mercoledì 3 marzo 2010

Brianza Borderline: "... di quella volta che al Cavalluccio cantarono i grilli"

Era l’estate del 1994 e nell’aria si respiravano ancora certi fatti di cronaca, politica, spettacolo, che visti oggigiorno appaiono lontani parsec e parsec. C’era stata l’elezione di Fausto Bertinotti a segretario di Rifondazione comunista, dopo le dimissioni di Sergio Garavini; la casa d’aste Christie’s aveva venduto per 8,8 miliardi di lire un disegno di Michelangelo al museo Getty, in California; ad Altamura, in Puglia, erano venuti alla luce i resti di un uomo preistorico risalente a 130mila anni fa: il poveruomo - secondo la ricostruzione di eminenti esperti - era morto di stenti e malinconia, dopo un capitombolo di parecchi metri all’interno di una voragine dalla quale non fu più in grado di risalire; a Belfast, in Irlanda, i terroristi dell’IRA avevano fatto esplodere un ordigno massacrando 10 persone: fra le vittime anche due bambine.
“Un bagno di sangue e di follia – aveva reclamato il giorno dopo un cronista del Belfast Telegraph.
Kiko dei Los Lobos, All the way from Taum dei Saw Doctors, Soldier di Calvin Russel e 900 di Paolo Conte, furoreggiavano a mo’ di flute di spumante appena serviti sulle pagine dei the best of di mensili tipo Buscadero e Mucchio Selvaggio, giornali che l’edicolante di Omate – giovane e inesperto - scambiava ogni volta per riviste hard; la Galleria Nazionale di Oslo subiva il clamoroso furto dell’arcinoto dipinto di Edward Munch, L’urlo; Silvio Berlusconi aveva formato il suo primo governo. Era l’estate del 1994 e non era da molto che Paolino e Benedetta, per tutti Dedde, s’erano conosciuti.
I due s’erano adocchiati per la prima volta nemmeno un anno prima al parco Aldo Moro, perla bucolica della Brianza, idilliaco spiazzo di verde incastonato tra il grigiore della tangenziale est, e il lussureggiare delle farnie di via don Luigi Cantini; da quelle stesse parti dove, secoli prima, sorgeva una sconquassata e polverosa pista di motocross, presso la quale Paolino e alcuni compagni delle scuole elementari – Danilo il Beccamorto, Marco la Piattola e Luca il Bandito - solevano andare a trascorrere gli assolati pomeriggi estivi, dopo aver fatto i compiti. Presero ufficialmente atto dell’esistenza l’uno dell’altro nel corso di una ricorrenza ben precisa: la festa dell’Amicizia; il pavoneggiare metafisico di personaggi più o meno cari all’immaginario collettivo locale come De Mita, Moro, Forlani, Goria, Andreotti, Cossiga… Fu un piacevole momento di aggregazione benché, in quei giorni, i rappresentanti della DC, covassero una piva di quelle mai viste. Era per via del fatto che, negli ultimi tempi, gliene erano davvero capitate di tutti colori; e ora biasimarli sarebbe stato proprio come – parafrasando Francesco Ferrucci, eroico difensore della Repubblica di Firenze, che non per niente a Paolino capitò di rappresentare una volta in occasione di una recita all’oratorio - uccidere vilmente un uomo ormai sulla strada per il Creatore.
Il tracollo dello scudo crociato – per il quale, almeno da queste parti, fino al 1994 nessuno diceva di parteggiare, ma che chissà per quale arcano perché, da dopo quell’anno tutti ammisero, perfino vantandosene, di aver votato - era iniziato con lo strepitante e rocambolesco caos di tangentopoli. Poi erano venute le elezioni del 1992 - in cui gli elettori DC erano calati del 5 percento - e l’abbandono di Mario Segni - in seguito alle richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di Antonio Gava e Giulio Andreotti - a sancire il colpo di grazia.
Le due anime brianzole erano incappate l’una nell’altra nel corso di un concerto, un live organizzato, pensato e pubblicizzato proprio dagli eredi di don Sturzo: il concerto degli Atrocius. La band, originaria dalle caliginose lande di Verderio Superiore - sputo di case fra il lecchese e il milanese - e rappresentante una delle più interessanti realtà musicali e di avanspettacolo della regione, veniva spesso invitata alle feste di paese per la sua grinta e per la capacità che aveva di attirare pubblico giovane. Ma quella sera le cose non erano andate come previsto. Era una serata calda e umidiccia e il gruppo - amante di Napalm Death, Iron Maiden, Sonic Youth – si era messo all’improvviso a inveire contro tutto e tutti. In particolare, il cantante - aggredendo il microfono con la stessa grinta con cui un samurai brandisce la spada, o Ivan detto il Bogia - personaggio cult della realtà locale - si districa con l’affettatrice dietro un bancone dell’Esselunga - prese di mira la chiesa e l’oratorio, sputando in pratica nel piatto in cui stava mangiando.
“La Brianza è un covo di oratoriani senza fegato e cervello. Una masnada di persone che non sa andare al di là del proprio naso. Ma ora noi, musicisti erranti, poeti della strada, abbiamo davvero deciso di dire basta. Basta con tutte queste stupidate che ci raccontano i preti. Basta con la religione, i sacramenti, le preghiere. La vita è tutta un’altra cosa”.
Al suono di queste parole gran parte dei presenti all’evento mondano rimase a dir poco sconcertata. Suor Elvira - sempre e comunque entusiasta di assistere in prima fila agli spettacoli organizzati dalla DC - ebbe un mancamento; da tempo soffriva di attacchi di angina pectoris e per poco non dovettero trasportarla di filata al pronto soccorso. La Celestina, factotum della parrocchia sant'Eusebio, andò incontro a una delle sue frequenti crisi isteriche. La moglie di Roberto Panzarotti scoppiò in lacrime e a nulla servirono le frasi di consolazione dei suoi due figli. Ma furono soprattutto gli alti dirigenti e rappresentanti dello scudo crociato agratese a rimanere letteralmente di sasso. Tutto si sarebbero immaginati fuorché una cosa di questa portata.
“Mio Dio! È sconvolgente – aveva detto Beppino Missaglia, in famiglia detto anche Beppino mitraglia, per via della sua innata tendenza alla logorrea, uno dei responsabili della festa.
“A dir poco sconvolgente – aveva ribattuto Gianbattista Cantù, oggi pago io, poi per tre volte paghi tu, noto invece per la sua proverbiale e immorale taccagneria.
“Ma si può sapere chi ha invitato questi pazzi?”.
“Noi li abbiamo invitati”.
“Noi chi?”.
“Se n’è occupato Emilio”.
“Emilio?”.
“Il nuovo venuto che si occupa delle attività giovanili”.
“Complimenti”.
“Ma non poteva immaginare che…”.
“Certe cose si vedono subito”.
“Cosa vuoi fare allora?”.
“Gli dico di tornare da dove sono venuti".
“Scherzi?”.
“Affatto”.
Gianbattista aveva cominciato a sudare freddo.
“Sembra una manica di drogati”.
“Appunto. Non vorrai mica rischiare”.
“Io non posso tollerare certe cose in casa mia”.
Gli Atrocius intanto - assolutamente indifferenti allo sbigottimento e all'incredulità del pubblico - avevano continuato imperterriti per la loro strada, con il loro frastornante show.
“La Brianza è una regione morta. Incapace di intendere e volere. Soffocata dal chiasso di predicatori analfabeti e perpetue arcigne. Chi non fa parte del giro della chiesa è dunque una mosca bianca alla quale non viene dato spazio. Nessuno meglio di noi lo può dire che in strutture come l’oratorio non abbiamo mai messo piede, anche perché forse qualcuno non ha mai voluto che lo facessimo”.
Beppino non ci aveva più visto dalla rabbia.
“Adesso basta”.
“Dove vai? – gli aveva domandato Gianbattista.
Ma senza ottenere risposta. L’amico furente stava già dirigendosi verso il palco.
“Avete finito di sputare sentenze? – aveva gridato Beppino rivolgendosi al leader degli Atrocius.
“Come, scusa?”.
“Vi sembra il caso di esprimervi in questo modo?”.
“Stiamo solo dicendo ciò che pensiamo. O forse non c’è più la libertà di parola in questo paese?”.
“La libertà di parola è un diritto di tutti, purché regni il buonsenso”.
“Il buonsenso è un termine fuori luogo se pronunciato da un democristiano”.
“Il buonsenso è quello che ci ha portati a invitarvi per allietare i nostri giovani, pur sapendo di certe vostre posizioni anticlericali”.
“Sono parole al vento”.
“Questa si chiama democrazia”.
“La democrazia degli ipocriti”.
“E va bene, se è così che la pensate allora vi propongo di andarvene immediatamente".
“Noi non ce ne andiamo da nessuna parte. Siamo qui per parlare al popolo, e continueremo a farlo”.
Per nulla intimorito dunque dalle parole di Beppino, il vocalist aveva squadrato con sufficienza l’uomo che aveva di fronte a sé e preso a gridare a squarciagola:
“Rock ‘n roll!!! Rock ‘n roll!!! Rock ‘n roll!!!".
E poi:
“One, two, three, four!!!”.
Infine, accompagnato anche da tutti gli altri disgraziati della band, era partito con il pezzo forte della scaletta: “Senza pietà!”.
“Senza pietà, senza pietà, con noi, senza alcuna pietà! Uh, uh, uh, ah, ah, ah, contro la chiesa e i paolotti, senza alcuna pietà!”.
Terminato il brano musicale, inaspettatamente, si era levato un fragoroso applauso. Era quello proveniente da un gruppo di fan della band di Verderio, abbigliati in modo caratteristico, giubbini di pelle nera e jeans attillati, tipico stile dei cosiddetti metallari, e da una risicata accozzaglia di anime indipendenti da essi ma a loro vicini, vestiti normalmente, fra cui Paolino e Dedde. I due si conoscevano di vista, ma non si erano mai parlati: lungo le polverose e scioccanti strade della Brianza si erano casualmente incrociati miriadi di volte, eppure a nessuno dei due era mai venuto in mente di attaccare bottone. Un po’ l'insicurezza, un po’ la timidezza. Ma era da tempo, comunque, che Paolino si chiedeva quanti anni avesse Dedde; così come quest’ultima era da un paio d'anni che si domandava cosa facesse nella vita il ragazzo. Insomma: non ne erano reciprocamente al corrente, tuttavia era già da un po’ che si squadravano e ricorrevano con una certa insistenza.
Paolino, quella sera, era in giro da solo. Abbandonata la bicicletta all’ingresso del parco aveva girovagato senza meta prima di giungere casualmente nei pressi della tensostruttura che, di lì a poco, avrebbe ospitato il concerto degli Atrocius. Barbara, sua partner ufficiale, era dovuta andar via con la madre, recentemente scossa per il divorzio della sorella. Dedde stava invece assistendo al concerto della band di Verderio in compagnia di Chiara, l’anonima amica con la quale era solita prendere appuntamento quando non c’era proprio nessun altro disposto a tenerle compagnia. Paolino era già da una ventina di minuti che aveva notato la sua presenza quando il concerto prese il largo. Le si era avvicinato e - senza minimamente tener fede ai convenevoli tipici del primo incontro con una persona con la quale non si è mai parlato - le aveva detto:
“Ciao”.
“Ciao – aveva risposto lei.
“Eh!”.
“Eh?”.
“Mica male gli Atro”.
“Gli Atro?”.
“Gli Atrocius”.
“È vero, non sono male”.
“E non hanno nemmeno tutti i torti”.
“In che senso?”.
“Troppi brianzoli sono succubi della chiesa e di strutture come l’oratorio. Schiavi di gente che non sa proprio andare al di là del proprio naso”.
“Non saprei”.
“Vai all’oratorio e poi dimmi”.
“Ci sono cresciuta all’oratorio”.
“Anch’io se è per questo, però non puoi negare che…”.
“Nego, mi dispiace. Io all’oratorio mi sono sempre trovata bene”.
“Colgo dell’ironia nelle tue parole”.
“Sei fuori strada”.
“Non sei abbastanza convincente”.
“Stai perdendo tempo”.
“Addirittura?”.
“In ogni caso gli Atrocius mi fanno morire dal ridere”.
“Puoi dire giuro”.
“Il cantante è una sagoma”.
“Con quella criniera”.
“E le borchie”.
“E la bandana”.
“E il giubbetto con il teschio dove lo metti?”.
“Scusate, se non vi dispiace, io vado a fare un giro al bar - era intervenuta Chiara, drasticamente isolata dalla conversazione.
“Vai via così presto? – le aveva domandato Dedde.
“Non ti piacciono gli Atro? – aveva incalzato Paolino.
“Ho detto che vado al bar, non a casa - aveva ribattuto la ragazza acidamente.
Rimasti soli i due avevano quindi riattaccato con le teorie anticlericali degli Atrocius, l’eccentrico abbigliamento del cantante della band di Verderio, l’oratorio, finché il giovane non si era deciso a farsi avanti con una domanda un po’ più audace delle altre:
“Sei fidanzata?”.
“Scusa?”.
“Ti ho chiesto se hai il ragazzo?”.
“Sfacciato”.
“Eh?”.
“Mi conosci da due minuti. Non puoi chiedermi certe cose”.
“Cosa ti ho chiesto di male?”.
“La mia vita privata è privata”.
“Come la fai lunga”.
“Allora dimmi di te”.
“Cosa?”
“Ce l’hai la ragazza?”.
“Io?”.
“Tu”.
“No. Cioè sì. Cioè no”.
“Cioè sì, cioè no, che vuol dire? Che ce l’hai o non ce l’hai?”.
“Ce l’ho ma… le cose fra noi non vanno molto bene”.
“No?".
"No".
“Come mai?".
“Ci annoiamo":
“Vale a dire?”.
“Ci guardiamo in faccia e non sappiamo che dirci".
"Che tristezza".
"Altroché".
"Per me invece è diverso".
"In che senso".
"Io con il mio ragazzo vado a gonfie vele".
"Dunque sei impegnata?".
"Direi di sì".
"E come mai sei qui da sola?".
"Carlo è andato a giocare a calcetto".
Paolino ci era rimasto male. La sua speranza era, infatti, un’altra: che lei fosse single e che avrebbe quindi potuto darsi presto da fare per poterla conquistare. Tuttavia al momento dei saluti si rese conto che non ogni cosa era perduta: le parole di Dedde, evidentemente, non erano state abbastanza persuasive. Avevano continuato a discutere del più e del meno - del primo lavoro degli Spin Doctors, della sorellina di lei che s’era innamorata di un senegalese, di un amico in comune, amico a sua volta di un tale che divenuto priore dell'abbazia di Chiaravalle se l’era poi filata con una fedele, della guerra del Golfo, della guerra del Vietnam, della guerra di Secessione – dopodiché Dedde si era sbilanciata oltre il sacrosanto limite della coerenza, dando definitivamente ragione alle vaghe intuizioni di Paolino.
“Mi sa che per me è arrivato il momento di rincasare – aveva sbottato la ragazza.
“Già scappi? – aveva replicato Paolino.
“Per forza. Guarda che ore sono”.
“E allora?”.
“È mezzanotte passata!".
“Appunto, mica è tardi”.
“Non sarà tardi per te! Io, credimi, se aspetto ancora un po’ mia madre mi lascia fuori sul pianerottolo a dormire".
“Addirittura?".
"Tu non conosci mia madre. Quando ci si mette è davvero tremenda”.
“Così tremenda?”.
“Te lo giuro”.
“Peccato, mi stavo divertendo”.
“Anch’io mi stavo divertendo”.
“Anche tu?”.
Dedde non aveva risposto. Paolino s'era messo a ridere soddisfatto.
“E se ti accompagnassi io a fare nanna? – aveva aggiunto ironicamente il ragazzo.
Ma la ragazza non aveva abboccato.
“Non serve, grazie".
Poi Dedde s'era incamminata verso l’uscita del parco - che lentamente e inesorabilmente era andato svuotandosi di tutto quel pandemonio di esseri pensanti o presunti tali - prima di ritrovarsi a una decina di passi dal suo nuovo e simpatico conoscente e voltarsi cedendo definitivamente alle sue lusinghe:
“Comunque se hai voglia di vedermi tieni presente che sono praticamente tutti i giorni in biblioteca. Vado là a studiare e… ciao! – e si era dissolta al di là di due grosse betulle scosse da una leggera brezza.
E da qui ha avuto inizio la loro storia.

Le due arzille anime brianzole, Paolino e Dedde, presero a vedersi prima sporadicamente e poi sempre più tenacemente in biblioteca: il ritrovo di via Battisti, da tempo, non a caso, covo preferito da universitari libidinosi e giovincelle tenebrose assolutamente in vena di esperienze nuove ed eccitanti. E la sua lei e il suo lui? Nessun problema. C’erano le bugie da dire: tante belle frottole da raccontare. In particolare la scusa di Paolino per tenere a debita distanza la povera e inconsapevole Barbara, fu quella dell’esame di analisi I: al suo capezzale c’erano dei fantomatici compagni di corso che gli dovevano spiegare meglio certe cose incomprensibili dette a lezione. Quella di Dedde riguardava invece la necessità di trovare al più presto un luogo dove poter affrontare comodamente le difficilissime traduzioni di greco, assegnate dalla terribile professoressa Martini. A casa sua tutto ciò era impensabile con mamma che passava l’aspirapolvere, mamma che guardava le telenovela, Vanessa (la sorella) che litigava con il gatto, il gatto che lasciava i peli dappertutto, zia Gertrude che telefonava ogni santo giorno solo per dire a uno qualunque della famiglia “oggi sono riuscita ad andare in bagno, ma non è successo granché”.
Passarono l’autunno, l’inverno, la primavera e ora un’altra magica estate stava per fare capolino in Brianza, esattamente un anno dopo il fatidico incontro che i due avevano avuto durante il concerto degli Atrocius. A un certo punto gli scaffali pieni di libri di via Battisti non furono più sufficienti a misurare adeguatamente la loro straordinaria brama di vita, spensieratezza e nottate di stelle; nemmeno quelli più fitti e pesanti di tomi dove, verosimilmente, era assai più facile che altrove riparare il proprio incedere da occhi indiscreti, spie, pettegoli: le nature morte di Giorgio Morandi, le parodie caricaturali di Otto Dix, la televisione per Keith Haring, i nudi di Botero... Dunque, arrivati fin qui, Paolino e Dedde dovettero per forza trovare un'alternativa alle loro fughe d'amore, dove poter continuare a vedersi clandestinamente, e poter quindi continuare a dare felicemente sfogo a tutta la loro esuberanza. La trovarono nel Cavalluccio, luogo fra i più magici e mitici del vimercatese.
Il Cavalluccio, per chi non è della zona, corrispondeva a una vasta area rurale che segnava (e tutt’ora segna) il confine tra Agrate e la sua frazione, Omate. Qui - molte coppiette alle prime armi - si davano appuntamento per sedare i tumulti dell’anima e concedersi vizi altrove impossibili da assecondare. In realtà era qualcosa di più di un semplice posto dove andare a pomiciare, fare l’amore, fumare l’hashish. Per i giovani dell’epoca era un autentico paradiso, l’eternità scolpita in una inestimabile, impareggiabile, indimenticabile spianata campestre. Qualcuno avrebbe osato proferire la parola Dio, riferendosi però a quel Dio caratteristico e irraggiungibile a esclusivo appannaggio di chi giovane, giovane, non ha ancora sperimentato il sapore delle prime mazzate, quelle vere, che la vita, bene o male, ha in serbo per chiunque. Una sera al Cavalluccio Dedde e Paolino si misero ad ascoltare la radio. Era in corso una specie di talk show. Qualcuno parlava di profezie. Prese la parola un professore, un tale che, ne doveva sapere parecchio di quel genere di cose. Cose che, è risaputo, non portano mai a niente, se non a una bella emicrania.
“Le profezie di Merlino sono state diffuse per la prima volta a Venezia verso il 1280 – raccontava il saccente professore, con un tono della voce leggermente effeminato –. In esse si dice che quando la Santa Madre del Signore comparirà in più parti e quando Pietro avrà due nomi, sarà tempo di prepararsi perchè l’ora sesta sarà vicina. Dunque, ci arrivate da soli? Significa che il grande momento è arrivato… le frequenti apparizioni della Madonna in tutto il mondo - e quindi non solo a Madjugorie, badate bene popolo di miscredenti! - e il successore di Pietro che assume due nomi, Giovanni Paolo II, non lasciano dubbi: l’ora sesta, simbolo delle tenebre, dello smarrimento, della morte, il cui riferimento è al momento in cui Gesù spirò, è alle porte. Poi ci sono le profezie di Giordano Bruno – proseguiva lo studioso - domenicano eretico arso vivo il 17 febbraio del 1600. Queste invece ci dicono che quando i tempi saranno maturi, l’egoismo e il denaro regneranno sovrani. Si vedranno santi e madonne dappertutto, miracoli e avvenimenti straordinari e ruote di fuoco nel cielo. Magia, astrologia, alchimia e satanismo coinvolgeranno molte persone. Ed evidentemente anche qui…”.
“Balle! – interveniva incollerito un altro ospite della trasmissione radiofonica –. Ma la vogliamo capire che tutti questi Nostradamus, monache di Dresda e compagnia bella, anziché illuminare l’uomo lo rimbecilliscono? Come si fa a essere così ottusi?! I miracoli, le parole dei profeti, Dio santo… nient’altro che scimunitaggini da Medioevo. Datemi retta, sono tutte fandonie. E come tali lasciamole quindi a chi di dovere: ciarlatani, dicerie di cortile, riviste da leggere sotto l’ombrellone”.
“Mah – commentò desolata Dedde, corrugando la fronte e contemporaneamente abbassando il volume della radio – ti giuro... io non ci capisco più niente. Come si fa a pensare che un giorno non tanto lontano arriverà la fine del mondo… la fine di tutte le cose. La morte di tutte le cose. Te li vedi gli uomini spazzati via come coriandoli da qualche misterioso oggetto cosmico o dalla furia assassina di qualche specie aliena. Meraviglie architettoniche come San Pietro, le piramidi di Giza, i templi di Angkor, i giardini di Naxos, la Tour Eiffel, la Statua della Libertà, abbrustoliti dal calore di una supernova, o dello stesso sole, anticipatamente giunto alla fine dei suoi giorni. Senza contare il giudizio universale… Dio che ci fa passare uno a uno davanti a sé e che decide per ognuno di noi il suo destino per l’eternità. Pensa a un padre che per intercessione degli angeli finisce a pascolare tra le bianche nuvole del cielo e al suo unico figlio che per intercessione di chissà quale diavolo subisce la condanna a vagare nel peggiore dei gironi infernali. Solo a pensarci mi vengono i brividi”.
“Che diamine ne so – fece Paolino rabbuiandosi – comunque io sono d’accordo con l'ultimo che ha parlato. Anche per me le profezie di Nostradamus e di tutti gli altri sono delle immense stupidate. Invenzioni della gente. Cacasotto rintronati da troppi articoli letti su Novella Duemila e Tv Sorrisi & Canzoni. Esauriti gli argomenti canonici - calcio, tempo, tragedie varie - il popolino di cosa vuoi che si metta a parlare se non della fine del mondo?”.
“Stupidate? Non so. Forse hai ragione”.
"Certo che ho ragione – sentenziò Paolino, alzando la voce -. Pensa all’anno Mille. Qui è lo stesso. Un amico che studia storia medievale mi ha raccontato che a quel tempo le persone pervase dal terrore della fine del mondo e della conseguente ricomparsa di Gesù Cristo in qualità di giudice, annunziata per la notte di san Silvestro del 999, accorsero come tante pecorelle impaurite alle chiese e ai conventi a offrire i propri beni e tesori in cambio della remissione dei peccati. E poi? Poi lo sai anche tu quello che è successo. Niente. Questi poveri disgraziati hanno bruciato tutti i loro averi, i preti si sono arricchiti, e chi si è visto si è visto”.
Dedde aveva lo sguardo pensieroso, gli occhi vaganti e trepidanti nel cielo mozzafiato di quella sera al Cavalluccio.
“Cosa vuoi che accada perciò tra dieci, cento, mille anni? - proseguì il ragazzo, sogghignando – Vedrai che sarà tutto uguale a prima. O addirittura meglio di prima. Del resto l'insolenza del genere umano, la sua malvagità, la sua vanità… io sinceramente non le vedo. Eppure è proprio per tutta questa serie di aspetti tradizionalmente associati al malcostume della società, che un giorno l’uomo dovrà soggiacere alla furia divina, alle trombe dell’Apocalisse e a tutte le altre diavolerie narrate dai profeti e da chi predice il futuro consultando sfere magiche e pendolini. Dunque se ci tieni a saperlo te lo dico io cosa succederà domani, nel futuro, che ne so, per esempio… tra cinquant’anni. Da qui a cinquant’anni non ci sarà nessun anticristo... ma sconfiggeremo i tumori, con nanoparticelle in grado di individuare la massa neoplastica e in seguito arrestarne lo sviluppo. Correremo su automobili volanti che si muoveranno in cielo a 500 chilometri all’ora. Scopriremo la vita al di là del sistema solare: probabilmente sarà un pianeta con un’atmosfera di ozono e acqua a indicarci che le molecole organiche non sono una prerogativa esclusiva della Terra. E poi, per finire, vedrai che la medicina arriverà a farci campare tutti oltre i cent’anni. Ti basta?”.
Le bastava. Tanto che non fiatò. E per un po’ non fiatò più nemmeno Paolino. Lasciarono quindi che fossero per un attimo solo i grilli e le cicale a squarciare il silenzio di quella mesta e tranquilla nottata di mezza estate al Cavalluccio. Una fetta di luna brillava nel cielo. Lungo la strada che conduce a Omate si rincorrevano di tanto in tanto automobili e motorini. Con tutta la forza dei loro stomi respiravano il grande gelso, sterpaglie di romice, camomilla e centocchi. Un cane abbaiava, un uccello canticchiava. Dopo qualche minuto Dedde spense definitivamente la radio, ormai ridotta un rantolo sonoro quasi impercettibile e acciuffò la cassetta con inclusa Range life dei Pavement. Si ascoltarono per 4 volte di fila la traccia numero 9 dell’album Crooked Rain, Crooked Rain, canzone amata da entrambi, e che, probabilmente, meglio di qualunque altro pezzo in voga a metà anni Novanta, era in grado di riassumere la loro storia, le loro idee, i loro propositi. Rimasero in religioso silenzio per almeno un quarto d’ora. Era un momento romantico e non andava rotto dal rumore delle parole. Era un momento romantico ed era come respirare la magia delle stelle, la potenza deflagrante del Big Bang, l’input divino che traghettò il cammino umano dalle forme austrolopitecine all’Homo sapiens sapiens. Tutte sensazioni che al Cavalluccio è facilissimo provare, specialmente quando il clamore del giorno sbiadisce dietro l’ennesimo sacrosanto rosseggiare del cielo e delle nuvole. Al centro dell’universo. Ecco, in poche parole, dove si trovavano Paolino e Dedde in quel momento. E niente e nessuno avrebbe potuto svellerli da lì.
Chiusa la quarta volta di Range life Paolino diede un’occhiata ai nastri musicali che custodiva gelosamente nel portacassette malconcio situato sotto il sedile di guida: quello con incollato l’adesivo dei Pink Floyd. Gli capitò tra le mani una cassetta di Roy Orbison, un disco che gli aveva passato lo zio Felice, quello con l’enfisema, critico musicale e autentico fan del gigante texano. Quest'ultimo non corrispondeva esattamente al suo genere musicale preferito – in quel periodo più che Inspiral Carpets, Happy Mondays, Stone Roses non mandava giù - ma per quella sera sentiva che ci avrebbe azzeccato a meraviglia; tanto quanto, avrebbe osato pensare, un bel bicchiere di grappa di moscato dopo una impegnativa cassuola. I can’t stop loving you fece dunque breccia nell’abitacolo della automobile ospitante i due giovani, come una saetta che irrompe nel cielo plumbeo di un pomeriggio di fine agosto; un brano leggendario che chissà quanti artisti avevano interpretato, ma che realizzato dallo statunitense aveva tutto un altro sapore, tutto un altro groove. Giunto il momento del ritornello Paolino indovinò il braccio di Dedde nel tratto anatomico compreso tra la spalla e il gomito e cominciò ad accarezzarlo piano piano. Poi raggiunse il collo, le guance, le ascelle. Ormai i giochi erano fatti: se la ragazza non aveva battuto ciglio fino a quel momento, probabilmente non lo avrebbe battuto più. Si fece quindi strada laddove il sole non batte e per la prima volta nella sua vita provò il brivido di confrontarsi con due seni eccezionalmente sodi. Dedde, intanto, sempre più calata nella parte di fiera e consenziente anima che si dona a un’altra anima, fissò le iridi luminose del ragazzo e lo baciò con vivissima enfasi. A questo punto Paolino si sentì libero di tentare l'impossibile. Sfilatole delicatamente e spregiudicatamente maglietta e reggiseno pigiò infine sulla leva per inclinare il sedile, facendole compiere un breve ma intenso viaggio di 90 gradi. Non ci furono molti preliminari. E fu quella la prima e unica volta che fecero l'amore.

L'indomani Paolino si svegliò di buona lena, contento come può esserlo solo la tartaruga di Roby quando si sveglia dal letargo e si ritrova circondata dalle foglie della sua insalata preferita. L’idea di aver clamorosamente tradito Barbara non lo impensierì più di tanto, e dunque si mise a scrivere una lettera per Dedde. In essa le rivelava che arrivato a quel punto non desiderava altro che potersi fidanzare ufficialmente con lei. Gliela consegnò il pomeriggio stesso in biblioteca. Sapeva infatti di trovare la sua stella nel covo di via Battisti, dove sarebbe dovuta andare per restituire degli appunti ad Alessandra, una compagna di scuola. Durante il tragitto che separava la sua abitazione dalla biblioteca si lasciò sopraffare dall’effluvio nauseabondo dei dadi Star. Volò quindi con la mente alle interminabili partite di calcio all’oratorio, che sorgeva a pochi passi dalla azienda alimentare, otto, dieci, dodici ore di fila al giorno a correre dietro a un pallone come un forsennato. Quanti gol, quanti dribbling, quante rovesciate alla Pelè. Quanti lividi sulle gambe! Ogni momento, ogni giorno, ogni estate, sempre e in ogni caso l’ideale per tirare quattro calci al cosiddetto balun. Ricordò poi di quella volta in cui l’allenatore della San Martino lo aveva visto per caso vezzeggiare con il pallone nel campetto a 7, una sera, dopo l’ora di catechismo. Gli disse di farsi vedere che il suo stile era un buono stile; uno stile alla Rivera. Gli rivelò che sarebbe stato molto felice di averlo in squadra; mai l’allenatore arrivava a esporsi tanto. Ma poi le cose avevano preso un’altra strada, un altro indirizzo, un altro piccione viaggiatore. Un giorno l’allenatore della San Martino e il papà di Paolino si incontrarono, parlarono, e ciò che saltò fuori lasciò con un pugno di mosche il ragazzo. Il padre disse infatti all’allenatore che suo figlio era meglio che non giocasse a calcio; temeva che, troppe ore di allenamento, lo avrebbero distolto dallo studio.
In biblioteca la spaziale Dedde era accomodata all’ultimo tavolo in fondo alla sala principale, dove più volte in compagnia avevano tentato di approfondire il significato di astruse parole greche o delle serie di Fourier; una volta vi avevano anche impresso i loro nomi con la matita; e Paolino vi aveva poi aggiunto una specie di cuore. Dedde vestiva una maglietta a righe gialle e blu e un comunissimo paio di jeans. Era sola, con le spalle rivolte alla porta d’ingresso. Davanti a sé, a parte gli appunti sul Taylorismo e fordismo e sulla crisi del capitalismo, imperialismo, e società di massa aveva un numero della rivista Bell’Europa: il mensile, da poco comparso in edicola, parlava dei segreti delle omelette di madame Poulard, colei che più volte ospitò, nella sua locanda, a pranzo e a cena Victor Hugo, per il quale Dedde aveva un debole. Il giovane le andò incontro in punta dei piedi. Le serrò la vita con le sue braccia muscolose e le diede un bacio sulla testa. Lo schioccare delle labbra rimbombò tra gli scaffali di libri, catturando involontariamente l’attenzione del discreto numero di presenti in quell’angolo di mondo acculturato. Qualcuno sorrise compiaciuto: il papà di Valeria Stucchi, di casa in biblioteca, con la sua solita stropicciata tuta da metalmeccanico. Qualcun altro invece si mostrò infastidito: un paio di signore di mezza età incipriate dalla testa al collo. Paolino - indifferente agli uni agli altri - pose la lettera a Dedde:
"E' per te - le disse semplicemente.
"Per me? - domandò stupita la ragazza.
"Per te".
"Una lettera".
"Esattamente".
"Grazie".
"Non prenderla alla leggera".
"Cosa vuoi dire?".
"Che l'ho scritta col sangue".
"Oddio".
"Non scherzo".
"Ma la vuoi smettere di fare l'idiota? Mi sembri John Belushi quando nel film The Blues Brothers si leva gli occhiali da sole".
"Non sto scherzando".
"Va bene, ma rilassati".
"Mi risponderai?".
"Ti risponderò".
"Ciao".
"Ciao".
La ragazza rincasò pensierosa. Qualche auto, un pullman, un paio di biciclette le scivolarono accanto, ma senza minimamente impensierire il suo mogio incedere. A casa si accorse che erano ancora tutti in giro. Una buona cosa, pensò. Così non avrebbe dovuto dar retta a nessuno. Mamma e Vanessa dovevano essere andate da qualche parte a far la spesa. Papà al lavoro. Raggiunse la camera, si distese sul letto e si mise a fissare il soffitto, quella sorta di orizzonte in cemento e calcestruzzo che divideva il suo mondo da quello dei Cambiaghi del piano sopra. Quel limite invalicabile all’occhio umano che così tante volte aveva osservato e forse anche interrogato, quasi come se in esso potesse nascondersi Dio, o qualche segno magico da codificare tipo fondi del caffè. In base allo stato d’animo che l’accompagnava appariva sempre diverso; un giorno era più luminoso, un giorno più buio; un giorno più alto, un giorno più basso. Sicché la sera di cui stiamo parlando – l’ingombrante cappello che ogni notte calava sui suoi sogni - era una via di mezzo tra il né troppo luminoso, né troppo buio, né troppo alto, né troppo basso; era insomma bilanciato come bilanciato era l'amore che provava indistintamente e simultaneamente per Paolino e per Carlo. Trascorse un quarto d’ora a guardar per aria. Poi pigiò sul tasto play del registratore, lasciando che San Francisco bay blues, interpretata da Eric Clapton, si facesse strada fra le pareti della casa. Prese la lettera del suo amante e la lesse tutta d’un fiato.
“… e con questo concludo – chiudeva Paolino nella lettera – la prossima mossa tocca a te, a te che sei il mio sole splendente, il profumo dei fiori, un disco dei Lemonheads, il miagolio di un gatto sotto la pioggia. A te che sei la mia sei tutto quello che volevo dalla vita. Con amore. Paolino”.
…Meanwhile, in another city, Just about to go insane. Thought I heard my baby, lord, the way she used to call my name. If I ever get her back to stay, its going to be another brand new day. Walking with my baby down by the san francisco bay, walking with my baby down by the san francisco bay, walking with my baby down by the san francisco bay…
Dedde serrò gli occhi. E per un po’ cercò di non pensare più a niente. Ma con scarsi risultati. Un mucchio di pensieri scalpitava letteralmente nel suo cervellino e non c’era proprio modo di placarli; adesso era persino peggio di prima, mentre rincasava dalla biblioteca. Ebbe pertanto l’impressione che delle ragnatele impedissero la consueta corrispondenza tra i suoi neuroni. Una striscia luminosa traghettò davanti ai suoi occhi serrati; fitti banchi di nebbia presero a vorticarle intorno privandola del respiro, facendole patire una sensazione per niente piacevole; qualcosa che evidentemente aveva a che vedere con l’ansia; qualcosa che non aveva mai provato lei personalmente - o almeno che non aveva mai creduto di aver provato - ma che aveva spesso sentito raccontare da mamma o da qualche amica scaricata di fresco. La nebbia cominciò a muoversi sempre più velocemente, dandole ora l’impressione che dei mostri giganteschi potessero celarsi al di là di essa. Infine, quando aprì di nuovo gli occhi, si accorse che il cuore le batteva come un metronomo impazzito ed era madida di sudore. Si levò dal letto e si guardò intorno: era tutto come prima, tutto normale; per fortuna. Ciò stava a significare che non le era accaduto nulle di grave se non… di cos’è che parlava quell’articolo di giornale l’altro giorno? Di attacchi di panico? Le venne in mente la sigla Dap, disturbo da attacco di panico, riguardante il 3 percento della popolazione italiana, con sintomi quali difficoltà di concentrazione, confusione, affievolimento del ricordo, distraibilità, incapacità di ragionare con perdita di obiettività e prospettiva, paura di perdere il controllo, di non essere in grado di far fronte alle situazioni, di ferite fisiche o di morte, di disturbi mentali… Sospirò. Deglutì un paio di volte. Sgranchì braccia e gambe. Poi corse a farsi la doccia. Intanto, mamma e Vanessa, facevano ritorno dall’Esselunga di Vimercate.
Un provvidenziale buco davanti all’entrata del negozio di Marilde - emporio brianzolo secondo solo a quello di Amelia in fatto di eterogeneità delle merci - consentì loro di parcheggiare la Renault 5, l’utilitaria della famiglia. Giù dall'automobile si diressero faticosamente al portone d’ingresso: un paio di sacchetti a testa, strapieni - così, col mangiare, non avrebbero avuto problemi per un bel po’, aveva chiosato mamma mentre si muovevano scaltramente tra gli scaffali del supermercato - impediva a entrambe di muoversi agilmente. Davanti ai loro occhi la solita campana del vetro stracolma; di fianco alla rampa per raggiungere i box un tale che usciva dalla tipografia Villa; poco più in là un camioncino in sosta con le quattro frecce.
"Carlo? - domandò Vanessa.
"Sembra lui - disse la madre.
Il ragazzo ufficiale di Dedde stava suonando il citofono di casa Robbiati.
“Ciao Carlo - esordì la madre.
“Buongiorno signora, ciao Vanessa".
"Che ci fai da queste parti?".
"Sono passato a salutare Dedde".
"Non risponde?".
"Ho già citofonato due volte, ma invano".
"Starà ascoltando la musica. Sali con noi?".
"D'accordo".
In ascensore Vanessa tentò di sistemarsi i capelli allo specchio, ma la frangia ormai troppo lunga non le permise di raggiungere il risultato sperato. Se voleva davvero far qualcosa per i suoi capelli doveva andare al più presto dal parrucchiere. Non aveva altre chance. La donna si rivolse a Carlo per sapere di lui e Dedde a proposito delle vacanze. Carlo le rispose che non avevano ancora deciso dove andare; ma specificò che avevano provato a parlare della Bretagna e delle Baleari. In trenta secondi furono a destinazione. Le porte dell’ascensore si spalancarono rumorosamente su un pianerottolo pulito e ordinato: c’era una grossa pianta grassa di fianco alla porta che conduceva alle scale di servizio e due portaombrelli vuoti. La mamma di Dedde recuperò la chiave dell’appartamento nella borsa e con un movimento maldestro del polso sbloccò gli ingranaggi della serratura.
"E' in casa - mugugnò.
"Si capisce dal casino - aggiunse Vanessa.
"E' la solita casinista - proseguì la donna.
"Non ha ancora capito che in casa non abita da sola - ribatté la piccola della famiglia.
"Le scarpe in giro, la zaino in giro... solo lei si può permettere certi lussi - concluse la mamma di Dedde.
Carlo tacque ma sogghignò. Era ben consapevole infatti del disordine fisico e mentale che da sempre accompagnava la sua Dedde; paradossalmente, tutto il contrario di lui: un uomo precisino, accorto, meticoloso, addirittura pignolo, in certi casi, esasperante. La severa disposizione degli oggetti sulla scrivania e sulle mensole della sua camera, era solo uno fra i tanti esempi che lo riguardavano in questo senso; i libri che dovevano essere rigorosamente ordinati dal più alto al più basso, o dal più grosso al più piccolo, o dal più scuro al più chiaro, o dalla A alla Z; da perderci la testa, insomma. Qualcosa di veramente patologico, gli aveva detto più volte Dedde.
"Ci pensi tu? - chiese la madre a Vanessa.
"Cosa?".
"Vai di là a vedere cosa sta combinando tua sorella".
Vanessa si avviò svogliatamente lungo il corridoio che conduceva alle camere e ai bagni; il classico atteggiamento che aveva tutte le volte che doveva esplicitamente far qualcosa per assecondare i comodi della sorella; una sorella cui tutto era consentito; perché lei aveva la testa tra la nuvole, perché lei era un’artista, perché lei… Uno dei servizi, quello bello, dove non ci si poteva nemmeno lavare le mani che sennò rimangono i segni delle gocce, aveva la porta chiusa. Era lì che doveva trovarsi Dedde. Infatti. Scostando leggermente in avanti la porta del locale Vanessa intravide la sagoma della sorella appena falsata dal vetro smerigliato del box doccia. Non le disse niente. Richiuse la porta. E tornò da dove era venuta.
“Si sta facendo la doccia – disse tuffandosi fra i comodi cuscini del divano e impugnando famelicamente il telecomando della tv.
"Ecco perché non sentiva - tartagliò la madre di Dedde.
"Posso andare in camera ad aspettarla? - chiese Carlo.
"Vai pure - fece la donna.
Lungo il corridoio Carlo si soffermò sui quattro quadri appesi alle pareti, raffiguranti nature morte e volti di fanciulli; sulla scarpiera sormontata da un piatto riempito di chiavi antiche e la mensola impreziosita da vecchi numeri di Orobie, mensile a cui il capostipite di casa Robbiati era abbonato. Si arrestò davanti alla porta del bagno e, imitando la Vanessa di pochi istanti prima, spinse sulla maniglia disserrando leggermente l’uscio. Dedde, il suo tesoro, il suo tutto, era lì, di fronte alle sue pupille dilatate, che beatamente si concedeva a una doccia rinfrescante. La gioia si impossessò di lui.
“Amore! – disse.
Nessuna risposta.
"Amore!! - gridò più forte.
"Eh? - fece Dedde trasalendo.
"Sono io".
"Carlo?".
"Proprio”.
"Che ci fai qui?".
"Sono passato a trovarti".
"Ma non dovevi andare via con tuo fratello?".
"Ho cambiato idea".
Dedde tacque.
"Non sei felice? - domandò Carlo.
"Felicissima - mugugnò Dedde.
"Ne hai ancora per molto?".
"No".
"Ti aspetto in camera".
"In camera?".
Ma il ragazzo, a quel punto, se ne era già andato per il suo destino.
La ragazza uscì in fretta e furia dal box doccia. Scivolò con il piede destro e per poco non finì a terra. Indovinò una ciabatta; ma l’altra chissà perché si era girata al contrario. E adesso anche solo l’idea di sistemarla per il verso giusto le sembrava un’operazione di insormontabile difficoltà. In più le avrebbe fatto perdere un sacco di tempo prezioso. I secondi trascorsero febbricitanti. Saltellando raggiunse il calorifero, al quale era aggrappato l’accappatoio; lo indossò, scardinò la porta del bagno e si precipitò in camera. Ma ormai era troppo tardi. Davanti ai suoi occhi una scena che non avrebbe mai più scordato per il resto dei suoi giorni: Carlo, impietrito, raggomitolato come un porcellino di terra quando si sfiora, con gli occhi bassi e la lettera di Paolino in mano. Cadde il silenzio che si protrasse per almeno una decina di minuti. Con il giovane travolto da un andirivieni di sensazioni mai provate fino a quel momento; uomo pazzo d'amore che per colpa di una donna fedifraga si ritrova spoglio di ogni cosa, di ogni sentimento e ragione, di ogni volontà di alzare lo sguardo al cielo per seguire la scia di un aereo e immaginare ogni giorno un Natale. Avrebbe voluto piangere ma in qualche modo riuscì a trattenersi. Mentre la ragazza incredula e sgomenta lo fissava, respirando a fatica. Infine Carlo si alzò dal letto, si avvicinò a Dedde e le disse:
“Brava".
Silenzio.
"Complimenti".
Silenzio.
"Sei stata davvero brava".
Silenzio.
"E adesso sai cosa ti dico?".
Dedde non rispose.
"E adesso sai cosa ti dico? - ripeté.
"No - disse Dedde con un filo di voce.
"Ti dico grazie. Grazie per tutto il tuo amore. Per tutte le tue belle parole. Per tutta la tua onestà".
Carlo ammutolì. Aveva il magone.
"Ma lasciamo perdere. Ormai... nemmeno un miracolo riuscirebbe più a far tornare le cose come prima".
Il ragazzo abbandonò alla gravità la lettera di Paolino che velocemente scivolò a terra. Strinse forte i pugni. Rivolse a Dedde un’ultima penosa occhiata pregna di odio e disprezzo, dopodiché fuggì via, lontano, lontano, il più possibile lontano da lei.
“Aiuto - tartagliò Dedde – aiuto”.
E sul suo viso caddero copiose le lacrime.

Credo sia davvero complicato comprendere appieno ciò che Dedde provò mentre Carlo se ne andava via, lasciandola lì, sola, nella sua stanza, nel suo giardino incantato, con il peso di un rimorso così grande da sostenere. Nemmeno lei, ancora oggi, lo saprebbe spiegare. Erano comunque emozioni che tutte insieme non aveva mai vissuto. C’erano la rabbia, la rassegnazione, la disperazione, la tristezza; ma, incredibile a dirsi, anche sentimenti che tradizionalmente mal s’accordano con l’atteggiamento di una persona alla quale un evento ha da poco straziato il cuore. Il riferimento è dunque a quella sorta di eccitazione, fervore, esaltazione che - a braccetto della disperazione più nuda e cruda - cominciò presto a farsi strada nel suo animo strapazzato. Si scatenò nel suo cuore un temporale di immane violenza che però, paradossalmente, anziché sradicarla definitivamente da se stessa, le fornì una specie di nuova forza con cui guardare con speranza al domani. Il tremore se ne andò. E il suo posto venne preso da una inaudita voglia di spaccare tutto. Pensò di andare a fare quattro passi in campagna, dove avrebbe potuto prendere a pugni il vento, le stelle. Pensò di recarsi al Ragno Verde a bere un paio di aperitivi di fila. Pensò di sfogarsi con un’amica, un amico, un qualunque primo fesso che passasse per strada. Ma alla fine scelse di non fare nulla, se non rimanere sola con se stessa a rimuginare. Mamma, di lì a poco, avrebbe fatto capolino nella sua tana, ma lei l’avrebbe liquidata con un secco:
“Non mi sento tanto bene. Non devo aver digerito il pranzo di mezzogiorno. Stasera preferisco restare a digiuno”.
Alle nove di sera Dedde cercava quindi di ottenere ancora delle risposte dal soffitto; mentre mamma, papà e Vanessa si apprestavano a vedere un vecchio film con Spencer Tracy e Frank Sinatra, la cui trama concerneva un vulcano che saltava in aria abbrustolendo tutti i protagonisti. La giovane, all’improvviso, seppe cosa fare: evidentemente, tutto quel tempo trascorso sotto l’accappatoio fradicio, correndo il rischio di beccarsi qualche accidente, era servito a qualcosa. Avrebbe scritto due lettere: una per Carlo e una per Paolino; una per il suo ragazzo ufficiale, una per… il suo amante. Si accomodò alla scrivania, accese l’abatjour, impugnò la biro e prese infine a redigere tutti i suoi lamenti e, soprattutto, a comporre il nome del fortunato che, con la sua meravigliosa leggiadria, avrebbe spiccato il volo verso la cosiddetta maturità.
Paolino quella notte dormì profondamente. C’era come al solito Dedde che virtualmente l’abbracciava e gli regalava tutto il calore del suo corpo, delle sue gote, della sua anima; da tempo, del resto, le sue notti erano così perfette, idilliache. Al risveglio fece colazione con calma - erano solo le dieci di mattina e c’era ancora tanto di quel tempo per tirare a campare… – e subito pensò a qualcosa di bello da fare con la sua principessa. La giornata era una di quelle giornate che mettono le ali ai piedi, splendente e soleggiata. Rifletté sul fatto che sarebbero potuti andare a spasso, confrontarsi ancora una volta, prima che facesse buio, con gli affascinanti profumi e colori dell’estate brianzola. Aveva però bisogno di una meta sfiziosa, un posto dove avrebbero potuto starsene in pace ad amoreggiare e a fissare le nuvole del cielo senza che nessuno li indisponesse; un posto immerso nella natura, possibilmente, un posto come… Montevecchia; il famoso e ridente promontorio brianzolo con il santuario, tappa obbligata per chiunque si trovi a fare i conti con le bizzarrie del cuore. Paolino si recò a casa di Dedde verso le undici. Pigiò il pulsante del citofono ma non ebbe risposta. La ragazza, dalla finestra della cucina, lo stava fissando con uno sguardo glaciale.
“Il citofono! – urlò la madre.
La giovane tacque. Paolino suonò di nuovo.
“Dedde! Sto facendo i letti! Non puoi andare tu a rispondere?".
"Adesso vado".
“Sì? – rispose la ragazza.
"Sorpresa!".
"Cosa c'è?".
"Umore nero?".
"Dimmi".
"Che ne dici di andare a fare un bel giro a Montevecchia?".
"Non sto tanto bene".
"Che hai?".
"Mal di testa".
"Vedrai che là ti passa".
"Arrivo".
Dedde raggiunse la madre in camera e le disse:
"Ti devo chiedere un favore".
“Cosa?”.
“Un favore”.
“Non ti senti bene?”.
“Così, così".
"Hai la faccia stravolta".
“Poi ti spiegherò… adesso andresti giù a dare una lettera a Paolino?”.
“A chi?”.
“A Paolino”.
“Paolino?”.
“Mamma, ti prego, non c'è tempo".
“Hai fatto qualche casino”.
“Sì”.
“Un grosso casino”.
“Molto grosso”.
“Quando ti deciderai a mettere a posto la testa sarà troppo tardi… dai, dammi questa lettera”.
Dedde rimbalzò in camera a recuperarla dal libro in cui l’aveva accuratamente infilata la sera prima e la consegnò nelle mani della madre.
“Grazie – le disse.
La donna fece una strana smorfia e si precipitò da Paolino. Raggiuntolo gli disse freddamente:
“Questa è per te… lei, adesso, non può scendere”.
La faccia di Paolino si trasformò in quella di uno spaventapasseri: non si aspettava di vedere la mamma di Dedde – alla quale, peraltro, non aveva mai rivolto la parola - tantomeno di ricevere una lettera dalla ragazza che, pochi istanti prima, gli aveva fatto intuire che lo avrebbe accompagnato a Montevecchia.
“Non può scendere?".
"Non può scendere".
"Ma se eravamo...".
Ma Paolino non finì la frase. La donna aveva evidentemente già detto tutto quello che aveva da dire. Gli girò le spalle e, senza un briciolo di pietà, scomparve al di là dei pesanti vetri del portone.
Era un foglio come tanti. Paolino partì dall’alto con estrema cautela – come chi sta passando in rassegna i voti in pagella – lesse prima la data e poi… nient’altro. L’importante, di sicuro, stava più in basso. Più giù. Sotto il portico dove non batteva il sole… sotto il portico dove il giovane lesse ciò che di tanto urgente e misterioso Dedde aveva da dirgli:
“Caro Paolino, lo so, ti sembrerà tutto così assurdo (…)… perdonami, ma non posso fare altrimenti. Perdonami se ti ho fatto del male. Se ti sto facendo del male. Ma vedi, adesso, credimi, è tutto così diverso da ieri… da ieri, dall’altro ieri, da tutte le sere, le notti che abbiamo trascorso insieme al Cavalluccio. Dall’altra notte al Cavalluccio. È successo qualcosa di inaspettato… Qualcosa che nemmeno io avrei mai potuto immaginare. Così. All’improvviso (…)… come un fulmine a ciel sereno. Dunque quello che ti voglio dire - che con grande difficoltà sto cercando di dirti - è che la mia vita è al fianco di Carlo (…). Ti ho voluto bene e ancora te ne voglio, ma è impossibile per noi pensare realisticamente di avere un futuro insieme. Ci sono tante, troppe cose che dovrei dirti (…). Ti prego di non farmi domande. Ti prego di non farmi domande. Ti prego di non farmi domande. Scusami ancora. De”.
A Paolino bastò leggere una volta soltanto per capire. Per capire che probabilmente non aveva capito niente. Ma che comunque non avrebbe avuto altre chance di comprendere qualcosa di più. In altre circostanze, è certo, il suo carattere impetuoso e sanguigno, lo avrebbe indotto a salire di corsa da Dedde per ricevere ulteriori spiegazioni, o magari supplicarla di ripensarci, tuttavia questa volta… è la vita a insegnarlo. A volte lo si intuisce subito quando è inutile ogni cosa. Ogni speranza. Ogni tentativo di tornare alla carica… ogni tentativo di tornare alla carica sarebbe servito solo a renderlo ridicolo…
Era l’estate del 1994 e nell’aria si respiravano ancora certi fatti di cronaca, politica, spettacolo, che visti oggigiorno appaiono lontani parsec e parsec. Indro Montanelli si era da poco dimesso dal Giornale e aveva fondato La Voce. In Messico, nello stato del Chiapas, uno degli stati più poveri della regione, era scoppiata una rivolta degli indios, organizzata dall’esercito zapatista. Lorena Bobbit era stata assolta dopo aver strappato a morsi mezzo glande al marito. A Hebron, in Cisgiordania, un colono estremista del Kach aveva fatto fuoco contro i palestinesi nella moschea della tomba dei patriarchi e massacrato più di cinquanta persone. Il film Schindler’s list di Spielberg (al quale peraltro Paolino e Dedde avevano assistito insieme al cinema Duse di via Marco d’Agrate) aveva vinto la bellezza di 7 premi Oscar. Moser aveva fallito il tentativo di battere il primato del mondo dell’ora, pur migliorando il suo record personale, ottenuto dieci anni prima. Era l’estate del 1994 e nella placida e sorniona Brianza il sole brillava alto nel cielo sereno. Una leggera brezza spirava da nord. Paolino tornò al Cavalluccio, e lì rimase fino a sera, lasciando che fossero ancora una volta solo i grilli e le cicale a cantare per lui.

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