giovedì 30 gennaio 2014

Un sorriso


UN SORRISO

Tu che mi conosci
Tu che intanto cresci
Tu che non mi hai mai visto cantare
Tu che non ne approfitti in amore
Tu che non ti accontenti di amare

RIT. Tu che credi in quello che fai
Tu che non ti scoprirai mai
Tu che parli e un giorno sarai
Un sorriso che non tramonterà

Tu che mi conosci
Tu che intanto cresci
Tu che non mi hai mai visto bambino
Tu che non te ne accorgi se suono
Tu che non mi assomigli a nessuno

RIT. Tu che credi in quello che fai
Tu che non ti scoprirai mai
Tu che parli e un giorno sarai
Un sorriso che non tramonterà

1995 

(Ripescata fra le tante altre scritte, buttate, ricercate...) 

Il fuoco della vanità


IL FUOCO DELLA VANITA'

Gli occhi che guardano oltre le stelle
Son fiori che nascono e poi
Raccontano il nostro colore
Dipinto dal sole più rosso che mai
Qualcuno che chiede rispetto
Si trova costretto a capire oramai
E a contare le corna subite
In un mare di guai

Saprò raccontarti mio giovane amico
Qualcosa che tu non dirai
All'uomo vestito di nero
Sorpreso dal cielo che rinnegherai
Il piatto di un disco segnato dal ritmo
Di un dolce e stonato tictac
Ricorda i tuoi occhi velati di rabbia
Per l'esile uomo in frac

Il tuo guardia boschi non trova gli accordi
Suonati in quell'ultimo jazz
Non trova gli accordi mancanti
Suonati una volta in quel piano bar
Se poi lui ti inventa un'altra scemenza
Io sono sicuro cadrà
Coperto di infamia con poco di lode
Sul fuoco della vanità

1994 

Senza retorica: "Il lanciatore di coltelli"


IL LANCIATORE DI COLTELLI

Il lanciatore di coltelli
Il fischiettare degli uccelli
La nebbiolina all'imbrunire
Della cicala il suo frinire
Le barzellette sui pompieri
Anch'io so leggere i pensieri
Il cacciatore e il suo fucile
I cani e i gatti del cortile

Quante storie passate così
Quanto tempo lontano da qui
Catarì, catarì, catarì…

Le caramelle del discount
Un vecchio libro di Ezra Pound
La guerra santa all'occidente
Ma la Jihad non c'entra niente
Il palazzetto dello sport
C'era una volta anche il jukebox
La vita degli emarginati
La barba lunga dei pirati

Quante storie passate così
Quanto tempo lontano da qui
Catarì, catarì, catarì…

2010

lunedì 27 gennaio 2014

L'umorismo di Joan Cornellà

"La verità è che io non ho nessuna intenzione di fare una critica, almeno deliberatamente o con un obiettivo chiaro. In molti fanno una lettura di matrice política di sinistra dei miei comics. A me invece piacerebbe che il mio lavoro si mantenesse alieno a qualunque posizione política. Non mi piacciono i lavori moralisti, preferisco pensare che si trata di umorismo assurdo. Per me non è altro che umorismo dell’assurdo. Anche se ciò che pensó del mio lavoro è indipendente dal mio stesso lavoro. Ognuno di fatto è libero di interpretarlo come gli piace". 

Joan Cornellà 

sabato 25 gennaio 2014

panni stesi

come ogni anno giriamo per la slovenia a caccia di angoli dall'ampio respiro. tipo questo


venerdì 24 gennaio 2014

Lado Tevdoradze: i colori della Georgia

Lado Tevdoradze was born in 1957 on Septemebr 16. In 1974-1977 and 1979-85 he graduated The Toidze Art Scool and The Academy of Art 1998-2005 Lado Tevdoradze painted the ST.Nicholas church in Narikalafortress with David Khidasheli and also the same yeah they both painted Jvari Patiosani church In Akhmeta.



Ferragosto # 6


5 agosto

26.

«Dormito niente», disse la Cesira, l'indomani, sulla porta di casa.
«Anch'io non ho chiuso occhio», ribatté la vicina, Clelia Ponzoni.
«Con una tragedia del genere c'è ben poco da dormire».
Clelia scosse malinconicamente la testa, pensando che nella sua vita non avesse mai assistito a un fatto del genere; ma che fosse comunque necessario razionalizzare l'accaduto per non farsi travolgere dalle emozioni.
«Non dobbiamo farci prendere dallo sconforto», mugugnò, «meglio reagire».
«Adesso torno in curia e vedo di sistemare le ultime cose per la veglia di stasera. Cos'altro possiamo fare?».
«Dio ti benedica, Cesira, se non ci fossi tu».
La Cesira sbuffò, convinta della sua insostituibilità.
«Lo dico sempre anch'io. E ora che non c'è più don Filippo, chissà…».
«La Provvidenza, ci penserà la Provvidenza».
«La Provvidenza non può fare tutto».
Passò la Marta Bucchi, la zitella che abitava di fianco alla casa del Marengo, verso cascina Rossino; fra le più strane donne del paese, con la solita capigliatura da pazza e i vestiti alla rinfusa. Condivideva il letto con un paio di gatti e un cane e i suoi modi strambi avevano fornito fin troppo spesso materiale di prim'ordine per il pettegolezzo paesano. Nessuno aveva mai fatto visita agli interni della sua dimora e in molti pensavano che nascondesse qualcosa di assurdo, proibito e pericoloso.
Era giunta in paese da vari decenni, ma il suo passato era tutt'altro che limpido. Anche il suo accento tradiva origini lontane che mal s'accordavano con il suo cognome tipicamente brianzolo. Giravano voci che anni addietro avesse avuto a che fare con loschi individui al servizio della carboneria. Lei stessa, in qualche suo delirio onnisciente, aveva provato a tirare in ballo figure come Pietro Maroncelli e Silvio Pellico; ma in senso negativo. Aveva provato a gridare che avessero fatto bene a rinchiuderli allo Spielberg. L'avevano sentita tutti, una calda sera d'estate di qualche anno prima.
Non stupisce che i più giovani, compresi il Giannino e l'Ambrogino, la chiamassero "la strega". Una sera s'erano appostati nei pressi della sua abitazione e, verso mezzanotte, l'avevano vista trafficare con oggetti strampalati e sconosciuti, tipo una sfera di vetro circondata da piccole candele. Il Marengo, dopo aver sentito il racconto dei ragazzi, li aveva ricondotti a culti pagani.  
«Buongiorno signore».
«Buongiorno», rispose la Clelia, con aria sostenuta.  
«Dormito bene stanotte?».
La Cesira e la Clelia si guardarono frastornate.
«Come facciamo ad avere dormito bene con quello che è successo?».
«Perché, cos'è successo?».
Le due donne allibite fecero spallacce, rassegnate all'ennesima bizzarria della Bucchi. Si domandarono in cuor loro se, davvero, potesse esserci ancora in giro per il paese qualcuno che non sapesse del cataclisma che si era appena abbattuto su Burago.
«Come, cos'è succ…».
La Cesira non finì la frase.
«Ah, don Filippo, mamma mia… eh sì, è stata proprio una tragedia. Povero don Filippo. E pensare che ci avevo appena parlato, pochi giorni prima, il giorno prima, forse…».
Si espresse con uno sguardo ambiguo, dando l'impressione di non rendersi realmente conto di quel che dicesse, rafforzando l'ipotesi che vivesse in un mondo tutto suo, popolato da chissà quali discutibili creature.
La Clelia la compatì con un turpe ghigno, guardandola avviarsi verso casa con il solito passo traballante.
«Vado anch'io», disse la Cesira, ninnando il capo.
Strada facendo, pensò a tutto e niente, essendo troppo agitata per riflettere con successo su qualunque cosa. D'un tratto le sembrò di rivivere la mattina del 3 agosto, quando per prima si rese conto che don Filippo era scomparso. Provò lo stesso vago senso di nausea e la sensazione che non avesse più appigli ai quali aggrapparsi. Abbandonata a se stessa come la foglia d'autunno ingiallita, che al primo alito di vento perde per sempre la sua esuberanza. Sentiva di avere smarrito la propria identità, calata in un silenzio potenzialmente letale. Si sentì vecchia e scoraggiata.   
Cercò sollievo succhiando lo stelo di una pianta di romice, che da bimba masticava come una capretta al suo primo giro fra i campi. Sapeva che in grosse quantità faceva male ai reni, ma nella situazione in cui si trovava, non riuscì a identificare conforto migliore. Percepì un minimo sollievo notando che, di fronte alla casa del prete, c'era già il Giannino, con la faccia tirata.
«Cesira, è appena stato qui un pezzo grosso della curia milanese».
«Cosa stai dicendo?».
«Era un tipo vestito di nero, forse un prete, serissimo. Ha chiesto a un paio di donne, dove fosse la casa del parroco ed è giunto fin qui con un diavolo per capello. C'ero io, per caso, e mi ha lasciato questa, da consegnare agli uomini del villaggio, al sindaco o al Marengo…».
Era una lettera. La Cesira la girò sotto sopra per capire di cosa si trattasse e benché non sapesse leggere perfettamente, capì benissimo il nome del mittente: l'arcivescovo Carlo Maria Romilli.

27.

La aprì senza tentennamenti.
«E' dell'arcivescovo».
La più alta carica religiosa milanese, in città dal 1847, aveva saputo la notizia da Stefano Galimberti, amico del sindaco Boffalora, di passaggio da Vimercate per una serie di affari legati ad alcuni campi in affitto dalle parti di Masate; da tempo inseguiva l'idea di poter allargare i suoi possedimenti terrieri verso la bergamasca, convinto che la mezzadria rappresentasse il futuro.  
«Aiutami a leggere cosa c'è scritto».
Il Giannino strabuzzò gli occhi. Erano poche righe, vergate da una mano sicura e autorevole. In esse l'arcivescovo chiedeva ai paesani di Burago di tenere a bada la lingua, perché in fondo nessuno poteva dire realmente quel che fosse accaduto al povero don Filippo; e certe illazioni non andavano alimentate, mettendo in cattiva evidenza la chiesa. Poi ordinava di procedere con una celebrazione eucaristica a tutti gli effetti, che avrebbe officiato un prete della zona, opportunamente scelto dalla diocesi milanese. Concludeva con un saluto e una benedizione.
«Santa Maria Vergine», esclamò la Cesira.
«Allora anche l'arcivescovo ha saputo».
Passò Modesto Galli con un rastrello sulle spalle e il solito bruciore allo stomaco che lo tormentava da diverse settimane.
«Si è saputo qualcos'altro?».
«E' arrivata una lettera dall'arcivescovo», disse il Giannino.
Modesto arrestò il suo cammino, stupito dalle parole del giovane.
«Dell'arcivescovo?».
«Leggi qui».
Ma Modesto non sapeva leggere, non essendo mai andato a scuola.
«Dimmi tu cosa c'è scritto».
Il Giannino lesse di nuovo il contenuto della missiva e dondolò il capo, marcando la solennità del momento.
«Allora si è proprio ammazzato», disse Modesto.
«Su, su», blaterò la Cesira, «non stiamo qui a raccontarcela adesso. Avete visto cos'ha scritto il Romilli. Non parliamo a vanvera e teniamo al guinzaglio la lingua. Ormai quel che è successo è successo, e nemmeno il padreterno potrà cambiare le cose».
«Giannino, cosa succede?».
Era la Stella Magnaghi che, spuntata dal nulla, stava andando a recuperare un po’ di acqua dal pozzo dei Pangratà, dietro alla casa del parroco. Il ragazzo le spiegò tutto.  
«Oddio. Che dice?».
«Di non spargere la voce. Non vuole fare sapere in giro quel che è accaduto a don Filippo».
La Stella corrucciò la fronte, incapace di esprimere un'opinione, per una faccenda che giudicò troppo grande e sofisticata per la sua piccola mente provinciale. Fino a quel momento la sua vita non aveva avuto altri scopi se non quello di assicurare l'acqua e il mangime ai polli e ai tacchini della famiglia. Se ne andò per la sua strada, presto seguita dal Galli e dal Giannino.
Rimase solo la Cesira che, facendosi coraggio, varcò l'uscio della casa del parroco per vegliare il cadavere e sistemare le ultime cose in attesa della celebrazione prevista per la sera. Lo trovò peggio del giorno prima, ormai appannaggio di un destino impossibile da decifrare per un comune mortale. I vestiti gli davano un certo risalto, ma il colorito del volto e l'espressione erano davvero spaventevoli. Spalancò le finestre terrorizzata dall'idea che il fantasma del prete potesse aggirarsi per la stanza e prendersi gioco di lei.  

28.

Prima delle otto, col cielo terso e la solita profumatissima atmosfera campagnola, gran parte dei buraghesi cominciò a sfilare di fronte alla casa del pievano. L'aria sommessa, il passo mogio, la consapevolezza che mai prima d'ora si fosse verificato un fatto tanto macabro in paese, si leggeva nello sguardo di chiunque; compresi i più giovani, che avevano rinunciato a qualunque ludica velleità. All'ora della veglia c'erano tutti tranne Marta Bucchi, ma la sua assenza non stupì nessuno.
«Starà complottando con qualche altra strega», mormorò cinicamente Luciano Varisco.
Pinuccio Villa, a lui vicino, annuì corrucciando la fronte in segno di rassegnazione.
Venne a officiare la cerimonia don Giuliano, il prete di Cavenago, molto amico di don Filippo. Avevano fatto anche qualche anno di seminario insieme. E spesso si ritrovavano per celebrare la messa alla chiesetta di Santa Maria al Campo, piccolo e antico edificio religioso sul confine con Cambiago. Prima di iniziare la veglia si raccolse ai piedi del fratello salito al cielo e pianse in silenzio, pronunciando qualche enigmatica frase in latino. La Cesira gli chiese se aveva cenato e se desiderava qualcosa per "tenere su il cuore".
«Sono a posto, grazie».
La guardò con l'aria disfatta.
«Pensiamo al nostro don Filippo».
Si alzò e prese a recitare il rosario, fra i singhiozzi e i sussulti dei presenti. Le donne indossavano l'abito più nero che avevano e un velo leggero calava sui loro occhi privi di speranza; le più pie erano riuscite a ritagliarsi un posto d'onore ai piedi del feretro e ululavano al cielo la loro pena, guidati dal verboso incedere di don Giuliano.
Gli uomini, in mano il cappello, uno di fianco all'altro, accompagnavano con morigeratezza la liturgia, stanchi per la pesante giornata che avevano sulle spalle, ma felici di rendere omaggio al prete trovato morto. Luigi Brambilla e Luciano Brioschi a fatica riuscivano a tenere gli occhi aperti e non avrebbero desiderato altro che sdraiarsi, dopo aver tracannato un bel bicchiere di grappa.
Dalle parti dell'ingresso laterale della chiesa c'era l'Ambrogino. Sussurrava l'Ave Maria, quasi avesse paura di far sentire troppo la sua voce. All''improvviso percepì la sensazione di essere osservato. Non si sbagliava. Era la Lina, che non aveva ancora notato, a pochi metri di distanza, sigillata nel raccoglimento spirituale di mamma e papà; candida in volto, con gli abiti impolverati e la solita catenella che gli avevano regalato i nonni in occasione della Cresima, la trovò idilliaca come sempre. La ragazza si accorse dello sguardo contraccambiato e abbassò la testa, arrossì, ricordando divertita lo scandalo che avevano sollevato imboscandosi tempo addietro lungo le rive del laghetto.
L'Ambrogino fu felice di sentirla tanto vicina, ma trattenne la contentezza disserrando ridicolamente le labbra. Non poté, però, fare a meno di soffocare lo stupore, quando l'uomo che aveva di fronte, Palmiro Sironi, con qualche venerdì in meno, si lasciò scappare un peto feroce che rumoreggiò per tutta la chiesa, troppo tardi redarguito dall'anziana madre con uno scappellotto sulla nuca.
«Palmiro sei tutti noi», blaterò alle sue spalle Calimero Biffi, punzecchiando l'Ambrogino sulla schiena.  
Fu difficile per entrambi non scoppiare a ridere come bimbi all'arrivo della Befana; ma l'occhiata austera di Mario Porta riportò in men che non si dica l'ordine fra i fedeli.
La veglia si risolse in un'ora. I buraghesi, alla fine, in religioso silenzio, così come erano arrivati, fecero ritorno alle loro case. La Lina e l'Ambrogino si salutarono con un sorriso pieno di sentimento e la convinzione di poter presto tornare a parlare del loro amore.

29.

Rimasero al cospetto del prete scomparso il Marengo e il sindaco, assonnati e avvinti da una tragedia che ancora non riuscivano a mettere a fuoco.   
«Certo, è tutto così strano», commentò il Boffalora.
«Ancora non mi raccapezzo», controbatté il Marengo.
«Era con me l'altro giorno, mi sembrava il don Filippo di sempre. Abbiamo parlato dei prossimi lavori da fare in chiesa, del tetto che perde e delle fondamenta che cominciano ad accusare il peso degli anni».
Un soffio di aria fresca giunse dalla finestra principale, dove giaceva il cadavere del curato, colpendo sulla fronte i due paesani, che godettero dell'improvvisa ventata di ossigeno. Forse stava, finalmente, cambiando il tempo.  
«Sarà il caso di chiudere», disse il Boffalora, «non vorrei che volasse via qualcosa».
«Aspetta, aspetta un momento», replicò il Marengo, con tono sostenuto.
Dalle imposte filtrò un raggio di luna più potente degli altri che finì per rischiarare una parte del capo della salma, rimasta fino a quel momento parzialmente adombrata dalla chioma, non ancora sistemata per l'estremo viaggio. Il Marengo abbandonò la sedia e in un paio di balzi raggiunse il prete, per scrutarlo da vicino, come era solito fare con le monete più antiche che gli capivano fra le mani e per le quali nutriva una passione smodata. Gli girò intorno tre o quattro volte, mentre il sindaco lo seguiva con aria stupita.
«Cosa stai combinando?».
Il Marengo non rispose, preso, all'improvviso, da un dubbio colossale; che si materializzò del tutto, quando si incaponì sulla parte alta della testa di don Filippo, scoprendo qualcosa che lo lasciò basito.
«Raimondo…».
Il sindaco lo fissò perplesso, trovando il comportamento del compaesano ridicolo, ma preoccupante.
«Vieni qui un attimo».
Boffalora fece spallucce, ma soddisfò il desiderio del Marengo, portandosi senza replicare a due passi dal feretro.
«Qui».
«Cosa?».
«Qui dove la luna fa luce, avvicinati, prova guardare anche tu e… non fare quella faccia».
Il Marengo puntò l'indice su una specie di gibollo.
«E' viola», disse il Boffalora, «non dovrebbe stupire con tutto il tempo che ha passato in acqua».
«Non dico il colore. Guardalo dalla mia posizione, di traverso, non ti sembra…».
Anche Boffalora sbigottì.
«Diamine, è un bernoccolo».
«Lo vedi anche tu allora, e non ti dice niente?».
Il sindaco contemplò l'amico incuriosito, non capendo dove volesse arrivare. Il fatto che ci fosse un evidente bitorzolo nei pressi della tempia destra, poteva essere tanto interessante, quanto superfluo. Ma il Marengo non fu dello stesso avviso.
«C'è qualcosa che non va».
«Vorresti dire che…».
«Vorrei dire che uno che muore annegato non si trova anche un gibollo di queste dimensioni sul cranio. L'acqua attutisce i colpi, e non ha senso credere che possa aver sbattuto violentemente la testa lasciandosi andare, di sua volontà, nelle acque dello stagno».
Zittirono entrambi, pervasi da un terribile sospetto, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di palesarlo. Quel bernoccolo suggeriva che don Filippo potesse essere stato colpito da un oggetto contundente, prima di finire divorato dalla palude. In tal caso, il quadro delle indagini sarebbe potuto cambiare completamente. Significava, forse, dovere ripartire daccapo, senza considerare solo l'ipotesi che il prete potesse essersi ammazzato; qualunque fosse il reale motivo della morte del curato, di certo la faccenda appariva ora molto più complessa di quella considerata fin lì.  

30.

«E se l'avesse sbattuta contro un sasso del fondale?».
Il Marengo non credé all'amico.
«Impossibile. Il fondale dello stagno è melmoso, non c'è traccia di sassi. Ieri buona parte di noi è entrata per recuperare il corpo di don Filippo e ci siamo ben resi conto della poltiglia che lo caratterizza.  Pinuccio, per poco, non faceva una brutta fine, ancora mezzo metro e addio».
Il sindaco lo guardò conturbato.  
«Stava annegando. E' un miracolo che si sia salvato», affermò, chiaramente, il Marengo.
«Eppure il biglietto che ha trovato il Giannino parla chiaro».
Il Marengo zittì.
«Non ci sono dubbi che l'abbia lasciato don Filippo e c'era chiaramente scritto che…».
«So benissimo quel che c'era scritto. Ma qui troppe cose cominciano a non tornare. Insisto. Questo bernoccolo non mi convince. C'è sotto dell'altro».
Tentarono di osservare meglio quella bizzarria epidermica, constatando che solo ora iniziava a rendersi evidente, come se la botta non avesse ancora avuto il tempo necessario per svelarsi come avrebbe dovuto, forse contrastata dal refrigerio delle acque.
«Proviamo con la candela», disse Boffalora, impugnando il cero più potente che brillava nell'oscurità della stanza più grande della curia.
«Diamine», esclamò il Marengo, «guarda qui».
Anche il sindaco del paese si accorse che di fianco al gibollo, praticamente nascosto da una fulgida ciocca di capelli, era riscontrabile una profonda ferita.
«E' un taglio bell'è buono, non c'è che dire. E non è certo il segno di una caduta, ma il risultato di un colpo inferto da qualche arma».
«O da un bastone».
Il Marengo notò un taglio lungo circa tre centimetri, dal quale, verosimilmente, era fuoriuscito parecchio sangue.
«Don Filippo è stato pestato da qualcuno. Non può essersi tirato da solo una randellata del genere. E il gibollo potrebbe essere stato il colpo di grazia».
Il Boffalora rimase sulla sue. La disanima del Marengo poteva essere del tutto plausibile, tuttavia non se la sentì di affermare che potesse sicuramente essere andata secondo quest'ultima descrizione. Nell'enfasi che ci mise il Marengo, trovò anche la sensazione che l'amico volesse a tutti i costi cercare un pretesto per convincere se stesso che la morte del prete non potesse essere dipesa da una sua volontà. E allora da chi?
«Scusa Marengo, ma se, ammettiamo, don Filippo non si è ammazzato, chi avrebbe potuto desiderare la sua morte?».
Il Marengo si allontanò dal corpo del reverendo e tornò a sedere con la mente in subbuglio.
«Non so, non so davvero, a questo punto mi sembra tutto una pazzia».
«E se fosse accidentalmente caduto nello stagno?».
«Ma le botte prese non possono alimentare questa tesi».
«Magari le due cose non hanno un legame fra loro. Don Filippo potrebbe essersi fatto male e poi essere caduto nello stagno».
Si guardarono rendendosi conto che, per quest'ultima ipotesi, le percentuali, oggettivamente, rasentavano lo zero. 
«Sarebbe il colmo dei colmi. No, non è percorribile questa strada. Don Filippo, supponiamo, dovrebbe avere pestato la testa contro qualcosa, poi essersi beccato una specie di coltellata, praticamente nello stesso punto, e infine essersi diretto allo stagno, dove non va mai, per cadere accidentalmente in acqua».
«Del tutto inverosimile».
«Eh già, non ci sono dubbi».

mercoledì 15 gennaio 2014

Ferragosto # 5



21.

Giorgio Galbusera era un tipo piuttosto silenzioso. Se ne stava sempre sulle sue. Viveva con la madre e non si era mai sposato. Ormai aveva passato l’età per convolare a nozze e il suo quieto vivere si era in pratica trasformato in un apatico trascinarsi da un posto all’altro senza alcuna cognizione. Disertava perfino l’osteria, presa d’assalto dai buraghesi la sera dopo il lavoro o ancor più spesso durante il fine settimana. A volte la sua presenza era così mesta da passare inosservata, come in quest’ultimo frangente, in cui era stato invitato a seguire il Marengo a caccia del prete perduto. Non gli fu facile decidere di avvicinarsi al cadavere di don Filippo, ma volle farlo a tutti i costi per avere qualcosa di interessante da raccontare alla madre.
Si attendeva l’arrivo del carretto e i compaesani bighellonavano lungo le rive dello stagno, meditando o confidando le proprie impressioni a un amico. Era il momento adatto per compiere qualche passo in più e trovarsi solo innanzi al corpo senza vita del pievano; l’unico modo, a parer suo, di poter esprimere le proprie emozioni liberamente, senza correre il rischio di essere visto da qualcuno e mettere in mostra l'ipersensibilità che lo contraddistingueva.
Notò le mani di don Filippo, sembravano di cera, e la bocca accartocciata su se stessa, che regalava al volto un’espressione di terrore; inquadrò i pantaloni del prete, non più pregni d’acqua, ma completamente rovinati dalla lunga permanenza nello stagno; e... non gli fu possibile vedere altro perché, a un certo punto, gli si annebbiò la vista, mentre uno strano formicolio lo sconvolse dai piedi all’ultimo capello che aveva in testa. In pochi secondi perse il controllo e rovinò su se stesso come un sacco di patate.
Intravide la scena Ernesto Ferrari, che trotterellava dall’altra parte dello specchio lacustre, pervaso da una strana ilarità, in antitesi al sentimento generale che aleggiava sul gruppo di paesani scombuiati come non mai dall'accaduto. Strabuzzò gli occhi e cominciò a urlare:
«Giorgio! Giorgio!».
Gli uomini nei paraggi alzarono lo sguardo in direzione delle grida e videro Ernesto sbracciarsi indicando l'angolo boscoso in cui era stato recuperato il corpo di don Filippo. Il Marengo che stava cercando di analizzare la faccenda con Pinuccio e Piero Galbiati, il fabbro del paese, si mise immediatamente in allerta.
«Cosa sta succedendo?», domandò con tutta la forza dei suoi possenti polmoni.  
«Il Giorgio! Il Giorgio!».
Non servirono altre parole. E insieme si mossero verso il capezzale del prete, correndo con foga e comprendendo che le sorprese, evidentemente, non erano ancora finite.
Dante Cereda, che si era allontanato per ultimo dal pievano, fu il primo a scorgere i due corpi stesi l’uno di fianco all’altro: quello di don Filippo e quello di Giorgio Galbusera. Una scena rocambolesca. Piegò la schiena terrorizzato, ma si tranquillizzò quasi subito accorgendosi che l’amico stava ancora respirando. Nel frattempo arrivarono tutti gli altri.
«Oddio, che succede?», chiese Pinuccio.
«Calma, probabilmente è solo svenuto», chiarì Dante.
Il Marengo tastò il polso del malcapitato e verificò che il pericolo di vita era scongiurato.  
«Alziamogli le gambe», blaterò.
Dopo pochi minuti, Giorgio emise un gemito, riprendendo a respirare normalmente e rincuorando i tanti in apprensione.
«Cosa è successo?».
«Niente di grave», cincischiò Piero Galbiati, «stai tranquillo, certi spettacoli sono duri per tutti».

22.

Giorgio provò a rialzarsi, aiutato da un paio di uomini e nonostante un leggero sbandamento, riuscì alla fine a reggersi con le sue gambe e a rimettersi completamente.
«L’emozione», disse a testa china, vergognandosi di non essere riuscito come gli altri a reggere lo shock di vedere don Filippo senza vita, ridotto in quello stato pietoso.
Un paio di amici gli diedero una pacca sulla spalla, alleviando in qualche modo il suo imbarazzo.
«Sono cose che possono capitare a tutti», predicò l’Ambrogino, ormai sempre più calato nel ruolo di adulto responsabile della comunità.
Attendendo il carretto, tentarono di dare una spiegazione a quell’assurda scoperta, mentre il calore del giorno toccava il suo apice, anche in quel punto ombreggiato della radura buraghese e le mosche impazzavano in un vortice indiavolato.  
«Evidentemente, il foglietto trovato nella curia conferma la sua volontà di farla finita», disse Modesto Galli, il maniscalco.
«Mi sembra sempre più assurdo, ma a questo punto non vedo altre spiegazioni», sostenne Pinuccio.
Il Marengo li osservò disgustato, quasi incapace di azzardare un’ipotesi accattivante. Anche per lui non era possibile che il pievano potesse essersi gettato volontariamente nelle acque dello stagno, ma davanti a un quadro del genere, non sapeva proprio cos’altro immaginare. 
«Io lo vedevo quasi tutti i giorni, e non mi aveva mai dato l’impressione di essere preoccupato per qualcosa, o che stesse patendo qualche particolare dispiacere. Lo conoscevamo tutti, per lui ogni giorno era una benedizione di Dio, e ce lo dimostrava quotidianamente con il suo carattere aperto e allegro, sempre disponibile. Non so cosa possa essergli saltato in mente».
«Magari sono proprio le figure come don Filippo che nascondono le angosce più profonde, e che per soffocarle fanno di tutto per sembrare gli uomini più felici delle terra», disse Martino Vismara, marito della Maria Casiraghi.
«A me pare davvero strano, per non dire inammissibile», replicò l’Ambrogino. «Sono convinto che don Filippo fosse proprio così, e che non avesse nulla da nascondere, tantomeno ai suoi parrocchiani».
«Eppure non sappiamo nulla di lui», reclamò Luigi Brambilla, «prima, a quanto pare, abitava a Cornaredo, nessuno di noi può dire come abbia trascorso i suoi primi anni da prete o cosa gli possa essere capitato in seminario».
«Cosa vai insinuando?», domandò il Marengo, con vago risentimento, «d’accordo dare spazio alla fantasia, ma cerchiamo di non farneticare».
«Non sto farneticando, credo sia giusto valutare ogni ipotesi».
Il Brambilla fu lieto di sapere che anche Dante la pensava un po’ come lui.
«Tutto è possibile, del resto. Quand’ero piccolo mia mamma mi raccontava di un prete che diceva messa come nessun altro, un oratore eccellente, affabile con i parrocchiani, dolce con gli ultimi, sempre attento alle esigenze della curia. Poi però s’è saputo che gran parte delle offerte elargite dalla comunità finivano nelle sue tasche per soddisfare giri loschi. E così, un giorno, s’è ritrovato fuori casa dei gendarmi che l’hanno portato di filata a San Vittore».

23.

Stavano ancora disquisendo animatamente quando, dal sentiero che li aveva condotti fin lì, si intravidero i due uomini che erano corsi a recuperare il carretto. Barcollavano per la stanchezza e le alte temperature che gli avevano trasformato le fronti nelle cascate del Serio. Il Marengo corrucciò il volto: in cuor suo, infatti, avrebbe voluto trovarsi da tutt'altra parte, magari con uno dei suoi bei libri in mano. E pensare che fino a poche ore prima si stava occupando di uno dei suoi diletti preferiti: la numismatica.
«Bene, dovremmo riuscire senza problemi a superare l'argine», disse il Marengo, indicando il punto più scosceso del terreno, caratterizzato da una minuscola collinetta non più larga di un metro e mezzo.
Luigi Brambilla e Mario Porta aiutarono i due compaesani a sollevare il carretto, consentendogli di guadagnare gli ultimi metri prima di giungere al corpo esanime di don Filippo.
Procedettero come in un corteo o, meglio ancora, in processione. Davanti, gli uomini con la traballante carrozza funebre; dietro, tutti gli altri. Qualcuno mormorò una nuova preghiera, pensando ai miracoli e alla resurrezione di Lazzaro. Perché cose di questo genere non potevano capitare tutti i giorni, anche nell'Ottocento, in un paese sperduto come Burago?
Al capezzale del prete si organizzarono per issare la salma sull'improvvisato calesse senza sballottarla troppo. Diedero una mano al Marengo e al Brambilla, Martino Vismara e Luciano Brioschi.
«Forza, voi due da dietro, tirate su quelle gambe», bofonchiò il Brambilla.
Don Filippo sembrava pesasse un quintale. Di fatto era una bella stazza, ma nessuno avrebbe immaginato di dover fare tanta fatica. Pensarono a tutta l'acqua che doveva aver bevuto e che ora rumoreggiava nei suoi polmoni, come il suono di una lontana risacca. Il suo corpo era già marmoreo e statuario, pronto per essere consegnato ai bagliori dell'aldilà. Gli arti parevano dei sassi levigati dalle piogge e dal gelo.
«Fate piano», implorò Pinuccio.
Lo sistemarono alla bell'è meglio. Era troppo lungo e grosso per riposare comodamente in quei pochi decimetri quadrati. Luciano Brioschi esibì un'espressione di sufficienza che Dante colse al volo.
«Con un carretto più grande non arrivavamo fin qui».
Il Marengo annuì.
La testa del pievano picchiò contro la sponda anteriore del mezzo, obbligandolo ad assumere una forma del corpo innaturale, ma non si poté fare altrimenti.
Giorgio Galbusera rabbrividì inquadrando le gote del prete, gonfie e violacee. E per poco non svenne di nuovo. Il Vismara gli andò vicino per sincerarsi che andasse tutto bene.
«Grazie, nessun problema», disse con un filo di voce, «sbrighiamoci a tornare in paese».
Il gruppo si ricompattò intorno al barroccio della morte. In sei si dettero da fare per superare le irregolari e tumultuose rive dello stagno. Superarono l'ultimo scoglio e tirarono all'unanimità un sospiro di sollievo, prima di concedersi una breve pausa. Ora sarebbe stato tutto in discesa.
I raggi del sole illuminavano per la prima volta, con tutta la loro potenza, il cadavere di don Filippo, offrendo un'immagine devastante della realtà, in totale disaccordo con il lindore del cielo e il cinguettare degli uccelli. Sul volto del prete, alcuni uomini notarono che usciva del pus e che le orecchie si erano trasformate in pezzetti di legno ammuffito.
«Spingo io, adesso», disse Dante, sollecitando la truppa a rimettersi in moto.
Lo guardarono prostrati: benché ancora forte e prestante, sapevano tutti che fosse troppo vecchio per sostenere certi sforzi, ma nessuno se la sentì di contraddirlo.
«Sei sicuro?», gli chiese Pinuccio.
Non gli diede nemmeno risposta e cominciò a spingere come un toro da monta.
«Gli scoppierà il cuore», ironizzò fra sé e sé Luciano Brioschi.

24.

Strada facendo in pochi ebbero voglia di parlare. Il cadavere di don Filippo, steso sul carretto come un appestato destinato a una fossa comune, rendeva tutto più complicato e angoscioso. Continuava a fare caldo, ma era una bellissima giornata d'agosto, in cui, lavoro a parte, chiunque avrebbe perso volentieri il suo tempo crogiolandosi ai raggi del sole, pregustandosi una bella partita di carte al bar o una cenetta coi fiocchi. E invece era tutto così triste e incredibilmente folle. Di tanto in tanto qualcuno affiancava Dante per dargli una mano, benché quest'ultimo facesse l'impossibile per mostrare la sua forza, ostentando che poteva cavarsela benissimo da solo.
Il Marengo e l'Ambrogino guidavano il gruppo, qualche metro più avanti della salma del prete. Camminavano con la testa bassa, ognuno perso nei suoi pensieri, parafrasi di quel che era accaduto poco prima, nel raggiungere il laghetto. Il Marengo cercava di fare luce sul passato di don Filippo. Voleva capire se ci fosse qualcosa che gli era sfuggito, qualche particolare di cui non aveva tenuto conto e che ora sarebbe stato utile a comprendere le dinamiche della sua morte. Un prete come don Filippo non poteva essersi ammazzato, ne era convinto, tuttavia si rendeva perfettamente conto che non c'erano aspetti che potessero far pensare il contrario. Tutto protendeva in quella direzione. Purtroppo.
Dal canto suo, l'Ambrogino, era già altrove. In forza della sua giovane età, aveva ben altre cose su cui riflettere. Certo, vedere l'amico prete conciato in quel modo non gli aveva fatto piacere, ma, in fondo, per lui, la morte era ancora un concetto astruso, lontano, impalpabile. La morte l'aveva sempre vissuta di sbieco, riconducendola ad altre persone, ad altri nuclei famigliari. In casa sua non era ancora morto nessuno. Era uno dei pochi ad avere ancora i nonni, che tutto sommato, benché di età compresa fra i sessanta e i settanta, godevano di buona salute. Pensò alla Lina e ogni ombra svanì.
Chiudevano il corteo, dietro al rocambolesco feretro, Pinuccio Villa e Giorgio Galbusera. Solo dopo aver percorso almeno metà del tragitto che li separava dal paese, bofonchiarono qualche parola. Pinuccio rincuorò Giorgio, dicendogli che il suo piccolo malore lo avrebbe patito lui stesso se si fosse trovato a tu per tu con don Filippo, da solo, fissato da occhi spiritati e immobili. Giorgio lo ringraziò, mordicchiandosi il labbro inferiore; raramente si confidava con qualcuno, e parlava dei suoi patimenti e della difficoltà che, in generale, provava nel vivere la vita come fanno tutti. In parte imputava questo suo freno esistenziale all'eccessiva presenza materna che, ancora, nonostante la maturità raggiunta, continuava a compromettere ogni sua iniziativa, voglia di fare. Amava la mamma e sembrava che ogni volta dovesse tornare a casa con qualcosa di nuovo da raccontarle; ma più passava il tempo, più cresceva in lui un sentimento vago, nascosto, che faceva molta fatica a giustificare, sentendolo molto vicino all'insofferenza, per non dire all'odio.   
La sagoma del villaggio comparve all'orizzonte, come il più bel sogno di un figliol prodigo sulla strada di casa. Si intravede il campanile e il gruppo di casupole disordinate che guardava verso il cavenaghese. Spiccavano tutt'intorno i campi di mais, con le pannocchie non ancora mature, e spighe di specie misteriose cresciute senza permesso.

25.

L'arrivo a Burago fu mesto e desolato. Incontro agli uomini del Marengo vennero molte donne, con gli occhi fuori dalle orbite, e il peggior presentimento. La voce della morte di don Filippo s'era ormai sparsa, ma un conto era sapere della umanissima scomparsa di un pievano, un altro trovarselo di fronte su un barroccio traballante, devastato da ore di abbandono nelle acque marcescenti di uno stagno, per un destino su cui non era ancora possibile fare chiarezza, ma che non lasciava presagire alcunché di bello.
La Cesira anticipò tutte le altre e trovandosi al cospetto del prete tirò un urlo da far paura. Le compaesane, sentendola gridare in quel modo, si mossero preoccupate verso l'amica, che si resse a fatica aiutata dalla Casiraghi, anche lei sbigottita da quel calvario.
«Maria Vergine», esclamò, «don Filippo, cosa ti è successo?!».
Non fu facile tenere a bada il brontolio delle donne, ma si impose immediatamente il Marengo per ripristinare l'ordine.
«Calma, signore, calma. Dove sono gli altri uomini?».
Erano ancora in cerca di don Filippo, dall'altra parte del paese. Nessuno li aveva avvertiti che il prete era stato ritrovato.
L'Ambrogino capì al volo e si offrì di raggiungere il gruppo del sindaco per sollecitarli a far ritorno in paese. Il Marengo, con un gesto del mento, benedisse la sua partenza.
«Che facciamo, ora, Marengo?», domandò Pinuccio in apprensione.
«Portiamo don Filippo in curia e allestiamo la camera ardente. Cesira, ci pensi tu?».
La Cesira gonfiò il petto, onorata di essere stata pubblicamente incaricata dal Marengo di un compito così importante. Altroché la festa di Ferragosto.
«Donne seguitemi», disse senza battere ciglio, «e voi», fece rivolgendosi a Dante e al Luigi Brambilla, «portatemelo in curia».
Giunsero a destinazione, quando anche Raimondo Boffalora e i suoi uomini furono di ritorno dalla perlustrazione e poterono confrontarsi con il Marengo su quanto era accaduto sull'altro fronte delle indagini, benché l'Ambrogino avesse detto loro quasi tutto.
Le donne, aiutate dal Giannino e dal Brambilla, sistemarono il prete su un improvvisato giaciglio, e lo ripulirono ben bene. Capitolarono di fronte alla sua pelle tumefatta e all'incredibile pallore del volto, contrapposto al grigiore delle orecchie. La Cesira salì al piano di sopra per recuperare il miglior vestito di don Filippo, con cui abbigliarlo per il suo ultimo viaggio.
Nel giro di poche ore venne allestita la camera ardente. Pietro Colombo, il falegname, offrì loro la cassa più resistente, convinto del fatto che l'unico sacerdote della comunità dovesse essere servito nel miglior modo possibile; benché non avesse più alcuna possibilità di esprimere la propria gratitudine. Alcuni, però - compresa la Cesira stessa - si domandavano se fosse davvero necessario tanta accortezza. L'opinione comune era, infatti, che, chi per sua volontà decideva di morire, non doveva avere diritto a tante attenzioni. Fino a prova contraria per chi faceva una fine del genere, non era nemmeno prevista la cerimonia in chiesa. Tuttavia nessuno si oppose: don Filippo era sempre don Filippo e qualunque fine avesse fatto, avrebbe beneficiato del più amorevole trattamento.  

lunedì 13 gennaio 2014

Lucky Number


Eccentrica quanto basta, capace di stupire e creare ovunque scompiglio con la sua inventiva e originalità. Figlia di un serbo e di un'inglese, finisce per vivere in Russia, dove il padre perde la testa. La madre non ne vuole sapere dei problemi del marito, divorzia e vola con i quattro figli a Hull, piccola cittadina anglosassone. Qui si ricostruisce una vita e permette a Lene di conoscere Les Chappell, cantante e compositore che per primo si accorge del suo talento. Frequenta gli ambienti inglesi più squallidi, si veste all'impazzata, con colori e trucchi stravaganti, conosce Salvador Dalì e canta brani di rock acustico. Cambia casa, va in Francia, dove nel tempo libero presta la sua voce per film horror e dà una mano a Cerrone, star della disco music. Fa il botto con "My Ding-A-Ling" di Chuck Berry e firma per la Stiff Records che la consacra con i suoi dischi più leggendari. "Lucky Number", la sua canzone più nota, risale al 1978. Oggi Lene Lovich - di cui va anche ricordata l'incredibile partecipazione a Sanremo nel 1982 - è caduta nel dimenticatoio ma va ancora in giro a fare concerti.