sì, sì, ho pronunciato proprio la fatidica parola, "sposarci". Nemmeno con Laila avrei mai supposto un epilogo del genere. Forse è vero che tutto sta già scritto negli astri. E che contro ogni incredibile soluzione del destino non possiamo proprio nulla. Sono stato io a farmi avanti. Abbiamo fatto anche una specie di prova recitata, un giorno, in una chiesetta della Brianza.
«Vieni che insceniamo le nozze», le ho detto strizzandole un occhio, dirigendomi verso un altare scialbo e deserto. Ginevra è rimasta immobile, quasi incredula di fronte alla mia uscita, ma alla fine s'è lasciata andare e ridendo come due ragazzetti ci siamo fatti promessa di vita eterna, di fronte a un crocefisso malconcio che ci fissava con gli occhi stralunati.
«Orso sarà il nostro testimone. Che ne dici?».
Ginevra rise e mi baciò.
«Non sarà l'unico».
Dopo avere salvato la vicina, ho raccontato a Ginevra tutta la mia vita con Laila per filo e per segno. E in un secondo momento a Orso e agli altri amici del circolino. Ho svuotato completamente il sacco, liberandomi di un peso a dir poco mastodontico. Confidai che Laila era sostanzialmente morta per colpa mia, ma che naturalmente mai mi sarei immaginato potesse accadere una cosa del genere. Fu un incidente. Spiegai che quando l'avevo lasciata devastato dalla rabbia, dovuta al grande amore provato, rideva ancora, sembrava la solita di sempre, ero convinto che il mio schiaffo non le avesse fatto nulla, e che anche la caduta fosse stata di poco conto. Ero troppo dilaniato per trascorrere ancora del tempo con lei, dovevo andarmene per cambiare aria, almeno per un po’; da un certo punto di vista mi sentivo preso in giro. Laila mi stava prendendo in giro, anche se mi amava ed io amavo lei come non avevo mai amato nessun altro essere vivente.
Raccontai il sunto di alcuni miei ragionamenti, partendo dal fatto che la vicenda del vicino fosse stata incredibilmente simile a quella che si era consumata fra me e Laila: anche in questo frangente, infatti, la manata di un uomo aveva mandato in frantumi l'attività cerebrale di una donna. Ma qui ero intervenuto io, proprio io, nel caso di Laila non c'era nessuno a proteggerla, salvarla dalla fine. Che assurda beffa del fato! Ci sono stato per una sconosciuta e non per il mio amore… E così il mio amore se n'è andato per sempre, dimenticato fra le nuvole, ma ha continuato a vivere la sconosciuta; grazie a me. Adesso, però, è anche per via di questo presupposto che guardo al futuro da una prospettiva diversa, benefica, come se, salvando la mia vicina, alla fine abbia salvato anche Laila; certo, non potrà tornare in vita, ma potrà risorgere metaforicamente la nostra storia, tutto quello che di bello c'è stato tra noi, così poco convenzionale. Laila ha ripreso la sua strada di sempre, con i suoi occhi scuri e la sua bocca carnosa, la stessa strada di quel giorno in cui l'ho vista per la prima volta, dietro al bancone del baracchino. Laila.
Come se non bastasse, un mesetto fa, ho ricevuto una bellissima visita, a coronare un divenire che non smette di stupirmi e lasciarmi senza fiato. Ancora il citofono, ancora Ginevra e Orso, ma in compagnia di qualcuno che non vedevo da un sacco di tempo: Francesco e Filomena. Sono spuntati dal retro di un camioncino che oscurava la via. Naturalmente sono rabbrividito. Non mi sembrava vero, un meraviglioso incubo. Ormai la mia mente s'era convinta che non li avrei mai più rivisti: trovarmeli di fronte all'improvviso, è stato un piccolo, grande, shock. Ma l'imbarazzo non è durato molto e dopo esserci sciolti in un vigoroso abbraccio è stato come essersi visti poche ore prima.
«Provaci a sparire un'altra volta, mi raccomando!», mi ha detto Francesco, stringendomi come un fratello perduto.
Filomena per poco non si metteva a piangere, io pure. Ma l'auto controllo ha avuto il sopravvento sulla commozione e alla fine tutto s'è risolto in una gran risata collettiva.
Non ho mai capito in che modo Ginevra e Orso possano essersi messi in contatto con i miei ex colleghi, ma posso immaginare che l'abbiano fatto sulla base delle indicazioni che gli avevo accennato, convinti (giustamente) di potermi fare un bellissimo regalo: più volte avevo discusso con loro della Vian e delle persone che la rappresentavano, delle vicissitudini trascorse in ambito lavorativo, dei luoghi che avevo attraversato in lungo e in largo con Laila.
In seguito, tutti e cinque, come una bella comitiva, siamo partiti per una specie di trattoria, non lontana dalla strada che s'inerpica per raggiungere le piramidi di Montevecchia, felici di poter cenare in compagnia. E' stata una delle serate più belle della mia vita. Non so quando mi sono sentito altrettanto bene, forse mai. Il mio futuro e il mio passato s'incontravano e si prendevano per mano, vincendo definitivamente il dolore e la colpa per avere causato l'involontaria scomparsa di Laila.
Mangiando e chiacchierando è poi emerso che le mie supposizioni sul fatto che qualcuno si fosse messo a pedinarmi, erano assolutamente corrette. Avevo creduto di essere riuscito a far perdere le mie tracce, fuggendo nel nulla, nell'antro concorezzese; ma mi ero illuso. In realtà gli alti dirigenti della Vian sapevano tutto di me e di ogni mio spostamento. Il famoso signore della cappelletta degli appestati - incontrato anche quel giorno in cui andai a visitare Milano e che cercai di placcare con un inseguimento all'americana - non era un abitante del posto, ma un detective assoldato dal direttore della multinazionale per tenermi d'occhio: i boss s'erano, infatti, convinti che la mia improvvisa dipartita celasse la volontà di spifferare ai nostri concorrenti le formule chimiche per un farmaco che prometteva di rivoluzionare il mondo della medicina, nel campo dell'endocrinologia. Io non ci pensavo più da tempo, ma, in effetti, quando me ne andai all'improvviso, mancava poco all'ultima serie di test che avrebbe portato alla produzione su larga scala di un nuovo principio attivo potenzialmente in grado di guarire il diabete di tipo uno. Era una specie di vaccino, che avrebbe assicurato alle casse della Vian grandi entrate e non meno un eccezionale ritorno d'immagine.

Francesco e Filomena mi hanno chiesto se sarei tornato alla multinazionale, ma conoscevano già la risposta. Mi ero fatto una nuova vita, lo vedevano con i loro occhi. Sarei rimasto per sempre legato a loro, nonostante la distanza, ma di sicuro non avrei più rimesso il camice bianco per sintetizzare molecole e altre droghe astruse. Con Ginevra stavamo pensando al modo in cui investire proficuamente il mio tempo e un giorno, forse una settimana fa, abbiamo accarezzato seriamente l'ipotesi di rilevare un caffè letterario a Monza. I soldi non mi mancano, non ci mancano… Chi lo sa come potrà andare, ma dopo quello che ho passato anche l'impresa più inaudita pare una sciocchezza. Quando ci penso mi sembra tutto così assurdo. Dovevo spegnermi lentamente, come il lumicino di una candela morente, e invece eccomi qui rinato, un altro, protagonista di un ritrovato sogno. 

martedì 17 settembre 2013

Laila # 13



13.

Al cospetto di Alphonse Daudet

L'uscita con Ginevra mi ha rimesso in sesto. Il senso di leggerezza provato stando con lei un giorno intero, continua a sostenermi anche in questi dì, offrendomi l'idea di un avvenire più roseo e vivo. Avrei voglia di rivederla per svuotare definitivamente il sacco. Ho capito. Ho capito di essermi aperto con lei, semplicemente perché volevo aprirmi con qualcuno che potesse comprendere la mia pena, la mia colpa da espiare… certo, sono stato molto vago, non sono sceso nei particolari, e Ginevra non può di sicuro dire di avere compreso il motivo per cui ho deciso di sparire dal mondo… ma può probabilmente ammettere di avere intuito qualcosa. Quando c'è di mezzo una donna, un uomo, una storia d'amore finita non si sa bene come, non ci vuole molto a inquadrare la scena, confrontando ipotesi e congetture.
Da un po’ di giorni evito di uscire, ma al contrario dei primi mesi trascorsi a Concorezzo, landa di appestati ed eretici, quando l'auto isolamento era sostanzialmente l'unico modo di cui disponevo per poter agonizzare in santa pace, provo un senso di piacere, sollievo, soddisfazione. Un senso di attesa benigno. Come se il mio subconscio tentasse di dirmi qualcosa. Di dirmi che qualcosa sta veramente cambiando e l'orizzonte potrà essere meno nebuloso di quello prospettato all'inizio. La solitudine non mi pesa e riesco a tenere perfettamente a bada la noia o qualunque altro mal incanto. Nel mio eremo sto ritrovando me stesso, cimentandomi con foga in letture e ascolti musicali. Dopo gli irraggiungibili Mann e Hesse, sono arrivato a una raccolta di racconti francesi. Oggi ho perso quasi tutto il giorno per leggerne il più possibile. E' un libro che porto dietro da una vita e che non ero mai riuscito a sfogliare. Ci sono riuscito ora, comprensibilmente, col tempo dalla mia parte, con voragini di tempo dalla mia parte. Mi è rimasto in mente "Le due locande" di Alphonse Daudet. Autore forse minore, ma verista, realista, fresco, ideale per qualunque anonimo pomeriggio. Parla di due locande, una di fronte all'altra. Una triste, lugubre e solitaria, priva di clienti; l'altra ricolma di gente, schiamazzi, allegra e casinara. Il protagonista sceglie la meno attraente, forse perché, dotato di animo poetico, la trova più in linea con la sua capacità di saper leggere dove nessuno vede. Raggiunge la parodia quando l'ostessa gli fa presente che perfino suo marito frequenta la locanda di fronte, felice di poter incontrare una bella e suadente signora. Amaro esistenzialismo.
Musica, Springsteen a parte, mi sono messo in cerca di realtà musicali un po’ più sofisticate, conscio del fatto che l'arte vera sta nascosta, e abbisogna, dunque, di qualche sacrificio per essere captata e ammirata. Ho spulciato un vecchio vinile regalatomi da un conoscente che girava il mondo per lavoro, di un trio polacco, contrabbasso, viola e fisarmonica. Suonano brani moderni, originali, parafrasando l'epopea klezmer, sono di una bravura impressionante. Ecco quel che significa sapere suonare, mi dico, se ci fosse qui Francesco gliene direi quattro; lui e i suoi gruppi da baraonda… quello non era suonare, era frastuono, diavoli per capello, rivoluzioni, sfacelo. Per suonare bisogna sapere suonare e per sapere suonare occorre andare al conservatorio, o scuole simili, non ce ne sono di balle. Certo, il rock del mio ex collega è un'altra cosa. Paragoni del genere, in fondo, non andrebbero perseguiti. I Ramones sono i Ramones; la cultura ebraica secoli di invettiva, soprusi, innamoramenti, viaggi infiniti.
La Vian, in ogni caso, è lontanissima, distante anni luce, un'altra dimensione, e così gli appuntamenti di lavoro, le scadenze, le vicissitudini della vita quotidiana. Potrei dedicare tutta la vita alla lettura e alla musica, se volessi. E in parte l'idea non mi dispiace. Ma non mi basterebbe. C'è qualcosa che s'è messo a brulicare nel mio animo, suggerendomi impellenze vitali che credevo perdute per sempre. Inutile negare che il presente sia divenuto più leggero, che le nubi all'orizzonte si siano dileguate, si stiano dileguando, come spruzzi di deodorante in un cielo di tramontana; peraltro è già da un po’ che non incontro le creature delle pozzanghere. Un significato ci sarà. Le creature delle pozzanghere affollavano le mie meningi perché non c'era nessun altro a farlo al loro posto. Perché io e gli uomini eravamo diventati realtà contrastanti. S'erano impossessate di me, cercando di rendere meno drammatica la mia eclissi.
Il mio comportamento è lo stesso di prima, dei primi giorni di permanenza in questa landa desolata (ma potrò ancora definirla tale?), ma è l'umore a essere decisamente cambiato. Non l'avrei mai detto, ma so bene chi potrebbe nascondersi dietro tutto ciò. Chi se non gli amici del circolino? Banda di borderline, calati in una società primitiva, tagliata apposta per loro, dove l'orizzonte termina in corrispondenza con l'ultimo sorso di vino. Ginevra è un caso a parte, ma è soprattutto lei a ridarmi il desiderio di guardare al domani con fervore. Spesso mi accorgo, leggendo o ascoltando la musica, di essere distratto e di pensare ad altro; di sfogliare pagine e pagine senza sapere di cosa mi stia occupando. Il mio pensiero vola via, al suo sorriso, al sorriso della ragazza del circolino. Che mi stia innamorando di nuovo? Come mai la squallida frase "chiodo scaccia chiodo" continua a risuonarmi nella testa? Potrà mai Ginevra scalzare l'immagine di Laila che impera nella mia mente come un macigno? Non lo so, ma so che avrei già voglia di rivederla, per passare del tempo con lei, più lungo di una semplice virata solare, raccontandole sempre più cose di me, lasciandomi cullare dal suo candore e dal suo conforto. Dopo la gita alle piramidi di Montevecchia non ci siamo accordati per rivederci, forse per paura di scoprirci troppo felici (anche a questo bisogna essere allenati!), ma adesso credo sia davvero giunto il momento di affrontare con polso la situazione. Il mio cuore sussulta. E se mi stessi di nuovo innamorando?
Al di là di tutto è comunque opportuno ch'io mi rimetta in pista, al più presto, e vada a fare due passi. Gli ultimi giorni di isolamento hanno prosciugato le mie scorte alimentari: non ho più nulla da mangiare, né da bere. E' ora di correre ai ripari se non voglio finire a raccattare le briciole rimaste sul pavimento come un mentecatto. Mi sono crogiolato abbastanza nel dolce far niente. In bagno trovo un uomo di mezza età felice di scoprirsi nel bel mezzo del cammin di nostra vita, e di avere ancora delle cartucce da sparare. Mai radermi è stato così piacevole e sciacquarmi la fronte con un bel getto di acqua gelata. Mi spingo oltre spruzzandomi anche un po’ di profumo. Non mancherà molto al giorno in cui rivedrò Ginevra e non vorrei farmi trovare impreparato. Vorrei dare il meglio di me stesso. Sto addirittura pensando di andare a comprare qualche vestito, ne ho visto qualcuno nelle vetrine di negozi di abbigliamento di Concorezzo. Oggi stesso magari farò man bassa, ridando spessore al mio divenire, con abiti che possano realmente addirsi alla mia resurrezione. Sto correndo troppo? Tutto questo entusiasmo, in effetti, non è da me, tuttavia non posso nascondere che i miei sensi si siano rimessi in carreggiata. I profumi, i colori, i suoni, sono cambiati, esistono, sono tornati palpabili, veri. 
Mi accorgo che qualcosa è cambiato anche a livello atmosferico mentre chiudo la porta di casa. Nella maniglia laccata brilla un luccichio diverso dal solito: è quello di un sole pallido e mesto che cerca di farsi strada fra le nubi. Sì, lo so, non sembra vero, ma sto parlando proprio del sole: è rispuntato dopo mesi, non sapevo più nemmeno che faccia avesse. Il sole. Mi giro e prima di muovere mezzo passo ne ammiro la sempiterna sagoma, tondeggiante, una palla di fuoco che da troppo tempo s'era dimenticata di venirmi a trovare. La strada per raggiungere il centro è molto più bella del solito. L'aria leggera, frizzante, strapiena di aromi vegetali. Non è stagione, è evidente, ma è come se lo fosse. Come se ci fossero stati fino a oggi solo inverni, nonostante l'alternanza conclamata di equinozi e solstizi. Per me a Concorezzo sono esistiti solo gelo e intemperie. E, invece, ora, eccola qui la primavera, e l'estate, a braccetto; come vecchie amiche al capezzale di un amico convalescente. L'epurazione, la discolpa… stanno mietendo nuovi allori. E' ufficialmente tempo di mietitura.

Tentativi di recupero

Poi le cose momentaneamente si acquietarono. Fu necessario fermarsi a riflettere, senza farsi travolgere dalle emozioni, dal senso di tragedia. Mi resi conto di avere reagito in modo abnorme, dovevo riconoscere che anche nei casi più critici bisogna sempre sperare in una soluzione. Una sera, dopo il lavoro, uscimmo a mangiare qualcosa in un ristorantino non lontano dalla dimora di Laila. Mangiammo pesce, ridendo spensierati. Apparentemente era così, ma io già dalla partenza serbavo per il mio amore un discorso ben preciso; la chiave per potere ridare lustro alla nostra storia, cercando innanzitutto di evidenziare una strategia per strappare la mia Laila dal demone che l'aveva circuita. Stavamo parlando della droga più terribile che ci fosse, ereditata dagli usi e costumi di una madre dissennata o forse, molto più banalmente, disperata. Ma qui dovevamo venirne a capo. Laila era troppo bella e intelligente per venire fagocitata da certe vicissitudini. Laila era una delle poche persone al mondo capaci di volare ovunque, senza ali e senza, dunque, il bisogno di dover ricorrere a metabolismi chimici. Percorremmo in lungo e in largo un viale romantico e antico, protetto da alti palazzoni medievali con finestre eleganti, piene di fiori e riparate da discreti tendaggi vinti da una luce sottile e delicata.
«Sei tranquilla?».
«Certo».
«Volevo trovare un modo per superare insieme a te il problema».
«Anch'io lo vorrei».
Laila per poco non si mise a piangere. Il suo sguardo era cambiato completamente e ora le occhiaie erano tornate a dominare il suo volto, rendendolo scuro, profondo, lontano.
«Dobbiamo innanzitutto crederci. Crederci insieme».
Ci credemmo e di lì a poco riuscii, infatti, a convincerla a farsi vedere da uno specialista. Dopo pochi giorni dalla cenetta a lume di candela, incontrammo un professore di Lucca, da trent'anni al fianco dei ragazzi che cadono nella trappola dell'eroina. Fu estremamente chiaro, per certi versi addirittura spietato. Gran parte del lavoro sarebbe dovuto dipendere da lei e, in parte, dal sottoscritto. Era intuibile, ma sentirselo dire in modo così diretto, ci mise una certa apprensione.
«Possiamo fare di tutto per venirvi incontro», ci raccontò il professore, con l'aria consumata di chi sa già perfettamente come vanno a finire certe cose, «ma è Laila che deve fare lo sforzo maggiore. E' lei che deve capire perché conviene rendersi conto dell'inutilità di una medicina che non esiste, che ha solo il potere di rendere schiave le persone, annichilendo qualunque volontà, il desiderio, rendendole vittime di un mondo inesistente, trasformandole in larve umane».
Ce ne andammo carichi e fiduciosi. C'era speranza anche negli occhi di Laila che mi guardava come si guarda un padre, un buon samaritano, non un amante. Tentò di baciarmi più volte, ma io fui meno preso dalla situazione e mi divincolai lasciandole un po’ di amarezza. Ero vivamente preoccupato, non mi ero mai trovato in contesti simili, non sapevo se mi stavo comportando sfruttando le migliori opportunità che ci erano date dal sistema sanitario. Non sapevo se, magari, stavo lasciandomi alle spalle figure che avrebbero potuto fare molto di più per il sogno della mia vita. Tuttavia, nei giorni successivi, le cose si raddrizzarono, dettero quest'impressione, suggerendoci che, probabilmente, eravamo sulla buona strada. All'inizio fu difficilissimo tenerla lontana dalla dose quotidiana, ma dopo numerose notti insonni, sudate a non finire, fiale di morfina e compagnia bella, riuscimmo ancora a guardarci negli occhi come due persone normali, auspicando un futuro di coppia come quello di chiunque altro, felice di scivolare sui più consolidati binari dell'esistenza. I suoi occhi non erano esattamente gli stessi di un tempo, pervasi da un lucore bieco che non se ne andava, ma non nascondevano la possibilità di una redenzione, di un lieto fine. Anch'io non ero più lo stesso, in pochi mesi ero invecchiato di anni, ma una parte di me era sempre più convinta che ce l'avremmo potuta fare. Doveva essere così.
Trascorremmo nuovi giorni e settimane annodandoci l'uno all'altro, come forse non era capitato nemmeno nei primi tempi, amandoci con grande passione e desiderio, sempre più sicuri della nostra forza e del nostro sentimento. Le gote di Laila tornarono rosee e il suo sorriso a splendere come una notte di luna piena. Ai miei occhi pareva ancora più bella di quando l'avevo conosciuta, abbarbicata alla macchina del caffè, come un piccolo koala al marsupio della madre. La sua leggiadria era un'opera universale. Spesso mi assentavo dal lavoro per starle vicino, per darle una mano al botteghino e assicurarmi che non compisse qualche passo falso. Frequentemente, con un pizzico di perversa ironia, pensavo ai miei colleghi, e all'idea malsana che si sarebbero potuti fare scoprendomi in questa nuova veste, con un grembiule legato alla vita, intento a servire colazioni e sandwich. C'erano giorni che trascorrevo con lei tutto il tempo che avevo a disposizione, indifferente al fatto che altre persone, in primis Filomena, stessero continuamente soffrendo per il mio allontanamento. Nostalgicamente ripercorremmo alcuni dei luoghi che avevano visto sbocciare la nostra storia, quasi a volere sottolineare che si stava per aprire una nuova fase. A intervalli regolari vedevamo il luminare di Lucca che ci dava ragguagli in merito alle reazioni che avrebbe avuto Laila proseguendo nella cura disintossicante. Non ne sbagliò una. Tornammo a splendere come un tempo, e sul nostro apocalittico nido d'amore, sparso in una radura senza tempo e senza nome, fu di nuovo estate.

Le luci (sospette) del vicino

E no, adesso non ho visto male, il vicino sta davvero dando i numeri. Non è possibile che si sia messo ad ascoltare la musica a questo volume in piena notte. L'orologio parla chiaro: sono le 00.30. Non possono mettersi a fare tutto questo baccano due coniugi come quelli che, appena arrivato, si sono presentati al mio cospetto con una torta che non ho mai dimenticato; ingrigiti signori di mezza età con troppi dubbi e incertezze stampati sul volto, sottoforma di pittoreschi punti interrogativi; c'era qualcosa di strano nei loro sguardi, una luce sospetta, non mi sbagliai all'epoca ed evidentemente non mi sbaglio ora. Mi stavano curando, scrutando, volevano capire qualcosa del vicino, come se avessero qualcosa da tenere in serbo, e volessero tranquillizzarsi di avere fra i piedi un tipo innocuo. Poveri ingenui. D'ogni modo qui c'è del marcio. Come l'altra volta hanno ancora tutte le luci accese, come se ci fosse una festa in corso, mentre da copione non c'è nemmeno l'ombra di un party.
Con la scusa di fumarmi una sigaretta mi porto in giardino, nascondendomi alle spalle dell'agrifoglio che, nonostante il freddo terribile degli ultimi tempi, continua a sprizzare vigoria. Per un attimo ripenso all'amico gatto incontrato quella sera cupa, che si muoveva da una parte all'altra della strada, calato nella sua perfetta felicità; ma è un pensiero rapido come una scheggia, perché all'improvviso sono catturato da un suono lancinante. Sembra un urlo. Un urlo tanto forte da coprire la musica. Simile a quello dell'episodio precedente in cui mi misi a origliare le bizzarrie dei vicini per vincere i patemi di una notte insonne. Un urlo di donna. Poi il silenzio.
Si smorza il rumore delle casse dell'altoparlante e precipita la notte in un baratro di orrore. Si alza il vento che scote violentemente i miei capelli, regalandomi un'energia che non sapevo di avere. La sigaretta brucia con violenza, una combustione che sa di altri mondi quasi riduce in cenere le mie stesse dita. Ma non ho tempo di soffermarmi sull'agonia del mio epidermide, perché la rocambolesca notte pare abbia ancora molto da dire. Si apre la porta principale di casa e il capofamiglia, affaccendato come un profugo libanese, la varca con un'aria terribilmente trafelata: sembra fuori di sé. Ha i capelli scompigliati ed è vestito in modo trasandato. Lontano dall'idea che si era guadagnato quel giorno in cui venne a suonare alla mia porta. Del tutto indifferente all'ipotesi che qualcuno possa osservarlo, mette in moto l'auto e sgomma chissà dove. Di nuovo il silenzio incombe, ma è una lama di acciaio che si scaglia su innocenti creature.
Sono pervaso da un terribile presentimento, che lentamente diviene certezza. Un'energia misteriosa mi spinge a uscire allo scoperto e a dirigermi come una macchina telecomandata verso la casa del vicino. Le luci sono ancora tutte accese, ma nei dintorni regna il nulla. Il capofamiglia andandosene non ha badato alla sua furia e ha lasciato aperti tutti gli usci. So che non dovrei farlo, introdurmi in casa d'altri in piena notte, può sollevare parecchi dubbi; tuttavia è più forte di me: devo entrare nella dimora. Avanzo silenzioso come il gatto nero della notte trascorsa e mi infilo nella breve anticamera dell'abitazione, dove regna la confusione più totale: sembra sia appena passato un uragano. Il soggiorno, che dà sulla mia dependance, è ancora peggio. Mi guardo in giro incredulo, scoprendo un mondo sottosopra, il rivestimento di un abatjour non so come finito in cima a una credenza del dopoguerra, quadri a terra, vetri rotti, portacenere saltati per aria; e la lucina dello stereo ancora pulsante; finché il mio sguardo non cade su qualcosa che non avrei mai voluto vedere, ma che in fondo sospettavo fin dall'inizio: sono i piedi immobili, scalzi, di una donna, ultima appendice di un corpo celato dal rovere di una grossa scrivania. Con il cuore in subbuglio compio due passi e scopro che la figura straziata è proprio la mia vicina di casa. Non mi ci vuole molto a verificare che è priva di sensi, ha un vistoso ematoma alla testa e parecchie escoriazioni lungo le braccia: il marito deve avergliele suonate di santa ragione e poi, devastato dall'ira, se n'è andato chissà dove a rinfrescarsi le idee. Che diamine faccio?
Se chiamo la polizia, poi come gli spiego che mi sono permesso di violare la proprietà privata per obbedire a una misteriosa energia? Ma non ho alternative… O forse sì, potrei prima chiamare un'ambulanza. Il numero dell'ambulanza? Il telefono del vicino? Perfetto, eccolo lì, chiamo l'ambulanza e poi… al poi ci penso dopo: in fondo non c'è nessun motivo perché io debba essere incriminato, ho sentito delle urla disumane e ho semplicemente seguito l'istinto di intervenire pensando di dover aiutare un mio simile in difficoltà, non fa una piega. E se la donna muore? Chi rivela alle forze dell'ordine il vero responsabile dell'accaduto? Maledizione. Non so proprio che pesci pigliare. La donna, intanto, rantola, è ancora viva, non c'è dubbio, ma non so per quanto tempo riuscirà a esserlo se non interviene immediatamente qualche medico. Via…
«Buonasera, sono… e abito a Concorezzo… la mia vicina di casa sta malissimo, è stata selvaggiamente picchiata da qualcuno e… c'è assoluto bisogno di un'ambulanza».
La fanno più lunga di quanto dovrebbero, chiedendomi cose che in questo momento mi sembrano assurdità, ma non posso certo riattaccare. Do loro tutte le spiegazioni e finalmente, un quarto d'ora dopo il mio fischio, li sento giungere come una truppa di combattenti che ha appena lasciato una trincea lurida e maleodorante.
La scoprono riversa su se stessa, con una macchia di sangue raggrumato che impiastra il pavimento ai piedi della scrivania. Non dà segni di sé, ma il capo dei soccorritori mi indica che è ancora in vita.
«L'ha toccata?».
«No».
Il suo respiro è pressoché impercettibile, ma c'è. Il cuore pulsa flebile e rallentato. Con gli occhi sgranati seguo una scena che mi pare impossibile. Mi chiedo che cosa diamine stia facendo, in casa di estranei con una donna alla quale hanno appena fracassato mezzo cranio. Sono sopraffatto dall'ansia, uno spaventoso formicolio m'immobilizza gli arti, trasformandomi in un impacciato robot. Non è solo dover forzatamente assistere all'agonia di una donna, ma anche tutto quello che ci sta dietro e la memoria che scalpita, il fantasma di Laila che torna impetuoso ad affacciarsi alla mia mente. Sembra un trabocchetto del destino. Una farsa. Un medico si accorge della mia difficoltà e si fa avanti per pormi un bicchiere d'acqua. Lo svuoto come se non bevessi da un secolo.
«Grazie».
«Mi vuole dire qualcosa?».
Lo guardo attonito. Le parole non mi escono, ma dopo un paio di singhiozzi riesco ad accennare qualcosa.
«Abito di fronte, ho sentito gridare e sono intervenuto. Poco prima avevo notato il compagno della signora uscire esagitato, completamente fuori di sé. Ha preso la macchina ed è fuggito non so dove».
I medici si mettono a confabulare e nel giro di pochi minuti invitano una volante della polizia a conquistare la via per venire a vedere cosa sta succedendo. Il comandante, uomo burbero e prestante, dice a tutti di non toccare niente, per non contaminare eventuali prove. Ma contro ogni mia previsione sembra che sappiano benissimo che io non c'entro niente e che se mi trovo protagonista di questa rocambolesca sceneggiatura è solo perché sono stato mosso da un sincero e puro impeto altruista: senza di me le cose sarebbero potute andare diversamente, rallentando le indagini e soprattutto il ricovero della paziente. Mi spiega tutto qualche minuto più tardi il vice comandante: l'uomo che ha pestato la donna è il marito, un tipo che ha già parecchi problemi con la giustizia e non nuovo a pernottamenti in gattabuia. Da giovane ha subito un paio di condanne per aggressioni e pestaggi. La donna - che ora stanno caricando sull'autoambulanza immobilizzata come un pacco postale - si è rivolta più volte alle forze dell'ordine per fare presente il problema familiare, compreso il timore, un giorno, di fare una brutta fine; ma, evidentemente, a poco è servito.  
L'ambulanza se ne va a sirene spiegate. La notte squarciata dal suono lancinante dell'autolettiga; i poliziotti rimangono per interrogarmi, con l'aria assonnata di chi sa che non c'è molto da scoprire.
«Dice, dunque, di non avere mai sospettato nulla».
«Non ho mai avuto a che fare con i miei vicini».
Il comandante annuisce, comprendendo perfettamente ciò che vado sussurrando.
«Sono qui da poco e solo una volta sono venuti per portarmi una torta. Li ho ringraziati e da quel momento le nostre strade non si sono più incrociate».
Ancora scombussolato mi accomodo sul cordolo del divano, mentre i poliziotti mettono sottosopra la casa in cerca di chissà quale utile elemento. Razionalizzo l'accaduto cercando risposte che non arrivano. Mi rincuora solo il fatto che fra poco potrò andarmene a dormire. Anche se difficilmente riuscirò a chiudere occhio. Il fantasma di Laila è vigile, impensierisce i miei sogni, ora più che mai. Mi sforzo di tenerlo lontano, ma dopo questa sera sa di paradosso. Laila, ancora tu.
«La donna, prima di questa sera, ci aveva riferito di altri maltrattamenti subiti nel tempo, ma non l'ha mai denunciato. Era un rapporto atipico; più volte avevano dato l'impressione di essere complici delle loro malefatte. Lei non si è mai accorto di nulla? Non ha mai percepito qualche movimento…».
Aggrotto le sopracciglia, potendo solo avanzare ipotesi sconclusionate, pur consapevole di vivere al fianco di due squilibrati; per poco non mi torna in bocca il sapore della torta mangiata mesi fa, regalatemi dalla coppia. Soffoco il conato di vomito, provando a dare qualche informazione.
«Un paio di sere ho notato qualcosa di strano, ma non, certo, al punto di poter sospettare che lui la stesse picchiando. Vidi delle ombre accavallarsi alla finestra che dà sulla strada, dei movimenti convulsi e le luci che si accedevano e spegnevano in continuazione, come accade in discoteca. Era chiaramente una situazione anomala, giustificabile solo con una baruffa in corso o la concitazione dovuta a qualcuno che sta male. Mi capitava di vederli uscire ed entrare in casa, muoversi con fare circospetto, senza orario, non capivo che lavoro facessero, come tirassero a campare…».
Dopo più di un'ora dalla partenza dell'ambulanza, mi dicono che posso andare, torno a essere un uomo libero. Ma lo sarò veramente ora che Laila mi è ripiombata addosso come una tempesta di neve? Mi ringraziano e salutano cordialmente, mentre dondolano il capo malinconici.  
«Il suo intervento è stato provvidenziale», mi dice il comandante. «Senza di lei le cose sarebbero potute finire peggio. Le faremo sapere se dovrà venire a deporre per qualche testimonianza».

Mi tende la mano come un vecchio amico e con lui i suoi comprimari. All'esterno c'è il gatto nero della famosa sera nauseabonda, che mi sta aspettando per accompagnarmi alla porta di casa. E poco più in là, qualche creatura delle pozzanghere tornata a saltellare con imprevedibile ardore. 

venerdì 13 settembre 2013

KROKE KROKE KROKE

Polacchi di immensa bravura...


The band was founded in 1992 by three friends and graduates of the Akademy of Music in Krakow. Initially, they were associated with klezmer music  with strong Balkan influences. Currently, their work draws inspiration from a variety of ethnic music and sounds of the Orient (especially on the album Seventh Trip), combining these with jazz to create their own distinctive style.

lunedì 9 settembre 2013

Laila # 12


12.

Le piramidi di Montevecchia

«Siamo pronti?».
Ginevra mi guarda con l’aria sorniona e un sorriso dolce, che stride con il grigiore del cielo. Sta sul marciapiede di fronte al circolino, ancora imbambolata dai fumi della notte, con un vestito bizzarro. Ma ha la faccia distesa ed è bello osservarla da vicino. Sa di sapone e bimbe in gita con la scuola. Sale in macchina e mi dà un bacio sulla guancia, dimostrandomi un senso d’amore che avevo smarrito da secoli. La trovo eccitante e pudica al tempo stesso. Io stesso mi vedo in modo simile, in bilico fra un desiderio prorompente e una parsimoniosa attesa di qualcosa che forse non avverrà mai.
«È la prima volta che la utilizzo da quando sono qui».
Mi guarda frastornata, come se le avessi appena detto che durante la giornata verranno a trovarci degli angeli dall’Australia.
«E a Milano come ci sei andato?».
La domanda bruciapelo mi induce a riflettere sul fatto che, molto probabilmente, la sua aria indolenzita è solo apparente; e che sono io, fra i due, quello più addormentato. Ma non mi lascio incantare dalla leggiadria della mia interlocutrice, e ribatto prontamente:
«Ho preso il pullman e poi la metro. Non mi capita spesso di andarci…».
«Dove?».
«In metrò».
Sogghigna maliziosa, ormai perfettamente calata nei panni di una liceale, pronta a prendere per i fondelli un tipo buffo e fuori dal mondo come il sottoscritto.
«Dovrei sentirmi lusingata».
«Figurati».  
«Ebbene sì, ho l’onore di essere portata a spasso a bordo del tuo bolide. Quali altre donzelle possono ambire a tanto?».
Le sorrido compiaciuto di avere rotto il ghiaccio, anche se non abbiamo ancora deciso dove andare; come se entrambi fossimo consapevoli del fatto che l’uscita sia solo il pretesto per poter stare insieme per un po’, per studiarci e annusarci, capire dove si vuole arrivare. Potrebbe essere proprio così. Ma non vorrei prendere un granchio, illudermi inutilmente, e poi rimanerci male, credendo di avere trovato un nuovo appiglio sentimentale, potenzialmente in grado di farmi dimenticare le mie storie passate e farmi volare lontano, dopo mesi di oblio. E' decisamente simpatica e pure attraente. E qualcosa mi dice che fra noi è realmente scattata una scintilla, un’idea, l’ipotesi di un’amicizia non convenzionale e scontata; ho l’impressione che uno stesso brivido percorra le nostre schiene, mettendoci in comunione, ragguagliandoci in merito a lunghezze d’onda appartenenti al medesimo status metafisico.
«Nessuna, di certo», mugugno peggio di un adolescente in calore.
Non è come con Filomena, e tantomeno con Laila, lo so benissimo; potrebbe, però, paradossalmente, essere una via di mezzo fra le due. Noto, infatti, la complicità che c’era con Filomena, ma anche l’attrazione fisica sperimentata con Laila; non c’è la stessa magia, d’accordo, eppure sembra che, anche in questo caso, tutto giri a meraviglia; quello che sto provando con Ginevra è diverso, ma non meno bello; con lei è tutto molto più normale... ma altrettanto affascinante. Con lei certi pensieri volatilizzano e mi sembra di tornare a respirare come facevo un tempo, alla Vian e prima della Vian. E' questo quel che conta.
L’atmosfera è bella, unica, deliziosa, anche se il cielo veste ancora, come sempre, il suo pallore apocalittico; il grigio domina come un sortilegio su ogni cosa. Ma ormai non ci faccio più caso. Da quando sono arrivato a Concorezzo, sembra che abbiano spento il sole. So di averlo già detto e pensato, ma è davvero così...
«Allora dove puntiamo le nostre bussole?».
Mi viene in mente quella volta che con Laila andammo a casaccio per finire in quella cascina abbandonata dove trascorremmo la notte abbracciati, come in un sogno. Fu una notte speciale, fra le più belle vissute insieme; qui so benissimo che non accadrà nulla del genere; ma rimuginando sull’episodio, penso a un uomo drogato d’amore e a una donna... drogata di vita, domani, passato, e troppe cose rimaste insolute, dolori, passioni, infiniti appannaggio di mondi estremi, altre vite, vicissitudini, storie da pazzi.
«Possiamo andare verso Montevecchia».
Lo trovo un nome curioso.
«Cos’è Montevecchia?».
Mi indica un'altura che si intravede in lontananza, circondata da un anello di nebbia, umidità.
«E’ quel cucuzzolo laggiù».
Montevecchia... mi piace l’associazione di idee: monte e qualcosa di “vecchio”. Un posto che si chiama Montevecchia non può che meritare l’attenzione degli uomini, mi dico.
«O, se preferisci, potremmo andare a visitare una delle cosiddette piramidi di Montevecchia, che secondo uno studioso locale riprodurrebbero il disegno di quelle di Giza...».
Stupisco per la saccenza della mia interlocutrice.  
«Scherzi?».
«Affatto».
Fino a quel momento l’avevo creduta una ragazza coi piedi per terra, ben lontana da certe curiosità intellettuali, bizzarrie della geografia locale che raramente, immagino, possano interessare le persone più comuni, specie quelle che per campare si trovano a gestire il bancone di un bar. Ma non le interessavano veramente: era solo perché usciva spesso con un amico che era solito propinarle gli angoli più astrusi e remoti del circondario, alla ricerca di dimensioni trasognanti, tipo quelle di cui era alla perenne ricerca Laila.
«E' un posto molto particolare. Per alcuni, addirittura, mistico. Angelo dice che anticamente le popolazioni della zona raggiungevano le piramidi di Montevecchia per celebrare riti propiziatori, dedicare sacrifici agli dei, e altra roba del genere…».
«Non conoscevo questo tuo lato noir».
Ride di gusto.
«Noir? Ma dove vai a pescare certe espressioni?».
«Non ti piacciono i romanzi noir?».
«Non credo di averne mai letto uno».
Viaggiamo serenamente chiacchierando del più e del meno, soffermandoci sui capricci del tempo, seguendo le indicazioni per paesi che mai avevo sentito prima: Usmate, Carnate, Perego... Osservo con piacere il verde che ci circonda, non altrettanto florido a Concorezzo, soffocato da capannoni industriali e grigie arterie che conducono a Milano. All'orizzonte si intravedono cime che non conosco che di tanto in tanto vincono la foschia per mostrare i loro pinnacchi ancora imbiancati. L'occhio mi cade sul vestito di Ginevra, e per un attimo provo un brivido legato all'idea di poterla possedere, nell'animo, nel corpo, nella mente. Cosa mi sta succedendo? Non mi sono mai sentito così… libero. Un sentimento che non provo da tempo si impossessa del mio animo fino a oggi indolenzito, portandomi in alto, facendomi sentire incredibilmente leggero. Ringrazio Ginevra e Orso e gli amici del circolino. Sono sicuro che questa mia bella sensazione di rinascita, di apparente rinascita, dipenda da loro. Non so da dove scaturiscano certe forze interiori. Può un bel paesaggio o la vicinanza di una bella ragazza farci cambiare totalmente prospettiva? Può, mi dico, sorridendo a me stesso, con un'indulgenza che non mi appartiene.
«Mi sono accorto che qui molti paesi terminano con “ate”. Sai perché?».
Ginevra inarca le sopracciglia, sospirando.
«No, ma me lo sono chiesto anch'io tante volte. Dovrei chiedere ad Angelo…».
«Ma questo Angelo...».
Mi pesca in defaillance, percependo troppa curiosità nella mia domanda, che non dovrebbe risiedere quando si ha a che fare con qualcuno per cui non si provano altri interessi se non quelli puramente amicali.  
«Perché ridi sotto i baffi?».
«Così. Mi fai ridire».
Sembra che mi voglia tenere sulle spine e non rivelarmi dettagli sul misterioso Angelo. Ma io insisto.
«Allora?».
«Allora cosa?».
Dà l'aria di divertirsi un sacco.
«Beh, Angelo è un mio carissimo amico, c'è molta complicità fra noi e ogni occasione è buona per trascorrere del tempo insieme».
Rimango di sasso. Mi sta praticamente dicendo che è fidanzata.
«Quindi…».
«Quindi, niente. Ogni tanto ci vediamo e trascorriamo dei momenti in "intimità", non vedo cosa ci sia di male a passare qualche pomeriggio o sera con un amico».
«Amico?».
«Cosa vuoi dire?».
«Sembra che Angelo sia per te più di un amico».
Ginevra scoppia a ridere. E' senza freni. Fatico a capire il motivo di tanto divertimento.  
«Cosa stai insinuando? Non credo proprio che Angelo possa essere un mio amante o fidanzato. Forse mi sono dimenticato di dirti che il suo vero nome è… don Angelo».
Freno di colpa, per poco non esco di strada. Mi aveva completamente rimbambito con i suoi trabocchetti.
«Non potevi dirmelo prima?».
«Non pensavo fosse così importante farti sapere che ho un amico prete».
In effetti, non era così importante, ma evidentemente lo era per me.
«Laggiù! Devi curvare!», mi grida all'improvviso. Di fronte a noi si staglia un bivio sormontato da un gigantesco albero e da una vecchia costruzione a due piani, mezza ricoperta da rampicanti sempreverdi.
«Dunque, dove abbiamo deciso di andare?», recito con una vaga apprensione.
«In Egitto, ti piace l'idea?».
Torna a scherzare, rincuorandomi.
«Mi sembra idea geniale!».
Percorriamo una strada più piccola che sprofonda nel cuore brianzolo, contornata da alberi d'alto fusto e radure, disseminate da casette isolate, che evocano una romantica desolazione. Sembra che qui tutto si sia fermato molti anni fa, a prima della guerra quando ogni famiglia si sosteneva con i prodotti dei propri raccolti e degli animali che venivano allevati. Dopo pochi chilometri il cammino diviene più tortuoso: la via s'innalza, aumenta la pendenza, e il metraggio fra le sponde rimpicciolisce a vista d'occhio, fino a ridursi a un piano sterrato riconducibile a un sentiero di montagna. Troviamo parcheggio sotto le fronde spoglie di piante con la corteccia divorata dal gelo. Intorno a noi non c'è anima viva. Il silenzio domina sovrano. Tendo l'orecchio per percepire qualche suono animale, ma invano, sembra giunta l'apocalisse.
«Un bel posticino», affermo con una punta d'ironia.
«Da qui si parte per fare visita alle tre piramidi», dice Ginevra, strattonandomi per una manica, annichilendo il mio velleitario proposito di sminuire la scelta di giungere fin qui. Il suo calore è contagioso. Rinfocola la mia allegria, che di tanto in tanto affievolisce sotto il peso di una malinconia che non riesce a sparire del tutto. Torna a essere la scolaretta in gita molto più giovane di me, che mi aspetta per andare a visitare lo zoo o un museo di antichità.
«Deve essere bello d'estate. Mi immagino questi prati coperti di fiori».
«Lo è, infatti. Ma anche in questa stagione ha il suo perché».
Mi viene in mente la prima sera che sono uscito con Laila; si respira la stessa aria soprannaturale. Ricordo le sue parole e l'imbarazzo di sedersi per la prima volta allo stesso tavolo. Sembrano passati pochi giorni, ma anche un'intera vita. E' l'effetto Ginevra, che sta scardinando ogni mia autarchica considerazione sulla vita, il destino, l'avvenire. Ci muoviamo verso la prima piramide che scorgiamo molto bene di fronte ai nostri occhi, incoronata da un cerchio di cipressi appuntiti. In un quarto d'ora siamo a destinazione. Dalla cima si potrebbe rimirare un bellissimo panorama, se non fosse per la pesante coltre di nubi che offusca anche i pensieri. Ginevra si stringe fra le braccia, intimorita da un filo di vento gelido. Guardo il cielo chiedendomi come sia possibile non vedere il sole per così tanto tempo. Chiedendomi per quanto tempo ancora andrà avanti così. Fa freddo, come al solito, ma si resiste. Non vediamo più nulla. Le nubi hanno avvolto ogni cosa. Ma è comunque un bello spettacolo. Ginevra aveva ragione: è un posto magico.
«Ci credo che qui venivano a compiere dei riti propinatori», dico alla mia compagna che mi fissa con lo sguardo accigliato.
«Hai voglia di dirmi qualcosa?».
Ginevra affonda il coltello senza pietà. So benissimo ciò a cui si riferisce, dopotutto siamo venuti qui anche per questo, ma ancora mi chiedo se sia il caso di parlagliene. In fondo, ci conosciamo da così poco tempo, e nei miei programmi c'era un disegno completamente diverso: dovevo e volevo isolarmi da tutto e da tutti. Com'è che ora mi trovo qui in intimità con una donna alla quale potrei già parlare di Laila? In realtà, dovrei avere il coraggio di ammetterlo a me stesso: non è lei che ne vuole sapere, ma io che ho creato i presupposti per far sì che ciò avvenisse. Inutile negarlo. Ginevra mi dà fiducia, è una persona che mi piace, ho il desiderio di raccontarmi. A lei, in modo particolare.
«Inizio da lontano, se ti va», e mi lascio definitivamente andare.
Il mio racconto prosegue per almeno mezz'ora, privo d'interruzioni. Ginevra mi guarda, sospira, mi regala sorrisi innocenti e a tratti si commuove. E' meraviglioso osservarla e intuire il piacere che prova a darmi sostegno, immedesimandosi nella mia parte. Le racconto tutto di Filomena, di Francesco, del lavoro alla Vian e… naturalmente di Laila. Della prima parte della mia vita con Laila. La seconda, quella più terribile, invereconda, dannata, non mi sale alle labbra, si arena molto prima, mente, cuore, polmoni e stop. La strada è sbarrata. Le narro degli episodi più felici con Laila, delle nostre scampagnate e dell'amore sopraffino che ci univa, ma mi blocco quando sta per arrivare il momento clou. Capisco che Ginevra sta sulle spine, e vorrebbe capire il perché della mia fuga da Laila e dal mondo, ma mi rendo conto che per entrare nei dettagli non sono ancora pronto. Quando arrivo lì, mi fermo e mi metto a guardare il cielo in cerca di un sostegno morale.
«Non te la senti di dirmi altro».
La guardo e vorrei abbracciarla, ma pietrifico dinanzi all'opportunità di dover rivelare al mondo ciò che è successo con Laila. E' ancora troppo presto, non potevo immaginarlo, ora sì, è palese. Mi arrendo e le rispondo che per il momento non me la sento di proseguire. Fa troppo male, la ferita del mio cuore riprende a sanguinare. Passano diversi minuti e all'improvviso cambia tutto e vorrei non avere mai scelto di andare a fare una scampagnata con Ginevra. A che pro? Ginevra mi diviene estranea, si allontana dalla mia sofferenza, la vedo sbiadire e mimetizzarsi fra i fili delle nuvole… Laila non potrà mai essere Ginevra; e viceversa. Cosa credevo? Cosa mi aspettavo? E puntuali tornano a farmi la corte le creature delle pozzanghere, come se fra la realtà e l'immaginazione non ci fosse più distinzione e tutto si fondesse in una sola dimensione, esclusiva della mia mente. L'empasse, però, non dura molto. Ansimo fissando una nuvola più spedita delle altre che sembra dirmi che la strada percorsa è, invece, quella giusta, che va bene così. Mi tranquillizzo e torno a soffermarmi sulla mia compagna che mi guarda con vaga afflizione.
«Tutto bene?», mi domanda.
Annuisco cogliendo la delicatezza di Ginevra, la sua eleganza, la sua volontà di non volere minimamente farmi pesare il mio desiderio di fermarmi e non potere andare oltre. Si alza mostrandomi i suoi occhi luccicanti da cerbiatto e mi tende la mano, intenzionata a raggiungere le altre due piramidi che ancora ci attendono.

I segreti di Laila

Un giorno mi accorsi che Laila stava cambiando. Dico fisicamente, perché, in fondo, dal punto di vista umorale era sempre la stessa, gioiosa di avermi al suo fianco e apparentemente spensierata; sempre pronta a lasciarsi catturare da qualche mia inventiva o lei stessa propensa a inventare qualcosa per rendere il nostro avvenire più roseo. Mi sembrava più magra del solito e aveva sempre le occhiaie, come se anziché dormire, andasse a fare baldoria da qualche parte con amici che non avevo mai conosciuto e che le davano puntello mentre io mi abbandonavo al canto di Morfeo o di qualche altro dio appannaggio dei sogni. Anche le gambe sembravano appassite, screpolate, la sua bellezza sembrava sbiadire giorno dopo giorno; ma io l’amavo, e se anche si fosse trasformata in un mostro dall’oggi al domani, probabilmente non me ne sarei accorto. Le chiedevo se non voleva sottoporsi a qualche esame del sangue per capire se ci fosse qualcosa che non andava come avrebbe dovuto; sarebbe bastata forse una piccola cura ricostituente, pensavo, privo di qualunque ansia, tipo quelle che anch’io da piccino osservavo quando ero un po’ più pallidino del normale. Non ci sarebbe voluto molto, glielo dicevo fra una forchettata e l’altra o fra una battuta e l’altra. Ma lei rideva e mi diceva che andava tutto bene... e invece andava tutto male. Mi raccontava palle. Una bugia dietro l'altra, era una provetta menzoniera. Ma la catastrofe era dietro l’angolo; avrei dovuto immaginarlo, benché il mio perenne stato di beatitudine mi allontanasse da qualunque capacità di elaborare un parere critico e accorgermi che dietro al suo sorriso smagliante e sempiterno si nascondeva un’atroce verità. Un concetto concreto...
Fu un giorno, come ogni altro santo giorno, totalmente preso da lei, che precipitò il tutto. Senza alcun preavviso mi rivelò, infatti, che era tornata a farsi di eroina. "Eroina", aveva pronunciato proprio questa parola, con incredibile nonchalance: eroina. Da brividi. Era una parola troppo lontana dalla nostra storia, come lontani erano i bagliori delle quasar che più volte avevamo inutilmente cercato di fotografare con i nostri sguardi perennemente assorti dal luccichio stellare. Avesse pronunciato la parola “peste” o “tularemia”, termini esemplari che rimandano a manuali di storia o prontuari medici, sarebbe stata la stessa cosa. Non c’era corrispondenza con la nostra quotidianità, nessuno nelle nostre famiglie si era mai fatto di eroina, mai l’eroina era giunta a impensierire i nostri domani. Cosa c’entrava, ora, l’eroina? Dove stavamo sbagliando?
Quando qualcuno (Filomena) mi diceva che, in fondo, dietro alla mia scorza di uomo d’affari tutto d’un pezzo, rigido e benpensante, si nascondeva un tenerone ingenuo, ingannabile da chiunque, aveva perfettamente ragione. Ne ebbi la prova proprio in occasione della terribile rivelazione di Laila. Se non me l’avesse detto così esplicitamente non me ne sarei mai accorto, se non vedendomela morire di fronte agli occhi con l’ago ancora conficcato in vena. Nemmeno i buchi dei pungiglioni veleniferi sugli avambracci mi avrebbero consentito di fare luce sul mistero di questo suo progressivo e repentino appassimento.
Sedevo su una seggiolina da campeggio traballante e piena di buchi dovuti a bruciature di sigarette o da semplice incuria, e guardavo passivamente fuori dalla minuscola finestra della veranda della roulotte. Scorgevo il solito campo ingiallito dai raggi del sole e da un'arsura che avanti di questo passo avrebbe ridotto mezza Europa a un deserto senza confini. Ormai ero abituato a quell’unico panorama, per certi versi più vicino a una steppa caucasica che non a una regione del centro Italia, stretta fra le cime degli Appennini e l’Adriatico. Benché fosse così inutile e monotono, c'era qualcosa in esso che mi rincuorava e mi faceva stare bene, mi conferiva una strana tranquillità. Come se ciò che mi trovavo davanti non era solo ciò che realmente vedevo, ma la proiezione simultanea di un passato e di un futuro, il scintillio di qualche imperscrutabile universo parallelo. Per un attimo sbandai, convinto di non avere udito bene, di trovarmi in cima a una montagna con un macigno nello zaino o chiuso un sommergibile saturo di voraci scarafaggi, pronti a divorarmi membra e budella, frutto di un tremendo esperimento di bioingegneria.
«Cosa hai detto?».
Laila sorrise come sempre, come se stesse parlando di acciughe da aggiungere a una pasta ai frutti di mare.
«Eroina, non sono riuscita a smettere».
Questa volta avevo sentito benissimo. Deglutii. Aveva proprio detto "eroina". Aveva detto che si faceva. La mia Laila aveva detto che si bucava e che devastava il suo corpo con sostanze che di certo non sono in grado di offrire prospettive di vita tanto accattivanti. E no, non stava nemmeno scherzando, sarebbe stato uno scherzo non solo stupido, ma anche vile, inopportuno, triviale, imbarazzante. A che pro? No, non era uno scherzo. Mi sentii male, ma cercai di domare il mio disappunto, il mio disagio, alzandomi di scatto e raggiungendo l'uscita della veranda per tirare un respiro lungo come l'Archeano. Avevo la mente in subbuglio. Troppi timori concorrevano per avere la meglio sui miei ragionamenti, che, di fatto, non sapevano giungere da nessuna parte. Non sembrava vero, sembrava irrealtà. Un sogno strano, lugubre, orrorifico, diverso anche dagli incubi più accesi. Ma non era così, era tutto bianco su nero, purtroppo: Laila si faceva di eroina, quant'è vero che piove sempre sul bagnato.
«Vuoi vedere?».
«Cosa?».
«I buchi che ho sulle braccia».
Rideva, come se stesse parlando della vincita di un viaggio alle Barbados. Non risposi, fece tutto lei e mi pose gli avambracci sotto gli occhi. C'erano tante crosticine, che chissà come fino a quel momento non avevo mai notato. Mi sentii in colpa, e il mio turbamento crebbe ulteriormente, quando mi resi conti della mia totale cecità: come facevo a stare insieme a una che si bucava, senza sapere che si bucava? Dovevo essere stato proprio un idiota… La guardai attonito, incapace di pronunciare qualunque parola. Anche banale, anche inutile. Avrei voluto parlare, ma sono sicuro che già parlasse benissimo la mia faccia. Mi prese la mano, e mi invitò a sedermi, iniziando a raccontare la sua storia, una storia che non avevo mai saputo, e ancora, nonostante tutto, punteggiata di incredibili lacune.
«Mia mamma faceva la prostituta e mio padre non l'ho mai conosciuto».
Iniziò così, spiegandomi che l'eroina era comparsa prestissimo nella sua vita, quand'era poco più di una bambina.
«Un giorno mia madre sparì dall'oggi al domani, senza lasciare traccia. Mi lasciò sola in mezzo a un mondo violento, corrotto, malato. Sarei dovuta andare a scuola come tutte le mie coetanee, e invece mi ritrovai a lavorare come una serva per raggranellare qualcosa da mettere sotto i denti. Feci parte di una specie di gang di ragazzi che facevano razzie, si drogavano e si prostituivano. Non erano tutte mele marce. C'era qualche ragazzo buono. C'era Michele che mi prese a cuore e faceva tutto per me. Fu lui a propormi un lavoro di barista, dove ritrovai un po’ di serenità. Anni dopo arrivai al botteghino».
Smise di drogarsi rendendosi conto che la sua vita non era più tanto disastrosa. Capì che l'eroina e la droga in generale non erano niente per lei. E che senza l'esempio di sua madre, probabilmente, non si sarebbe mai fatta, pur trovandosi dalla mattina alla sera circondata da eroinomani di prima categoria. In seguito, arrivai io, trovandola con il suo solito colorito, e quell'espressione così difficile da decifrare. Dietro le sponde di quel bancone, mai e poi mai avrei immaginato che potesse nascondersi una storia tanto devastante. Avrei voluto sapere molte più cose di lei… da dove veniva sua madre; perché c'era qualcosa della sua figura che mi rimandava al Medio oriente e alle fattezze di persone vissute centinaia di anni fa; chi la riforniva di droga, e soprattutto perché era ritornata a bucarsi. Mi domandai se c'entrava qualcosa anche il misterioso socio con cui diceva di spartire gli introiti del baracchino, di cui non mi aveva mai voluto parlare. Ma alla fine mi sono sentito così desolato che non mi è venuto da chiederle niente. Mi alzai e me ne andai a vagare per strade che forse vedevo per la prima volta, troppo confuso per capire, per razionalizzare ciò che stava accadendo e la via asfaltata che stavo percorrendo. Mi sembrava di avere sbagliato tutto, di essere stato ingannato. Mi dispiaceva per lei, ma anche per me. Non capivo. Forse avrei dovuto reagire diversamente, affrontando di peso la situazione, come un vero uomo, invece di filarmela con la coda fra le gambe, in cerca di risposte che verosimilmente non avrei mai avuto.
Quando tornai alla dimora di Laila, era già buio e la trovai addormentata, con le gambe rannicchiate e le braccia sotto il cuscino. Sembrava una bambina. Le rimboccai il lenzuolo e mi sedetti per qualche ora a guardarla senza fiatare, immobile, lasciando che il tempo trascorresse. Ogni tanto si girava e rigirava, ma era sempre elegante e tranquilla e meravigliosa. Nel suo incredibile dramma, fu comunque una bellissima nottata, nella quale potei godere di una Laila che non conoscevo tanto a fondo: la Laila che dormiva, incorniciata in un presente tanto difficile, quanto giustificabile e attendibile, perché, dopotutto, non esiste nulla di veramente ingiustificabile e inattendibile. Non c'è nulla di così impossibile alla vita, neanche l'eroina che scivolava nelle vene della persona che fino a quel momento avevo amato di più e che ora non sapevo più come vivere.
Alla fine, sopraffatto dalla stanchezza, mi addormentai per terra, ai piedi del letto, dove riposava Laila e dove per così tante notte avevamo tirato l'alba abbracciati. Sarebbe stato ancora così? Avrei ancora respirato il suo profumo?

Al risveglio Laila era già partita per il lavoro; non volendomi svegliare e non essendo in grado di alzarmi di peso per regalarmi un degno giaciglio, mi aveva srotolato una coperta sul fianco e preparato una tazza di caffè. Mi resi conto che se tenevo veramente a lei dovevo fare qualcosa di più che piangermi addosso.