venerdì 30 settembre 2011

Parco Sempione


non si fa gran fatica a trovarsi altrove ascoltando un disco come questo dove non esiste la batteria dove non esistono i rumori dove non esiste la capacità di fischiare ma c'è tradizione e qualcosa dei national e qualcosa di aspettato come l'indiano che ti vende una rosa mentre te ne stai accovacciato con una mora su una panchina del parco sempione dove più di sessant'anni fa tuo nonno guardava il cielo

giovedì 29 settembre 2011

Affari condominiali: primo piano, appartamento D


Viveva sola dal 1983 e mai si sarebbe immaginata di incontrare, all’alba dei quaranta anni, l’uomo giusto per lei. Lo aveva conosciuto in occasione di una gita col CAI di Agrate, associazione fra le meglio avviate del paese, presieduta da un manipolo di entusiasti camminatori e scalatori; fra questi c’era anche il fondatore dell’associazione, tal Vittorio Biancotti, titolare di un negozio di abbigliamento sportivo a Barzanò. L’escursione prevedeva una passeggiata in Valsavaranche, nel cuore del Gran Paradiso; una gita per tutti, compresi coloro che non hanno un particolare feeling con piccozze e scarponi. Innanzitutto l’arrivo a Degioz, capoluogo della valle, grumolo di case ricoperte di ardesia, pressoché disabitate durante l’inverno, ma prese d’assalto con la bella stagione; dopodiché la lunga e panoramica scarpinata verso le pendici perennemente imbiancate del Gran Paradiso: dal rifugio Chabod era possibile (ed è ancora oggi possibile) raggiungere la vetta del quattromila, ma anche le cime adiacenti, fra cui la pericolosa Grivola, un centinaio di metri in meno di altezza rispetto al gigante del parco. Cinzia Gariboldi non andava spesso in montagna, ma da un po’ di tempo, più o meno dal 1984, aveva deciso di prendere attivamente parte al gruppo di appassionati agratesi; s’era finalmente convinta a uscire un po’ di più dal suo guscio, frequentando gente nuova, e abbandonandosi a nuove ipotetiche corse post adolescenziali. Nel 1986 non c’erano così tante alternative per fare comunella; e dunque, quella di far parte di un gruppo associativo avviato, meglio se dinamico e sportivo, era fra le più gettonate. Dalla sua anche una presenza di tutto rispetto, che verosimilmente non avrebbe dato fastidio ai veterani, con legami interpersonali cementati da esperienze non solo montane, se non a qualche zitella in cerca di un’anima gemella che non avrebbe trovato mai. Aveva sulle spalle quaranta primavere, ma poteva tranquillamente considerarsi nel fiore dei suoi anni. Non ne dimostrava più di una trentina, aveva un visino grazioso, nemmeno un capello bianco, né rughe particolarmente infingarde. Si abbigliava come capitava, senza troppo badare al look, ma con un gusto mai pacchiano, anzi, talvolta con uno stile personale che in altri contesti sociali o in altri centri un po’ più all’avanguardia, avrebbe addirittura potuto dettar legge. La fregava, però, un carattere eccessivamente introverso, troppo chiuso, quasi sempre indeciso sul da farsi. Molte amiche l’avevano sollecitata a tirarsi fuori, non vivendo più l’ipotesi della vita da single come una condanna, ma come un’opportunità, una risorsa, contando sul fatto che solo così è possibile permettersi certe libertà, mentre tutti gli altri coetanei ostentando un benessere senza eguali, agonizzavano all’interno di matrimoni mezzi falliti e relazioni genitori-figli del tutto diverse da quelle immaginate al tempo del liceo. Eppure il suo atteggiamento nei confronti della vita non era cambiato granché, anche in seguito alle sollecitazioni delle compagne di ogni dì. Tuttavia, proprio grazie ai biancori del Gran Paradiso, aveva conosciuto Giorgio Esposito, trentacinquenne dai modi gentili e dalla parlantina sciolta, l’esatto opposto di lei, timida con chiunque e piuttosto riservata anche nelle condizioni di massima rilassatezza con gli amici e i parenti di una vita. Giorgio lavorava in banca, ma da tempo dedicava i suoi weekend ai monti. Aveva cominciato con chiodi e imbracature cimentandosi con le cime prealpine, tipo Grigna e Resegone, per poi puntare sempre più in alto, compresi vari quattromila. Il lavoro in banca gli assicurava un ottimo avvenire, e coi primi risparmi era riuscito a comprarsi un appartamento, un bilocale, nel cuore del paese, lungo la via principale. Ne andavano fieri i genitori di origine pugliese che per lui avevano fatto tanti sacrifici durante gli studi universitari, mantenendolo per un quinquennio in una casetta di Cologno Nord, a due passi dalla fermata della metropolitana. Durante la salita al rifugio Chabod l’aveva abbordata chiedendole della sua passione per la montagna. Lei gli aveva risposto in modo superficiale, quasi volesse fargli intendere che per rivolgerle la parola con tanta audacia, fosse necessario una specie di lasciapassare, fornito direttamente dal capo dei guardaparco. A modo suo sapeva mostrarsi sufficientemente snob, se non contraddistinta da un atteggiamento oggettivamente narcisistico. Ma Giorgio le era comunque sembrato fin da subito un tipo se non interessante, abbastanza simpatico, con quell’approccio alla vita e alle persone che credeva tipico dei meridionali, tale per cui non esiste niente di più bello che far amicizia senza porsi troppi problemi, ciò che invece non accadeva con gran parte dei suoi compaesani, sempre troppo attenti alle buone maniere e, di conseguenza, a frasi circostanziali che sapevano di falso lontano chilometri.
“Io sono un abitué della catena alpina”, le aveva raccontato Giorgio, dopo aver rotto il ghiaccio, indifferente alle esitazioni della nuova conoscente. “Benché sia di origini pugliesi, ho un debole ‘malato’ per la montagna e non di certo per il mare. Nella mia vita ho già raggiunto numerose cime, fra cui il Monte Rosa, il Gran Paradiso e il Bernina. Prossimamente non mi dispiacerebbe spostare la mia attenzione sulle Dolomiti. C’è l’intera area bellunese ancora tutta da esplorare e conquistare. Non sono cime troppo elevate, ma l'atmosfera che si respira in quei luoghi è a dir poco magica”.
Cinzia l’aveva ascoltato con vivo coinvolgimento, divertita dal suo pavoneggiarsi: narrava delle sue principali conquiste in montagna, come se non ci fosse niente di meglio di cui sparlare, ma riusciva a non apparire arrogante, semmai buffo e comico. Il fatto che avesse potuto vincere simili traguardi, dove in molti, secondo cronache risapute, ci avevano addirittura lasciato la pelle, la incuriosiva e le regalava una sorta di impercettibile eccitazione che la portava a osservarlo con occhi maliziosi e luccicanti. Valutava inoltre il fatto che lei non era mai arrivata a tanto, e mai ci sarebbe arrivata, ché a onor del vero non era ancora riuscita ad adattarsi totalmente alle altissime quote, quelle a cui un autentico amante della montagna dovrebbe ambire. Ma a lei, tutto sommato, andava bene anche così: le bastava toccare quota tremila per godere di sensazioni così forti da non voler cercare altro. Aveva deciso di non sfidare più le alte cime – quelle, dunque, superiori ai tremila - in seguito a un’esperienza vissuta in Val Veny, con un attacco di panico da record, così forte da ipotizzare l’intervento dell’elisoccorso; poi non era intervenuto nessuno, perché lentamente, nel giro di un'oretta, tutto era tornato come prima. Era un periodo davvero duro, l’ennesimo tentativo amoroso – con il direttore del palazzetto dello sport di Brugherio - era andato a vuoto, e in quel frangente si era sentita sola come raramente le era capitato nella vita; lo spasimante le stava dietro giusto i primi tempi, con il calore e la partecipazione che si conviene a qualunque love story degna di chiamarsi tale, ma poi, all'improvviso aveva cambiato atteggiamento, mostrandosi troppo frequentemente e inspiegabilmente freddo e distaccato; cosa fosse accaduto di preciso non era riuscita a capirlo, ma era viva in lei la sensazione che fosse comparsa un'altra donna che gli aveva completamente rintronato testa e cuore; lo aveva intuito percependo sui colletti delle camicie un profumo che non gli apparteneva. Aveva pertanto accettato di fare una scampagnata con alcuni colleghi di lavoro, credendo che la cosa potesse risollevarle un po’ il morale. In realtà le era solo servito a rendersi conto che sarebbe stato meglio per lei non muoversi più da casa, finché le sue condizioni psichiche non si fossero riequilibrate. Il problema è che fra le alte cime si lasciava condizionare dalla mancanza di ossigeno e ben presto, oltre tot metri, andava in iper-ventilazione, mandando in fumo ogni buon proposito di trasformarsi in una provetta scalatrice. Sapeva benissimo che si trattava di un problema psicosomatico, come sapeva, però, che non l'avrebbe mai risolto: dopo i 40 tanto valeva rassegnarsi a quel che si era, senza tirarsi troppe paranoie. In fondo, anche certe fobie, erano in grado di caratterizzare una persona, rendendola in qualche modo unica e universale. Ma continuava ad amare la montagna, dove percepiva una libertà assoluta, vicina alle nuvole, e a quel Dio al quale non smetteva di credere con tutte le sue forze e la sua volontà. La sua fede era perlopiù frutto dei tanti anni trascorsi in oratorio, prima come allieva catechista, poi lei stessa come educatrice. Molte ragazze più giovani, passate dai suoi sermoni, mai troppo noiosi per la verità, incontrandola in giro per il paese, non perdevano occasione di scambiare con lei due chiacchiere, in virtù dei bei tempi passati insieme, non solo nella struttura donboschiana, ma anche in qualche pizzeria della zona o convegno dell'Azione Cattolica. La circostanza la riempiva di speranza e orgoglio. Vedeva Dio ovunque, pure nella sfortuna di non essere ancora riuscita a mettere su famiglia. Non si faceva più troppe domande: se era così che voleva il Signore, così sarebbe stato, senza tante storie. Ma i giochi, evidentemente, non erano per nulla fatti.
“Sei pugliese?".
"Pugliese doc".
"Pugliese di dove?”.
“Ostuni. Conosci Ostuni?”.
“Non bene, ma so che da quelle parti ci sono posti meravigliosi… ci sono stata un paio di volte, facendo visita a una mia amica che abitava a San Vito dei Normanni".
"San Vito! Ci andavo sempre da ragazzino. Mi recavo con gli amici di scuola al Caffè Bagnardi, vicino al municipio. Presente?".
"Non saprei, sono stata parecchio tempo fa…".
“Il Salento, comunque, è un posto magnifico, con angoli che non si possono dimenticare… Se uno vede il Salento non può fare a meno di tornarci”.
Cinzia l'aveva guardato stupita:
“Perché, allora, vivi a Milano?”.
“Sono costretto per lavoro, ma spesso ci torno. E qui, in ogni caso, ho scoperto le Alpi, che mi danno le stesse sensazioni che provo quando visito la mia terra d’origine”.
Dopo la gita avevano preso a frequentarsi con una certa titubanza, poi con sempre maggiore convinzione. Una sera erano andati a passeggio a Montevecchia. Il sole era già calato da un po' e per le stradine del promontorio brianzolo si respirava una tiepida e profumata atmosfera. Le lucine dei paesini sottostanti abbellivano la cornice nella quale si ritrovavano calati, fino a far prendere loro coraggio e lasciarsi andare una volta per tutte. In questo idilliaco contesto s'erano presi per mano per la prima volta, di poco in anticipo sul primo bacio ufficiale consumato sulla balaustra della chiesa che guardava verso gli Appennini. Cinzia era diventata rossa tutto d'un colpo. Non si ricordava il giorno del suo ultimo bacio, un bacio vero, pieno di sentimento, non certo come quelli ricevuti dal brugherese, sporcati da una morbosa viscidità. Giorgio aveva tutto un altro stile: era a modo suo romantico e dolce, proprio ciò di cui aveva sempre avuto bisogno. Era avvenuto un miracolo. Sicché Cinzia, in poco tempo, era diventata un’altra persona, sconosciuta anche alle amiche storiche, Francesca e Marilena, con cui aveva vissuto le più belle esperienze giovanili e con le quali chissà quante volte da ragazzine s'erano scambiate battute su questo o quell'altro spasimante: s’erano confidate le due amiche di Cinzia, dicendosi che non l’avevano mai vista così euforica, così sicura di sé ed entusiasta della vita. Nei suoi occhi, spenti e mogi per così tanto tempo, all’improvviso, aveva cominciato a brillare il sole, per la gioia sua e dei genitori, finalmente felici di poter accompagnare una della quattro figlie all’altare. Le sorelle, nel frattempo, erano state colpite da una vivace ansia, legata al fatto che – essendo tutte e tre single - sarebbe ora toccato a loro; si sarebbero, peraltro, sentite addosso gli occhi di tutto il clan Gariboldi, particolarmente feroce e insistente con chi a una certa età non ha ancora messo su famiglia. Avevano deciso di sposarsi dopo nemmeno un anno dal primo incontro alle pendici del Gran Paradiso. Sarebbero convolati a nozze nella chiesa di San Zenone, a Omate, dove viveva Cinzia, e dove anche a Giorgio avrebbe fatto piacere poter abitare: si trattava, in fondo, di spostarsi solo di un paio di chilometri, nulla di che, considerando la sua anima pellegrina. Il matrimonio era stato fissato per il mese di luglio, e dunque al momento del patatrac di Chernobyl, mancavano solo tre mesi al lieto evento. Già avevano comunque preparato ogni cosa nei minimi dettagli - la lista nozze, i fiori, i regali, le bomboniere... - soffermandosi anche sulle letture evangeliche più appropriate per affrontare da degni cristiani il convolo. Come testimoni, Cinzia aveva scelto Marilena e Patrizio, un cugino di secondo grado col quale soleva confidarsi durante le estati trascorse nella casa presa in affitto dai suoi a Milano Marittima; Giorgio aveva invece puntato sul fratello maggiore Roberto, e su Anna Consoli, amica di una vita, ex compagna di università, con la quale, peraltro, aveva avuto una mezza tresca durante l’estate di fine anni Settanta. Don Alberto Girardelli, giovane sacerdote incontrato da Giorgio in occasione di una visita a una comunità di Cologno per il recupero dei tossicodipendenti, avrebbe officiato la cerimonia.
L’appartamento di Cinzia era il regalo dei genitori per i suoi 36 anni: da tempo la ragazza sentiva la necessità di rendersi indipendente, e i suoi vecchi, non avendo particolari problemi economici, erano stati ben lieti di assecondare il suo desiderio, acquistandole l’appartamento D, al primo piano del "lussureggiante" palazzone omatese. Sarebbe stato, probabilmente, più difficile con le altre figlie della coppia, ma intanto sistemarne una non poteva che essere considerato un successo, anche dal punto di vista imprenditoriale, gli immobili valeva sempre la pena conservarli come bene prezioso, più di qualunque sterile conto in banca. Era tipico dei brianzoli più veraci, d'altronde, quello di accaparrarsi anche a costo di sacrifici inauditi un capitale immobiliare, per poi tramandarlo di generazione in generazione. Ma era, certo, soprattutto il pretesto per convincere Cinzia a prendersi una volta per tutte le sue responsabilità, e magari con più disinvoltura scorgere, al di là dell’orizzonte dei soliti quattro amici, l’uomo giusto per lei, col quale mettere al mondo figli e cominciare a vivere la sua vita a tutti gli effetti. Premonizione quanto mai azzeccata.
“Spero sia di tuo gradimento…”, le aveva detto il padre, disposto a tutto pur di rendere felice la primogenita.
“Va fin troppo bene, papà, stai scherzando?", aveva ribattuto la figlia, ringraziando allegramente il genitore. “C'è tutto, ed è così spazioso…".
"Non manca proprio nulla. Ci sono perfino le scope per ramazzare!".
Cinzia non aveva colto l'ironia del genitore, ed era andata avanti con i suoi ragionamenti.
"Anzi, pensandoci bene… per me potrebbe addirittura essere troppo grande!".
"Così sarai a posto per un bel po’".
Cinzia aveva abbracciato il padre, benché raramente si trovasse a manifestare così apertamente i suoi sentimenti.
"Davvero, papà, non potrò mai ringraziarvi a sufficienza…".
Di fatto, Cinzia non aveva tutti i torti. Era un tre locali, ideale per una famiglia, ma forse eccessivamente ampio per una single. Tuttavia, come aveva accennato il padre, tanto valeva organizzarsi fin da subito per l’avvenire: semmai avesse incontrato l’anima gemella, non avrebbe dovuto perdere tempo a cercare il nido più appropriato. Nonostante le numerose riflessioni fatte, anche all’alba dei quarant’anni, la speranza di conoscere un uomo in grado di soddisfarla, e al quale lei stessa avrebbe potuto dedicare tutto il suo divenire, era tutt’altro che svanita. Perfino la cugina Elisa Gariboldi, che abitava a Macherio, in una casa del centro ristrutturata, s’era fidanzata tardi, guadagnando le luci dell’altare ormai oltre la quarta decade.
“Nulla è precluso al volere del Signore”, solevano pensare in tandem.
Spesso i loro ragionamenti si riferivano alla vicenda biblica di Giobbe, con tutte le traversie che aveva dovuto affrontare… Ma alla fine il Signore era stato clemente con lui e l'aveva beneficiato di ogni dono. Dio, dal loro punto di vista, aveva già disegnato il cammino di ogni singola persona… e, dunque, bastava solo avere un po’ di fiducia in lui per vedere esauditi i propri sogni. Ma se anche le cose non fossero andate come previsto, non ci sarebbero stati problemi; nell'aldilà Dio avrebbe ricompensato tutti, specialmente chi aveva patito di più in Terra. Si infervoravano quando affrontavano l'argomento, paragonandosi addirittura ai cristiani che, nell'antichità, arrivavano a farsi divorare dai leoni, pur di non rinnegare il Verbo. Erano tutti temi assai cari anche al futuro sposo, da sempre devoto alla religione cattolica.
L’ingresso della nuova casa di Cinzia si apriva su un ampio salone, preceduto da un acquario lasciato dal vecchio proprietario, un figuro di cinquant'anni migrato all’estero per lavoro. Al suo interno sguazzavano felici tanti pesciolini tropicali, acquistati da un rivenditore all’ingrosso di Pessano, del quale anche i suoi genitori beneficiavano per rinfoltire di pesci rossi della fontana che troneggiava nel mezzo del giardino della famiglia, sulla strada per Monza. Al di là di esso c’erano due divani composti a L, e un piccolo tavolino nel punto di convergenza dei due sofà: l’optimum per appoggiare qualche giornale acquistato di fresco, o un bel mazzo di fiori. La sera, Cinzia, grazie a questa confortevole soluzione, non disdegnava accompagnarsi a un bel film, meglio se di quelli tipicamente femminili, da lacrimucce nel finale, con una tazza fumante di tisana ai frutti di bosco che tra un sorso e l’altro, proprio sulla superficie del piccolo mobile poggiava con delicatezza. Era una consuetudine che la rilassava e in qualche modo la metteva di buonumore, facendola sentire parte di un grande progetto universale. La sala introduceva a una breve anticamera che si apriva prima di tutto sulla cucina, arredata con gusto, con tinte rossastre, poi sulle due camere e sui bagni. Uno dei due servizi era ancora spoglio e disadorno, con la porta quasi sempre chiusa: così l’aveva lasciato l’ex inquilino, e Cinzia non aveva ancora pensato di sistemarlo, non c’era tutta sta fretta, anche perché un bagno le bastava e avanzava. In fondo all’anticamera c’era un minuscolo disimpegno riempito da scope, spazzoloni, detersivi e saponi. In quella sede aveva anche sistemato dei vecchi dischi del padre, perlopiù raccolte di canzoni di guerra registrate da cori locali, fra cui quello di Carugate che godeva di un certo prestigio.
Benché abitasse a Omate ormai da tre anni, non aveva ancora preso confidenza con gli altri inquilini, specialmente quelli del pianerottolo che incontrava quasi tutti i giorni; abitando al primo piano s’era abituata a salire le scale, facendo a meno dell’ascensore, ma gli incontri con i vicini erano comunque frequenti, e potevano verificarsi nei momenti più disparati: trasportando la spazzatura, parcheggiando la macchina in box, fermandosi a bagnare le piante del balcone, interloquendo con il postino che nonostante gli anni di esperienza continuava a sbagliare le buche delle lettere. Quando il telegiornale delle 20.00 aveva diramato la notizia del disastro di Chernobyl, Cinzia era appena rientrata dall’Esselunga di Vimercate: da vari giorni meditava di fare una grossa spesa, così da non dover ricorrere per un po’ al minimarket di Agrate, dove lavorava una cassiera che non sopportava. Si chiamava Larissa Magni e il suo modo di fare la indisponeva: le chiedeva ogni volta che la incontrava se non aveva trovato il principe azzurro, e se e quando si sarebbe sposata. Non capiva che dopo un po’ certe domande cominciano a dare fastidio? Ma forse era per via della frustrazione costante che la contraddistingueva, non avendo mai avuto un uomo e per via di un appeal da scaricatore di porto; da qualche mese, peraltro, era vittima della paradontite, circostanza che la portava ad avere un alito pestilenziale, facendo tremare chiunque si trovasse a passare dai suoi paraggi.
Prima di guadagnare la porta d’ingresso del proprio appartamento, con due dei quattro sacchetti della spesa riempiti fino all’orlo (gli altri due erano ancora nel portabagagli), aveva scambiato due parole con la moglie di Andrea Canali che, con il suo perenne stato di alienazione mentale, in qualche modo riusciva a farla sentire a suo agio. Paradossalmente era proprio con chi stava peggio di lei che trovava il coraggio di guardare al futuro con risolutezza e stoicismo; chi viveva ai bordi della società, in silenzio, lontano da qualunque pretesto di farsi strada sgomitando, mettendo in luce i peggiori requisiti del genere umano… Si trovava, pertanto, perfettamente in linea con individui che normalmente venivano mantenuti a debita distanza dal popolino, poco predisposto a dar retta a chi non è conforme al vivere tradizionale. Fra questi c'erano anche un tal Pietro Castelli delle Gescal agratesi, le più famose case popolari, un ubriacone di prima categoria, ex operario della Falk; e Franco Rubini, uno che dopo essersi calato una pasticca di LSD a fine anni Settanta non si era più ripreso e andava in giro a dire che i nazisti continuavano a dominare il mondo a nostra insaputa. Con la Canali s'era incontrata presso il portone di ingresso, una pesante doppi vetri che divideva un piccolo atrio dal vano dell’ascensore, dove in estate si manteneva una costante frescura, e in inverno un confortevole tepore. Provava per lei e il suo moribondo modo di vivere una sincera pena; sicché dopo l’abituale buongiorno o buonasera di prassi, anziché fare finta di niente, aggiungeva puntualmente il classico, ma pur sempre cordiale, “come sta?” che metteva in moto l'ennesima affettuosa discussione. La signora Canali, che difficilmente dava confidenza agli omatesi, e ancor più a coloro che vivevano a pochi metri da lei, con la single dell’appartamento D si lasciava andare con piacere, giudicandola un’anima in sintonia con se stessa e sincera come pochi altri.
“Oggi andiamo abbastanza bene, ma sono tormentata dal mal di testa”, aveva mugugnato la Canali.
“Sarà anche per via della primavera”, aveva ribattuto Cinzia. “Con questa stagione è facile… subentrano una miriade di malesseri. Colpa anche della nostra sensibilità femminile…”.
“Gli uomini sono insensibili a tutto, e questa loro prerogativa gli garantisce riparo da ogni cosa”.
"Non so…".
C'era stata una piccola pausa di silenzio.
“A poter rinascere credo che molte di noi metterebbero la firma per vestire i panni di un uomo”.
“A volte, però, gli uomini con la loro insensibilità, sembrano più in difficoltà di noi”.
"Vorrei tanto crederlo. Mio marito non l'ho mai visto in difficoltà. Dagli una partita da seguire in tv, e gli passa tutto".
Cinzia aveva sorriso, prima di augurarle una felice cena. La notizia di Chernobyl, però, non le aveva provocato particolari emozioni. Ascoltava con interesse lo speaker, ma senza il comprensibile smarrimento che dovrebbe suscitare una notizia di questo calibro. Udiva parole a dir poco apocalittiche, ma era come se il suo cervello non si rendesse realmente conto della gravità della situazione. Era per via della condizione d'innamoramento che la contraddistingueva ormai da mesi e che la portava a vedere tutto come se un filtro rosa si fosse infrapposto fra i suoi occhi e la sua capacità di ragionamento. Il pensiero costante del suo Giorgio, di fatto, la allontanava da qualunque riflessione coerente, compresa quella relativa alle conseguenze di un inaspettato disastro nucleare. Uranio e plutonio erano nomi che aveva già sentito, ma ai quali non aveva mai dato alcuna importanza. Era – tanto per mettere in campo una correlazione a lei familiare - come quando aveva a che fare con la Formula Uno, realtà sportiva della quale sapeva a malapena ammettere l'esistenza di pneumatici di grande formato. E che odiava con tutte le sue forze. Non aveva mai capito cosa ci fosse di bello nel compiere come ebeti settanta giri di una pista a quasi trecento all'ora. E ancor peggio non si capacitava del fatto che ci fossero persone che per più di un'ora si mettono davanti alla tv a seguire il girotondo di piloti nascosti da caschi a dir poco appariscenti. A tenerla impegnata e a occupare mentalmente ogni frazione della sua giornata, c'era in verità tutto il trambusto dovuto all’organizzazione del matrimonio; circostanza che, mandandola in estasi, non le permetteva di mettere a fuoco come si dovrebbe un problema. Insomma, le fosse anche caduto un meteorite in casa, probabilmente non se ne sarebbe accorta. In giornata s’era confrontata con il futuro sposo sul complessino da ingaggiare per intrattenere gli invitati durante il pranzo nuziale. Giorgio conosceva un gruppo di amici che suonava musica country: i Melody Country Boys. A discapito del nome erano piuttosto bravi, giravano l’Italia con strumenti caratteristici come il banjo e il mandolino, e ogni loro live si trasformava in una festa di gran successo. Era un’idea, però, che non convinceva appieno Cinzia, pressoché digiuna di questo genere musicale, che ricollegava ai cowboy americani, e che non riusciva proprio ad assimilare a uno sposalizio.
“Ma sei certo di quel che dici?”, gli aveva chiesto.
“Se vuoi ti faccio sentire una loro cassetta, poi potremo decidere insieme…”.
“Temo sia un po' fuori luogo”.
“Io penso che sia originale”.
Giorgio non aveva insistito più di tanto, anche lui, del resto, in volo costante su una nuvoletta a metri e metri dalla superficie terrestre; e, dunque, tranquillamente indifferente all'ipotesi di dover rinunciare a un caldeggio particolarmente sentito. La sua era una semplice e divertente proposta, come lo era stata quella relativa a un amico del CAI che si sarebbe preso la briga di assisterli fotograficamente, ma se anche la futura moglie si fosse opposta alla sua iniziativa, non ne avrebbe certo fatto una malattia. Al momento delle digressioni su cesio e uranio, Cinzia era tutta presa dall’ipotesi che qualche invitato potesse seriamente non gradire un concerto di musica country, al punto da arrivare a commentare pubblicamente in negativo la performance, a discapito del clima festaiolo. Qualcosa che non avrebbe mai voluto potesse verificarsi. Lei conosceva bene i suoi invitati, fra amici e parenti, e sapeva benissimo che nessuno di loro aveva mai nutrito alcuna passione per la musica dei cowboy. Molti di essi ascoltavano musica pop italiana, capitanata da figure del calibro di Baglioni e Cocciante, o tutt’al più qualcosa di americano alla Michael Jackson; qualcuno amava i cantautori puri e impegnati, stile De Gregori o Guccini (ma erano mosche bianche); i suoi genitori, addirittura, non sapevano nemmeno che potessero esistere certe forme musicali, ancorati com’erano a evergreen di un’epoca trapassata, come Romagna Mia e Piemontesina. La musica country era come dire la musica dei campagnoli, sospettava, non di certo degna di far da contorno a un evento nuziale, al suo evento nuziale.
“Non fa parte del nostro costume e poi... chi li conosce i musicisti country e le canzoni che propongono? Di cosa parlano certe canzoni? E se poi nessuno le capisce?”.
Cinzia aveva cercato di trovare una soluzione al dilemma, ma senza particolare successo. A chi poteva chiedere? Lei non conosceva nessun suonatore... nessun musicista... in casa sua nessuno aveva mai preso in mano uno strumento, la musica veniva giudicata inutile fra i Gariboldi. Però si ricordava delle tante volte che le era capitato da giovane, con qualche amica, di recarsi in un ristorantino di Milano, zona Navigli, con un bel porticato colorato e profumato dai rampicanti, dove spesso faceva la sua comparsa un signorotto, bianco di capelli, che senza tante moine, prendeva a picchiettare sui tasti del pianoforte, ricamando suoni e melodie che potessero compiacere al meglio il pubblico. Ecco quel che ci voleva: un classico musicista di piano bar. Aveva avuto un lampo di genio, anche in questo, evidentemente, Dio le era stato solidale: macché country d'Egitto, un suonatore di piano bar, l'optimum. Quando lo speaker aveva preso a indicare le varie centrali sparse per il mondo, compresa quella di Caorso, a pochi chilometri di distanza dalla ridente Brianza, e i rischi inerenti la propagazione dell’onda radioattiva, Cinzia aveva ormai ben chiaro in mente ciò che avrebbe fatto: dopo cena si sarebbe messa in contatto con il suo lui, per comunicargli ufficialmente che avrebbero potuto fare a meno dei cowboy… ne sarebbe stato sicuramente felice. La sua idea, del resto, era decisamente più affascinante; considerato che gli italiani sono un popolo latino, ama la melodia, il romanticismo, mica le rudezze americane, di qualunque specie e categoria, un tipo che assecondasse l'animo nazionale, rappresentava, davvero, l'espediente più consono a benedire le orecchie degli invitati. Sicché, scolando la pasta, con un incalzante battito del cuore, aveva avuto l'ultima provvidenziale illuminazione: riguardava un cantante di piano bar ingaggiato dalla cugina Mirella, l’anno prima che s’era sposata ad Arcore. Un matrimonio sfarzoso al punto giusto, dove la musica aveva occupato con successo la parte finale del lieto evento; molti partecipanti si erano lasciati andare e avevano cominciato a cantare squarciagola, sollecitati dall'intrattenitore. Benché attempato e con un carisma pari a un incantatore di serpenti, lo showman aveva mostrato gran dimestichezza con tutte le principali canzoni italiane, comprese quelle di Baglioni & Co. Nel suo repertorio figuravano anche brani da osteria, che ottenevano sempre un grande seguito, e ballate popolari come La bella la va al fosso, La bella Gigogin e Me compare Giacometo. Il fratello di Mirella s'era alzato da tavola mezzo ubriaco, saltandogli al collo come un disperato, implorandolo di fargli un pezzo assurdo dei Gufi. Ebbene, anche in questo caso, era riuscito a risolvere la richiesta con la classe che solo un professionista poteva possedere. Inutile menare il can per l'aia: era l’uomo che faceva al caso suo.

domenica 25 settembre 2011

Senza retorica: "Primula"


Primula è la prima persona vissuta ad Agrate di cui si abbiano notizie certe. È stato possibile risalire a lei per via della demolizione di un muro della chiesa parrocchiale avvenuta verso la metà dell'Ottocento e riportante in luce un'epigrafe cristiana riportante le seguenti parole: Hic requiescit in Pace Primula quae Vixet in secuolo annus PL.M: XLV deposita sub V idus decem bres Boetius vivo cariss.coss. Indicano la sepoltura di una donna di nome Primula sul finire del V secolo. Alcuni storici l'hanno ricondotta alla moglie del console Severino Boezio, filosofo romano, nato a Roma nel 475 e morto a Pavia nel 525. In realtà non ci sono prove a suffragio di questa ipotesi, tuttavia è presumibile supporre che si trattasse di una persona di alto rango, degna di una cerimonia funebre di tutto riguardo. La canzone celebra Primula immaginandola chiacchierare con una ragazza dei nostri giorni: tante cose sono cambiate dai suoi tempi, ma le emozioni, la gioia di vivere, la curiosità delle persone (e le preoccupazioni per il futuro) sono rimaste le stesse. 
 

Recita la società
Con una falsa immagine
Gli uomini ridono di più
Se non si formalizzano
Prenditi quello che vuoi
Non te lo far ripetere
Sai perché quello che c'è
È un mondo indistruttibile

RIT. Ma sei tu quella lì
Con quella faccia da impero romano
E che ci fai ancora qui
Non te l'han detto che ormai non c'è più neanche un tempio pagano

Primula quanti anni fa
C'erano ancora gli alberi
Internet non fa per te
Non te la devi prendere
Capita un po’ tutti i dì
Che piova sangue e ruggine
Vittime senza un'età
Potresti non distinguerle

RIT. Ma sei tu quella lì
Con quella faccia da impero romano
E che ci fai ancora qui
Non te l'han detto che ormai non c'è più neanche un tempio pagano

Gli occhi tuoi contano di più
Se non nascondono lacrime
Parli a me console o re
Di questa terra magica
Comiche fatalità
Da tramandar nei secoli
Mali che non tornano più
Semmai si riconfermano

RIT. Ma sei tu quella lì
Con quella faccia da impero romano
E che ci fai ancora qui
Non te l'han detto che ormai non c'è più neanche un tempio pagano

2011

giovedì 22 settembre 2011

I modelli standard


Leonard Susskind
Lei è un poco di buono
Non sa nemmeno allacciarsi le stringhe
I suoi genitori l'hanno cresciuta in una porcilaia?
Vada a fare l'idraulico, presto
L'unico lavoro che le compete
Con quella zucca vuota che si ritrova
Niente a che vedere con i modelli standard

Largo ai saggi

Come se la narrativa in questi giorni fosse passata in secondo piano...




lunedì 12 settembre 2011

Brividi


Sparano
Sparano nella notte
E noi stiamo bassi che non ci beccano
Che luna speciale c'è stasera
Non trovi amore mio?
Ah, il mare
Te lo ricordi?
Le onde, Atene, la neve
Dio mio quanto tempo è passato
E adesso che sparano
Non sembra vero
Ma è così bella la vita
Anche quando sparano, non è vero?
Che c'è da temere?
Nulla
Non c'è nulla da temere
Il cecchino ha una buona mira
Non gli possiamo scappare
È tutto perfetto
È sempre stato tutto perfetto
Anche i brividi

martedì 6 settembre 2011

Piancada Odyssey


Pian cada
La signora
Dalle scale
Che non si faccia
Alcun male
La signora
Dalle scale

Pian cada

sabato 3 settembre 2011

Affari condominiali: primo piano, appartamento C


Non era da tanti giorni che s'era fissato coi numerosi e anonimi fiorellini gialli che crescono spontanei un po' ovunque, nella sua zona e probabilmente in gran parte dell’Italia. Il trip era cominciato nel momento in cui s'era reso conto che, al contrario delle apparenze, questi fiori erano fra loro molto diversi, assolutamente originali, ognuno appartenente a una specie botanica ben precisa. Si chiamava, dunque, tassonomia vegetale - suono lessicale comparso di recente fra l'amalgama dei suoi neuroni - la materia che avrebbe, contraddistinto sempre più da vicino il suo divenire, le sue giornate, la sua intima voglia di affacciarsi a un mondo che non poteva che giudicare cool sotto ogni aspetto. Troppe le cose da scoprire, curiosare, rinverdire… La parola derivava dal greco, ma non ricordava più il suo significato etimologico, recondito. L'aveva, comunque - e questo lo conservava ben chiaro in mente - udita per la prima volta dal professor Benito Galimberti, esperto agronomo, al soldo dell'Istituto Agrario di Limbiate, che frequentava da nemmeno un anno. Benito, di corporatura robusta e con un naso che ricordava quello di Cyrano - al quale molti giovani si appellavano per sfogare barbaramente le loro ansie, tirando in piedi assurdi sfottò - sapeva parlare di piante come nessuno al mondo, e il suo fervore aveva contagiato anche altri studenti. La passione di Guido, però, era incondivisibile dai suoi coetanei più vicini, quelli con cui aveva a che fare anche e soprattutto al di fuori dell’universo scolastico, per cui provava un affetto non scontato. Costoro, bontà loro, erano affascinati da aspetti del vivere quotidiano più consoni ai ragazzi di una certa età, in bilico fra la fanciullezza e fase post puberale. Comprendevano, per esempio, elaborazioni mentali per cercare di farsi più ragazze possibili, trucchi per ottenere i punteggi più alti ai videogiochi, stratagemmi per vincere la prossima partita di calcio, cazzeggi onomatopeici tipo quello di vedere chi riusciva a sputare più lontano, e altre malattie generazionali. Ma a Guido non importava granché: aggirarsi solo come un cane per i prati e i campi di Omate, Agrate, Burago, Cavenago, Pessano, tutto sommato non gli dispiaceva. Anzi, era per lui una goduria sopraffina. Se agli altri, quindi, non interessava dedicarsi con lui e come lui alla tassonomia vegetale, peggio per loro, il problema non era di certo di sua competenza. Amava, peraltro, al di là dell’aspetto puramente didattico, scientifico, del rincorrere i riflessi giallo-arancio di questo o l’altro capolino, il silenzio, la poesia degli incolti, il camminare mesto e misterioso delle nuvole, il tracciare fantasioso di sentieri infiniti fra le spighe di grano e le cime dei girasoli, talvolta rimandandolo a epoche ancestrali… Questione di sensibilità, di attitudini psico-sensoriali se non altro al di fuori degli schemi ordinari. Da ciò non è difficile intuire che non fosse quel che si può propriamente dire un carattere esuberante o estroverso. Stava bene anche solo, con i suoi misteri, le sue ambizioni, la sua eccitante voglia di scoprire le meraviglie della natura, un Darwin in miniatura.
Nel 1986, aveva appena quindici anni, ma già ragionava come un naturalista superesperto. È possibile, considerando tutti i quindicenni italiani, che non fossero molti (forse nessuno?), quelli come lui in grado di dare un nome corretto alla maggior parte delle piante che lo circondavano; e poi un significato alle dinamiche architettoniche di un formicaio, a temi controversi di natura etologica come l'imprinting lorenziano, al sofisticato mondo delle particelle subatomiche. In realtà nelle sue farneticazioni biologico-sperimentali non era sempre, proprio sempre, solo. L'accompagnava spesso nelle sue missioni paranormali un'amica, tal Rosalba Citterio, anche lei piuttosto distaccata dalle consuetudini giovanili dell'epoca e dai leitmotiv delle coetanee tutto sesso, rossetto e mascara. Viso scarno, occhi a palla, labbra quasi sempre  screpolate, ma non per questo meno aggraziata delle altre ragazze frequentate da Guido, Rosalba era una delle migliori del liceo scientifico di Vimercate. Era anche lei, dunque, una testa calda, una potenziale Rita Levi Montalcini o madame Curie o Jocelyn Bell, la scopritrice delle pulsar. Ed è proprio a quest’ultima studiosa che, pur non essendone del tutto conscia, si rapportava; tenuto conto del fatto che, al di là delle materie scolastiche studiate con rigore e meticolosità, e della corrispondenza intellettuale con l'amico con il pallino per i vegetali,  il suo vero amore erano le stelle: passava le ore con un binocolo a studiare le costellazioni e i pianeti, il profilarsi di un pioggia di meteoriti o le nuove fotografie giunte da qualche sonda spedita nel cosmo per svelare i retroscena di qualche nuovo corpo celeste. Il suo pianeta preferito era Giove, sul quale, però, ancora non capiva come si potesse camminare, presupponendo che su ogni pianeta si potesse camminare, visto che era definito un “gigante gassoso”. Dalle ricerche che aveva fatto il corpo celeste risultava caratterizzato da una spessa atmosfera, composta prevalentemente da idrogeno ed elio. Non se ne capacitiva. Cosa sarebbe accaduto se un uomo si fosse trovato a passeggiare sulla superficie gioviana? Sarebbe precipitato? Sarebbe precipitato fin dove? Sarebbe stato a galla? A galla su una superficie gassosa? Impossibile. Parole come afelio e perielio mandavano, quindi, in estasi lei; foglie bilobate e ciclo di Krebs creavano in lui piaceri provocatoriamente indicibili. Guido era, dunque, partito da una delle compositacee in assoluto più frequenti del territorio nazionale, fra le più stoiche del vimercatese, capaci anche di crescere in un anfratto di muro o fra un tombino e l'altro, il piattello, per poi risalire a tutte le altre, un universo assai cospicuo di insignificanti steli tenacemente protesi verso il cielo.
“Il piattello è il nome volgare”, sottolineava agli amici, che ridevano di questa sua attitudine, interrogandolo ogni volta che in compagnia si trovavano ad avere a che fare con qualche erbaccia, solo per il gusto di prenderlo bonariamente in giro, consapevoli del fatto che, in qualche modo, la cosa galvanizzava anche a lui.
“In realtà il suo nome scientifico è Hipochoeris radicata”, andava avanti Guido imperterrito, “la specie va segnalata in minuscolo, il genere in maiuscolo. Sono cose che i tassonomisti sanno bene, ma non la gran parte delle persone che per la prima volta si cimentano con la nomenclatura linneana. Ed è un gran peccato, ché la botanica a certi livelli assicura grandi soddisfazioni, molto più di materie di moda come l’ingegneria e l’economia”.
Hipochoeris radicata non era più un mistero per Guido, essendo una pianta caratterizzata da tratti perfettamente distinguibili da tutti gli altri fiorellini gialli osservati fino a quel momento. L'Hipochoeris cresce, infatti, con un gambo completamente privo di foglie, lungo parecchi centimetri, in certi casi rasentando il metro di altezza, una figura slanciata a tutti gli effetti, verso il tetto del mondo. Le foglie crescono ai piedi del vegetale, raccolte in una caratteristica rosetta, utilizzata anche in ambito culinario, per preparare succulenti insalate: così riportano molti testi dove l’aspetto botanico viene spudoratamente surclassato da quello legato alla cucina, motivo per cui gli appassionati di stomi e vacuoli non possono che imprecare il buon dio delle specie fotosintetizzanti. Non ci si può sbagliare; anche senza stare a controllare morbosamente le sue qualità floreali, riconducibili a tipici capolini a fiori ligulati di giallo intenso. Col piattello sarebbe, dunque, stato in grado di identificare nel giro di poche settimane anche il soncino, il tarassaco, il radicchio, la radicchiella, la barba di becco, la lapsana, la pilosella, l'erigero, tutte piante, appunto, con la stessa monotona prerogativa: il giallo più o meno chiaro, più o meno chiassoso, delle corolle. Conosceva per di più il nome di parecchi animali, compresi quelli meno significativi per l'immaginario collettivo, animali che molte persone non hanno non solo mai visto, ma di cui non hanno mai nemmeno sentito parlare, la si potrebbe chiamare deformazione professionale. Dovendosi, pertanto, concentrare su una categoria, riguardante la tassonomia faunistica, preferiva di gran lunga quella degli artropodi, suddivisibili in insetti, aracnidi e crostacei. Erano animali comparsi su per giù 400 milioni di anni fa, per i quali provava un amore pericoloso. Esapodi e ragni, in particolare, erano i suoi beniamini. La loro classificazione era ancora più ardua delle compositacee, tuttavia non perdeva occasione di studiarne le caratteristiche, al di là dell'aspetto meramente tassonomico. In cantina incontrava gli esemplari che lo incuriosivano di più, prevalentemente ragni e insetti primitivi, quasi completamente ciechi. Dei primi amava il loro comportamento pacifico e disinteressato, la loro eccezionale capacità di rimanere ore e ore immobili in attesa di una nuova preda; dei secondi la morfologia ritagliata su misura per vivere nel buio della notte eterna, che solo un anfratto terrificante, avrebbe saputo garantire. Più di una volta ne aveva catturato qualcuno, affogandolo nell’alcol, per poi asciugarlo e conservarlo in cassettine di plastica. Poi, però, la gran parte di essi veniva attaccata da funghi o microrganismi causandone la putrefazione repentina, con esalazioni immani che sconvolgevano casa Sangalli, mandando in delirio i capostipiti:
“Cos’è questo terribile tanfo?”, domandava angustiata la prima donna di casa, tristemente rassegnata alle provocazioni del tutto particolari del figlio. “Non avrai mica imbalsamato ancora qualche animaletto strano? Te l’ho già detto che certe cose preferirei tu non le facessi in casa...”.
Guido annuiva e correva ai ripari prima che scoppiasse l’apocalisse, e anche il padre se ne accorgesse facendo tabula rasa di ogni sua nuova elucubrazione, di ogni suo tentativo di rivoluzionare le scienze con una nuova teoria darwiniana. C'era poi tutto il resto a condizionare la versatilità del suo ingegno: dalla geologia all'astronomia, dalla chimica alla paleontologia, dalla mineralogia all'antropologia, dalla anatomia comparata all’analisi matematica. C'era, quindi, anche la fisica e la fisica delle particelle subatomiche. Quelle stesse particelle alle quali sembrava alludere lo speaker televisivo di Rai Uno, un tipo imbalsamato con lo sguardo tetro e le sopracciglia folte, che con aria trafelata comunicava al telegiornale delle 20.00 di un'esplosione nucleare catastrofica in Ucraina, nei pressi dell'anonima Pripyat, cittadina grigia e spoglia, perdutamente sovietica. Guido non poteva staccare gli occhi dalla tv, essendo pane per i suoi denti: non capitava sovente durante i notiziari di avere a che fare con notizie di questo calibro, di questo fascino sinistro, in cui venivano addirittura tirate in ballo le particelle subatomiche. Fantascienza allo stato puro. Alieni quotidiani. Bufale da provetti cacciaballe. Era sempre la solita pallosissima politica ad avere la meglio, con le news di gossip che odiava con tutte le sue forze. Cosa gliene poteva importare a lui dell’ennesima tresca fra Simon Le Bon e una sgualdrinella da quattro soldi? Ora sì, invece, che c’era davvero di che divertirsi, anche se non sembrava per nulla bello ciò che pareva potesse essere accaduto ai lavoratori della centrale, indaffarati a spegnere le fiamme e a far sgombrare le persone nei dintorni del disastro. Già si parlava di eroi, eroi che avevano dato la vita per salvare migliaia di vite umane; in realtà era tutto molto frammentario. Dannatamente frammentario.
“Silenzio, grazie”, aveva intimato ai familiari, accomodati al suo fianco per l’ora di cena, mamma, papà, e sorella maggiore, incauto del primo piatto servito già da un paio di minuti.
“Silenzio”, aveva sorriso il padre, con fare ironico. Il ragazzo non aveva un particolare feeling con l'uranio, ma sapeva che quello usato nei rettori a fissione nucleare è il 235, l'isotopo 235. Sapeva, dunque, che l'uranio è caratterizzato da due isotopi e che l’altro era il 238. Era inoltre al corrente che l'uranio 235 è molto scarso in natura, che è molto costoso e, soprattutto, che può provocare danni seri alla salute delle persone. Ma non era solo l'uranio a impensierire i destini di mezza Europa, c'era anche il fantomatico cesio. Il cesio 137, anche questo un isotopo, sottoprodotto della fissione nucleare dell'uranio, che decade emettendo raggi beta, formando un isomero nucleare che i fisici definiscono “metastabile”: il bario 137. E probabilmente era proprio il cesio 137 l'elemento che preoccupava di più. Avrebbe, dunque, voluto parlare della contaminazione da uranio e cesio, ma con chi? La sorella studiava lingue in un liceo di Monza, mamma e papà avevano fatto solo le professionali e a malapena sapevano cosa fosse una centrale nucleare; gli amici, oltre al fatto di non essere lì con lui nel momento in cui la notizia della catastrofe veniva dipanata, non gli avrebbero dato retta nemmeno per un secondo, presi com'erano da tutte altre fantasie, col sottofondo delle canzoni di Jimmy Sommerville. Eppure la faccenda riguardava anche loro. Le parole dello speaker, infatti, si riferivano anche al fatto di impedire ai bambini di uscire di casa per qualche giorno; essendo più suscettibili alle radiazioni, avrebbero potuto correre più rischi degli adulti, e inoltre si raccomandava all’intera popolazione di non mangiare frutta e verdura; addirittura, si ammoniva, nella peggiore delle ipotesi, per mesi. Sicché veniva rigorosamente proibita la possibilità di giocare a calcio nei campetti di periferia, dove il veleno della centrale Ucraina si sarebbe concentrato maggiormente, mandando in tilt qualunque essere vivente, tranne, forse, i funghi. La faccenda era mostruosamente seria. Guido, nonostante l’aria da studioso e secchione, amava giocare a calcio; non gli faceva paura sfidare a suon di rincorse e calci negli stinchi avversari di ogni tipo; e proprio dietro casa sorgeva un campetto dove ogni primavera avveniva un torneo fra i palazzi e le corti del circondario. Era un campetto che gli stessi ragazzi coinvolti dalla kermesse sportiva avevano liberato dai sassi, allestendolo con due porte di fortuna, con le reti che non duravano mai più di due settimane, ma che comunque venivano prontamente sostituite non lasciando mai sguarnita la struttura. C'era molto folclore attorno all'evento e l’idea di non poterlo disputare avrebbe suscitato un bel clamore. I giocatori del palazzone di Omate sfidavano quelli di Agrate del Quadrifoglio, di Cascina Ghiringhella, delle Gescal... Due anni prima gli omatesi s'erano piazzati secondi, un traguardo davvero notevole, di cui erano andati avanti a vantarsi per l’intero anno, dietro ai giganti del Quadrifoglio, troppo forti per competere con gli altri, anche per via della presenza di due giocatori che militavano nelle giovanili della serie C: Amilcare Mariani, figlio del panettiere del borgo brianzolo, era stato notato perfino dai dirigenti dell'Inter, che s'erano fatti avanti per poterlo ingaggiare nelle file nerazzurre con l'arrivo della nuova stagione. Giocava da mediano, aveva un fisico possente, e non c'era verso di strappargli il pallone fra le gambe.
Lo scoppio della centrale nucleare a Chernobyl avrebbe, dunque, impedito le sfide fra i vari team, e di conseguenza anche la possibilità – soprattutto per i timidoni come Guido - di mettersi in mostra con le ragazze; circostanza che Guido, proprio perché non conosceva altro modo di farsi avanti con una ragazza, non voleva farsi sfuggire. Giocava a calcio piuttosto bene e sapeva che, come tutti gli altri anni, sarebbe venuta a vederlo anche il suo amore segreto, non la Citterio, ma una ragazza per la quale nutriva un sincero e profondo sentimento, benché non avesse mai avuto il coraggio di dichiararlo, né a lei, né a nessun altro. Si chiamava Valeria Stucchi, aveva un paio d'anni in meno di lui, il viso paffutello, una tenerezza che lo mandava in estasi, facendogli credere che solo con lei e in lei avrebbe incontrato il paradiso. Era davvero questa, inesorabilmente, l'unica occasione che aveva durante l'anno di farsi notare da Valeria, con magari un goal spettacolare, ma anche con una caduta eroica, da far intervenire una barella, si sarebbe rotto anche l’osso di una gamba pur di poter raggiungere la sua principessa.  
“Avete sentito?”, aveva mormorato la madre di Guido.
“Sentito”, aveva risposto mogio il ragazzo.
“Quest'anno mi sa che il torneo salta”, aveva mugugnato il capofamiglia.
Mentre la sorella s'era abbandonata a un sorriso cinico, sfidando lo sguardo accigliato del fratello. Fra i due non era mai corso buon sangue, situazione ironica e paradossale visto che più consanguinei di loro non c'era nessuno. Linda era giudicata dal fratello una sciocca, stupida abbastanza da far sì che da piccina si pulisse la suola delle scarpe nuove con uno straccio bagnato di saliva, convinta di poterle conservare meglio. Non smetteva mai di ripeterglielo ogni volta che si presentava l'occasione giusta per mandarsi vicendevolmente a quel paese. Ascoltava una musica per lui disdicevole: gruppi come Duran Duran, Spandau Ballett, A-Ha, Communards, condivisi, peraltro, da gran parte dei suoi coetanei. Linda, in compenso, riteneva il fratello uno smidollato, sfigato, fuori dal mondo. Non capiva come potesse un quindicenne passare tutto quel tempo a caccia di erbe assurde, al posto di andare a spasso con gli amici e di pensare a qualche bella ragazza da rimorchiare. Come potesse ascoltare Mozart e Chopin, con tutto il ben di Dio che circolava in radio o nei negozi di dischi, musica esaltante, e non di certo lanie da vecchiardi rompiballe con già un piede nella fossa. Lo riteneva un secchione senza speranze, un tipo senza futuro, per di più antipatico e saccente. Lo salvava il fatto di sapersela cavare a calcio, sapersi cimentare in uno sport era per lei un salvacondotto se non per il paradiso, almeno per il limbo. Era il parametro numero uno di cui si serviva per giudicare chi aveva davanti. Se un tipo non sapeva destreggiarsi almeno in uno sport non era degno della sua attenzione. Solo una volta i due fratelli erano stati veramente bene insieme. Una primavera di qualche anno prima che, con mamma e papà, erano andati per tre giorni a Parigi. Papà doveva incontrare un vecchio amico di Omate, trasferitosi da anni nel capoluogo francese, e aveva colto l'occasione delle vacanze pasquali per mettersi in cammino verso la capitale transalpina, coinvolgendo tutta la famiglia. Avevano alloggiato in un alberghetto nel cuore di Montmartre, vetusto, ma dal fascino a dir poco idilliaco. Si respirava al suo interno un’atmosfera retrò, che rimandava all’epoca dell’epopea picassiana, dai quadri e delle miserie dei vari Chagall, Braque e Modigliani. I due fratelli ridevano come matti dalla mattina alla sera, per le cose più stupide, con un grado di eccitazione pari solo a quello che li aveva contraddistinti il giorno della prima comunione. Nessuno di loro era mai stato prima d'ora all'estero, e debuttare a Parigi era veramente da favola; Parigi, in un certo senso, per un provinciale omatese, poteva benissimo rappresentare il centro del mondo. Bastava la parola a provocare sussulti estremi: Parigi. Una sera s'erano lasciati ritrarre da un mezzo matto lungo le rive della Senna. In realtà era una caricatura: Linda era stata disegnata con le ciglia più lunghe di quelle di Olivia, Guido con una bocca più larga di quella di Mick Jagger e due orecchi da Dumbo. I genitori erano rimasti a guardare ridendo sotto i baffi, felici di avere regalato ai loro piccoli una vacanza indimenticabile.
I Sangalli abitavano al primo piano, appartamento C del condominio omatese, quello a destra dell'ascensore. Le porte si aprivano sul pianerottolo e il rimbombo era udibile per l'intero soggiorno: una specie di colonna sonora, ripetitiva e assillante, rimandi di fabbriche e lavori disumani in catene di montaggio. Indisponeva soprattutto il padre di Guido, quarantacinquenne dall'aria vispa e attenta, spesso nervoso dopo il rientro dal lavoro, piazzato come un automa davanti alla tv, sperando in un film decente col quale accompagnarsi alle braccia di Morfeo; l'attività assicurativa messa in piedi una decina d'anni prima non gli dava tregua, ed era spesso costretto a tour de force micidiali che lo lasciavano a terra, esausto, privo di energie, per giorni. Girava soprattutto per l’Italia, specie in Lombardia; a volte era costretto a fermarsi fuori casa, o a passare ore e ore in coda prima di raggiungere qualche sede amministrativa o cliente da servire. Un lavoraccio grazie al quale, però, la famiglia Sangalli poteva tirare avanti con massima dignità. Da tempo avrebbe voluto scrivere una lettera all'amministratore per sollecitarlo a prendere provvedimenti per gli appartamenti confinanti con la tromba dell'ascensore, evidentemente tarata male, troppo rumorosa per il quieto vivere; ma un po' per pigrizia, un po' per indecisione, non era mai arrivato a sollevare la questione. La madre, donna dalle mille passioni, sempre elegante e piacente, curava la casa nei minimi particolari. L'appartamento dei Sangalli era, per questo, fra i più ordinati e puliti del palazzo. L'esatto opposto di quello dei Vismara, cataclisma esistenziale di quelli che lasciano il segno. Nel locale principale un grosso mobile copriva la parete sud, era pieno zeppo di bicchieri, piatti, soprammobili e suppellettili di ogni genere, dalle fantasie più assurde. Il soprammobile più prezioso arrivava dalla Grecia. Era un vaso risalente a prima dell'anno Mille. Raffigurava una specie di mappa, con una scrittura illeggibile, c’erano delle strane figure, quasi geometriche, che rimandavano a velleità cuneiformi. Le altre pareti del soggiorno erano letteralmente tappezzate di quadri, fra cui il ritratto vagamente angustiante di un clown con le labbra verdi. L’aveva disegnato un parente alla lontana della famiglia del primo piano, che abitava in un misero appartamento a Milano, zona Lambrate. I coniugi Sangalli amavano la pittura, le mostre d'arte, e non perdevano occasione per acquistare un nuovo lavoro da esibire nella propria personalissima pinacoteca. Non c'era nulla di veramente prezioso, ma non mancavano chicche di riguardo come uno schizzo attribuito a Fiume e acquistato a prezzo stracciato anni prima in un minuscolo negozio del cremonese. Non sapevano granché di Fiume ma il nome era risuonato così spesso nelle orecchie da spingerli a comprare un suo lavoro a occhi chiusi. C'era anche Guido con mamma e papà, un piccoletto di nemmeno dieci anni, pronto per dire la sua, anche se la pittura non avrebbe mai avuto preso su di lui come le scienze, e in particolare la botanica. In ogni caso i dipinti realizzati con piglio autorevole difficilmente passavano inosservati al suo sguardo attento. In cucina la madre di Guido passava gran parte del suo tempo, a far da mangiare, a lavare i piatti, a stirare. Ogni angolo, mensola, ripiano, era calibrato su misura per lei. C'era il frigo subito dopo l'ingresso sulla sinistra, con l'anta ricoperta dai disegni di Fiorenza, la figlia del fratello del padre di Guido, e una vetrinetta nella quale campeggiavano altri bicchieri, quelli da battaglia, usati tutti i giorni. Alcuni bicchieri erano stati accumulati grazie alle numerose Nutelle acquistate, con la scusa, appunto, di ricavarci simpatici oggetti per la casa con i disegni più curiosi, spesso inerenti piloti di Formula Uno. A dir poco perfetti gli antri nei quali attendevano di essere stappate delle bottiglie di vino da conservare per le ricorrenze speciali e un ripiano ospitante vari libri di cucina. Più avanti una piccola tv in bianco e nero, la macchina del caffé, un contenitore per i biscotti e il piano cottura, sormontato perennemente da una caffettiera pronta per l’uso… Una stretta anticamera accompagnava alle stanze e ai due bagni dell'abitazione. Era piuttosto buia, articolata in un disegno a L. Il pezzo forte della camera dei genitori era un antico specchio acquistato per una manciata di lire, dopo lo smantellamento di una casa del Settecento dalle parti di Osnago. I vecchi proprietari l’avrebbero tranquillamente gettato in discarica, se non fosse stato per l’intervento di un imprenditore della zona, che aveva deciso di portare tutto all’asta. Un’idea vincente, per gli ex proprietari, che a onor del vero non abbisognavano di ulteriori introiti, ma soprattutto per i tanti amanti di antichità come i coniugi Sangalli. Il lettone era un tutt'uno con i due comodini, quello della madre di Guido, quasi sempre caratterizzato da una pila di libri perennemente in bilico su se stessa; il dramma si verificava soprattutto in occasione delle pulizie; il far la polvere si rivelava, infatti, un’impresa risolvibile solo da mani esperte, in grado di spostare con metodica i testi, senza perderne qualcuno, e consentendo di ripulire adeguatamente la superficie del mobile da acari, frammenti organici di provenienza umana, e altre diavolerie delle microscopia ottica. Alla madre di Guido piaceva molto leggere, e ogni sera, in base all'umore, alle condizioni atmosferiche, ad altri parametri probabilmente impossibili da diagnosticare, puntava su questo o quell'altro testo. Al momento del patatrac di Chernobyl era alle prese con i racconti di Edgar Allan Poe. Amava definirlo il suo lato oscuro, emergeva sporadicamente, e la portava a confrontarsi con realtà letterarie a metà strada fra il noir, il gothic e in casi limite all'horror. Ma era e rimaneva comunque una donna solare e briosa, benché un po' ansiosa. Il comodino del marito era assai più spartano. C'erano le foto dei suoi due ragazzi e un quadretto a sfondo religioso, la sveglia e una specie di portasigari.
La camera di Linda e Guido era praticamente divisa in due metà. La metà di Linda era quella più confusionaria, la più ligia, ordinata ed esemplare quella del fratello. La libreria di fronte ai letti era riempita perlopiù dai libri di Guido, che come in un rito propiziatorio, tutte le sere contemplava nella penombra prima di addormentarsi. In alto a destra c'erano i libri di botanica, in alto a sinistra quelli di scienze, compreso un astruso trattato di matematica risalente agli anni Trenta. Poi tanti altri, compresi testi di letteratura, fra cui I Fiori del Male di Baudelaire in lingua francese. Se i suoi libri erano a posto, allora lo era anche lui e poteva fare sogni d’oro. C'era qualcosa di vagamente morboso in questo atteggiamento di riverenza nei confronti della carta stampata, ma di certo il ragazzo non ci aveva mai fatto caso. Provava un piacere metafisico nel rapportarsi al mondo dei libri, come se in essi non si celassero solo parole e parole da leggere e sfogliare, ma un vocio continuo e sommesso che gli garantisse sicurezza e protezione. I libri per lui erano come un terzo genitore. Al centro della camera c'era lo stesso lampadario che i coniugi Sangalli avevano acquistato diciassette anni prima, con la nascita della primogenita. C'era l'intenzione di cambiarlo, ma poi per un motivo o per l'altro continuava a rischiarare il covo giovanile degli abitanti dell'appartamento C del primo piano, anche se definirlo demodè sarebbe stato un eufemismo. Sua prerogativa, quella di essere contrassegnato da un cappello tessutale colorato di rosso, che conferiva un'originale atmosfera al locale, ma anche un tiro decisamente anni Settanta. Senz'altro, però, era un’atmosfera molto più calda di quella che si respirava in cucina con una lampadina gelida e fioca, simile a quella prodotta dai luccichii al neon.
La famiglia Sangalli era andata avanti in silenzio a mangiare, calata in una condizione di atemporalità, non solo per assecondare le esigenze del più piccolo della famiglia. All'unanimità s'erano resi conto che era successo davvero qualcosa di grave, qualcosa che ancora mancava di chiarezza e prospettive, ma che si mostrava in tutto il suo pallore terrificante. Perfino la sorella di Guido, dopo aver ridacchiato del fratello che non avrebbe più potuto giocare al torneo di calcio, s’era incupita di soprassalto, come contagiata da una misteriosa malattia dei sensi. Non capitava spesso di cambiare repentinamente umore in base a qualcosa che toccava solo in parte il proprio sé, ma il cui impatto psicologico era così forte da non poter lasciare nessuna anima indifferente. Il padre di Guido percepiva che cose di questa entità erano tutt’al più assimilabili a qualche episodio della seconda guerra mondiale, della quale aveva ancora un ricordo vivido, benché fossero passati quarant’anni dalla sua fine. Lui era appena nato, ma il fracasso delle sirene che annunciavano un raid aereo se le ricordava ancora benone. C’erano delle zie paterne che se la facevano sotto ogni volta che dovevano andare a rifugiarsi in fretta e furia in qualche rifugio. E ora, qui, era qualcosa di molto simile, per certi versi, onestamente, ancora più spettrale della realtà bellica. Fino a prova contraria il concetto di contaminazione durante il secondo conflitto mondiale era noto solo in rapporto alle due bombe nucleari sganciate su Hiroshima e Nagasaki, città mostruosamente lontane da qualunque logica geografica ed esistenziale. Tutti avevano smesso di parlare, ma nessuno di porsi interrogativi micidiali. Quale sarebbe stato il destino dei pompieri accorsi sul luogo dell'incidente? E degli abitanti di Pripyat? Cosa avrebbero provocato dosi eccessive di radiazioni nei bambini? E al di là dell'imminente torneo di calcetto fra i palazzi, cosa sarebbe accaduto in Italia? Fin dove sarebbe arrivata la nube tossica?
All'ora della frutta aveva ripreso la parola il padre, sempre più scombuiato dall'accaduto.
“Stasera faranno uno speciale su Rai Uno”, aveva detto, “non ho intenzione di perderlo”.
Le due donne s'erano abbandonate a una smorfia di disapprovazione, mentre Guido cominciava a gongolare:
“Sarò lieto di farti compagnia papà”, aveva proclamato il genietto dei Sangalli, accompagnandosi con un sorriso di vittoria.

giovedì 1 settembre 2011

L'inverno della mente


E la notte arriva si porta via il magone come il vagone di un treno merci che trasporta merci usate il sonno che divora la mente non si riesce a capire che senso hanno le banane diritte si può sopravvivere all'inverno della mente all'inverno di quali scontenti mentre precipita il silenzio nel fegato la bilirubina quante cose sono accadute forse come in anticamera assillati da calabroni giganti e dalle melodie tipo jesus mary chain tutto cambia come cambia una canzone la morna la musica di capo verde l'inverno della mente forse il luccichio degli astri e lui adesso come se la cava addormentato su se stesso alla ricerca di un se stesso che non c'è più un povero cristo con la bava alla bocca e gli occhi stralunati senza futuro reclama una fetta di luna che non troverà mai

Ma allora che si può fare stringergli le labbra col filo spinato e affondare un'altra lama di coltello nel suo cuore cosicché anche la notte non sia più di peso il principio delle cose dove si perde come le letture di un poeta distratto che si avvicenda al posto di tergiversare navigare dove l'acqua ha un colore pacato obbligato a testare giochi di mulinelli ah ah ah rapido il pensiero se ne va dove nessuno sa per esempio laddove piove senza piovere perché così succede

Troppo scurrile troppo onomatopeico gira alla larga vigliacca luna parla lingue conosciute sennò risparmia anche a un topo il suo calvario la la la la la la