14.
Una
visita inaspettata
Oddio, il
citofono. I miei vicini? Impossibile. Il vicino che è tornato per farmi la
pelle? Poco probabile. Chi sarà mai? M'infilo i pantaloni, inciampo, rischio di
cadere, come un comico alle prime armi, e con gli occhi totalmente incatramati
dal sonno sbircio dalla tapparella che dà sul cancello di ingresso: non ci
posso credere. Corro in bagno per darmi una rinfrescata e indosso la prima camicia
che mi capita fra le mani. Sono proprio loro: mi stanno aspettando sull'uscio,
sono Ginevra e Orso. Che ci fanno qui? Grido al citofono che sto per arrivare,
ricordandomi a malapena il giorno della settimana e il numero che mi metto a
indagare forse per scaricare la tensione, e mi catapulto all'esterno nei panni
di un maratoneta di New York. Gli amici hanno il volto sorridente di chi sa di
avere appena vinto la lotteria; Ginevra è più bella che mai, un miracolo della
natura, con due occhi che sprizzano un'inaudita contentezza.
«Che ci fate
qui? Siete impazziti?».
«Siamo venuti a
fare visita al nostro fuggitivo», dice Ginevra. «Al nostro eroe… fuggitivo».
Orso mi dà una
gran manata sulle spalle congratulandosi, e bofonchiando un termine dialettale
che non comprendo; ma mi sfugge anche tutto il resto. Basito, lo osservo come
si fissa un animale allo zoo che lotta contro se stesso per vincere le sbarre.
«Guarda un po’
qui», dice Ginevra, piantandomi in faccia una pagina del quotidiano Il Giorno.
Il titolo è fin
troppo eloquente, ma mi ci vuole del tempo per capire che si riferisce proprio al
sottoscritto. Si legge: "Il vicino di casa la salva dal suo
aguzzino". Sotto: "Senza il suo intervento i soccorsi avrebbero ritardato
condannandola a una lenta agonia". E nel pezzo vero e proprio viene
addirittura menzionata la parola "eroe". Eroe? Eroe. Rido sotto i
baffi.
«Ti rendi
conto?», continua Ginevra esagitata. «Sei sul giornale!».
Non si capacita
di una simile notizia, trovandola in antitesi con l'idea che si era fatta di
me, tipo asociale e introverso, ben distante da qualunque forma di pubblicità.
«Questa è bella!»,
va avanti colma di entusiasmo. «Ma adesso ci devi assolutamente dire che cosa è
successo!».
Per un attimo
vorrei sprofondare.
«Fa vedere».
Le strappo, in pratica,
il giornale dalle mani, scoprendo, per mia grande meraviglia, che davvero è riportato
il mio nome: l'uomo che in piena notte, attratto dalle grida, s'è precipitato
nella casa dei vicini per salvare una donna sottoposta a un pestaggio violento,
non posso che essere io (e non un omonimo). In effetti, senza il mio sos le
cose sarebbero potute andare molto peggio. Provo, senza darlo a vedere, un
senso di grande sollievo, stupore, e mi lascio trastullare da un brivido di felicità
che mi percorre da cima a fondo; all'improvviso mi sento l'uomo più contento della
terra, consapevole di avere salvato una vita e forse definitivamente me stesso.
In una frazione di secondo il mio umore subisce una brusca impennata, disintegrando
il tradizionale savoirfaire che mi contraddistingue venendo a contatto con gli
altri. Abbraccio i miei due interlocutori e li bacio come se fossero appena
tornati da un viaggio durato secoli. Mi guardano allibiti, ma anch'essi non
possono fare altro che gioire per l'epilogo dell'incredibile vicenda.
«Allora ci vuoi
dire cosa è successo?», incalza Ginevra.
«Vi dirò tutto. Ma
non qui in mezzo la strada. Volete salire da me?».
Per la prima
volta invito qualcuno ad accomodarsi nel mio eremo immacolato. Il disordine
regna sovrano, ma sono troppo euforico per pensare che Ginevra e Orso possano
soffermarsi su un dettaglio tanto banale. Ho salvato una vita, e difeso la mia
storia con Laila. Sì, Laila, proprio lei. L'ho difesa, e sono finalmente giunto
a darle il giusto peso, il significato più appropriato, la sentenza delle
sentenze, l'ultimo grado di giudizio. Cambia così il mio divenire, mentre indago
la realtà che mi circonda da un nuovo punto di vista, più consono alla
classicità dei tempi, alla quotidianità più spiccia. Il mio pensiero si fa più
leggero, niente al confronto di quello sopportato in tutti questi mesi, anni,
secoli di lontananza dalla mia vita precedente. La mia vita prima del 1983… Perfino
la Vian, ora, sospira dietro l'angolo, pronta a riaccogliermi fra le sue
braccia. Benché non abbia nessuna intenzione di tornare sui miei passi. E'
giunto ormai il momento di buttarmi completamente, di lasciarmi andare verso
l'orizzonte luminoso che per tanto tempo ho avuto dinanzi agli occhi, coperto
da una coltre buia, indefinita, spettrale, che non mi faceva vedere correttamente;
una coltre che giorno dopo giorno si dissolve sempre più, s'è ormai quasi del
tutto dissolta, dandomi modo di fotografare il futuro nel quale non riuscivo
più a sperare. Lo sapevo e non lo sapevo che le cose sarebbero andate così. Il
subconscio ci parla continuamente, ma quasi mai siamo in grado di dargli
credito. Mi ha parlato in tutti questi giorni di perdizione, ma era come se non
ci fosse: a vincere era solo il dolore di non avere più Laila intorno a me.
Presto o tardi confiderò ogni cosa anche a Ginevra e a Orso. Ginevra sa già, in
parte, ma il succo della storia deve ancora conoscerlo. Non manca molto. Li
faccio accomodare in salotto, proponendogli una tazza di caffè.
«Due, grazie!»,
dice Ginevra, guardandosi intorno con curiosità infantile.
Dalla finestra rimiro
il sole che sta spavaldamente facendo capolino sbucciando le vernici del
davanzale. Ho proprio detto "sole". Incredibile, non ci sono nuvole.
C'è solo il sole che brilla, una stella contenta, la prima volta che la vedo
spuntare con tanta voglia di fare il suo dovere. Ormai non ci speravo più. Con
tutti i giorni e le notti di freddo e gelo trascorse, mi ero messo in testa che
la terra stesse andando incontro a una nuova glaciazione. Il sole, meravigliosa
alternativa a Dio.
«Si può sapere
cos'hai combinato?», mi chiede Orso, mentre gli porto il caffè.
Gli amici non
stanno più nella pelle: mi fissano drogati da un invincibile desiderio di
conoscenza.
«Non mi sono mai
andati a genio… avevano orari strani, troppo strani, erano strani, non capivo
che lavoro facessero… un giorno, l'unica volta in cui posso dire di avere avuto
a che fare con essi, si sono presentati alla mia porta con una torta, ma non
gli ho mai dato corda».
«La torta,
almeno, era buona?», mi domanda Ginevra, ridacchiando.
«Squisita, se è
per questo, ma c'erano troppi ma,
anche per uno fuori dal mondo come me».
Gli racconto delle
notti in cui sarebbe stato evidente anche a un bambino che in quella casa
c'erano movimenti sospetti. Le luci, i suoni, le tende che danzavano sospinte
da indefinibili energie… troppe cose non quadravano. Poi, la sera appena
trascorsa, ogni mio dubbio è svanito.
«E' partito un
urlo lancinante, tipo nei film quando qualcuno viene pugnalato… mi ha fatto sobbalzare.
Sono uscito con la scusa di accedermi una sigaretta, cercando di capire cosa
stesse accadendo; poi la situazione è precipitata. Non s'è udito più nulla, più
nessun movimento. L'uomo è uscito di corsa, totalmente fuori dalla grazia… è
salito in macchina e se n'è andato chissà dove. A quel punto ho sentito la
spinta a farmi avanti… mi sembrava impossibile addormentarmi con l'apocalisse a
un passo da me».
«Madonna»,
sussurra Ginevra con gli occhi sgranati. «E poi, cosa è successo?».
«Non ci ho messo
molto a inoltrarmi nel covo dei vicini, trovando ogni uscio spalancato, le luci
accese, la strada deserta... di fronte a me il finimondo: tutto sottosopra, divelto,
volato via… il chiaro segno di una violenta colluttazione. Ho raggiunto il
salotto e… lì ho visto la donna, la vicina, la stessa che mi aveva consegnato
fra le mani la torta, mesi fa… ho pensato che potesse essere morta, non si
muoveva, pareva di marmo; ma avvicinandomi al suo corpo straziato, mi sono reso
conto che respirava ancora».
«Porca puttana»,
fa Orso, allibito, «e lì ti sei deciso a chiamare l'ambulanza…».
Annuisco.
«Aveva la bava
alla bocca. E io ero terribilmente scombussolato. Non sapevo cosa fare. Alla
fine ho chiamato i soccorsi che, evidentemente, hanno permesso alla donna di
salvarsi… sennò sarebbe morta per emorragia».
«E' quel che
dice, infatti, il giornale. Se i medici non fossero arrivati o avessero
ritardato sarebbe giunta cadavere all'ospedale: aveva un grosso ematoma in
testa che, se non trattato tempestivamente, non lascia scampo».
Alla parola
ematoma mi sento di nuovo cedere le gambe, ripensando, peraltro, alla cantante
dei Fairport Convention e alla sua triste fine, che si sarebbe potuta evitare
se qualcuno l'avesse soccorsa in tempo. Ma non è come le altre volte. Il
fantasma di Laila, finalmente, ha tutto un altro spessore; ora c'è la consapevolezza
di averla salvata e di avere espiato la mia colpa.
Ritagli
di giornale
Quando Laila mi
mostrò di nuovo i segni delle punture sulle braccia persi la testa. Era già da
qualche mese che non ci recavamo più dal professore di Lucca ed ero convinto
ormai, che avesse vinto la dipendenza. Raggiungeva il lavoro da sola, mi
sembrava che non avesse più alcun problema e fosse in grado di difendersi dai
morsi dell'astinenza. E invece non avevo capito nulla. Non so quando riprese a
farsi, non l'ho mai saputo; rideva, mentre mi dava la terribile notizia, dandomi
l'impressione che non si rendesse veramente conto di quel che mi stava
raccontando, persa nei mondi immaginari dell'eroina. La prima volta me ne ero
andato girovagando senza meta per non so quante ore, ma in quest'occasione la
rabbia ebbe il sopravvento. Puntai i piedi e gliene dissi quattro. Imprecai. Bestemmiai.
Battei i pugni contro la parete della roulotte. Ero incontenibile. Non capivo.
Non ci potevo, volevo, credere. Da troppo tempo lottavamo per vincere il demone
che la perseguitava, e ora, vedermelo confidare così, su due piedi, come se
stesse dicendo di voler andare a caccia di more per i boschi, mi fece salire il
sangue alla testa.
Lei continuava a
sghignazzare, molto probabilmente, in pieno viaggio chimico. Ed io non riuscii più
a trattenermi: le mollai un violento ceffone che la fece traballare e cadere a
terra, pestando il capo, con lo spigolo di un mobiletto che spuntava di fianco
alla scaletta per raggiungere il vano abitativo. Ero troppo esasperato per razionalizzare
quel che stava accadendo, per metabolizzare le potenziali conseguenze del mio
gesto. Mi accorsi che si stava alzando da sola, agilmente, con quel solito
ghigno orribile sul volto, e mi convinsi che non si meritava altra indulgenza
da parte mia; rivolsi gli occhi cielo, come quando nella desolazione più totale
si cerca un appiglio celeste per poter credere ancora in qualcosa, e me ne
andai, giurandomi che l'avrei rivista solo se si fosse messa in testa di dare
un taglio netto alla sua vita da tossicodipendente. Quel poco di fiducia che
avevo in lei s'era sgretolato in un nanosecondo.
Passarono due
giorni che trascorsi immergendomi nel lavoro come un ossesso, cercando di non
pensare a Laila e ai casini che erano sorti per via del suo terribile vizio. Ma
non ero abituato al suo silenzio e rincasando mi sentivo peggio di un orfano.
Con gli occhi persi chissà dove, comprendevo che la mia vita senza Laila non
aveva alcun senso, avevo un assoluto bisogno di lei, anche se si drogava, anche
se avesse fatto tutto ciò che voleva a discapito di se stessa e del
sottoscritto. Avevo bisogno di lei. Come si ha bisogno dell'aria per respirare.
Non potevo vivere senza i brividi che mi procurava ogni volta che la guardavo. Quarantotto
ore senza incontrarla, baciarla, sentire il suo profumo, mi parvero un
eternità. E alla fine smontai qualunque tentativo di resistere fino alla sua
telefonata di redenzione. Decisi di tornare al suo eremo con la coda fra le
gambe, disposto a tutto, anche a farmi sbranare. Ricordo molto bene il
pomeriggio alla Vian in cui presi commiato per l'ennesima volta dai colleghi,
per inseguire un sogno che piano, piano, si spegneva sempre più, tre giorni
dopo il mio proverbiale congedo dal giallore cerealicolo della famosa landa. I
colleghi mi guardavano come se si fossero trovati di fronte a uno zombie, con la
pelle marcescente, in cerca della dose di carne quotidiana, umana, da mettere
sotto i denti.
«Sei sicuro di
stare bene?», mi aveva chiesto Filomena.
Non le risposi,
ma allo specchio del bagno compresi l'apprensione della mia compagna di banco:
sembravo davvero un figuro proveniente dall'oltretomba. Gli occhi erano
sprofondati dietro a una montatura ossea da neandertaliano. Chiesi al capo due
ore di permesso, che mi diede senza battere ciglio, come sempre grato al mio
lavoro costante e preciso. E prima di sera ero già al cospetto del fantascientifico
mondo di Laila.
Rivedere da
lontano il suo carrozzone malato e sbilenco, perso nel torpore di quella
distesa agricola inqualificabile, mi regalò dieci anni di vita. Ritrovai me
stesso e tutte le meraviglie che avevano accompagnato la nostra storia d'amore.
Respirai profondamente, pregustandomi l'idea di poterla presto riabbracciare.
Ma notai che c'era qualcosa che non andava, inoltrandomi a piedi lungo il
brullo e mai abbastanza battuto sentiero che conduceva alla sua dimora. Dei
nastri adesivi circondavano il camper, come l'imbracatura di uno scatolone
pieno di cristalli preziosi, calato dall'ultimo piano di qualche palazzone.
Strizzai gli occhi per vedere meglio, ma non servì a molto; tuttavia, avvicinandomi,
fu molto più chiaro: erano i segni con cui si marchia un luogo posto sotto
sequestro. Non compresi, ma poi girandoci intorno, vedendo che non c'era
proprio modo di poterlo vincere come avevo sempre fatto, cominciai ad agitarmi.
Cosa diamine era successo in tutto il tempo che ero rimasto via? Dov'era Laila?
Perché il camper non era più agibile? Non seppi che pesci pigliare.
Rimasi per
un'ora, inebetito, a fissare la roulette cercando una spiegazione, ma senza
trovare degne risposte. Forse, pensai, durante la mia assenza, aveva ospitato uno
spacciatore che incautamente s'era tirato dietro gli sbirri sulle sue tracce da
chissà quanto tempo. In breve mi convinsi che Laila fosse al fresco da qualche
parte, in compagnia del suo amato pusher. Ma in che modo avrei potuto saperlo?
Rimuginai sulla
faccenda per un'altra mezz'oretta, dopodiché mi venne in mente che nel paese
più vicino c'era una piccola biblioteca che offriva la possibilità di
consultare giornali e riviste in gran quantità: c'ero andato anche con Laila
una sera, in occasione della presentazione del libro di un autore russo. Mi
dissi che, se c'era stata una retata della polizia come supponevo, sicuramente,
la cronaca locale ne aveva parlato. Mi precipitai in auto e come un pilota di
Formula Uno raggiunsi il piccolo borgo appenninico. Nell'apposita sala del
ricovero letterario, cominciai a sfogliare un quotidiano dietro l'altro,
soffermandomi soprattutto sulle pagine di cronaca. Fra i presenti c'è chi mi
osservò allibito, trovandomi un personaggio decisamente fuori luogo, e fin troppo
agitato per poter consultare comodamente dei giornali. Purtroppo non ebbi molto
tempo per indagare le caricature dei miei amici lettori, poiché arrivai a Laila
in un nanosecondo, dopo aver letto un titolo agghiacciante: "Giovane
ragazza muore dopo una colluttazione fra spacciatori".
Lessi l'articolo
in preda al panico, con le lacrime che lentamente cominciarono a organizzarsi
in una cascata senza confini. Scoprii che l'avevano trovata senza vita con un
grosso ematoma alla testa, dovuto, probabilmente, a una lite con qualche
esponente della malavita legata al mondo della tossicodipendenza. Così c'era
scritto, senza entrare in particolari dettagli, se non quelli relativi alla
consapevolezza che la ragazza si drogasse e che avesse ancora ben impressi i
segni di uno schiaffo. Il mio schiaffo. Le mie cinque dita. Quando muore un
tossico anche la polizia non sta tanto a perdere tempo: è più importane capire
le dinamiche di un traffico di stupefacenti, che non le reali responsabilità di
un omicidio in cui la vittima è un abituale consumatore di droga. Un
tossicomane non ha grandi prospettive… Lasciai cadere a terra il giornale. E
tremando raggiunsi l'uscio della biblioteca. Non so cosa accadde dopo.
Non so per
quanti giorni e quante notti vagai senza meta, come un vero assassino ricercato
dalla polizia, mentre sapevo benissimo che nessuno sospettava di me. Quando
ebbi di nuovo la capacità di capire e interpretare il mondo che mi circondava, pensai
che sarebbe stato utile rivolgermi alle forze dell'ordine, per rivelare
com'erano andati precisamente i fatti. Ma a che pro? Non avrebbe tolto la mia
pena, né allentato il mio immane senso di colpa e soprattutto non mi avrebbero
ridato Laila. Chi aveva voglia di barcamenarsi in una storia simile?
Stropicciai gli occhi vedendo il mare, cornice di un'alba abulica: senza
rendermene conto avevo raggiunto un promontorio calabrese abbandonato, un posto
che in un altro momento, magari proprio al fianco di Laila, avrei potuto
assimilare al paradiso. Fissavo il mare come si guarda un dio ineffabile e
crudele, disperato come il peggiore tagliatore di teste, in cerca di una
carezza che non arrivava da nessuna parte. Potevo avere ucciso la persona che
amavo di più? Era un pensiero devastante e insostenibile.
Ripresi la
strada di casa come un mentecatto, un uomo che non c'è più, che ha perduto i
suoi confini, quelli psichici, la materia era già altrove. Non esistevo più. Avrebbero
potuto dirmi che avevo il naso al posto delle orecchie e non mi avrebbero
minimamente coinvolto. Riuscivo solo a pensare che non avrebbe avuto più alcun
senso ripresentarmi alla Vian e continuare nella mia vita di sempre. Bussai
alla multinazionale solo per comunicare la mia irrevocabile decisione di
abbandonare l'azienda, per migrare in un posto che non avevo ancora deciso, ma
che speravo il più possibile lontano da tutto e tutti. Non è stato difficile.
Al capo, dopo il primo sbigottimento, è bastato guardarmi negli occhi per
capire che qualunque azione persuasiva nei miei confronti sarebbe stata vana.
Così, come ho già raccontato, sono finito per agonizzare a Concorezzo, il paese
dei catari, dove, però, le cose non sono andate esattamente come avevo previsto.
Oggi posso urlarlo a gran voce: fortunatamente.
(Ri)epiloghi
matrimoniali
E ora eccomi
qui; solo nella mia piccola grande dependance, che mi ha accolto mesi e mesi fa
come un naufrago, ridandomi a poco a poco fiducia, respiro e speranza. Doveva
essere la fine, la mia lenta e inesorabile agonia e invece… Sto preparando gli
ultimi scatoloni, perché io e Ginevra andiamo a vivere insieme. Abbiamo trovato
un appartamento a Vimercate, a due passi dal centro, con le finestre che si affacciano
su una vietta medievale, quasi sempre piena di gente che pettegola come se non
avesse meglio da fare. Ogni cosa, ogni passaggio, discussione, è avvenuta con
estrema naturalezza, e non escludo che presto o tardi potremo perfino…
sposarci. Sì, sì, ho pronunciato proprio la fatidica parola, "sposarci".
Nemmeno con Laila avrei mai supposto un epilogo del genere. Forse è vero che
tutto sta già scritto negli astri. E che contro ogni incredibile soluzione del
destino non possiamo proprio nulla. Sono stato io a farmi avanti. Abbiamo fatto
anche una specie di prova recitata, un giorno, in una chiesetta della Brianza.
«Vieni che
insceniamo le nozze», le ho detto strizzandole un occhio, dirigendomi verso un
altare scialbo e deserto. Ginevra è rimasta immobile, quasi incredula di fronte
alla mia uscita, ma alla fine s'è lasciata andare e ridendo come due ragazzetti
ci siamo fatti promessa di vita eterna, di fronte a un crocefisso malconcio che
ci fissava con gli occhi stralunati.
«Orso sarà il
nostro testimone. Che ne dici?».
Ginevra rise e
mi baciò.
«Non sarà
l'unico».
Dopo avere
salvato la vicina, ho raccontato a Ginevra tutta la mia vita con Laila per filo
e per segno. E in un secondo momento a Orso e agli altri amici del circolino. Ho
svuotato completamente il sacco, liberandomi di un peso a dir poco
mastodontico. Confidai che Laila era sostanzialmente morta per colpa mia, ma
che naturalmente mai mi sarei immaginato potesse accadere una cosa del genere. Fu
un incidente. Spiegai che quando l'avevo lasciata devastato dalla rabbia,
dovuta al grande amore provato, rideva ancora, sembrava la solita di sempre,
ero convinto che il mio schiaffo non le avesse fatto nulla, e che anche la
caduta fosse stata di poco conto. Ero troppo dilaniato per trascorrere ancora
del tempo con lei, dovevo andarmene per cambiare aria, almeno per un po’; da un
certo punto di vista mi sentivo preso in giro. Laila mi stava prendendo in
giro, anche se mi amava ed io amavo lei come non avevo mai amato nessun altro
essere vivente.
Raccontai il
sunto di alcuni miei ragionamenti, partendo dal fatto che la vicenda del vicino
fosse stata incredibilmente simile a quella che si era consumata fra me e
Laila: anche in questo frangente, infatti, la manata di un uomo aveva mandato
in frantumi l'attività cerebrale di una donna. Ma qui ero intervenuto io, proprio
io, nel caso di Laila non c'era nessuno a proteggerla, salvarla dalla fine. Che
assurda beffa del fato! Ci sono stato per una sconosciuta e non per il mio
amore… E così il mio amore se n'è andato per sempre, dimenticato fra le nuvole,
ma ha continuato a vivere la sconosciuta; grazie a me. Adesso, però, è anche per
via di questo presupposto che guardo al futuro da una prospettiva diversa, benefica,
come se, salvando la mia vicina, alla fine abbia salvato anche Laila; certo,
non potrà tornare in vita, ma potrà risorgere metaforicamente la nostra storia,
tutto quello che di bello c'è stato tra noi, così poco convenzionale. Laila ha ripreso
la sua strada di sempre, con i suoi occhi scuri e la sua bocca carnosa, la
stessa strada di quel giorno in cui l'ho vista per la prima volta, dietro al
bancone del baracchino. Laila.
Come se non
bastasse, un mesetto fa, ho ricevuto una bellissima visita, a coronare un
divenire che non smette di stupirmi e lasciarmi senza fiato. Ancora il
citofono, ancora Ginevra e Orso, ma in compagnia di qualcuno che non vedevo da
un sacco di tempo: Francesco e Filomena. Sono spuntati dal retro di un
camioncino che oscurava la via. Naturalmente sono rabbrividito. Non mi sembrava
vero, un meraviglioso incubo. Ormai la mia mente s'era convinta che non li
avrei mai più rivisti: trovarmeli di fronte all'improvviso, è stato un piccolo,
grande, shock. Ma l'imbarazzo non è durato molto e dopo esserci sciolti in un
vigoroso abbraccio è stato come essersi visti poche ore prima.
«Provaci a sparire
un'altra volta, mi raccomando!», mi ha detto Francesco, stringendomi come un
fratello perduto.
Filomena per
poco non si metteva a piangere, io pure. Ma l'auto controllo ha avuto il
sopravvento sulla commozione e alla fine tutto s'è risolto in una gran risata
collettiva.
Non ho mai
capito in che modo Ginevra e Orso possano essersi messi in contatto con i miei
ex colleghi, ma posso immaginare che l'abbiano fatto sulla base delle
indicazioni che gli avevo accennato, convinti (giustamente) di potermi fare un
bellissimo regalo: più volte avevo discusso con loro della Vian e delle persone
che la rappresentavano, delle vicissitudini trascorse in ambito lavorativo, dei
luoghi che avevo attraversato in lungo e in largo con Laila.
In seguito,
tutti e cinque, come una bella comitiva, siamo partiti per una specie di
trattoria, non lontana dalla strada che s'inerpica per raggiungere le piramidi
di Montevecchia, felici di poter cenare in compagnia. E' stata una delle serate
più belle della mia vita. Non so quando mi sono sentito altrettanto bene, forse
mai. Il mio futuro e il mio passato s'incontravano e si prendevano per mano, vincendo
definitivamente il dolore e la colpa per avere causato l'involontaria scomparsa
di Laila.
Mangiando e
chiacchierando è poi emerso che le mie supposizioni sul fatto che qualcuno si
fosse messo a pedinarmi, erano assolutamente corrette. Avevo creduto di essere
riuscito a far perdere le mie tracce, fuggendo nel nulla, nell'antro
concorezzese; ma mi ero illuso. In realtà gli alti dirigenti della Vian
sapevano tutto di me e di ogni mio spostamento. Il famoso signore della
cappelletta degli appestati - incontrato anche quel giorno in cui andai a
visitare Milano e che cercai di placcare con un inseguimento all'americana - non
era un abitante del posto, ma un detective assoldato dal direttore della
multinazionale per tenermi d'occhio: i boss s'erano, infatti, convinti che la
mia improvvisa dipartita celasse la volontà di spifferare ai nostri concorrenti
le formule chimiche per un farmaco che prometteva di rivoluzionare il mondo
della medicina, nel campo dell'endocrinologia. Io non ci pensavo più da tempo,
ma, in effetti, quando me ne andai all'improvviso, mancava poco all'ultima
serie di test che avrebbe portato alla produzione su larga scala di un nuovo
principio attivo potenzialmente in grado di guarire il diabete di tipo uno. Era
una specie di vaccino, che avrebbe assicurato alle casse della Vian grandi entrate
e non meno un eccezionale ritorno d'immagine.
Francesco e
Filomena mi hanno chiesto se sarei tornato alla multinazionale, ma conoscevano
già la risposta. Mi ero fatto una nuova vita, lo vedevano con i loro occhi. Sarei
rimasto per sempre legato a loro, nonostante la distanza, ma di sicuro non
avrei più rimesso il camice bianco per sintetizzare molecole e altre droghe astruse.
Con Ginevra stavamo pensando al modo in cui investire proficuamente il mio
tempo e un giorno, forse una settimana fa, abbiamo accarezzato seriamente l'ipotesi
di rilevare un caffè letterario a Monza. I soldi non mi mancano, non ci
mancano… Chi lo sa come potrà andare, ma dopo quello che ho passato anche
l'impresa più inaudita pare una sciocchezza. Quando ci penso mi sembra tutto
così assurdo. Dovevo spegnermi lentamente, come il lumicino di una candela
morente, e invece eccomi qui rinato, un altro, protagonista di un ritrovato
sogno.