5 agosto
26.
«Dormito
niente», disse la Cesira, l'indomani, sulla porta di casa.
«Anch'io non ho
chiuso occhio», ribatté la vicina, Clelia Ponzoni.
«Con una
tragedia del genere c'è ben poco da dormire».
Clelia scosse
malinconicamente la testa, pensando che nella sua vita non avesse mai assistito
a un fatto del genere; ma che fosse comunque necessario razionalizzare
l'accaduto per non farsi travolgere dalle emozioni.
«Non dobbiamo
farci prendere dallo sconforto», mugugnò, «meglio reagire».
«Adesso torno in
curia e vedo di sistemare le ultime cose per la veglia di stasera. Cos'altro
possiamo fare?».
«Dio ti
benedica, Cesira, se non ci fossi tu».
La Cesira
sbuffò, convinta della sua insostituibilità.
«Lo dico sempre
anch'io. E ora che non c'è più don Filippo, chissà…».
«La Provvidenza,
ci penserà la Provvidenza».
«La Provvidenza
non può fare tutto».
Passò la Marta
Bucchi, la zitella che abitava di fianco alla casa del Marengo, verso cascina
Rossino; fra le più strane donne del paese, con la solita capigliatura da pazza
e i vestiti alla rinfusa. Condivideva il letto con un paio di gatti e un cane e
i suoi modi strambi avevano fornito fin troppo spesso materiale di prim'ordine per
il pettegolezzo paesano. Nessuno aveva mai fatto visita agli interni della sua
dimora e in molti pensavano che nascondesse qualcosa di assurdo, proibito e
pericoloso.
Era giunta in
paese da vari decenni, ma il suo passato era tutt'altro che limpido. Anche il
suo accento tradiva origini lontane che mal s'accordavano con il suo cognome
tipicamente brianzolo. Giravano voci che anni addietro avesse avuto a che fare
con loschi individui al servizio della carboneria. Lei stessa, in qualche suo
delirio onnisciente, aveva provato a tirare in ballo figure come Pietro
Maroncelli e Silvio Pellico; ma in senso negativo. Aveva provato a gridare che
avessero fatto bene a rinchiuderli allo Spielberg. L'avevano sentita tutti, una
calda sera d'estate di qualche anno prima.
Non stupisce che
i più giovani, compresi il Giannino e l'Ambrogino, la chiamassero "la
strega". Una sera s'erano appostati nei pressi della sua abitazione e, verso
mezzanotte, l'avevano vista trafficare con oggetti strampalati e sconosciuti,
tipo una sfera di vetro circondata da piccole candele. Il Marengo, dopo aver
sentito il racconto dei ragazzi, li aveva ricondotti a culti pagani.
«Buongiorno
signore».
«Buongiorno»,
rispose la Clelia, con aria sostenuta.
«Dormito bene
stanotte?».
La Cesira e la Clelia
si guardarono frastornate.
«Come facciamo
ad avere dormito bene con quello che è successo?».
«Perché, cos'è
successo?».
Le due donne
allibite fecero spallacce, rassegnate all'ennesima bizzarria della Bucchi. Si
domandarono in cuor loro se, davvero, potesse esserci ancora in giro per il
paese qualcuno che non sapesse del cataclisma che si era appena abbattuto su
Burago.
«Come, cos'è
succ…».
La Cesira non
finì la frase.
«Ah, don
Filippo, mamma mia… eh sì, è stata proprio una tragedia. Povero don Filippo. E
pensare che ci avevo appena parlato, pochi giorni prima, il giorno prima,
forse…».
Si espresse con uno
sguardo ambiguo, dando l'impressione di non rendersi realmente conto di quel
che dicesse, rafforzando l'ipotesi che vivesse in un mondo tutto suo, popolato
da chissà quali discutibili creature.
La Clelia la
compatì con un turpe ghigno, guardandola avviarsi verso casa con il solito
passo traballante.
«Vado anch'io»,
disse la Cesira, ninnando il capo.
Strada facendo, pensò
a tutto e niente, essendo troppo agitata per riflettere con successo su
qualunque cosa. D'un tratto le sembrò di rivivere la mattina del 3 agosto,
quando per prima si rese conto che don Filippo era scomparso. Provò lo stesso
vago senso di nausea e la sensazione che non avesse più appigli ai quali
aggrapparsi. Abbandonata a se stessa come la foglia d'autunno ingiallita, che
al primo alito di vento perde per sempre la sua esuberanza. Sentiva di avere
smarrito la propria identità, calata in un silenzio potenzialmente letale. Si
sentì vecchia e scoraggiata.
Cercò sollievo
succhiando lo stelo di una pianta di romice, che da bimba masticava come una
capretta al suo primo giro fra i campi. Sapeva che in grosse quantità faceva
male ai reni, ma nella situazione in cui si trovava, non riuscì a identificare
conforto migliore. Percepì un minimo sollievo notando che, di fronte alla casa del
prete, c'era già il Giannino, con la faccia tirata.
«Cesira, è
appena stato qui un pezzo grosso della curia milanese».
«Cosa stai
dicendo?».
«Era un tipo
vestito di nero, forse un prete, serissimo. Ha chiesto a un paio di donne, dove
fosse la casa del parroco ed è giunto fin qui con un diavolo per capello. C'ero
io, per caso, e mi ha lasciato questa, da consegnare agli uomini del villaggio,
al sindaco o al Marengo…».
Era una lettera.
La Cesira la girò sotto sopra per capire di cosa si trattasse e benché non
sapesse leggere perfettamente, capì benissimo il nome del mittente:
l'arcivescovo Carlo Maria Romilli.
27.
La aprì senza
tentennamenti.
«E'
dell'arcivescovo».
La più alta
carica religiosa milanese, in città dal 1847, aveva saputo la notizia da
Stefano Galimberti, amico del sindaco Boffalora, di passaggio da Vimercate per
una serie di affari legati ad alcuni campi in affitto dalle parti di Masate; da
tempo inseguiva l'idea di poter allargare i suoi possedimenti terrieri verso la
bergamasca, convinto che la mezzadria rappresentasse il futuro.
«Aiutami a
leggere cosa c'è scritto».
Il Giannino
strabuzzò gli occhi. Erano poche righe, vergate da una mano sicura e autorevole.
In esse l'arcivescovo chiedeva ai paesani di Burago di tenere a bada la lingua,
perché in fondo nessuno poteva dire realmente quel che fosse accaduto al povero
don Filippo; e certe illazioni non andavano alimentate, mettendo in cattiva evidenza
la chiesa. Poi ordinava di procedere con una celebrazione eucaristica a tutti
gli effetti, che avrebbe officiato un prete della zona, opportunamente scelto
dalla diocesi milanese. Concludeva con un saluto e una benedizione.
«Santa Maria
Vergine», esclamò la Cesira.
«Allora anche
l'arcivescovo ha saputo».
Passò Modesto
Galli con un rastrello sulle spalle e il solito bruciore allo stomaco che lo
tormentava da diverse settimane.
«Si è saputo
qualcos'altro?».
«E' arrivata una
lettera dall'arcivescovo», disse il Giannino.
Modesto arrestò
il suo cammino, stupito dalle parole del giovane.
«Dell'arcivescovo?».
«Leggi qui».
Ma Modesto non
sapeva leggere, non essendo mai andato a scuola.
«Dimmi tu cosa
c'è scritto».
Il Giannino
lesse di nuovo il contenuto della missiva e dondolò il capo, marcando la
solennità del momento.
«Allora si è
proprio ammazzato», disse Modesto.
«Su, su»,
blaterò la Cesira, «non stiamo qui a raccontarcela adesso. Avete visto cos'ha
scritto il Romilli. Non parliamo a vanvera e teniamo al guinzaglio la lingua.
Ormai quel che è successo è successo, e nemmeno il padreterno potrà cambiare le
cose».
«Giannino, cosa
succede?».
Era la Stella
Magnaghi che, spuntata dal nulla, stava andando a recuperare un po’ di acqua
dal pozzo dei Pangratà, dietro alla casa del parroco. Il ragazzo le spiegò tutto.
«Oddio. Che
dice?».
«Di non spargere
la voce. Non vuole fare sapere in giro quel che è accaduto a don Filippo».
La Stella corrucciò
la fronte, incapace di esprimere un'opinione, per una faccenda che giudicò
troppo grande e sofisticata per la sua piccola mente provinciale. Fino a quel
momento la sua vita non aveva avuto altri scopi se non quello di assicurare
l'acqua e il mangime ai polli e ai tacchini della famiglia. Se ne andò per la
sua strada, presto seguita dal Galli e dal Giannino.
Rimase solo la
Cesira che, facendosi coraggio, varcò l'uscio della casa del parroco per
vegliare il cadavere e sistemare le ultime cose in attesa della celebrazione
prevista per la sera. Lo trovò peggio del giorno prima, ormai appannaggio di un
destino impossibile da decifrare per un comune mortale. I vestiti gli davano un
certo risalto, ma il colorito del volto e l'espressione erano davvero
spaventevoli. Spalancò le finestre terrorizzata dall'idea che il fantasma del
prete potesse aggirarsi per la stanza e prendersi gioco di lei.
28.
Prima delle
otto, col cielo terso e la solita profumatissima atmosfera campagnola, gran parte
dei buraghesi cominciò a sfilare di fronte alla casa del pievano. L'aria
sommessa, il passo mogio, la consapevolezza che mai prima d'ora si fosse
verificato un fatto tanto macabro in paese, si leggeva nello sguardo di chiunque;
compresi i più giovani, che avevano rinunciato a qualunque ludica velleità. All'ora
della veglia c'erano tutti tranne Marta Bucchi, ma la sua assenza non stupì
nessuno.
«Starà
complottando con qualche altra strega», mormorò cinicamente Luciano Varisco.
Pinuccio Villa,
a lui vicino, annuì corrucciando la fronte in segno di rassegnazione.
Venne a
officiare la cerimonia don Giuliano, il prete di Cavenago, molto amico di don
Filippo. Avevano fatto anche qualche anno di seminario insieme. E spesso si ritrovavano
per celebrare la messa alla chiesetta di Santa Maria al Campo, piccolo e antico
edificio religioso sul confine con Cambiago. Prima di iniziare la veglia si
raccolse ai piedi del fratello salito al cielo e pianse in silenzio,
pronunciando qualche enigmatica frase in latino. La Cesira gli chiese se aveva
cenato e se desiderava qualcosa per "tenere su il cuore".
«Sono a posto,
grazie».
La guardò con
l'aria disfatta.
«Pensiamo al
nostro don Filippo».
Si alzò e prese
a recitare il rosario, fra i singhiozzi e i sussulti dei presenti. Le donne
indossavano l'abito più nero che avevano e un velo leggero calava sui loro occhi
privi di speranza; le più pie erano riuscite a ritagliarsi un posto d'onore ai
piedi del feretro e ululavano al cielo la loro pena, guidati dal verboso
incedere di don Giuliano.
Gli uomini, in
mano il cappello, uno di fianco all'altro, accompagnavano con morigeratezza la liturgia,
stanchi per la pesante giornata che avevano sulle spalle, ma felici di rendere
omaggio al prete trovato morto. Luigi Brambilla e Luciano Brioschi a fatica
riuscivano a tenere gli occhi aperti e non avrebbero desiderato altro che
sdraiarsi, dopo aver tracannato un bel bicchiere di grappa.
Dalle parti
dell'ingresso laterale della chiesa c'era l'Ambrogino. Sussurrava l'Ave Maria, quasi
avesse paura di far sentire troppo la sua voce. All''improvviso percepì la
sensazione di essere osservato. Non si sbagliava. Era la Lina, che non aveva ancora
notato, a pochi metri di distanza, sigillata nel raccoglimento spirituale di mamma
e papà; candida in volto, con gli abiti impolverati e la solita catenella che
gli avevano regalato i nonni in occasione della Cresima, la trovò idilliaca
come sempre. La ragazza si accorse dello sguardo contraccambiato e abbassò la testa,
arrossì, ricordando divertita lo scandalo che avevano sollevato imboscandosi
tempo addietro lungo le rive del laghetto.
L'Ambrogino fu
felice di sentirla tanto vicina, ma trattenne la contentezza disserrando ridicolamente
le labbra. Non poté, però, fare a meno di soffocare lo stupore, quando l'uomo
che aveva di fronte, Palmiro Sironi, con qualche venerdì in meno, si lasciò
scappare un peto feroce che rumoreggiò per tutta la chiesa, troppo tardi redarguito
dall'anziana madre con uno scappellotto sulla nuca.
«Palmiro sei
tutti noi», blaterò alle sue spalle Calimero Biffi, punzecchiando l'Ambrogino
sulla schiena.
Fu difficile per
entrambi non scoppiare a ridere come bimbi all'arrivo della Befana; ma
l'occhiata austera di Mario Porta riportò in men che non si dica l'ordine fra i
fedeli.
La veglia si
risolse in un'ora. I buraghesi, alla fine, in religioso silenzio, così come
erano arrivati, fecero ritorno alle loro case. La Lina e l'Ambrogino si salutarono
con un sorriso pieno di sentimento e la convinzione di poter presto tornare a
parlare del loro amore.
29.
Rimasero al
cospetto del prete scomparso il Marengo e il sindaco, assonnati e avvinti da
una tragedia che ancora non riuscivano a mettere a fuoco.
«Certo, è tutto
così strano», commentò il Boffalora.
«Ancora non mi
raccapezzo», controbatté il Marengo.
«Era con me
l'altro giorno, mi sembrava il don Filippo di sempre. Abbiamo parlato dei
prossimi lavori da fare in chiesa, del tetto che perde e delle fondamenta che
cominciano ad accusare il peso degli anni».
Un soffio di
aria fresca giunse dalla finestra principale, dove giaceva il cadavere del
curato, colpendo sulla fronte i due paesani, che godettero dell'improvvisa
ventata di ossigeno. Forse stava, finalmente, cambiando il tempo.
«Sarà il caso di
chiudere», disse il Boffalora, «non vorrei che volasse via qualcosa».
«Aspetta,
aspetta un momento», replicò il Marengo, con tono sostenuto.
Dalle imposte
filtrò un raggio di luna più potente degli altri che finì per rischiarare una
parte del capo della salma, rimasta fino a quel momento parzialmente adombrata
dalla chioma, non ancora sistemata per l'estremo viaggio. Il Marengo abbandonò
la sedia e in un paio di balzi raggiunse il prete, per scrutarlo da vicino,
come era solito fare con le monete più antiche che gli capivano fra le mani e
per le quali nutriva una passione smodata. Gli girò intorno tre o quattro
volte, mentre il sindaco lo seguiva con aria stupita.
«Cosa stai
combinando?».
Il Marengo non
rispose, preso, all'improvviso, da un dubbio colossale; che si materializzò del
tutto, quando si incaponì sulla parte alta della testa di don Filippo,
scoprendo qualcosa che lo lasciò basito.
«Raimondo…».
Il sindaco lo
fissò perplesso, trovando il comportamento del compaesano ridicolo, ma preoccupante.
«Vieni qui un
attimo».
Boffalora fece
spallucce, ma soddisfò il desiderio del Marengo, portandosi senza replicare a
due passi dal feretro.
«Qui».
«Cosa?».
«Qui dove la
luna fa luce, avvicinati, prova guardare anche tu e… non fare quella faccia».
Il Marengo puntò
l'indice su una specie di gibollo.
«E' viola»,
disse il Boffalora, «non dovrebbe stupire con tutto il tempo che ha passato in
acqua».
«Non dico il
colore. Guardalo dalla mia posizione, di traverso, non ti sembra…».
Anche Boffalora
sbigottì.
«Diamine, è un
bernoccolo».
«Lo vedi anche
tu allora, e non ti dice niente?».
Il sindaco contemplò
l'amico incuriosito, non capendo dove volesse arrivare. Il fatto che ci fosse
un evidente bitorzolo nei pressi della tempia destra, poteva essere tanto
interessante, quanto superfluo. Ma il Marengo non fu dello stesso avviso.
«C'è qualcosa
che non va».
«Vorresti dire
che…».
«Vorrei dire che
uno che muore annegato non si trova anche un gibollo di queste dimensioni sul
cranio. L'acqua attutisce i colpi, e non ha senso credere che possa aver
sbattuto violentemente la testa lasciandosi andare, di sua volontà, nelle acque
dello stagno».
Zittirono
entrambi, pervasi da un terribile sospetto, ma nessuno dei due ebbe il coraggio
di palesarlo. Quel bernoccolo suggeriva che don Filippo potesse essere stato
colpito da un oggetto contundente, prima di finire divorato dalla palude. In
tal caso, il quadro delle indagini sarebbe potuto cambiare completamente. Significava,
forse, dovere ripartire daccapo, senza considerare solo l'ipotesi che il prete
potesse essersi ammazzato; qualunque fosse il reale motivo della morte del
curato, di certo la faccenda appariva ora molto più complessa di quella
considerata fin lì.
30.
«E se l'avesse
sbattuta contro un sasso del fondale?».
Il Marengo non
credé all'amico.
«Impossibile. Il
fondale dello stagno è melmoso, non c'è traccia di sassi. Ieri buona parte di
noi è entrata per recuperare il corpo di don Filippo e ci siamo ben resi conto
della poltiglia che lo caratterizza. Pinuccio, per poco, non faceva una brutta fine,
ancora mezzo metro e addio».
Il sindaco lo
guardò conturbato.
«Stava
annegando. E' un miracolo che si sia salvato», affermò, chiaramente, il
Marengo.
«Eppure il
biglietto che ha trovato il Giannino parla chiaro».
Il Marengo
zittì.
«Non ci sono
dubbi che l'abbia lasciato don Filippo e c'era chiaramente scritto che…».
«So benissimo
quel che c'era scritto. Ma qui troppe cose cominciano a non tornare. Insisto. Questo
bernoccolo non mi convince. C'è sotto dell'altro».
Tentarono di
osservare meglio quella bizzarria epidermica, constatando che solo ora iniziava
a rendersi evidente, come se la botta non avesse ancora avuto il tempo
necessario per svelarsi come avrebbe dovuto, forse contrastata dal refrigerio
delle acque.
«Proviamo con la
candela», disse Boffalora, impugnando il cero più potente che brillava
nell'oscurità della stanza più grande della curia.
«Diamine»,
esclamò il Marengo, «guarda qui».
Anche il sindaco
del paese si accorse che di fianco al gibollo, praticamente nascosto da una
fulgida ciocca di capelli, era riscontrabile una profonda ferita.
«E' un taglio
bell'è buono, non c'è che dire. E non è certo il segno di una caduta, ma il
risultato di un colpo inferto da qualche arma».
«O da un
bastone».
Il Marengo notò
un taglio lungo circa tre centimetri, dal quale, verosimilmente, era
fuoriuscito parecchio sangue.
«Don Filippo è
stato pestato da qualcuno. Non può essersi tirato da solo una randellata del
genere. E il gibollo potrebbe essere stato il colpo di grazia».
Il Boffalora
rimase sulla sue. La disanima del Marengo poteva essere del tutto plausibile,
tuttavia non se la sentì di affermare che potesse sicuramente essere andata
secondo quest'ultima descrizione. Nell'enfasi che ci mise il Marengo, trovò
anche la sensazione che l'amico volesse a tutti i costi cercare un pretesto per
convincere se stesso che la morte del prete non potesse essere dipesa da una
sua volontà. E allora da chi?
«Scusa Marengo,
ma se, ammettiamo, don Filippo non si è ammazzato, chi avrebbe potuto
desiderare la sua morte?».
Il Marengo si
allontanò dal corpo del reverendo e tornò a sedere con la mente in subbuglio.
«Non so, non so
davvero, a questo punto mi sembra tutto una pazzia».
«E se fosse
accidentalmente caduto nello stagno?».
«Ma le botte
prese non possono alimentare questa tesi».
«Magari le due
cose non hanno un legame fra loro. Don Filippo potrebbe essersi fatto male e
poi essere caduto nello stagno».
Si guardarono
rendendosi conto che, per quest'ultima ipotesi, le percentuali, oggettivamente,
rasentavano lo zero.
«Sarebbe il
colmo dei colmi. No, non è percorribile questa strada. Don Filippo, supponiamo,
dovrebbe avere pestato la testa contro qualcosa, poi essersi beccato una specie
di coltellata, praticamente nello stesso punto, e infine essersi diretto allo
stagno, dove non va mai, per cadere accidentalmente in acqua».
«Del tutto
inverosimile».
«Eh già, non ci
sono dubbi».