mercoledì 3 marzo 2010

Brianza Borderline: "Nebbia"

Chi pensa che le nebbie siano uguali in tutte le parti del mondo, in realtà, commette uno sbaglio assai grossolano: ogni paese o città ha, infatti, le sue nebbie caratteristiche, peculiari. In particolare, volendo disquisire sulla Brianza - celebre plaga posta a mo’ d'intercapedine fra i meandri delle menti di un nugolo di giovanotti sognatori vissuti a cavallo fra il Ventesimo e il Ventunesimo secolo, e la geografia pseudo-verdeggiante collocabile fra il corso dell'Adda e del Lambro - si può dire che vi siano due principali famiglie di nebbie: la prima, comprendente manifestazioni atmosferiche di lieve entità, che non fanno mai del male a nessuno, e con le quali quasi tutti noi abbiamo avuto a che fare; la seconda, concernente, invece, fenomeni di condensazione ben più d'impatto, molto pericolosi (anche se molto più rari), della cui esistenza, a onor del vero, la maggior parte delle persone è ignara. Il rischio in questi casi, è quello di soccombere alle loro avviluppanti spire di vapore, per poi finire, come per magia, trasportati chissà dove, in un altro mondo, in un'altra dimensione, in un altro divenire. E l'immaginazione è solo marginalmente responsabile del fenomeno.
La tendenza è sempre quella di scagionare la nebbia, tuttavia molti fatti di cronaca avvenuti dalle nostre parti, non sono spiegabili altrimenti, se non prendendo in considerazione l'azione di nuvole basse e serpeggianti, in grado di far letteralmente sparire nel nulla uomini e cose. Senza andare troppo in là nel tempo, è dell'anno scorso, per esempio, la misteriosa e tragica scomparsa del dodicenne Sandro Fumagalli, per tutti Sandrino, nipote del parroco di Cambiago, avvenuta lungo la strada che collega Agrate a Omate, un freddo tardo pomeriggio di gennaio. Il giovane, in bicicletta, stava andando a trovare un compagno di scuola che abitava nei pressi della sfarzosa casa del dottor Bosisio. Strada facendo era svanito e di lui non si era più avuta traccia. Tutti avevano dato la colpa a un sequestro finito male, o a chissà quale altro tentativo criminoso ad opera di chissà quali fantomatici malviventi, ma molti nebbiologi locali - fra cui il sottoscritto - non hanno mai creduto a questa versione dei fatti. Sandro non era di famiglia ricca e l'arteria che stava percorrendo era battuta da semplici pendolari, con nient'altro in testa se non il desiderio di arrivare presto a casa. Piuttosto, quel dì, c'era una nebbia da fare accapponare la pelle, e non si vedeva a un palmo di naso; chiunque con un po’ di sale un zucca avrebbe evitato di farsi trovare in giro da solo. L'indomani, alcuni operai, rinvennero la bicicletta del ragazzo in un fosso vicino al corso del Molgora, e su Sandrino cadde l'oblio.
I posti dove questi arcani e spregiudicati scherzi della natura dovrebbero impensierire di più i nostri animi sono un paio. Il primo è proprio quello in cui si è verificata la scomparsa del povero Sandrino. Siamo dalle parti di cascina Pescarola, zona rurale tra le più vecchie della Brianza, laddove, si soffermano le leggende locali, si nasconderebbe addirittura un fantasmagorico e inestimabile tesoro risalente all’epoca degli Sforza, argenteria seppellita in qualche vano recondito e dimenticata con il succedersi delle generazioni… Il secondo è quello che sorge in prossimità delle trasandate, disastrate, lugubri, vie periferiche che si intersecano nella affascinante, ma non meno squallida, zona di frontiera, terra di nessuno, quartiere off-limits, compresa tra Agrate, Carugate e Brugherio, in corrispondenza di un noto ritrovo per omosessuali. A queste latitudini, in caso di nebbia, scherzare o filosofeggiare sul bello e il cattivo tempo, può davvero costare molto caro. Insomma: o si è già a casa al sicuro, stretti nel dolce e rassicurante abbraccio di una coperta calda - di mamma e papà, di un fratello, di un cicisbeo - o i rischi di vedere nebulizzare i propri sogni, le proprie ambizioni, le proprie inattaccabili certezze, sono dietro l'angolo; in un soffio, in una virata di cielo, in un turbine di atomi... Sicché la sera di cui vado raccontando, pareva proprio una devastante e cupa sera di queste, con una nebbia quasi di sicuro appartenente alla seconda famiglia; con un'umidità fuori dall'ordinario e un freddo viscido, subdolo e vigliacco, che mi faceva traballare denti e parole. Osservavo incuriosito le minuscole goccioline di vapor acqueo che si amalgamavano gagliardamente ai pilucchi della mia nuova sciarpa scozzese, avuta in regalo da mamma e papà per Natale. E riflettevo sul magistrale silenzio che imperava su ogni corpo e pensiero, rotto solo saltuariamente dal rumore lontano di qualche due tempi truccato con grande malizia. Quel poco di vita palpabile era, dunque, riscontrabile esclusivamente sfiorando con lo sguardo le fioche luci delle finestre che puntavano i loro occhi sulla strada. Quella dei Massironi, i macellai, dell’Amina, l’impiegata di Rino e in generale, di tutta quella sfilza di appartamentini ammuffiti e pullulanti di scutigere esagitate – presente quegli animaletti appartenenti all’ordine dei chilopodi, phylum artropodi, detti anche centopiedi? - compreso quello in cui nacque il san Francesco della Brianza, sua eminenza, sua eccellenza, sua santità, Padre Clemente Vismara.
Stavo percorrendo via Ferrario - la Fifth Avenue del paese - nei pressi della cartoleria Dell’Orto, a quell'ora del giorno, severamente sigillata dietro saracinesche arrugginite e sconquassate. Tergiversavo malinconicamente sul fatto che al suo posto, in tempo di guerra - come dimostrano certe consunte e seppiate fotografie che ritraggono questo puntino ingrigito di geografia suburbana anni or sono - sorgeva un’osteria. Era uno dei miei passatempi preferiti: immaginare la fisionomia di facce, luoghi e costruzioni come dovevano essere molti anni prima che io nascessi. Benché non capissi da dove prendesse spunto questo mio vizioso diletto. Forse da un'innata e romantica attrazione per tutto ciò che era incondizionatamente stato; o forse da una perversa e immorale nostalgia per qualunque essere o cosa inafferrabile e lontana. Non ero solo: al mio fianco - nella mia testa e nel mio cuore - con la sua contagiosa joie de vivre e opulenta gaiezza avevo la bella e splendente Cecilia, con la quale m’ero messo in ballo da pochi giorni. Le cose tra noi erano andate più o meno così. Nel corso di un uggioso pomeriggio di fine anni Ottanta c'eravamo ritrovati al Duke bar di via Ferrario. Alla radio andava un vecchio brano di Bob Seeger, Against the wind. Fuori dal locale, una pioggerellina noiosa e insistente, batteva sui vetri, mentre sfilacciate e minacciose nuvole grigie fagocitavano definitivamente l'irregolare profilo delle Grigne e del Resegone. Le luci dei lampioni ingiallivano l’aria e il passo veloce di pendolari in giacca e cravatta e 24 ore ansiosi di rilassarsi un po’. Il passaggio nevrotico delle auto sollevava spruzzi di grigio e benzina per ogni dove. Terminata l’ennesima manche a Tetris, sotto lo sguardo severo di Moreno, gestore del bar - perennemente indeciso fra il tenerci buoni ancora una volta, ché ancora una volta gli avremmo in qualche modo rinfoltito le casse, o il cacciarci definitivamente fuori dal caffè a pedate nel sedere, così da non doversi ritrovare per l’ennesima volta con l'anima sconvolta e le tovaglie bucate dalla cenere incandescente delle sigarette - mi ero abbandonato come un peso morto su una delle tante sedie del locale. Esausto e rammaricato per non aver nemmeno lontanamente sfiorato il record di Lorenzo, vero e unico gigante ai comandi delle manopole del celebre videogioco, mi ero acceso una sigaretta e avevo cominciato a tirare con foga. Cecilia mi era venuta incontro e sorridendomi, senza alcun preavviso, si era accomodata sulle mie ginocchia.
“Se una ragazza ti si siede in braccio vuol dire che ci sta – mi aveva raccontato più volte Valerio Cazzaniga, in seguito a quella volta in cui, nel corso di un’indolente ora buca di educazione fisica, la mastodontica Deborah Rattaggi, di cui era perdutamente innamorato, le si era praticamente sdraiata addosso, mettendo severamente alla prova il potenziale di vascolarizzazione del suo debuttante accendisigari - . È quasi sempre così".
“Perché non ci mettiamo insieme? – esordì Cecilia.
"Prego?".
"Perché non ci mettiamo insieme?".
Tossii.
"Come?".
"Sei sordo?".
"No".
"Allora fai finta di non capire".
"Ci mancherebbe".
"Quindi?".
Ero in forte imbarazzo. Assunsi nicotina con fare smaliziato e mugugnai:
"Parli seriamente?".
"Perché dovrei prenderti in giro?".
"Non si sa mai".
"Allora?".
"Allora cosa?".
"Ci mettiamo insieme?".
"Sarebbe fantastico".
"Sono felice".
"Non dirlo a me".
E fu così che ci fidanzammo ufficialmente.
Sicché, la sera di cui vado narrando, avevamo parcheggiato, ancora una volta, fino a pochi istanti prima, i nostri fondoschiena e le nostre puerili e velleitarie solerzie al Duke bar. In compagnia di Stefano e Natasha avevamo fumato qualche sigaretta e seguito passivamente un programma su Rai Tre. Venivano tirati in ballo, a cadenze più o meno regolari, personaggi politici di grido come De Mita, Forlani, Ronald Regan, e soprattutto Shevardnadze:
“Ricordiamoci che Shevardnadze non è uno stupido... - commentava un signore paffuto con le borse agli occhi, somigliante a Egidio Porta, noto personaggio locale, titolare di una officina meccanica tappezzata di prosperosi seni al vento e passere rigorosamente curate - è stato dal 1968 al 1972, nell’era brezhneviana, ministro degli Interni della Georgia. Nel 1985 il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov lo ha chiamato al ministero degli Esteri, ponendo fine alla lunghissima carriera di Andrei Gromyko e…”.
In prossimità delle scuole elementari Cecilia s’era messa a disquisire proprio sui nostri due amici. Sosteneva che dovessero mettersi insieme.
“Sono fatti l’uno per l’altro".
"Dici?".
"Lui le sta sempre addosso come un cagnolino".
"Dici?".
"Non sai dire altro a parte 'dici'?
"Dici?".
Ridemmo. Il punto è che la mia testa era da tutt'altra parte: mi tormentava il fatto di stare con Cecilia già da qualche giorno, ma di non avere ancora trovato il coraggio di baciarla. Ma si dia il caso che, in quegli anni, con le ragazze fossi una autentica frana. Avevo un blocco psicologico. Mi fidanzavo magari senza problemi, ma poi - incredibilmente - non sapevo proprio come fare a gestire l'innamoramento, l'affettuosità, i giochetti provocanti. Pertanto, quando si presentava l'occasione di farmi avanti e conquistare due labbra che, finalmente, non fossero più solo le propaggini anatomiche di una bocca qualunque sognata e agognata ascoltando lacrimevoli songs alla A word in Spanish e guardando fuori dal finestrino del bus con il quale mi recavo a scuola - anziché gongolare, tiravo in piedi una scusa qualunque pur di divincolarmi da una situazione per me, paradossalmente ed evidentemente, troppo difficile da gestire. E dunque con Cecilia le cose si fecero ulteriormente complicate: nessuna ragazza mi era mai piaciuta quanto lei; nessuna altra giovanissima era in grado di mettermi così involontariamente alle corde, a disagio, in soggezione. Non solo: la mia eccezionale conquista godeva della fama di essere una che con gli uomini ci sapeva fare mica da ridere; perciò, tragicamente, il mio dubbio non era solo quello di non riuscire ad aggiudicarmi il calore delle sue labbra, il suo respiro fragrante, ma anche quello relativo all'ipotesi che, se fossi comunque riuscito nel mio lodevole intento, poi avrebbe potuto pensare che io non fossi alla sua altezza; con ciò temevo di poter precipitare in un baratro esistenziale dal quale non sarei più riuscito a tornare indietro. In effetti, per quanto riguarda le esperienze con l’altro sesso, tra me e Cecilia c'era un proverbiale abisso; mi batteva dieci a zero, cento a zero, mille a zero. Sebbene entrambi avessimo avuto tre partner a testa, sono sicuro che solo per lei furono dei veri partner, mentre per il sottoscritto...

Il primo ragazzo di Cecilia fu Geremia, soprannominato Garri, colui che ti ammazza se sgarri. L'ironico epiteto gli era stato affibbiato da alcuni scanzonati giovanotti di provincia che quasi tutte le sere si davano appuntamento sotto i portici di via Foscolo, sulla strada per Monza. Fisico asciutto, sguardo virile, pelle olivastra, Garri dimostrava qualche anno in più rispetto a quelli della sua età e anche la sua statura era mediamente più alta di quella dei suoi coetanei. Piaceva da morire alle ragazzine come Cecilia e, a quanto pare, non solo a loro: molte over 40, signorotte ninfomani e perverse, parlavano spesso di lui come di una potenziale preda con cui vivere morbose avventure. Da grande, consumata la sbornia amorosa con Cecilia e sopiti altri scombussolamenti del cuore più o meno verosimili, si sarebbe facilmente lasciato incantare da qualcuna di esse per un gruzzolo di spiccioli. L'itinerario da seguire con la belloccia stagionata di turno, sempre lo stesso: cocktail al bar Parèn, birra al bar Ragno Verde e infine, sesso mordi e fuggi nella boscaglia che fioriva rigogliosa alle spalle della fabbrica abbandonata Rosier o a ridosso della cappelletta degli appestati dalle parti di Concorezzo.
La famiglia di Geremia era la classica famiglia disastrata e disperata. La madre del ragazzo faceva le pulizie per il comune e a malapena raggranellava soldi a sufficienza per tirare a campare. Alquanto sgraziata, soffriva d'irsutismo, con una dentatura che cadeva a pezzi, e vestiti che nemmeno la Caritas avrebbe saputo che farne. Del padre, invece, non si sapeva molto. Era un uomo alto ed emaciato, col volto coperto di rughe e gli avambracci tatuati, del quale nessuno aveva più notizie da vari anni. Secondo alcuni era fuggito in Romania per via di una faccenda losca legata al traffico di stupefacenti; per altri, invece, era passato a miglior vita dopo una sparatoria nel lecchese, conseguenza di un colpo finito male in una banca. Infine c'era Cristiano, il fratello maggiore di Geremia. I due si somigliavano molto. E anche a proposito di Cristiano le cose non sono mai state chiare. Personalmente lo avevo visto l'ultima volta illuminato dalle gelide luci dei neon, in un sottopassaggio della metropolitana milanese: barcollava di fronte a un cestino dell’immondizia con gli occhi inespressivi e un colorito pietoso.
Sebbene ai tempi di Cecilia Garri fosse solo un ragazzino, con il sesso era già un grande esperto, tutto il contrario di noi che, pur avendo la sua stessa età, rimanevamo - in sostanza - dei ginecofobici. In famiglia era stato addestrato fin da subito a sviluppare un'eccezionale confidenza con il proprio corpo, con le proprie parti intime, e soprattutto con le parti intime delle ragazze, specialmente con quel fantomatico e misterioso orifizio naturale dal quale, ci insegnavano da piccoli, cominciavano a cinguettare i bambini dopo improbabili meeting con le cicogne. Aveva 14 anni la prima volta in cui era stato accompagnato da uno zio in un bordello dove aveva perso la verginità con una ragazza molto più grande e matura di lui. E ne aveva soltanto uno di più quando aveva iniziato a confrontarsi con le succulenti e feconde zone d'ombra della bella Maria, sua vicina di casa. Anche lei quindicenne all’epoca dei fatti, la giovane sfoggiava un fisico da capogiro, potenzialmente capace di mandare in sollucchero uomini di ogni età e paese. In risalto sulla sua meravigliosa fisionomia erano soprattutto un seno oversize - con il quale ben poche della sua età potevano competere - una folta chioma castana e gli occhi blu, splendenti come il cielo di agosto dopo un violento temporale. Garri e Maria si ritrovavano in casa di lei - con i rispettivi genitori in giro per lavoro - e sul letto o sul divano - ma anche ai piedi del gigantesco ciliegio che troneggiava nel cuore del giardino della ragazza - con la desolante scusa del gioco del dottore cominciavano a tampinarsi l’un l’altro; comunque un valido pretesto per vincere la noia dei pomeriggi brianzoli, quando non c’erano più lucertole da deflagrare iniettando nei loro corpi litri di detersivo o annegare i gattini appena nati del vicino nel Vinavil. Poi un giorno, come per magia, a lui era uscito una sorprendente e lattiginosa pasta liquida dall’accendisigari e da lì, la loro scostumata e irrefrenabile storia sessuale, non avrebbe più avuto tregua.
Garri era mal visto da tutti. Non c'era essere umano che non provasse per la sua anima indigente, ripiegata su se stessa, una viva diffidenza, per non dire ripugnanza. La sua triste fama era legata a quella del tipico ragazzo da lasciare perdere, dal quale stare rigorosamente alla larga, il classico buono a nulla, scappato di casa, che prima o poi te lo trovi sulle prime pagine dei giornali perché ne ha combinata un’altra delle sue. Del resto, quest'ultimo, non è che facesse molto per smentire la cattiva nomea che lo accompagnava. Era sempre pronto a scazzottare, ad azzuffarsi per cretinate, a mettersi in luce per bravate assai discutibili. Bastava che qualcuno incrociasse per sbaglio un suo sguardo e lui si sentiva libero di massacrarlo di botte. Una volta capitò anche a me un incontro ravvicinato con le sue pupille infuocate. Mi disse:
“Perché mi guardi?”.
"Come?".
"Perché cazzo mi stavi fissando?".
“Ma io non ti stavo fissando".
"Come no?".
"Te lo giuro. Stavo andando per la mia strada".
"Lo sai che io ti potrei anche uccidere?".
"Sì lo so".
"E allora perché mi stavi guardando?".
"La via è grande: può darsi ch’io t’abbia inavvertitamente guardato, ma di sicuro senza volerlo”.
Tremavo come una foglia di jinko biloba.
“Tu mi stavi guardando".
Si stava mettendo davvero male per me, ma il provvidenziale intervento di Marco - amico mio e in qualche modo anche di Garri - mi liberò dai pasticci. Gli disse con calma:
“Dai Garri non rompere la minchia. Sto qui è un bravo ragazzo”.
"Mi stava guardando".
"Non l'avrà fatto apposta".
"Tu non eri qui".
"Ma conosco il mio amico".
Con un ghigno perverso Garri mi fece:
"Va bene, sparisci".
"Grazie Garri - tartagliai.
Cecilia e Geremia si conobbero al Duse, leggendario e polveroso cineteatro di via Marco d’Agrate, costruito negli anni Cinquanta, sulle ceneri del vecchio oratorio, dall'ex parroco del paese, don Francesco Pini, faro del cristianesimo locale, nonché abilissimo ed eccentrico uomo d'affari. Davano un film con Bruce Willis. All’intervallo Cecilia - vivacemente abbigliata con una gonnellina a quadretti rossa e blu e un maglioncino bianco di cotone con degli strani ghirigori sul collo - stava parlottando con alcune amiche nell’atrio: Silvia e Paola. Geremia - sbracato sul divano della hall, appena superato l’ingresso, con un mezzo teppista come lui, incapsulato nell'eterno e indistruttibile giubbetto di pelle nera ricamato di tagli e sbreghi - attese di incrociare lo sguardo della ragazza, dopodiché, con un impreciso cenno della mano, le fece intuire che aveva qualcosa da dirle. La ragazza, all’inizio, si dimostrò disinteressata; ma poi, riguadagnando la sala per il secondo tempo, gli sfilò volutamente davanti.
"Chiamavi me?".
"Già".
“Che c’è?”.
"Avrei da dirti una cosa".
"Sentiamo".
“Volevo dirti che mi piaci molto”.
“Ah sì?".
Garri non aggiunse altro.
"Bene, grazie, ci vediamo, ciao, ciao".
Si rividero alla fine del film.
“Allora ti è piaciuto il film? – riattaccò Garri.
“A me sì".
"Bene".
"E a te?".
“No”.
"Cosa non ti è piaciuto?".
"Tutto".
"Dai non era così male".
“Hai voglia di venire a fare un giro in motorino con me? - tagliò corto il ragazzo.
“Eh?”.
“Hai voglia di venire in motorino con me da qualche parte?”.
"Non so".
"Pensaci".
"Sono qui con le mie amiche...".
"Le tue amiche sanno cavarsela anche da sole".
"E dove mi porteresti?".
“In un bel posto”.
"Wow!".
Cecilia sorrise. Poi disse:
“Va bene andiamo”.
I due giovani si recarono a Monza. Lasciarono il motorino al parcheggio della Rinascente e comprarono un gelato. Lui lo pagò a lei: non si sa come ma, in certe occasioni, i soldi non gli mancavano mai. Cavalcarono corso Italia - fotografando disinteressatamente le vetrine dei negozi, piazza del Duomo - e i tanti piccioni che svolazzavano per l'aria, ingrigiti di fumo e asfalto. Vinto l'imbarazzo iniziale presero a chiacchierare del più e del meno. Lui le raccontò della sua lambretta che cadeva a pezzi e di quanto gli piacesse piegare in curva, pur correndo il rischio di finire fuori strada e fracassarsi il cervello; di quando, a metà anni Ottanta, con alcuni coetanei aveva assistito al gran premio di Formula Uno a Monza, scavalcando le recinzioni del parco e bivaccando come indiani dentro sacchi a pelo sgualciti. Lei di quanto ci tenesse a iscriversi all’Accademia di Brera, seguendo il consiglio di una parente lontana, appassionata di arte moderna, frastornata dai tagli di Fontana; di quella volta che, con i compagni di classe, si era recata in gita a Mantova e si era presa una sbandata per un giovanotto di Modena con il naso aquilino, che per un soffio non aveva baciato ai giardini di Palazzo Tè. Bastò davvero una manciata di parole a convincere Cecilia che quel ragazzo non era affatto come lo descrivevano, un troglodita, un barbaro, un indemoniato; al massimo poteva sembrare un poco grezzo, un dettaglio comunque insufficiente a impensierire le sue intenzioni. All'Arengario si acquietarono su una panchina. Il silenzio li avvolse come un mantello leggero, con il cielo grigio e un mesto venticello che scoteva la folta chioma di Geremia, tra i punti forti della sua avvenenza e del suo insospettabile charme. Cecilia poggiò il capo sulla spalla del ragazzo, abbandonandosi al profumo forte, secco, e penetrante, del suo epidermide. E così rimasero per qualche minuto, prima di rimettersi gaiamente e pomposamente in marcia verso il Ponte dei Leoni. Raggiunta la celebre opera architettonica - fra i simboli clou della cittadina brianzola - la ragazza raccontò al suo accompagnatore qualche aneddoto sulla storia del ponte. Gli disse, per esempio, che risaliva ai primi decenni dell’Ottocento e che sorse in sostituzione di una struttura preesistente e risalente all’epoca dei romani. Il ragazzo si dimostrò vivamente interessato alle parole di Cecilia, sebbene - non ci vuole molto a immaginarlo - non fossero esattamente questi gli argomenti con i quali era solito barcamenarsi con i suoi abituali amici e conoscenti. Si disposero cavalcioni sulla butterata e scribacchiata balaustra del ponte e presero a fissarsi. Cecilia abbassò di poco lo sguardo e - cogliendo compiaciuta la forma perfetta e la invitante carnosità delle labbra del ragazzo - lo baciò. Rifletté sul fatto che non era certo quella la prima volta che baciava qualcuno sulla bocca, ma era quella la prima volta che lo faceva con qualcuno che, probabilmente, sarebbe presto diventato il suo ragazzo. Infatti... dopo appena un paio di giorni da quell'improvvisato e assolutamente ben riuscito fuori porta pomeridiano, i due presero a vedersi assiduamente al Vespaio di via Lecco – indiscusso luogo principe brianzolo dove le coppiette erano solite darsi appuntamento - a pomiciare e a idolatrarsi a vicenda come se si fossero amati e coccolati da sempre.
L’anno trascorse felice. Quasi tutti i giorni Geremia si recava dalla sua principessa e a bordo della intramontabile lambretta se ne andavano a spasso per le vie e i giardini della Brianza. Svolazzavano ovunque, spesso senza meta; benché i loro sorrisi sbocciassero soprattutto dalle parti di Cascina Morosina, al Cavalluccio, al Colleoni, alle Piramidi di Concorezzo, lungo le rive trezzesi dell'Adda... ma un giorno, all'improvviso, le cose fra loro cominciarono a scricchiolare. Fu a causa dell’esplicita richiesta di Geremia di andare a letto insieme. Un pomeriggio i due si trovavano ancora una volta al Vespaio e stavano profusamente discutendo di Carmine, l'amico di Garri, che s'era definitivamente messo in testa di raggranellare quattrini spacciando. A un certo punto - come un fulmine a ciel sereno - Geremia disse a Cecilia:
“Ho voglia di fare l’amore con te”.
"Eh?".
"Ho voglia di fare l'amore con te".
"Ma sei scemo?".
“No".
A Cecilia scappò un debole e imbarazzato sorriso.
"Cosa ti salta in mente?".
"Mi salta in mente che ho voglia di far l'amore con te".
"Non può essere".
"E invece sì".
"Come sì?".
"Sì".
"E' troppo presto".
"Non è troppo presto".
"E' troppo presto, cazzo, ma sei scemo?".
"Ti ho già detto che non sono scemo".
La serietà di Garri mise una certa ansia alla ragazza.
"Stai scherzando?".
"Non so più come dirtelo".
"Cosa?".
"E' ora".
"Tu non sai quello che dici".
"Lo so benissimo".
"Non penso proprio".
"Perché non vuoi fare l'amore con me?".
Cecilia fece passare qualche secondo prima di rispondere.
"Non mi sento pronta".
"Tu sei fuori".
"Non sono fuori".
"Mi fai pena".
"Tu mi fai pena".
"Ma come cazzo fai a non essere pronta? Quelle della tua età lo hanno già fatto da un pezzo!".
"A me di quello che fanno le altre non mi interessa e poi... sono ben altri i modi per...".
"Sei una paolotta del cazzo! - urlò Geremia, accecato dall'ira.
"Come?".
"Hai capito bene".
"Beh, allora se la metti su questo piano...".
"Ciao".
"Ciao".
Cecilia fece per andarsene, ma Garri zittì immediatamente il suo proposito arpionandola per un braccio.
"Aspetta - le disse - scusa".
"Scusa?".
"Forse ho esagerato".
"Ah, meno male che te ne sei accorto".
Cecilia squadrò severamente Geremia.
"Dai vieni qui - insistette il giovane.
La ragazza fece dietro front e tornò ad affiancare Garri che pareva essersi calmato.
"Oh, ma si può sapere cosa ti è preso? - gli domandò esterrefatta.
"Non lo so nemmeno io. Scusa".
"Ti sembra il caso di aggredirmi così?".
"Ti ho chiesto scusa".
"Mi hai messo paura".
"Non volevo".
"Per una cosa così delicata, poi...".
"Finita qui?".
"Finita qui".
A casa, Cecilia, pervasa da un sentimento di tristezza, ripensò all'accaduto. Rifletté su quello che aveva appena detto a Garri, giungendo a concludere che, probabilmente, non è che non fosse pronta per fare l'amore; semplicemente non era pronta per farlo con lui. Non riusciva a spiegarsi il perché, ma una specie di sesto senso le suggeriva che il grande passo lo avrebbe compiuto con chi ancora non era entrato a far parte della sua vita, un giovane verosimilmente a lei più vicino socialmente e spiritualmente. La sua mente cominciò a macinare idee e propositi e soprattutto a porsi interrogativi che mai prima d'ora si erano imposti alla sua attenzione. Si chiese che senso avrebbe avuto stare ancora con Garri se le cose - ora era chiaro - non sarebbero mai andate oltre i consueti giri in motorino e le consolidate capatine al Vespaio. Si chiese il motivo di tanta foga esistenziale, rabbia interiore, che contraddistinguevano il suo amante, che non aveva mai incontrato in nessun altro essere umano, e che le mettevano così tanta paura. Si chiese mille altre cose senza tuttavia giungere ad alcuna valida alternativa per ovviare alla complicata e turbolenta situazione sentimentale che, era lampante, sarebbe presto andata delineandosi. Dunque tacque, non disse niente a Geremia, mandò giù il rospo e andò avanti a vederlo, come se niente fosse accaduto. Passivamente ripresero a chiacchierare di Carmine e di altri argomenti più o meno insulsi e a cavalcare in lungo e in largo la Brianza. Passarono un paio di mesi. Ma - un pomeriggio che stavano passeggiando, mano nella mano, dalle parti del Villaggio Reitano - Garri le disse:
“Dobbiamo farlo".
"Cosa?".
"L'amore".
"Oddio ti prego".
"Dobbiamo farlo".
"Ancora con sta storia?".
"Ancora".
"Ma perché?".
"Perché sì".
"Ti prego Garri, te l'ho già detto...".
"Mi devi dimostrare qualcosa".
"Non ti ho dimostrato abbastanza?".
"No".
Cecilia ammutolì.
"Tu non è che non sei pronta...".
"E' così invece".
"Tu, semplicemente, non vuoi fare l'amore con me".
"Sarebbe lo stesso con chiunque".
"Non ci credo".
"E' così".
"Non è così":
"E allora facciamolo".
"No".
"Ti odio".
"Perché mi odi?".
"Perché tu non mi ha mai amato".
"Non puoi dire una cosa del genere".
"Certo che la posso dire, sennò...".
"Sennò...".
"Sennò ci staresti".
Cecilia non seppe più cosa fare e cosa dire.
"Sei una stronza".
"Ne hai ancora?".
"Un'infame".
"Adesso basta".
"Lo dico io quando è il momento di dire basta".
"E tu chi sei?".
"Io sono qualcuno che probabilmente tu non meriti".
"Perché io dovrei meritarmi uno che mi vuole obbligare a fare una cosa che non voglio?".
"Io non obbligo nessuno".
"Meno male!".
"Lo sapevo che sarebbe andata a finire così".
"Così come?".
"Così".
I due si lasciarono senza aggiungere altro e dopo quel dì non si rividero più. Cecilia cominciò una nuova vita piena di successi e gioie; Garri prese, invece, a scivolare in un abisso sempre più profondo dal quale non sarebbe più risalito.

L'amore fra Cecilia e Marcello sbocciò pochi mesi dopo la storia che la ragazza aveva avuto con Garri, colui che ti ammazza se sgarri. S'incontrarono per la prima volta allo Show Point, rinomata discoteca sulla strada per andare a Monza, nei pressi dello stadio Brianteo. Erano i tempi in cui Gloria Gaynor furoreggiava con la sua sempre attuale, coinvolgente e sconvolgente, I will survive. I due erano approdati fin lì con le rispettive compagnie e si trovavano al centro della pista da ballo, sotterrati da fasci di luci stroboscopiche e decibel. Si muovevano a tempo, disinvolti e sereni. Cecilia seguiva la musica con la sua solita grazia, agitava le braccia con parsimonia e molleggiava le ginocchia come solo un provetto ballerino è in grado di fare. Marcello era un po’ più scoordinato, ma anche lui, dopotutto, sapeva il far suo. Al fianco di Cecilia rimbalzava come una trottola Dario, detto Kunta Kinte, un gigante di cento chili, convinto di sapersi destreggiare in discoteca meglio di chiunque altro. Con la sua mole spesso urtava chi gli stava vicino, facendogli perdere l'equilibrio e rovinare a terra. Ed è proprio questo ciò che accadde anche con Cecilia. La ragazza all'improvviso subì una violenta spallata dell'amico e, senza nemmeno rendersi conto, si ritrovò come un sacco di patate a guardare dal basso i sederi dei ballerini. Inevitabilmente si alzò un coro di risa e battutine acide:
"Kunta Kinte ne ha ammazzata un'altra!".
"La bestia ha colpito ancora!".
"Ma quanto pesa quella palla di lardo!?".
Marcello non aveva mai visto prima d’ora Cecilia, ma aveva seguito divertito la scena fin lì. Colpito dalla sua bellezza e constatando stupito che nessuno dei suoi amici si stesse facendo sotto per aiutarla a rialzarsi, si mosse in suo soccorso. Compì pochi passi, la raggiunse, le allungò la mano e - con un agile movimento dell'avambraccio - le consentì di riacquisire la postura eretta.
“Grazie - gli disse Cecilia, meravigliata da tanta gentilezza.
“Figurati – le rispose lui.
"Se aspettavo l'aiuto di un mio amico si faceva sera".
"E' stato un piacere".
"Grazie ancora".
Chiusa la canzone di Gloria Gaynor violentarono l’aere della balera le note di un pezzo dei Frankie goes to Hollywood, band che negli anni Ottanta al grido di brani mozzafiato come “The power of love” fece fuoco e fiamme. Cecilia restò accollata alla pista, sbarazzina e superlativa come sempre, mentre Marcello, con un amico, Silvano, andò a riposarsi su uno dei tanti divanetti che circondavano la sala da ballo: una posizione strategica dalla quale avrebbe potuto rimirare la sua nuova potenziale preda nel migliore dei modi.
"Dio - mugugnò.
"Che c'è? - domandò Silvano.
"Ho appena visto la Madonna".
"E io il papa".
"Non sto scherzando".
"Che hai visto di tanto fenomenale?".
"Non ho mai visto una ragazza tanto carina".
"Eh?".
"Non ho mai visto una gnocca del genere".
"Chi?".
"Mi sa che mi sono innamorato".
"Sì, ma di chi?!".
"Di quella là".
"Quale?".
"Quella con la gonnellina panna".
“Quella con di fianco la cicciona?”.
“Quella con davanti la cicciona”.
“Quella con davanti la cicciona con la camicia verde?”.
“Ma quante ciccione vedi?".
"Ah, adesso ho capito!".
"E allora?".
"In effetti".
"Cosa significa 'in effetti'?".
"Significa che non è affatto male".
Ci fu una piccola pausa.
"Hai visto prima?".
"Cosa?".
"Quando è caduta".
"No".
"E' caduta ed io l'ho aiutata a rialzarsi".
"Ma va?".
"Ma sì".
"E poi?".
"Niente".
"Non le hai detto niente?".
"Ci siamo solo salutati".
"Quindi?".
"Potremmo andare adesso a conoscerla".
"Tu".
"E tu".
"Io?".
"Non vedi che è là con un'amica?".
La canzone dei Frankie goes to Hollywood sfumò. Cecilia abbandonò la pista con Silvia. Si diressero al bancone del bar. La prima non sapeva se Marcello l’avesse seguita o meno con lo sguardo durante l’ultima canzone, tuttavia era quello in cui aveva sinceramente sperato. Marcello e l'amico seguirono sottecchi il migrare delle due ragazze da un angolo all'altro della discoteca; le accompagnarono con le iridi fino alle mani agili e scattanti del barista che servì loro qualcosa da bere.
"Dai muoviamoci - disse Marcello a Silvano.
Pronti e via.I due giovanotti raggiunsero il bar in una manciata di secondi.
"Ciao, ciao - disse Marcello affiancando Cecilia e pungendole la spalla con l'indice.
"Ciao! - fece la ragazza girandosi verso i nuovi arrivati.
"Ciao, ciao - farfugliò Silvia.
“Allora, come va? - domandò Marcello.
"Non c'è male - cantarono all'unisono le due giovani -. E voi?".
"Bene - rispose prontamente Silvano.
"Molto bene - aggiunse Marcello.
"Non è male qui la musica - commentò Cecilia con un sorriso smagliante.
"Per niente! - l'assecondò il suo interlocutore.
"Grazie ancora per prima – incalzò la giovane -. Sei stato davvero molto gentile".
“È il minimo che potessi fare per una bella ragazza come te".
Cecilia arrossì. Intanto Silvia e Silvano decidevano sistematicamente che tra loro non ci sarebbe stato futuro.
"Io scappo di là con gli altri - disse Silvia all'amica.
"Dove vai?".
"Vado a vedere se c'è qualcuno che mi offre una sigaretta".
"Posso offrirtela io - si fece avanti Silvano.
"In realtà c'è un tale che me ne deve una. Se non ti offendi, preferirei scroccarla da lui".
"Come vuoi".
"Beh, Sally, a dopo allora - disse Cecilia.
"A più tardi - replicò Silvia.
"Ciao! - dissero i due ragazzi.
La compagna di Cecilia si mosse verso lidi più felici e di lì a poco anche Silvano si eclissò, lasciando definitivamente il campo libero all'amico.
Sicché, la storia tra Cecilia e Marcello, prese ufficialmente il largo la settimana successiva il primo incontro che i due avevano avuto allo Show Point, nel corso di un sonnolento pomeriggio domenicale, con il cielo affollato di timide nubi e una leggera foschia. Nelle intenzioni dei due c'era quella di visitare Bergamo Alta e non rientrare a casa prima di sera. Da Concorezzo, dove abitava, il ragazzo volò da Cecilia a bordo dell'elegante motorino blu metallizzato che gli aveva appena acquistato il padre per il compleanno. In breve si ritrovò di fronte alla modesta dimora della sua nuova conquista, ad Agrate, in via Galbiati, piccola e anonima traversa della ben più memorabile e spettacolare via Mazzini. Al citofono notò con disappunto il pulsante di casa Sironi bruciacchiato dall’azione maldestra di qualche buontempone. Ma lo pigiò comunque con vigore, sollecitando la suadente fanciulla a raggiungerlo. Rivedendosi si dettero un bacio veloce, prima di avviarsi sollazzanti e felici alla fermata dell'autostradale. In autobus parlarono del più e del meno: della scuola, degli amici, delle rispettive compagnie. Marcello, in particolare, si soffermò sul posto dove era solito incontrarsi con la sua cricca, in prossimità del cosiddetto Burrone, storico punto di aggregazione per i giovani di allora, nel cuore del paese, sotto le gigantesche e profumate fronde dei tigli. In seguito le raccontò della sua passione per il gioco del basket e del suo desiderio di poter un giorno diventare un professore di matematica, come sua madre. Cecilia percepì fin da subito la grande diversità che c'era tra quest'ultimo e il suo ex. Sebbene fossero entrambi dei ragazzi fisicamente attraenti, Marcello era indubbiamente più delicato, gentile, e accorto di Geremia; con quel suo particolare modo di muoversi, raffinato e ottocentesco e quel suo tono della voce, dolce e pacato, le sembrava di avere a che fare con un extraterrestre.
"Ha un non so che di innatamente nobile che mi manda in estasi - avrebbe presto raccontato alle amiche.
Nel capoluogo celebre per aver dato i natali a Donizetti percorsero a piedi la strada che separa la stazione dei bus dalla funicolare. All'altezza del Sentierone, Cecilia indovinò la mano di Marcello e gliela morse con dolcezza. Chiacchierarono del più e del meno, ma un argomento ebbe la meglio sugli altri: l'arte. Entrambi avevano un debole per tutto ciò che riguardava anche solo lontanamente opere architettoniche, quadri, antichità, e in una città come Bergamo, chiaramente, ne ebbero a bizzeffe di begli angoli sui quali soffermare le loro attenzioni. Con la funicolare furono presto nel cuore di Città Alta. Si inoltrarono nel budello medievale e approdarono alle antiche mura veneziane; a questo punto Marcello raccontò a Cecilia di un suo amico boyscout che aveva preso lezioni di alpinismo scivolando imbracato proprio lungo le ripidi pareti della fortezza; a Cecilia vennero i brividi pensando di potersi abbandonare nel vuoto come fanno gli scalatori e come doveva appunto aver fatto l'amico di Marcello. Infine si accomodarono su una delle numerose e invitanti panchine che contrassegnavano la romantica passeggiata lungo le mura, dove poterono rimirare un panorama mozzafiato. Il cielo si era fatto splendente e della foschia brianzola si era persa ogni traccia. Gli Appennini sbiadivano in lontananza e Bergamo Bassa era febbricitante: frotte di pedoni e automobili si rincorrevano come tante formichine. Sopra i loro pensieri brillavano i mille colori delle foglie degli ippocastani, rassegnati ormai al sopraggiungere della cattiva stagione.
“È meraviglioso qui non trovi? - commentò Marcello.
"Davvero - rispose Cecilia.
"Se qualcuno ha dei dubbi su Dio...".
"Infatti".
"A volte basta poco".
La giovane si sdraiò sulle gambe del ragazzo.
"I tuoi capelli sono una meraviglia - le disse.
Cecilia non ribatté. Aveva gli occhi chiusi e le pareva di sognare. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era che non si sentiva così beata e felice. Era pervasa da una superba gioia interiore e la semplice azione del respirare la riempiva di energia. Rimasero in quella posizione per almeno un quarto d'ora, venti minuti, mezz’ora. Poi ripresero a scambiarsi qualche parola con moderazione. Discussero della neve - di quanto fosse bella la neve, dei dischi dei Guns 'n Roses - di quanto fosse dolce e meraviglioso un pezzo come Patience, del molliccione - con cui un tempo, con la moda dei paninari, si usava assicurare i mazzi di chiavi ai pantaloni. Poi Marcello sollevò leggermente la testa della ragazza, facendo sì che le rispettive bocche venissero a trovarsi a pochi millimetri di distanza:
"Posso baciarti? - le domandò-
“Guai a te se non lo fai - gli rispose la ragazza.
E fu così che, l'amore tra i due, decollò una volta per tutte.
Passarono i mesi e tutto sembrava andare per il meglio. Marcello per dimostrare quanto fosse appagato di potere stare al fianco di Cecilia, si era lasciato andare a spese folli. Aveva regalato alla ragazza un braccialetto d'oro, un quadro raffigurante un disegno di Pollock, un portacandele. La giovane, dal canto suo, non potendo certo competere con il tronfio portafoglio del fidanzato, si era fatta avanti con una lettera nella quale gli raccontava semplicemente di non avere mai avuto un ragazzo così speciale. E fu proprio nel calderone di questa euforia esistenziale che, un giorno, finirono quasi per fare l'amore, un gesto estremo con il quale nessuno dei due si era ancora cimentato. A casa di lui, un pomeriggio, si erano messi a guardare una videocassetta, Io e Annie di Woody Allen. Avevano optato per questa scelta per un paio di motivi: nessuno dei due aveva voglia di studiare e l'artista americano era il regista preferito di Cecilia. Sdraiati e mezzo avvinghiati sul comodo letto a due piazze del ragazzo, Marcello, di punto in bianco, aveva cominciato a stuzzicare Cecilia e a farsi disinvoltamente largo nelle sue intimità, facendo scivolare le mani dalla zona lombare, al sodo della carne del suo ambito fondoschiena. Poi l'iniziativa era passata nelle mani della ragazza, che aveva preso a sfiorare con indistinto pudore certe zone off-limits di Marcello, dopodiché... dopodiché suonò il campanello: era la madre di lui rincasata prima del tempo dal lavoro, che mandò all'aria tutti i loro lussuriosi piani.
“Ah mamma sei tu? - fece Marcello.
"Ciao - disse quest'ultima.
"Che faccia lunga".
"Non parlare".
"Sei venuta a casa presto".
"Infatti".
"Non stai bene?".
"Da schifo: mi scoppia la testa".
"Capisco".
La madre di Marcello squadrò il figlio con aria stranita:
"Si può sapere perché mi guardi con quell'aria da babbeo?".
"Sono di là con una ragazza - biascicò sottovoce il ragazzo.
“Oddio".
"Dai mamma...".
"Chi è la poveretta stavolta?".
“Non gridare che sente".
“Beh, spero di non avervi disturbato! – commentò a voce alta la donna, caldeggiando i poco trasparenti piani del figlio.
“Ma no mamma, figurati, eravamo di là a studiare!".
Trascorsero altri tre mesi. Tutto regolare, tutto spensierato come sempre. Il sole splendente, l'aria febbricitante… In giro a braccetto, bacini e regalini. Cecilia ebbe modo di conoscere meglio i genitori di Marcello, e il ragazzo i genitori di lei, in occasione di un paio di cene. Entrambi avevano commentato positivamente le esperienze fatte. Erano due famiglie diverse, quella di Cecilia più provinciale, quella di Marcello più snob. In ogni caso i due si erano perfettamente adattati alle circostanze, senza imbarazzo o soggezione. Coi genitori della ragazza s'era parlato di calcio ed Eros Ramazzoti, con quelli del giovane di scuola e politica. Non importa se Marcello non tenesse ad alcuna squadra, e se Cecilia non sapeva nemmeno cosa volesse dire essere di destra o di sinistra. I presupposti per un serio futuro insieme erano dunque dietro l'angolo. Sennonché, un pomeriggio, i due si misero d’accordo per andare a vedere un film a Monza con Sylvester Stallone:
“Spazzatura cinematografica – aveva berciato Marcello durante il viaggio in motorino dalla casa di Cecilia alla sala cinematografica.
"Non esagerare".
"Lo dice il prof di un mio amico".
"Antonio Canova".
"Lo conosci?".
"Certo che lo conosco. Abitava ad Agrate".
"Ma va?".
"Abitava in via Verdi".
"Dove abita il tuo amico Giampaolo?".
"Esattamente".
"Non lo sapevo".
"Adesso lo sai".
"Comunque è un grande".
"Ma non il Padreterno".
Al cinema erano già seduti da qualche minuto quando, all'improvviso, Marcello cominciò a sudare freddo.
"Dobbiamo andarcene immediatamente - disse.
"Cosa?".
"Prendi le tue cose e filiamocela".
"Ti ha dato di volta il cervello?".
"Sbrigati".
Il ragazzo piegò la testa su se stesso a mo' di chi è seriamente intenzionato a non farsi vedere da qualcuno.
"Ma... Marcello... che ci fai qui?".
La domanda gli era stata rivolta da una ragazza mora, sì e no della sua stessa età, in fila per recarsi a comprare un pacchetto di popcorn, con di fianco un’amica. Il giovane divenne paonazzo.
"Io?".
"Tu".
"Niente".
"Anch'io niente. Sono solo venuta al cinema".
"Ah".
"Scusa ma non dovevi andare via con tuo padre?".
"Io?".
"Sì, sempre tu".
"Io... non mi sembra".
"E questa chi sarebbe?".
"Chi?".
"Mia nonna".
"Lei?".
"Marcello, non mi prendere per il culo... chi è questa ragazza?!".
La giovane squadrò Cecilia da cima a fondo, poi si espresse come non le capitava spesso di fare:
"Sei un gran figlio di puttana".
"Ma...".
"Sei un bastardo".
"Oddio".
"Sei un...".
"Ti prego Vanessa, ti posso spiegare tutto".
"Che cosa mi vuoi spiegare?".
"Tutto".
"Per esempio che oggi dovevi andare via con tuo padre… e invece... sei uscito con un'altra?".
"Vanessa".
"Non ti voglio più vedere".
"No...".
"Sparisci dalla mia vita".
Gli spettatori che avevano involontariamente seguito allibiti l'alterco fra i due si organizzarono in un coro di fischi esasperante, chiaramente indirizzato a Marcello. Costui si sentì mancare: una figura del genere non gli era mai capitata in vita sua. Se solo avesse potuto sprofondare, nebulizzare, scomparire... Intanto Cecilia, con gli occhi sgranati, cercava ancora di capire cosa stesse succedendo: ciò a cui aveva assistito era qualcosa che mai e poi mai si sarebbe potuta immaginare.
“Vanessa? – si domandò - e questa da che parte salta fuori?".
“Senti… - le disse Marcello devastato dall'ansia.
“Non dirmi niente – ribatté Cecilia -. Non dirmi niente e portami a casa".
Lungo la strada del ritorno Marcello le provò davvero tutte per cercare quantomeno di salvare la faccia, ma invano:
“Non voglio sapere niente - le aveva risposto lei ogni volta.
Arrivati in via Galbiati Cecilia smontò agilmente dal motorino e senza proferire parola guadagnò le scale di casa: Marcello, ormai, non faceva più parte della sua vita.

Gli occhi di Cecilia e Daniele, invece, s'incrociarono per la prima volta in occasione di una festa organizzata da un’amica in comune, Stefania. Quest'ultima aveva una moltitudine di amici e quando si metteva in testa di fare baldoria, erano tantissime le persone che rispondevano felicemente al suo invito. D'altronde, in un paese dove non succedeva praticamente mai nulla, era questa un’occasione davvero ghiotta per potersi divertire come si deve, conoscere facce nuove, intraprendere giochi piccanti, pettegolare. Stefania abitava in una bianca villetta a schiera in via don Luigi Cantini, non lontano dal bucolico e trasognato verde del parco Aldo Moro, di fianco ai Mariani della cartoleria di via Battisti. Aveva un giardinetto ben curato, fin troppo curato e ordinato, qua e là cosparso dalle capocce appuntite dei nani: in realtà mancava Mammolo, verosimilmente trafugato da qualche membro del Comitato per la liberazione dei Sette Nani, assai attivo da queste parti. La festa era quasi finita. Molti giovani se ne erano già andati. Restava un nugolo di ragazzi aggrappati alle casse dello stereo e un gruppetto di ragazze asserragliate intorno a uno strano aggeggio che Stefania aveva appena esibito loro: una specie di tritacarne dell'anteguerra. Alla padrona di casa venne un’idea:
“Ora che siamo rimasti in pochi che ne direste di fare il gioco della verità?”.
“Yeah! –fece una delle ragazze.
“Ottima idea! – controbatté un ragazzo.
"Perché no? - commentò qualcun altro.
Il gioco della verità era uno dei passatempi preferiti dai giovanissimi degli anni Ottanta. Consisteva nel rivolgere a un amico qualsiasi delle domande il più possibile imbarazzanti e personali, alle quali bisognava obbligatoriamente rispondere la verità. Un esempio pratico di ciò, lo diede - in una clamorosa occasione - Diego Losasso, un tipo che tutti si divertivano a sfottere per la sua aria da grullo, quel giorno in cui venne interrogato relativamente al piacere che, si sospettava, provasse nell'andare a rubare la biancheria intima delle signorine, stesa ad asciugare nella corte vicino all'oratorio femminile. Il ragazzo, da autentico fuoriclasse, aveva risposto “certo che sì”, senza alcun dubbio la verità. Quando arrivò il turno di Daniele, venne coinvolta per la prima volta Cecilia.
“Vorrei porre la mia domanda a te - disse indicando quest'ultima.
"Cecilia? - apostrofò Stefania.
"Esatto".
"Dimmi tutto - fece sorridendo la protagonista della nuova manche.
“Quanti ragazzi hai baciato nella tua vita?”.
Si levò un coro di risa.
“Dilli tutti, eh! – blaterò Elena.
"Anche quello di Palazzo tè! - disse Rebecca.
"Palazzo tè?".
"Dai non fare la finta tonta - proseguì l'amica.
"Forza, fuori i nomi! - riattaccò Stefania.
“Ok, ok, allora, fatemi fare mente locale...".
"Mi sa che ci aspetta una lunga lista - mugugnò Camillo.
"Macché - replicò la diretta interessata.
"Allora! Fuori questi nomi! - intervenne di nuovo la padrona di casa.
"Dunque...".
"Dunque - disse Daniele - io sto aspettando".
Cecilia sorrise.
"Mah, tralasciando certe sciocchezzuole fatte alle medie...".
"Eh no! Anche quelle valgono! - berciò allegramente Elena.
Cecilia si mise a contare.
"Uno, due, tre... quattro... cinque... cinque!".
"Cinque? - domandò Daniele.
"In tutto ne ho baciati cinque!".
"Non ci crediamo - proseguì il ragazzo.
"Eppure...".
"Dai Cecilia non raccontare fesserie! - tartagliò Bianca - cinque se li è fatti mia sorella che ha dodici anni!".
"Però, tua sorella è precoce! - ammise Cecilia.
"Verità! Verità! - gridò Camillo.
"E' questa la verità".
"Allora sentiamo... chi sarebbero questi cinque? - domandò Stefania.
"Scusate ma questa non è un'altra domanda?".
"E' giusto specificare - grugnì Daniele.
"D’accordo, ma vi dico solo i due più importanti, quelli con cui ho avuto anche una storia".
Nessuno reclamò.
"Il primo è stato Garri".
"Garri? - chiese Daniele.
"Lui".
"Colui che ti ammazza se sgarri?".
"Proprio".
Ci fu un boato di risa.
"Ma come hai fatto a stare con quel pazzo? - si fece avanti Elena.
"Una volta non era così".
"Poi? - domandò Stefania.
"Il secondo è stato Marcello, un ragazzo di Concorezzo...".
Le espressioni dei volti dei presenti si organizzarono in un gigantesco punto interrogativo.
"Mi sa che non lo conoscete - puntualizzò Cecilia.
"Va bene. Adesso tocca a te - disse Stefania all'amica - a chi vuoi porre la tua domanda?".
"Visto che lui l'ha posta a me...".
"Daniele... - sussurrò Elena.
"Daniele - affermò Cecilia.
"Spara - vociò quest'ultimo, felice come il cinguettio di un passero a primavera.
"Cosa ne pensi del tradimento?".
"Ma che domanda è?! - sparò a zero Camillo.
"E' la mia domanda - si difese Cecilia.
"Ma così non ci si diverte più!".
"Dai Camillo non scassare! - intervenne Lorenzo.
"Lasciatemi rispondere - si impose Daniele -. Io la trovo una bella domanda".
"Vai - giubilò Stefania.
"Beh, posso dirti che, senza ombra di dubbio, sono assolutamente contrario a cose di questo genere…".
"Tu, quindi, non hai mai tradito? - chiese Cecilia.
"Mai".
"Meno male".
"Perché meno male?".
"Perché il mio ex... oddio, meglio lasciar perdere".
E così, dopo un'oretta dal felice botta e risposta fra Cecilia e Daniele e tante altre belle uscite alla Diego Losasso, la festa ebbe fine. A un certo punto Stefania aveva deciso (o meglio, avevano deciso i suoi) che era ora di andare a dormire e, garbatamente, aveva invitato i pochi rimasti a riguadagnare la strada di casa. Cecilia e pochi altri, fra cui Daniele, si ritrovarono quindi a parlottare a bassa voce sul marciapiede, appena fuori il cancello della confortevole dimora che li aveva ospitati. Il ragazzo, forte della bella intesa che si era creata fra lui e Cecilia durante il gioco della verità, si propose per accompagnarla a casa.
“Volentieri – rispose lei.
A destinazione, avvolti dalle fitte tenebre di via Galbiati, si lasciarono con un innocuo bacio sulla guancia e la promessa di sentirsi entro breve: esattamente ciò che accadde e che li portò a fidanzarsi ufficialmente.
Daniele aveva qualche anno in più di Cecilia e dunque era già in possesso di macchina e patente quando i loro cuori presero a rincorrersi. La ragazza ne era felice: era infatti stanca di continuare a farsi scorrazzare in giro a bordo di rumorosi e pericolosi motorini. Grazie al sicuro e confortevole abitacolo dell'automobile del giovane divenne presto loro abitudine andare a pascolare fra le spighe di grano e avena che crescevano fitte e rigogliose alle spalle della ciclabile che conduce all’St, in quel periodo, realizzata da pochi mesi; prima, per raggiungere la nota industria di microchip, dal quartiere Agrate Bronx, era necessario circumnavigare l’intera area urbana che va dal Quadrifoglio - il complesso superresidenziale di via Verdi - al punto in cui i tedeschi, nel corso della seconda guerra mondiale, assassinarono il povero Mario Perego, praticamente in faccia alla Star. I due giovani rimanevano le ore ad amoreggiare, a fissare le stelle, ad ascoltare la radio - anche se in materia musicale, va detto, entrambi non erano molto ferrati - a fumare il lecito e l’illecito. Una sera, per caso, capitò anche al sottoscritto di imbattersi nella Citroen beige di Daniele. Ero in giro con degli amici alla ricerca del punto in cui un tale diceva di aver visto una volpe, quando, all'improvviso, mi ero ritrovato a tu per tu con il baule del mezzo della coppia. Un'occhiata al finestrino, più o meno involontaria. Lei stava cavalcioni su di lui, non esattamente con l’espressione di chi è interessato a esaminare la volta celeste, a comprendere gli arcani misteri che governano la legge di gravitazione universale, Stephen Hawking e... Facemmo finta di niente e continuammo per la nostra strada. Ma quella sera, Daniele - avrei saputo più avanti da Cecilia - s'era inalberato non poco a causa della nostra involontaria intrusione: il ragazzo era piuttosto permaloso, e non tollerava in alcun modo che degli sconosciuti - consapevolmente o inconsapevolmente - andassero a mettere becco nelle sue questioni private, tanto più se queste riguardavano il suo appartarsi con una ragazza.
Che dire, in ogni caso, di Daniele... a me non è che piacesse granché. Dei tre amori di Cecilia, probabilmente, era quello che mi intrigava meno. In fondo Geremia aveva un suo lato comico, e i suoi perché mi guardi? avevano fatto la storia. E in un certo senso anche Marcello poteva risultare interessante, se non altro per quella sorta di innata signorilità che lo contraddistingueva e faceva di lui una specie di piccolo lord, un aristocratico all'inglese. Ma Daniele proprio... secondo me non era né carne, né pesce. Sicché, ancora oggi, non saprei proprio dire cosa ci potesse trovare in lui Cecilia. Forse ne era semplicemente attratta fisicamente, chimicamente, empaticamente, cose che il sottoscritto poteva comprendere solo fino a un certo punto. Il ragazzo, comunque, si presentava bene. Aveva un affascinante ciuffo biondo, gli occhi chiari, due labbroni alla Mick Jagger. Presentava un fisico asciutto, era alto ed era sempre vestito bene. Frequentava la quinta ragioneria all'Omnicomprensivo di Vimercate. A scuola non eccelleva. Ma in qualche modo riusciva sempre a cavarsela. Diciamo che faceva il minimo indispensabile per sopravvivere. Per arrivare al fatidico 6, 6+, 6 ½. Materie che gli piacessero in particolare non ce ne erano. Tuttavia aveva una naturale predisposizione per la matematica finanziaria. Una materia di solito poco apprezzata dagli studenti, tra cui il sottoscritto e Cecilia. Ebbene sì. Quesiti come sapendo che il capitale di L. 10 milioni fra 5 anni maturerà un montante di L. 16.105.100 a quale saggio avviene l'investimento? li divorava a merenda.
Quando non erano in giro in macchina, protetti dagli onirici paesaggi punteggiati di pannocchie splendenti e gelsi solitari, era lui ad andare da lei. A casa di Daniele, Cecilia, vi aveva messo piede solo un paio di volte, peraltro di sfuggita. C’era qualcosa di strano e di impercettibilmente sinistro che la teneva lontana da quella abitazione. Era forse per via della mamma di lui perennemente in bilico tra la sanità mentale e l'esaurimento nervoso, da sempre in lotta con il marito, uomo dedito al lavoro come un ossesso, recentemente colpito da un infarto; era forse l’aria vetusta e vagamente angosciante che circondava l’edificio, una dimora i cui segni del tempo – i muri smaltati, le persiane cigolanti, il cancello arrugginito – non sarebbero sfuggiti nemmeno a un vecchierello accecato. Da Cecilia era invece tutta un'altra cosa. L'aveva potuto constatare anche Marcello. In casa sua, magicamente, brillava quasi sempre il sole. Solo da lei, quindi, i due giovani si sentivano veramente a loro agio e liberi di fare tutto ciò che gli passava per la testa. Si rifugiavano beati nella cameretta della ragazza e - spesso sbracati su un piccolo divanetto con disegnati dei girasoli - si mettevano a giochicchiare con il telecomando della tv, a parlottare di scuola, a baciarsi con ardore. Era il periodo in cui andava per la maggiore il famoso serial televisivo Twin Peaks. E fu dunque proprio nel corso di uno dei tanti enigmatici episodi della saga diretta da David Lynch che, Cecilia e Daniele, fecero l'amore per la prima volta. Fu il ragazzo a prendere l’iniziativa. Non senza un imbarazzo sconosciuto e un indefinito cinismo - era anche per lui la fatidica prima volta - Daniele prese a levarle uno a uno i vestiti, tshirt, pantaloni, reggiseno; la ragazza rimase con addosso solo gli slip. Principiò poi ad accarezzarle i seni e a sbaciucchiarla un po’ ovunque. Infine, entrambi totalmente rimbambiti dalla passione, si regalarono l’uno all’altro. Non andò male, per essere la prima volta. Tuttavia Cecilia avrebbe presto confidato alle sue amiche che si sarebbe aspettata qualcosina di più.
"Ma sei venuta? - le aveva chiesto Silvia.
"Venuta dove? - aveva risposto lei.
"Ma ci sei o ci fai?".
"Ti giuro che non capisco".
"Hai avuto l'orgasmo?".
"Ah, l'orgasmo! Oddio, quello sì, figurati - aveva detto Cecilia, in realtà per niente convinta di ciò che andava affermando.
"Meno male".
"Sì, un po’".
"Cosa?!".
"Mi hai chiesto se ho sentito male?".
"Ho detto 'meno male'... perché hai sentito male?".
"Un po’ sì".
"Quando?".
"All'inizio".
"E poi?".
"E poi niente...".
"Ma lui è stato dolce?".
"Abbastanza".
"Non mi sembri molto convinta".
"Pensala come vuoi".
Trascorsero vari mesi, nel corso dei quali i due amoreggiarono ancora parecchie volte. Vinsero ogni tipo d'inibizione e, in particolare, Cecilia, capì che in realtà "la fatidica prima volta" non aveva provato nessun orgasmo e tantomeno aveva perso la verginità: l'accendisigari di Daniele era riuscito a malapena a scalfire il suo imene. Poi, un giorno, risolsero anche l'esame fellatio, l'ultima performance sessuale che ancora mancava alla loro lunga lista d'imprese lussuriose più o meno credibili. Si trovavano al parco di Monza dove erano andati a fare un giro in bicicletta, come era già capitato tante altre volte. La primavera era sbocciata da un pezzo, brillava uno splendido sole, gli uccelli fischiettavano. I prati non erano ancora stati falciati e certe poligonacee raggiungevano addirittura il metro di altezza. Scelto appositamente il punto in cui la vegetazione era più lussureggiante, crearono uno spiazzo in mezzo al prato, stesero una coperta, e infine si misero a pomiciare indisturbati. Dopo un'oretta, Daniele, intraprese come se niente fosse l'argomento 'rapporti orali'. Il giorno prima ne aveva discusso con un amico a scuola, il quale era da un po’ che si divertiva in questo senso, grazie a una compagna molto più matura ed esperta di lui.
"Chissà perché noi non l'abbiamo ancora fatto...".
"Non so".
"Come non so?".
"Non so - Cecilia sghignazzava.
"Io qualcosa ho già fatto".
"Cioè?".
"Cioè...".
"Beh".
Poi Daniele prese ad accarezzarle la pancia.
"In fin dei conti è una cosa che fanno tutti".
"Dici?".
"Certo".
Sicché, da una parte, la giovane era piuttosto curiosa di provare un'esperienza con la quale, lo sapeva benissimo, prima o poi si sarebbe cimentata. Ma dall'altra... insomma: un conto era fare l’amore - obbedire a posizioni canoniche come quella del missionario o tutt’al più lui sotto lei sopra - un altro era confrontarsi con pratiche sessuali verosimilmente contro natura, come il famoso 69 e simili. Mamma non le aveva mai insegnato niente del genere: i libretti di educazione sessuale che le portava a casa dal lavoro - con i disegni stilizzati dell'organo sessuale maschile e di quello femminile, e ragazzetti sormontati da giganteschi punti interrogativi - non ne parlavano. All'oratorio, dove si era formata, come il novantanove percento delle sue coetanee di paese, figuriamoci: le suore le avevano raccontato che ogni azione sessuale al di fuori delle esplicite finalità riproduttive era un grave peccato contro Dio e la morale. Peraltro le venivano in mente le parole di una compagna che il primo fellatio della sua vita lo aveva risolto qualche settimana prima.
"Fa schifo - le aveva detto - il coso sa di pesce morto e lo sperma, non ti dico, da vomitare. Lascia perdere".
Morale della favola... quel giorno, come potevasi immaginare, anche Cecilia si congedò da quel suo ultimo sublimale desiderio.
Dopo un annetto i due si lasciarono senza un reale motivo. Accadde una sera di tarda primavera che Cecilia e Daniele si ritrovarono a passeggiare per le strade deserte del centro di Caponago. Erano appena andati a trovare due amiche che avevano in comune e stavano ciarlando noiosamente del più e del meno. C'era una bella luna in cielo, il profumo della pioggia appena caduta, e soffiava un’arietta gentile. A un certo punto un moscerino si infilò nel naso del ragazzo.
"Porca troia!".
"Che c'è?".
"Mi si è infilato un moscerino nel naso!".
Cecilia scoppiò a ridere.
"Cosa ridi?".
"Dai, è solo un moscerino".
"Non è per niente divertente".
"Quanto ti scaldi...".
"Ma vaff...".
I due fecero ancora un paio di giri per il centro senza aggiungere altro. Si rividero dopo tre settimane, per puro caso, in piazza sant'Eusebio. Lui stava andando in edicola, lei in comune a ritirare un certificato. Si salutarono con uno squallido ciao, come stai? e nient’altro. Ripresero ognuno la propria strada di casa e sul loro amore cadde per sempre l’oblio.

E adesso tocca a me…

La prima ragazza della mia vita… va beh... iniziamo col dire che di sciocchezze, a riguardo, ne ho sempre raccontate un'infinità (solo adesso che sono adulto le cose hanno cominciato a prendere una piega migliore). D'altronde, la prima ragazza della vita, bisognava necessariamente averla avuta in tenera età; altrimenti si correva il serio rischio di finire annoverati nel marasma degli sfigati, dei complessati, dei borderline - di coloro che ancora non avevano fatto chiarezza circa le proprie tendenze sessuali - qualcosa che non avrei mai voluto potesse accadere. Anche perché non era assolutamente vero. Dunque all’epoca del mio primo fidanzamento ufficiale, blateravo di avere avuto chissà quante prime ragazze, quando in realtà, non ce ne era stata ancora nessuna. Gli unici attendibili - ma preciso - del tutto innocenti e inconsistenti contatti che avevo avuto da giovanissimo con delle appartenenti al fantasmagorico pianeta 'gentil sesso', erano quelli che si erano consumati con Letizia, Chiara e Marina. La prima faceva judo con me. La sceglievo spesso per i combattimenti, non tanto per il brivido di poter saggiare chissà quale succulente parte intima, altrimenti inespugnabile, come qualcuno potrebbe comprensibilmente sospettare, quanto per assicurarmi la possibilità di vincere lo scontro, cosa che con i maschi, in qualche modo sempre più avanti di me a livello di sviluppo, e quindi molto più muscolosi e possenti, non mi riusciva quasi mai.
Chiara era una mia compagna delle medie. Ero rimbambito dalla sua folta chioma castana e lucente, dalle sue lentiggini, dalle sue gambe affusolate. Tuttavia, l'unico modo con il quale mi riusciva di esternarle concretamente il mio affetto, era tirarla violentemente per i capelli o prenderla a calci nel sedere. Ma anche lei non era da meno; basta ricordare quella volta in cui, inorridita da una mia azione quantomeno biasimevole – avevo appiccicato contemporaneamente tre Big Bubble masticate ben bene sotto la sedia della professoressa d'inglese, tonta quanto basta per potergliene fare di tutti i colori senza correre alcun pericolo di essere indagati per omicidio colposo - mi aveva pugnalato con una biro Bic.
“Così impari, scemo, cretino, stupido – mi aveva detto – queste cose non si fanno”.
Ancora oggi porto la cicatrice di quell'atto estremo: una pallina blu in mezzo all'avambraccio destro.
Infine ci fu Marina, a tutti gli effetti la mia primissima pseudo e platonica fidanzatina: io avevo 3 anni, lei 5; grazie a Dio non mi accarezzò mai l'inopportuna e inconveniente idea di far sapere in giro che avevo avuto i primi sentori di una vita a due sotto un unico tetto, quando ancora galleggiavo - inconsapevole di tutto e tutti - nel magico e confortevole liquido amniotico. Io e Marina avevamo messo in comune le nostre intenzioni amorose a Monguelfo, un paesino della Val Pusteria, pieno di gerani rossi e campanili a forma di cipolla. Laggiù vi andavo con i miei nonni materni per far visita a una amica di famiglia, la signora Elsa, donna tutta d'un pezzo, alla fraulein Rottenmaier di Heidi, che avrà oggi sì e no cento anni: so che è ancora viva perché l'anno scorso è inaspettatamente giunto a casa dei miei un biglietto con gli auguri di Natale e la sua inimitabile e disastrosa firma. Compresi l'amore che la ragazza (ma sarebbe più corretto parlare d'infante) provava per il sottoscritto un caldo pomeriggio estivo di metà anni Settanta. Marina mi colse in cima allo scivolo che svettava nella piazza principale del paese e fece di tutto per scaraventarmi giù. Il tentativo, fortunatamente, non andò a buon fine, tuttavia da quel momento fu chiaro per entrambi che fra noi c'era ben più di una semplice e scontata amicizia. Detto ciò la mia prima vera e documentabile storia d'amore l'avrei vissuta molto, ma molto, più tardi, quando ormai avevo raggiunto un'età palesemente in sintonia con l'ipotesi di poter trascorrere intimamente del tempo con una ragazza, con la mostruosa opportunità di confrontarsi con quel qualcosa d'indefinito che i grandi chiamavano genericamente "sesso". Lei si chiamava Federica, il periodo, l’inverno a cavallo tra il 1986 e il 1987. Avevo da poco virtualmente incontrato grandi musicisti sconosciuti ai più - gli Smiths, i Pogues, gli Housemartins - e mi davo un sacco di arie.
“Che ne dici di Johnny Marr?”.
“Johnny chi?”.
“Johnny Marr…”.
“Boh”.
“Ma come boh, non conosci Johnny Marr, che razza di sfigato”.
“Io ascolto solo Claudio Baglioni”.
“Eh, l’ho detto che sei uno sfigato”.
Per me Federica era il non plus ultra. Benché fosse assai lontana dagli standard sociali e modaioli dell’epoca... A metà anni Ottanta andavano per la maggiore provocanti capigliature biondo-ossigenate, vestiti di marca, sgargianti e appariscenti, scarpe impegnative e ingombranti, piene di brillantini e lustrini, e la mia dolce metà - onestamente - era distante chilometri e chilometri da tutto ciò. Lei aveva i capelli neri, gli occhi neri, le sopracciglia nere, si vestiva quasi sempre di nero, una autentica dark lady alla Robert Smith; non amava truccarsi, né si avvaleva di alcuno stratagemma tale da rendersi un po’ più visibile. Insomma, con Federica al mio fianco, anche quando c'era il sole, era come se stesse arrivando il temporale! Eppure la sua predilezione per certe tinte buie e la sua inconscia volontà di trascorrere la sua esistenza nel silenzio e nell'anonimato, non erano assolutamente il frutto di una eccentrica propensione alla tristezza, alla malinconia, allo spleen, come si potrebbe facilmente intravedere; in fondo, Federica, era una ragazza pimpante e solare, scherzosa e spumeggiante. Amava confrontarsi con se stessa in questo modo probabilmente e semplicemente perché solo così riusciva a sentirsi veramente a suo agio con chi la circondava e con il proprio io. Una volta, a conferma di ciò, mi confidò che - secondo il suo umile punto di vista - i vestiti scuri erano gli unici in grado di accompagnare adeguatamente le sue forme e i lineamenti del suo viso. Di Federica mi andavano a genio parecchie cose, fra cui la sua straordinaria fantasia. Credeva a così tante sciocchezze che oggi, a ripensarci, non posso che sorridere di nostalgia. Aveva una cameretta interamente addobbata di poster e cartoline riportanti fate, hobbit e gnomi. Su una mensola c'erano tutti i libri di Tolkien e Emily Dickinson, la sua poetessa preferita, della quale amava soprattutto quella sorta di sobrietà esistenziale che la contraddistinse in vita e alla quale, in qualche modo, si ispirava. Dalla sua mente trapelavano spesso animaletti immaginari capaci di correre in suo soccorso tutte le volte che c’era qualcosa che non andava. In realtà - quando cominciai seriamente a pensare a lei in qualità di mia futura partner, moglie, madre dei miei figli, luce dei miei occhi e dei miei pensieri più reconditi - mi piaceva già da un po’. Insieme frequentavamo i corsi di nuoto a Concorezzo. Ci piaceva scherzare con l'acqua e nell'acqua. Ci mandavamo i baci da una parte all’altra della vasca. Ed entrambi – striminziti e magrolini – condividevamo felicemente l'astruso privilegio di mostrare al prossimo due labbra viola come raramente se ne vedevano in giro. Un giorno, inabissatimi con Pasquale, per vedere chi resisteva di più sott’acqua – il mio amico che, per sfogare la rabbia accumulata dalle tante cinghiate prese dal padre sbronzo, si divertiva a prendere a testate il trampolino - finii più o meno involontariamente contro l'ossuto fondoschiena di Federica. Quest'ultima, di primo acchito, m'indirizzò un sorriso incerto, dopodiché si espresse con un poderoso ceffone, il suo definitivo sì.
Nonostante la tenera età Federica ne aveva già passate di tutti i colori. Soffriva della cosiddetta sindrome di Tourette, rara malattia concernente tic che insorgono all'improvviso, coinvolgendo molte parti del corpo e costringendo i pazienti addirittura a violenti e incontrollati gesti di braccia e gambe. Per tale motivo una volta arrivò perfino a tirarmi un destro, facendomi zampillare il sangue dal naso. Ci rimase parecchio male. Costernata mi disse che naturalmente non era sua intenzione colpirmi, ma che era accaduto solo perché aveva avuto un attacco dei suoi. In seguito seppi che i sintomi della malattia si accentuano quando si è sotto stress o particolarmente emozionati; e in tale circostanza, guarda caso, avevamo appena avuto un acceso diverbio. Comunque non è una patologia particolarmente grave, e dunque per la mia graziosa conquista non fu un grosso problema conviverci. Tanto meno per me. Ma la mazzata che più di tutte segnò indelebilmente il suo divenire, fu la sconsiderata scelta del padre di abbandonarla quando lei era ancora piccina, per filarsela con una avvenente spagnola conosciuta in una trasferta di lavoro; la madre si era ripresa col contagocce e per un po’ la piccola dovette essere affidata alle cure e alla benevolenza della nonna materna. Queste vicissitudini familiari pesavano sulla sua anima come un macigno ed io me ne rendevo conto soprattutto quando qualcuno della compagnia - senza cattiveria, s'intende - disquisiva a proposito di faccende legate alle vacanze estive o alle festività natalizie, periodi in cui, con i genitori, è tradizione trascorrere più tempo del solito. A Federica, in questi frangenti, non restava che abbassare il capo e mestamente, con una scusa banale, allontanarsi dal gruppo, guadagnandosi un angolino di muro dove ammansire le sue pene. Inutile sottolineare quanto fossi dispiaciuto per lei, e quanto fosse pressoché vano il mio tentativo di addolcirle l'esistenza liberando a destra e a manca calci negli stinchi al colui di turno che inopportunamente tirava fuori argomenti riguardanti mamme e papà.
Il nostro amore sbocciò in tutto il suo fragore adolescenziale una sera invernale nella sala giochi dell’oratorio maschile di via Savio. C'era un caos infernale. Gente che ballava, saltava, gridava, beveva, fumava (rigorosamente di nascosto nei bagni). A nostra disposizione avevamo tre comodi divani, sedie sparse mangiucchiate dai tarli, tavoli sbilenchi stracolmi di bignè, torte, aranciate, qualche timida birra, bigliardini, ping-pong e videogame. A un certo punto della festa - esausto dopo aver rincorso il mio amico Stefano Brambilla su e giù per le scale che conducevano al ciclostile - conquistai fieramente uno degli ambiti sofà con l'altro mio amico, Giorgio Montanari, detto il bananone. Blateravamo del più e del meno - Neil Young, Inter, ditalini - quando ci sfilò davanti la bella dark lady. Particolarmente su di giri quella sera precipitò come un meteorite tra le nostre cosce incandescenti, guadagnandosi caparbiamente la sua fetta di posto.
"Allora?".
"Cosa? - domandai.
"Come va?".
"Bene e tu?".
"Io benone, mica male la festa, eh?".
"Infatti".
Ci fu un attimo di silenzio che mi permise di soffermarmi compiaciuto sulle guance rossicce di Federica, di solito pallide ed emaciate come quelle di un pupazzo di neve.
“Avete già assaggiato la torta che ha fatto la mamma di Claudio?”.
“Di chi?".
"Di Claudio".
"La mamma di Brera?".
“Sì".
“No, non ancora”.
"Non sapete cosa vi siete persi! E' davvero squisita".
"Magari dopo".
Arrivò anche Simona, che con Giorgio aveva una mezza tresca. I due avevano simpatizzato per la prima volta un pomeriggio al Duse - lo stesso che, di lì a poco, avrebbe tenuto a battesimo anche la storia fra Cecilia e Geremia - ma poi non c’era stato un seguito convincente. La giovane reclamò il suo spazio, che le concedemmo senza batter ciglio. In quattro si stava stretti, ma andava bene così.
Alla nostre spalle, sul ripiano metallico di uno scaffale, tra indumenti di seconda mano e attrezzi di falegnameria, c'era abbandonata una coperta rossa. Il mio amico la agguantò e prese a rotearla in aria come una bandiera, sollevando pilucchi di lana, granelli di polvere, coriandoli. Come in un gioco di prestigio ci ritrovammo quindi tutti e quattro al di sotto di essa, la situazione ideale per arrivare a ottenere quel contatto fisico tanto agognato con l’altro sesso senza l'imbarazzo del doversi fare avanti spudoratamente. Si sollevarono risa e mugugni, finché il sottoscritto non si ritrovò avvinghiato a Federica e Giorgio a Simona, proprio quello a cui ognuno di noi, sottilmente, auspicava.
“Don Michele ti vogliono in parrocchia! – urlò all’improvviso Celestina, trafelata, devastata da un gigantesco orzaiolo.
"Che succede?".
"La mamma di Roberto Casiraghi è caduta dalle scale!".
"E chiamano me?".
"Sì, chiamano te!".
"E perché non chiamano un'ambulanza al posto di chiamare me?".
"Perché è caduta dalle scale in chiesa mentre cercava di sistemare un candelabro".
"Santa Barbara!".
"Don non bestemmiare! - gli disse Brera.
"Non bestemmio, ma a volte serve tanta di quella pazienza con certe pecorelle!".
Il coadiutore abbandonò nervoso l’oratorio e così fummo liberi di dedicarci senza pericolo a uno dei nostri passatempi preferiti, severamente proibito nella struttura donboschiana: il gioco della scopa. Quest'ultimo era basato sull'azione di coppie di ballerini interscambiabili tra loro, a seconda di dove andava a finire l'attrezzo per compiere le pulizie: in pratica chi impugnava la scopa godeva anche del privilegio di poter scegliere con chi ballare. Stabilimmo le coppie di partenza mediante la consueta e straziante estrazione casuale di biglietti riportanti i nominativi dei vari partecipanti al gioco. Arrivato il mio turno strinsi i denti: la mia speranza, naturalmente, era quella di finire fin da subito con Federica. E invece... la mia prima dama rispose al nome di Gemma, indisponente giovinastra dai capelli stopposi, gli occhi da camaleonte, il sorriso da iena. Federica finì invece per farsi cullare da Luigi Pessina, in quel periodo totalmente rintronato dalle fossette di Veronica Galli, nipote dell'ex assessore ai lavori pubblici. Gemma mi strinse a sé - con tutto il fragore dei suoi potenti bicipiti e tricipiti - e con lei trascorsi l’eternità di On my own di Nikka Costa e Carrie degli Europe. Fu Giorgio a levarmi dai pasticci, impietosito dai miei occhi mogi, rassegnati, persi nel vuoto. Con la scopa fra le mani cominciai quindi a vagare come una faina per la sala giochi in cerca della mia Cenerentola, che scorsi prigioniera dei robusti tentacoli di Marino, il ragazzo che, da poco, era andato sostituendosi a Luigi. Li raggiunsi. Feci per consegnare la scopa al mio rivale, ma questi si eclissò fingendo di non vedermi.
“Oh! - gli dissi.
"Che c'è?".
"Ti sei addormentato?".
"No".
"E allora?".
"Cambia aria".
"Scusa?".
"Cambia aria".
"Non son queste le regole".
"E' vero - intervenne Federica.
Marino chiuse con la sua pantomima, si appioppò la scopa e migrò altrove.
Decollata Hotel California degli Eagles per un paio di minuti non fiatai. Avevo le guance infuocate dall'emozione e mi tremavano le labbra. Tenevo intanto gli occhi bassi, semichiusi, per non incrociare lo sguardo di chi aveva la scopa, e non correre quindi il rischio di vedermela ritornare, costringendomi a lasciare Federica. Infine passai spregiudicatamente e tenacemente all’attacco.
“Volevo chiederti due cose”.
"Come?".
"Avevo in mente due cose da chiederti".
"Sentiamo".
“La prima è… se ti va di mettermi con me”.
La frequenza dei miei battiti cardiaci subì un'improvvisa accelerata.
“E la seconda?”.
"E' molto più banale".
"Cioè?".
“La seconda è se ti va di baciarmi”.
Cadde il silenzio. Federica si allontanò dalla mia guancia e mi fissò dritto negli occhi. Miliardi di palline da ping-pong cominciarono a saltellare disordinatamente nel mio cervello. Sorridemmo, prima di riportarci di nuovo guancia a guancia. Sopraggiunse il magistrale assolo di chitarra di Joe Walsh – a detta di molti esperti di musica rock secondo solo a quello di Jimmy Page in Starway to heaven - e finalmente ottenni una degna replica dal mio sperato domani.
“Per la prima cosa ti dico di sì, per la seconda di no”.
Tracollai.
"Non ho capito bene".
"Se vuoi possiamo metterci insieme ma...".
"Ma?".
"Per ora niente baci".
"E... perché?".
"Mi sembra troppo presto".
"Presto quattordici anni?".
"Direi di sì".
"Ah".
"Ci sei rimasto male?".
"Io?".
"Tu".
"Oh, no, figurati, ma scherzi?".
"Sicuro?".
"Sicurissimo. I baci non sono così importanti".
"Lo sapevo che mi avresti capita".
La nostra storia maturò sotto le brillanti vetrine del Gaviraghi, in piazza sant’Eusebio, il nostro appuntamento fisso, tutti i pomeriggi, dalle cinque in poi. Ci davamo puntello con molti altri amici, più o meno coetanei. C'erano Stefano che si era messo in gioco con Simona (durarono una settimana e anche lì niente baci); Giorgio, nullafacente, in casa a grattarsi dalla mattina alla sera in attesa che un lavoro gli piovesse dal cielo; Mara che andava e veniva da Bergamo dove frequentava l'istituto d'arte e con la quale avevo marinato la scuola parecchie volte; Tiziana alle prese con una di quegli astrusi istituti professionali che duravano un paio d'anni e che non si capiva bene a che qualifica portassero; Alberto, il leggendario Alberto - l'unico di noi in grado di percorrere in bicicletta su una solo ruota l'intera via Battisti, fan di Maria Dolores Pradera, per noi sconosciutissima cantante per cerebrolesi nostalgici - che da lì a poco si sarebbe trasferito a Parigi al seguito del padre e del suo lavoro; Veronica che, nel corso dell’inverno successivo, avrebbe finalmente ceduto alle avance di Gianni Tiraboschi.
Durante il primo periodo io e la mia spasimante andammo a gonfie vele. La sua dolcezza, la sua grazia, i colori e le sensazioni che trapelavano dai suoi mondi immaginari, bastavano a rendermi più che felice. Tuttavia la faccenda del non poterla baciare cominciò presto a mandarmi in delirio: non avevo ancora baciato una ragazza e, comprensibilmente, non vedevo l'ora di poterlo fare. Ormai avevo quindici anni e mezzo, ero già tremendamente vecchio, mi dicevo. Volarono le settimane come foglie abbandonate alla tramontana: una, due, tre. Passò un mese. E ancora nessun bacio. Poi un giorno, parlando di musica, tra noi si ruppe qualcosa. Volevo sapere da Federica cosa ne pensasse della sbornia religiosa di Dylan di fine anni Settanta. Mi rispose che a malapena sapeva chi fosse Bob Dylan; tuttavia fu lesta nel dirmi che Musica è di Eros Ramazzotti le piaceva un sacco, così come Through the barricades degli Spandau Ballet, canzoni e autori che mi facevano venire l'orticaria solo a sentirne parlare. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Pochi giorni dopo, infatti, ci lasciammo. Accadde nel corso di una gelida serata che stavamo percorrendo via Garibaldi, l’antica via del Malcantone, nei pressi dell'asilo: la stavo accompagnando da una sua zia che abitava in via Dante. Avevamo da poco lasciato gli altri della compagnia in piazza sant’Eusebio e fin lì, nessuno dei due aveva ancora spiaccicato parola. D’un tratto si fece avanti Federica dicendo:
"Oggi sei strano".
"Non mi sembra".
"Sembra a me".
"Sei fuori strada".
"Eppure".
"Sto ok".
"Sei sicuro?".
"Domani ho un compito in classe di mate".
"Ah. E non sei preparato?".
"Per niente. Mi è già bastato il 4 dell'altra volta".
"Mi dispiace".
"Non fa niente".
Federica inseguiva i miei occhi con grande trepidazione. Improvvisamente le dissi:
"Io ti lascio”.
"Mi?".
"Ti lascio".
"Non capisco".
"Ti prego Fede".
"Ma perché?".
"Non lo so".
"Ma se stiamo così bene insieme?".
"Lo so, ma...".
"E' per via dei baci?".
"Non è quello".
"E allora cosa?".
"Non lo so. Ho forse bisogno di far chiarezza".
"Su cosa?".
"Non lo so".
"Per me è tutto così chiaro".
"Ma non per me".
"Dunque cosa vorresti fare?".
"Te l'ho detto".
"Cioè?".
"Ti lascio".
"Senza neanche...".
"Senza neanche".
Non aggiunsi altro e Federica non replicò. Immobili e in silenzio lasciammo, dunque, che l'aria gelida della sera devastasse le nostre fronti, mentre venivamo accarezzati dal rombo di un paio di automobili, dal pedalare di un uomo in bicicletta, dal vocio stanco di una mamma alle prese con i suoi due ragazzini turbolenti. Dopo un paio di minuti la ragazza tirò un respiro profondo e mi squadrò con dolcezza. Mi strinse a sé, mi baciò sulla guancia e infine s'incamminò, sbiadendo oltre il semaforo di via Gramsci. Non sentivo più le mani dal freddo e avevo il magone. Dal cancello della casa di Angelo Cohen Missaglia spuntò un micio smagrito che prese a miagolare. Forse aveva fame. Mi chinai per accarezzarlo. Ma l’animale scappò via, lasciandomi con un pugno di mosche in mano.

Marianna, soprannominata banalmente e scontatamente "cuore di panna", fu il secondo piacevole diversivo della mia vita; il primo comunque, in grado di farmi vibrare davvero le coronarie, lo stomaco e le meningi. Il nostro primo indimenticabile e romantico incontro avvenne il pomeriggio di carnevale del 1987, un periodo a dir poco spumeggiante, socialmente, politicamente e musicalmente. C'erano stati da poco il divorzio di Roger Waters dai Pink Floyd, lo scioglimento dei Clash, il debutto dei Soundgarden, gruppo che avrebbe gettato le basi per un nuovo cataclisma musicale - il grunge - fagocitando menti, media, e mentecatti di ogni paese e dove. A capo del governo in Italia c'era l'onnipotente, l'onnipresente e carismatico Bettino, Craxi, mentre dall'altro parte dell'oceano impensierivano le mosse di Ronald Regan, inguaiato fino al collo per via dello scandalo Irangate; i benpensanti Usa si erano messi a vendere sottobanco armi e altri oggetti non identificati all'enigmatico paese asiatico, per finanziare la cosiddetta opposizione violenta dei Contras al governo sandinista del Nicaragua. Brillava nel cielo un pallido sole e soffiava un innocuo venticello; la primavera non era lontana, e qualcuno aveva già iniziato a vestirsi leggero. Io, Stefano e Giorgio (il bananone) stavamo pacificamente trascorrendo la nostra giovinezza lungo il grigio rettilineo di via Mazzini, dalle parti dell'oratorio femminile. Per l'occasione mi ero vestito da tranviere: fieramente indossavo un completo blu con la cravatta azzurra e soprattutto il cappello di mio nonno che per tanti anni, nel dopoguerra, aveva governato i tram per le strade di Milano, da viale Lunigiana a piazza Castelli, via Duomo. Anche i miei due compari si erano conciati ben bene. Stefano era mascherato da astronauta - una tuta blu attillata, una parrucca bionda, e la faccia pitturata di bianco - e Giorgio da ciliegia - una specie di scafandro dal quale spuntavano la testa e le mani, deturpate da strisce di pastello rosso acceso. Ognuno di noi recava con sé una bomboletta di schiuma da barba, precedentemente trattata per far sì che lo spruzzo di sapone potesse raggiungere un potenziale nemico alla massima distanza; si dia infatti il caso che all'epoca, durante il carnevale, fosse nostra abitudine confrontarci con il prossimo a suon di devastanti azioni belliche concernenti l'uso di articoli destinati alle tradizionali operazioni mattutine dell'uomo maturo. Eravamo immersi nei soliti quattro discorsi che avevamo a disposizione - ragazze, musica, musica, ragazze - quando, innanzi ai nostri occhi, focalizzammo un trio di giovincelle che trotterellavano sì e no alla nostra stessa andatura e che, di primo acchito, ci parve di non conoscere.
"Cazzo! - disse Stefano.
"Che c'è? - domandai.
"Quelle".
"Che hanno?".
"Facciamole nere".
"Bianche vorrai dire - intervenne Ciliegia.
"Infatti - si corresse Stefano - che ne dite?".
"Ottima idea - bofonchiai.
"Pronti? - comandò l'astronauta.
"Pronti - arguimmo io e Giorgio.
Raddoppiammo il passo e - attenti a non farci sorprendere con le mani nel sacco - in pochi secondi fummo alle calcagna del trio. Viste da vicino potemmo discernere correttamente le maschere delle tre ragazze: una era vestita da carcerata, una da pinguino, e l’altra non si capiva bene, sembrava un topo, dunque, pensammo, la sua intenzione, doveva essere stata quella di vestire i panni di Topolino, Topogigio o Top Mix, gli unici roditori significativamente e oggettivamente importanti per l'immaginario collettivo degli anni Ottanta. Pronti a scagliarci senza pietà su di esse, all’improvviso, udimmo alle nostre spalle un frastuono tremendo, il tipico caos sollevato da una moltitudine di motorini che innescano simultaneamente una repentina accelerata. Ci girammo di scatto e ciò che vedemmo non ci piacque affatto. Era una banda di cambogiani - soprannome con il quale venivano designati improvvisati malavitosi che, con la scusa del carnevale, andavano in giro a fracassare, distruggere, devastare ogni cosa che si presentasse lungo il loro cammino, e soprattutto a violentare l'anima di innocenti creature in giro solo per esibire il bel vestito che le rispettive mamme gli avevano inventato per la tradizionale festa prequaresimale - seriamente intenzionata a darci del filo da torcere; un esercito blasfemo e cattivo ragguagliato non solo da potentissime bombolette di schiuma da barba, molto più efficienti delle nostre, ma anche da volgari e vituperevoli mazze, bastoni, catene, e solo gli angeli delle alte sfere celesti sapevano cos’altro ancora.
“Puttana troia! – gridò Stefano.
“Puttana troia! – ribatté il bananone.
Le tre ragazze presero a correre all’impazzata.
“Filiamocela anche noi!!! – esclamò l'astronauta.
"Via! - gridai, spingendo con tutte le mie forze sulla punta dei piedi, e reggendo in mano il cappello del nonno, per paura che potesse volare via.
La carcerata, il pinguino e il topo, guadagnarono astutamente e provvidenzialmente il sottoscala di un palazzo che si affacciava decrepito sulla via, un'idea che piacque anche a noi. Dunque le seguimmo e con esse - che fino a poco prima avremmo voluto disintegrare e seppellire sotto quintali di schiuma da barba - ci stringemmo nell'angusto vano. Ansimavamo come cani da slitta alla fine di una cavalcata tra le nevi dello Yukon, ma almeno eravamo salvi, pensammo, al riparo e al sicuro dai vili e pericolosissimi cambogiani, in un nascondiglio praticamente inespugnabile. Nel sottoscala la luce era assai fioca, appena sufficiente a fotografare chi ci respirava accanto. Tuttavia, una delle tre ragazze – che solo ora ci rendevamo coscientemente conto di non avere mai incrociato prima - solleticò immediatamente la mia attenzione. Era la carcerata. Aveva un visino da cerbiatto, un nasino all'insù, alla francese, eccitante ed entusiasmante, e due occhi vispi e scintillanti. Mi riportò alla mente un film che avevo appena visto coi miei in tv, un lungometraggio del 1964: Giallo a Creta. Trovai infatti riflesso nel suo volto quello della protagonista del film, la divertente biondina Hayley Mills, al seguito di una improbabile zia appassionata di musica etnica e alle prese con una banda di criminali. Praticamente me ne innamorai all’istante. Un brivido scombussolò le mie interiora, portandomi indegno a tergiversare senza scrupoli sull'anatomia della mia nuova potenziale meraviglia.
"Mamma mia! - disse il topo.
"Cavolo! - replicò il pinguino.
"Ce l'abbiamo fatta per un pelo - commentò Hayley.
"Infatti - dissi io.
"Cazzo, che paura - andò avanti Stefano.
“Se ci prendevano ci uccidevano - riprese il topo.
"Non esagerare - farfugliò il pinguino.
“Saranno stati almeno una quarantina - intervenni.
"Forse di più - mi corresse l'astronauta.
"Una volta mia cugina è stata violentata - riattaccò il topo.
"Ma vaffanculo - ribatté il pinguino.
"Te lo giuro".
"Da un cambogiano?".
"Da un cambogiano".
"In mezzo alla strada".
"Ma finiscila".
"Sul marciapiede".
Poi, all'improvviso, Stefano si mise a sbraitare:
“Oh, ma Ciliegia dov'è? Dove diamine è il bananone?!".
“Eh? - dissi.
"Un vostro amico? - berciò Hayley.
"Gio, è vero! Dov'è? - mi domandai.
"Mi sa... mi sa che è rimasto fuori - piagnucolò Stefano, con gli occhi fuori dalle orbite.
"Nooo! Allora sarà morto! - disse il topo.
"Non ci voglio credere - fece la dolce Hayley.
"A pensarci bene, conciato com'era... - riflettei in tono malinconico.
"Muti - ringhiò l'astronauta -. Andiamo fuori a cercarlo".
All’esterno la luce abbagliante del sole ci fece strizzare gli occhi. L'aria sembrava più frizzante, anche se erano passati non più di dieci minuti dall'arrivo dei cambogiani e dalla nostra confusionaria fuga.
"Via libera - disse il mio amico, rituffandosi per primo in via Mazzini.
Puntammo lo sguardo in direzione dell'oratorio femminile e venimmo sopraffatti dallo sconforto: un qualcosa di simile a una maschera di carnevale giaceva immobile, esanime, sdraiata su se stessa come un mucchio di letame, in mezzo al marciapiede.
“Non ditemi che quello è il bananone? – mormorai.
"Dio - disse Stefano.
"Ve l'ho detto che l'avrebbero ucciso! - piagnucolò il topo.
“E' proprio Ciliegia – riattaccai affranto.
"Nooo - declamò Hayley sconsolata.
Corremmo da lui. Lo trovammo sormontato da vari strati di schiuma da barba, col sedere tappezzato d'impronte di scarpe; in faccia aveva delle strisce rosse di uovo marcio e dalla bocca gli spuntavano delle stelle filanti e alcuni coriandoli. Il giovane respirava con difficoltà e tremava di paura. Lo aiutammo a sollevarsi da terra e gli levammo tutto quel pandemonio di furia carnevalesca che lo contraddistingueva.
"Gio... - fece Paolino.
Ciliegia non rispose.
"Gio... - ritentò l'astronauta.
"Cosa c'è?" - domandò Giorgio scombuiato più che mai.
"Scusaci, ma proprio non ci siamo accorti che stavi rimanendo indietro".
"Non... fa... niente".
"Ci siamo cagati sotto e così siamo scappati via come razzi senza renderci conto di nulla".
"Non... fa... niente".
"Sennò mica ti avremmo lasciato solo".
"Non... fa... niente".
Il nostro amico aveva lo sguardo allucinato e il volto pallidissimo. Le sue risposte giungevano a noi come da un altro pianeta, meccaniche e inespressive.
"Hei Gio! - dissi - come ti senti?".
"Bella domanda del cazzo - mi tramortì Stefano.
"Sto... bene - rispose Ciliegia.
"Sei sicuro? - domandai.
"Insisti? - mi rimproverò di nuovo l'astronauta.
"Certo... non dovete preoccuparvi - mormorò Giorgio.
Il Ciliegia si mise in cammino, curvo e zoppicante.
"Dove vai adesso? - gli domandò Stefano.
"A... casa".
"Ti accompagnamo noi - feci.
"No... grazie. Ho voglia di stare solo".
"…".
"…".
"Ma sei sicuro? - gli chiese l'astronauta.
"S... s... sì".
"Facciamo come vuole - disse Stefano.
"Lo lasciamo andare via conciato così? - replicai.
"E' quello che vuole, e poi abita a pochi metri da qui".
"…".
"…".
"Dove abita? - domandò il topo.
"In via don Minzoni - rispose l'astronauta.
"Beh, è vicino".
"Ciao r... ragazzi - disse Giorgio.
"Ciao Gio - cantammo in coro.
"Ci... vediamo".
"Meno male che non l'hanno ucciso - disse il topo per concludere.
Ciliegia rotolò verso casa, mentre io e Stefano continuammo a festeggiare il carnevale - con un vago senso di colpa - per le strade del paese con le nostre tre nuove amiche.
"Marianna" (Hayley).
"Serena".
"Cinzia".
E fu così che venimmo finalmente a capo dei loro nomi e soprattutto del luogo in cui erano solite darsi puntello con altri amici, in faccia ai verdi palazzi di via Bixio - il Villaggio Clerici - dalle parti del Vespaio di via Lecco, laddove avremmo presto iniziato anche noi a fare capolino, vigliaccamente dimentichi del tradizionale ritrovo di piazza sant'Eusebio, che per tanti anni ci aveva accolto tra le sue rassicuranti e materne braccia. Dunque frequentavamo la nostra nuova sede già da qualche settimana quando Lucio Reitano - nipote del famoso Mino nazionale, giovane e spregiudicato pianista, nonché corridore instancabile e insaziabile - si materializzò dinanzi alle nostre pupille, per esortarci a disputare con lui una partita a calcio nel campo a sette della famiglia, non lontano da Cascina Morosina, sulla strada per andare a Vimercate. Il sì, naturalmente, fu unanime. Al match ci accompagnarono Marianna e tutte le sue amiche. Ma questa loro decisione, per quanto scontata, mi spiazzò. Da una parte ero felice di sapere che avrei potuto finalmente far vedere alla mia desiderata quanto fossi abile e disinvolto con il pallone fra i piedi, ma dall'altra ero a dir poco sconcertato. Era per via di una sciocchezza assurda, comunque sufficiente a mandare in tilt ogni mia iniziativa e aspirazione: siccome dovevo necessariamente indossare i pantaloncini corti - come è consuetudine quando si gioca a calcio, cosa, però, che non facevo mai, nemmeno quando c'erano 40 gradi all'ombra - temevo che Marianna potesse rabbrividire o impazzire di dolore vedendo dal vivo le gambette da merlo che mi ritrovavo; temevo, seriamente, una mia fissazione, che potesse giudicarmi troppo poco gradevole per una del suo calibro, per una dolcezza e lungimiranza quali erano quelle che la contraddistinguevano e le permettevano di brillare di un sole completamente diverso al fianco delle sue accompagnatrici. Peraltro ero quasi certo che ci sarebbe stato, come al solito, ai bordi del campo, il cretino di turno pronto a confortare questo mio triste presagio con fantasiose uscite a squarciagola del tipo "guardate lo stecchino!", "stendete la sottiletta!", "occhio al forzuto che cammina!". Ma quel giorno - miracolosamente - non accadde nulla di tutto ciò. Marianna non fece minimamente caso alla mia contenuta anatomia e anzi, a fine partita, dopo avermi fatto i complimenti, mi chiese addirittura se avevo voglia di fare un giro a piedi con lei. Inutile dire che le risposi immediatamente di sì.
C’era un'affascinante palla di fuoco che precipitava a ovest infiammando le bianche nevi del Monte Rosa - padrone indiscusso, con i suoi caratteristici denti acuminati, dell'intero panorama a occidente - e un cielo meravigliosamente candido. I campi intorno al Villaggio Reitano sprizzavano vita da tutti i pori. Si respirava il profumo magico dell'erba appena tagliata, e quello della terra, dell'argilla, di misteriose e invisibili spore che l'inverno aveva sigillato dietro a insospettati e magistrali silenzi. Dalle parti di Cascina Morosina, in corrispondenza di via Brennero, dove abitava Marco Bonetta, proseguimmo diritti, imboccando la stradina che si snoda, tumultuosa fra i filari di pioppi, e che conduce a Santa Maria Molgora di Vimercate. Parlammo di tutto e di niente, consci del fatto che non sarebbe stata certo la qualità dei nostri discorsi a farci vedere le stelle, quanto semplicemente il poter stare fianco a fianco per la prima volta. Lungo la strada del ritorno disquisimmo invece di baci. Marianna, in particolare, mi raccontò che ne esistevano di parecchi tipi. C'era il bacio alla francese, il più intimo, in cui bisognava introdurre la lingua nella bocca del partner per poi muoverla circolarmente. Il bacio eschimese, basato sullo strofinio delle punte dei nasi. Il succhiotto, da compiersi appoggiando delicatamente le labbra sulla pelle del partner e in seguito succhiando avidamente il suo epidermide, praticamente deflagrando la rete capillare sottostante. Il bacio della farfalla - ch’io battezzai in seguito occhio-occhio - con gli occhi appunto, spazzolando le ciglia del partner. E infine il bacio a distanza, dove uno dei due amanti si bacia la mano, dopodiché, distendendola, vi soffia sopra in direzione dell’altro, spedendo virtualmente il bacio. Alla fine del racconto mi disse:
"Il bacio alla francese è quello che mi viene meglio".
"Davvero?".
"Certo. Se vuoi ti faccio vedere".
Rabbrividii.
"Quando?".
"Quando vuoi".
Eravamo giunti nel frattempo alla fine della ciclabile di via Lecco dove, a parte un minuscolo pettirosso che saltellava come un indemoniato intorno a una pigna malconcia, sulla curva per il Vespaio, non c'era in giro anima viva. Marianna mi prese la mano e mi accompagnò all'entrata del Villaggio Clerici. Ci accovacciammo ai piedi del muro d'ingresso, alle spalle dei citofoni, vicino alle fronde di una rigogliosa magnolia e serrammo gli occhi. La ragazza poggiò dolcemente le sue braccia sulle mie spalle e mi baciò.
Passarono i giorni. E presto si fece avanti un nuovo insormontabile dilemma: come e quando avrei trovato il coraggio per farmi avanti spontaneamente per baciare la mia partner? Come avrei indovinato il momento propizio per espugnare ancora una volta le carnose e invitanti labbra di Marianna? In pratica caddi dalla padella alla brace. Mi ritrovai, infatti, in una situazione a dir poco rocambolesca e imbarazzante: ogni volta che vedevo Marianna non desideravo altro che poterla baciare, ma poi non facevo nulla di tutto ciò semplicemente perché non sapevo minimamente come e quando avrei potuto farmi avanti. E proprio a causa di questa mia imperdonabile difficoltà a buttarmi, a indovinare l'attimo giusto per osare, defraudare quanto di più sensazionale un giovincello potesse far suo, il nostro idilliaco rapporto prese a scricchiolare. Poche settimane dopo la famosa partita dai Reitano, al cinema Duse, decisi quindi di lasciarla, sebbene mi piacesse più di ogni altra cosa al mondo. Stavamo guardando un film, forse La Bamba. Marianna sedeva al mio fianco e intorno a noi numerose coppiette ci davano dentro all'impazzata. Io ero alquanto teso. Aspettavo che fosse lei come al solito a farsi avanti; io, di certo, non avrei mosso un dito. Poi ci fu la scena del film in cui un protagonista veniva ammonito dalla sua spasimante perché non la baciava mai. A questo punto Marianna disse:
"Quel tipo mi ricorda qualcuno".
Ci rimasi malissimo. Il mio orgoglio andò in frantumi. Feci finta di niente e seguitai a fissare la pellicola, ma terminato il lungometraggio le sussurrai che avevo un urgente bisogno di parlarle. Avrei potuto, perché no, raccontarle della mia oggettiva difficoltà a farmi avanti per primo, una faccenda che magari, in due, avremmo potuto risolvere facilmente. E invece le dissi tutt'altro: piuttosto di ammettere una mia debolezza, un mio limite, una mia umanissima fragilità, preferii voltare le spalle a ciò che mi era più caro. Dunque si ripeté né più né meno quello che si era verificato qualche mese prima con Federica. Davanti al cancello della villetta di Marianna, in via Pignacca, ecco le mie fatidiche e raggelanti parole:
“Ti lascio”.
“Come mi lasci?”.
Il faccino di Marianna sbiadì.
"Sì, ti lascio".
"Ma perché?".
"Perché ho altro da fare".
"Cosa?".
"Ho altro per la testa".
"Ma...".
"Ti prego Marianna, non farmi altre domande".
Marianna scoppiò in lacrime, e fu così che - da sciocco patentato - mi giocai per sempre il mio primo più grande amore della vita.

Mediamente più alta di tante sue coetanee Samuela - un nome che la diceva lunga - era contraddistinta da occhi e capelli castani, un seno discretamente sviluppato, dei lineamenti gentili, un sedere di michelangiolesca fattura. Ci conoscevamo da tempo, ma a nessuno dei due era mai balenata - nemmeno per scherzo - l'idea di poterci fidanzare. In passato, la ragazza, aveva avuto una specie di flirt con mio cugino che abita a Busnago. Frequentavano lo stesso istituto e spesso marinavano la scuola insieme. Si recavano al parco del Rio Vallone e lì trascorrevano intere mattinate a filosofeggiare e ad ascoltare la musica con il walkman. Data la nostra consolidata amicizia in più di un'occasione mi era capitato di avere a che fare coi suoi. La madre era una piacente signora di mezza età, simpatica, con il viso paffuto e la testa ricoperta di riccioloni neri. Tutte le volte che mi vedeva in giro per il paese era felice di scambiare due chiacchiere. Forse le ispiravo fiducia. Faceva l'impiegata in una ditta di elastici del vimercatese, un lavoro monotono e intellettualmente alienante, ma dal quale - non si sa per quale motivo - non riusciva proprio a separarsi; peraltro non è che le mancassero i soldi per vivere. Il padre era invece una figura molto meno disponibile. Appariva burbero e nervoso, con quel volto segnato da rughe profonde, messe ulteriormente in luce dall'esigua quantità di capelli che gli coprivano il capo. Dalle sue labbra pendeva eternamente la sigaretta. Era un boss dell'St e molte volte era costretto a lunghe permanenze lavorative all'estero, specialmente a Singapore, dove sorgeva un distaccamento operativo del prestigioso polo industriale brianzolo. Crudeli e infondate dicerie sostenevano che in Asia l'uomo si fosse creato una seconda famiglia: una giovane moglie e un paio di pargoli con gli occhi neri come il buio. Difficilmente si fermava a parlare con me - o, in generale, con qualche amico della figlia - e un suo sorriso era frequente tanto quanto le grandi estinzioni di massa. Poi c'erano Bianca e Ilaria, le due sorelle minori di Samuela. La prima aveva due anni in meno della primogenita, la seconda aveva da poco compiuto gli undici anni. Entrambe molto carine, entravano spesso in competizione fra loro per accaparrarsi l’affetto della sorella maggiore, affabile e disponibile con tutte e due. In un paio di occasioni erano arrivate addirittura alle mani per poterla accompagnare a fare shopping per le trafficate vie milanesi. Un paio di schiaffi, non di più, ma sufficienti a mandare in tilt la madre di Samuela convinta che certe cose non potessero verificarsi nella sua meravigliosa ed equilibrata famiglia. Con Samuela mi misi insieme nel corso della festa dell’oratorio femminile del 1988. Era una giornata fredda e umida e a dispetto del periodo, la gran parte delle persone, indossava abiti pesanti; io un maglione di lana grezza giallo ocre e un giubbetto di jeans; Samuela una felpa rosa, un giubbetto a mezze maniche blu, e una larga gonna color panna. Il Mercante in fiera, tradizionale gioco proposto alla festa, si era concluso da poco: il primo premio - una bicicletta Bianchi elegante e robusta - era andato alla mamma di Desiré, bimba sordomuta che era divenuta un po’ la mascotte della parrocchia. La gente cominciò a sfollare. Io e Samuela ci accomodammo su una delle tante panchine situate sotto i profumatissimi tigli del cortile della struttura donboschiana. Parlammo di vacanze. A lei sarebbe piaciuto visitare il Canada, a me l’Ucraina.
"L'Ucraina?".
"Esattamente".
"Ma cosa c'è in Ucraina?".
"Non lo so".
"E allora perché ci vuoi andare?".
"Proprio perché non so cosa c'è".
"Sei buffo".
"Dici?".
"Mi sa di sì. Non ho mai incontrato nessuno che desideri andare in Ucraina".
"Per forza".
"Eh?".
"Tutti vanno dove qualcuno è già stato. Dove si sa già cosa si trova. Invece io vorrei andare dove non è mai stato nessuno, in terre magari ancora da esplorare".
"Adesso che ci penso non so nemmeno dove sia l'Ucraina".
"E' vicino alla Bielorussia".
"E la Bielorussia dov'è?".
"Vicino alla Russia".
"In geografia sono una frana".
Ridemmo.
"Forza ragazzi, è ora di andare a casa - ci disse all'improvviso suor Laura.
"Che palle! - commentai.
"Come ti permetti, maleducato!".
"Non è nemmeno mezzanotte!".
"Per noi suore è già fin troppo tardi".
"Ti devi alzare presto?".
"Alle sei".
"Non è così presto!".
"Ah no? Perché tu a che ora ti alzi?".
"Alle...".
"Dai andiamo, non fare lo scemo - mi ammonì Samuela.
Corremmo a prendere la mia bicicletta, da ore provvidenzialmente assicurata con una catena a un palo della luce nei pressi della fontana. Le dissi che se voleva l'avrei potuta accompagnare a casa:
"E dove mi metto?".
"Sulla canna".
"Povero il mio sedere".
"E' solo un pezzettino".
"Ti ricordi dove abito?".
"Benissimo".
Percorremmo via Mazzini, via don Minzoni, un tratto di via Gramsci, qualche centinaio di metri di via Lecco, con le strade pressoché deserte e l'umidità dell'aria che ci punzecchiava le meningi. Il cielo coperto di nubi non lasciava minimamente indovinare il colore delle stelle, e anche la luna faticava a mostrare il suo pallore. Mi sentivo in forza e spingevo sui pedali senza alcuna difficoltà. Percepivo i muscoli delle cosce e dei polpacci tirati al massimo, come quando ero solito tuffarmi a tutta velocità fra i vivai del principe Trivulzio, dopo aver trascorso magari ore intere a studiare chimica con la mia insegnante di ripetizioni. O mi divertivo, dove capitava, a immaginare di essere un ciclista professionista pronto a vincere in volata una tremenda tappa alpina del Giro. Strada facendo mi lasciai piacevolmente inebriare dal dolce profumo emanato dall'affusolato collo di Samuela - fantasticai sulle sue gambe che pendevano quasi inermi dalla canna della bicicletta - con le nostre parole che saltellavano da un argomento all'altro quasi a casaccio. C'era sua zia che da piccola si divertiva a pulire le panche della chiesa alla fine delle celebrazioni eucaristiche, mandando in estasi parte dei fedeli ancora seduti a pregare. Mio zio che era da poco stato rapinato dalle parti di Cascina Offellera: dei malviventi lo avevano atteso sotto il ponte che conduce a Brugherio e lo avevano obbligato a comprare cinque casse di melanzane marce, spillandogli tutti i soldi. La mia amica Francesca che aveva avuto un ritardo di due settimane. Dalle parti di Cascina Vergana - capolinea del nostro beato cincischiare - arrivammo in una decina di minuti.
"Beh, grazie del passaggio - mi disse Samuela smontando con un guizzo dalla bicicletta.
"Grazie a te".
"Di cosa?".
Arrossii.
"Come va il sedere?".
"Credevo peggio".
"Fa freschino... - mugugnai.
"Comunque non fa freddo - fece Samuela contemporaneamente.
Ridemmo.
"Ti va di stare in giro ancora un po’? - le chiesi.
"Perché no?".
"Dove potremmo andare?".
"Un posto che so io".
"Dove?".
"Vieni".
Abbandonata la bicicletta al cancello della casa di Samuela ci incamminammo lungo un sentiero che si inoltrava nei campi.
"Dove si sbuca?".
"Dipende".
"Cioè?".
"Puoi arrivare a Omate, ma anche a Burago".
"Piace anche a te passeggiare in campagna?".
"Molto".
"Io, poi, sono a due passi".
Approdammo in una radura disseminata di casolari semi abbandonati. Uno di questi - simpaticamente devastato da murales e scritte tipo "Omate Bronx" - aveva una panchina sulla quale scegliemmo di accomodarci. Al nostro fianco risaltava superba la grossa ruota di un carro - retaggio di fatiche ormai dimenticate - e dei contenitori per l'acqua piovana. Sopra le nostre teste vibravano una finestrella larga una ventina di centimetri, e il ritratto di una madonna sorridente con un Gesù bambino altrettanto spensierato fra le braccia. Il silenzio era vertiginoso. L'atmosfera magnifica, idilliaca. Sembrava di vivere in un'imprecisata dimensione, comunque, lontana dal presente; forse in un tempo passato, trascorso, finito. Mi venne da pensare alle case in cui vivevano le persone di queste parti intorno all'anno Mille, probabilmente dimore realizzate con il legno e la paglia, umide di inverno e polverose d'estate.
"Ti piace qui?".
"Esageratamente".
"Non tutti la penserebbero così".
"Perché?".
"Alcuni avrebbero paura".
"In effetti...".
"Tu hai paura?".
"Io no, ma se fossi qui da sola...".
"Se fossi qui da sola?".
"Un po’ di fifa l'avrei".
Ridacchiammo.
"Lo sai che a casa ho un criceto? - disse Samuela cambiando drasticamente tema.
"Anch'io ne avevo uno".
"L'hanno regalato a mia mamma delle colleghe".
"Un regalo atipico".
"Infatti".
"Come lo avete chiamato?".
"Mirtillo".
"Simpatico!".
"L'ha scelto Ilaria".
"La tua sorellina?".
"Chiamala sorellina".
"Perché?".
"Ha già il fidanzato".
"Così piccola?".
"Ormai".
"Cosa ormai?".
"Non è più come una volta".
"E tu, storie?".
"Nulla".
"Non ti interessa nessuno?".
"Nessuno a parte te".
Reagii con un colpo di tosse.
"Me?".
"Sì".
Samuela mi baciò.
La nostra storia proseguì per circa tre mesi. Fu una storia divertente, leggera e spensierata. Tuttavia, paradossalmente, la ricordo con minore ardore, enfasi, nostalgia, rispetto a quelle che avevo vissuto con Marianna e Federica. Non saprei dire esattamente il perché. Forse perché con Samuela fu tutto più facile: mi fu più semplice baciarla, conquistarla, invitarla a spasso. O perché - molto più banalmente, benché faccia un po’ fatica ad ammetterlo, in quanto Samuela era oggettivamente uno schianto - mi intrigò un po’ meno delle altre due, che - almeno a livello mentale - avevano saputo emozionarmi molto di più. Comunque sia non potrei mai dimenticare l'episodio clou della nostra storia, quello che mi fece veramente e assolutamente sobbalzare e rimbecillire di entusiasmo. Era una normalissima mattina di tarda estate. Il sole brillava placido e sereno in un cielo tremendamente azzurro. Entrambi eravamo appena rientrati dalle vacanze. Lei era andata con i suoi al mare a Marina di Massa, io in montagna con alcuni coetanei a Macugnaga. Evidentemente il Canada e l'Ucraina erano mete di cui, i nostri buoni cuori, avrebbero goduto molto più in là. Samuela si era svegliata da poco e aveva deciso di farsi un bagno. Anche io mi ero appena alzato, ma al bagno avevo drasticamente preferito le solite due dita umidicce intorno agli occhi. Mi venne in mente di fare un'improvvisata alla mia fidanzatina. Mi congedai da una colazione approssimativa - una brioche e un goccio di latte spruzzato di caffè - e volai in bicicletta verso Cascina Vergana. Nel giardinetto della palazzina dove abitava Samuela e la sua famiglia, la zia della ragazza stava rapando a zero delle rose devastate dagli afidi.
“Ciao - mi disse la signora.
“Buongiorno signora”.
“Cerchi Samuela?”.
"Sono venuto a salutarla".
“Aspetta, ti apro io”.
“Grazie”.
Entrai nel giardinetto e mi soffermai per un istante sul misero orticello che sorgeva accanto ai box.
"Ti serve della verdura?".
"No, no - risposi ridendo - stavo solo guardando se avevate piantato le verze".
"Sei appassionato di orticoltura?".
"Do una mano a mio nonno, ogni tanto".
"Si vede che sei un bravo ragazzo".
"Posso salire da Samuela?".
"Vai pure, anche se... magari sta ancora dormendo".
Salii la breve rampa di scala che conduceva al piccolo balconcino su cui si apriva l'ingresso della casa di Samuela. La porta era aperta. Spalancai l'uscio e mi ritrovai nella penombra di un salotto che già conoscevo: c'erano una grossa e rigogliosa pianta di ficus, un divano in pelle nero, una poltrona ergonomica, una mensola piena di coppe, un grosso tavolo. Andava lo stereo. Karma Chameleon - strepitoso brano di metà anni Ottanta dei Culture Club - fendeva l’aria. Pronunciai il nome di Samuela a voce alta ma invano: il dolce canto di Boy George era molto più forte del mio. Decisi quindi di conquistare furtivo la camera della mia partner, con la candida intenzione di farla spaventare, ma accadde qualcosa di inaspettato che cambiò radicalmente i miei propositi.
"AHHH!! - urlò Samuela.
"AHHH!! - urlò il sottoscritto.
Samuela brillava in tutto il suo splendore davanti ai miei occhi, completamente nuda.
"Chi è!?".
"Come chi è?!".
"Oddio!".
"Samuela sono io!".
I miei occhi presero a vorticare su e giù con scarsissimo ritegno, tra le centrali del latte e la voragine scura piantata in mezzo alle cosce; mentre Samuela - molto più spaventata che imbarazzata - cercava in qualche modo di raccapezzarsi e nascondere le proprie intimità dietro uno striminzito asciugamano.
“Ma che ci fai qui?! - mi domandò esagitata.
“No… scusa… è che...".
Samuela prese a ridere.
"Non... non pensavo stessi facendo il bagno".
"Cazzo".
"Ero venuto solo per salutarti e...".
"Mi hai fatto prendere un colpo!".
"Non volevo".
"Credevo che fossero i ladri".
"No, beh...".
"Aspetta che vado a mettermi l'accappatoio e arrivo".
Andammo avanti fino all’autunno inoltrato. Poi, sinceramente, non ricordo nemmeno come e perché ci lasciammo. Fu forse in occasione di una sera in cui discutemmo sulla scelta di un film da andare a vedere con gli amici. Ci trovavamo al Duke bar. Un gruppo voleva andare a vedere l’ultimo lavoro di Claude Lelouch, l’altro un lungometraggio avente come protagonista Mel Gibson. Io optai per la prima scelta, lei per la seconda. Ma mentre il sottoscritto avrebbe desiderato trovare una soluzione che in qualche modo potesse accontentare entrambi, lei risolse semplicemente la cosa dicendo:
“Tu vai di lì e io vado di qua”.
“Ok, come vuoi – le risposi.
E fu così che prima di Natale si era già ognuno per la sua strada senza il minimo ripensamento, né la minima sofferenza.

Insomma, l'argomento Stefano e Natasha proprio non ne voleva sapere di decollare. Al sottoscritto non interessava minimamente: i miei amici potevano fare quello che volevano e a me non sarebbe importato un fico secco. Probabilmente non interessava nemmeno a Cecilia. Dunque, non era che un banale pretesto per vincere l'emozione dello stare insieme da soli una delle primissime volte: bisognava pur dire qualcosa per rompere il ghiaccio. Sicché la mia prestigiosa lei tentò di intavolare una nuova conversazione, ma di nuovo senza fortuna. Intanto - con il nostro passo felpato e giulivo - avevamo superato anche l'imponente cancello bianco dei Ronchi, laddove, un giorno che frequentavo le elementari, Mauro Annone - alter ego del buon vecchio Garri colui che ti ammazza se sgarri - mi aveva immobilizzato e minacciato con una lama tagliente, solo perché mi ero messo a urlare per strada Avanti popolo alla riscossa dei milanisti vogliam le ossa, degli juventini ce ne freghiamo, degli interisti ci innamoriamo. Lui era juventino. Strettomi il collo con la mano destra, trasformatesi per l’occasione in una potente tenaglia - in una chele di granchio gigante della Polinesia - con l’altra aveva sfilato spregiudicatamente dalla tasca l’arma e me l’aveva fatta scorrere a un pelo dal naso. Gli uscivano gli occhi dalle orbite e aveva un ghigno assatanato.
"Giuro che ti ammazzo, figlio di un cane".
"Ti prego, no".
"E invece... è proprio quello che farò".
"Ti prego. Mia nonna non lo sopporterebbe".
"Io ti ammazzo figlio di un cane".
"Se mi risparmi ti regalo un mucchio di cinesine".
"Di cinesine ne ho a quintali".
"Ma...".
"Voglio qualcos'altro".
"Quello che vuoi".
"Hai qualche robot?".
"Qualcuno".
"Cosa?".
"Goldrake".
"Goldrake?".
"Goldrake".
"Goldrake fa cagare".
"E allora non saprei".
"Cosa?! - disse pigiando rabbiosamente le sue dita sulle mie carotidi.
"Forse ne ho uno che non ha nessuno".
"Come si chiama?".
"Non mi ricordo".
"Dove l'hai preso?".
"Me l'ha portato mio nonno dagli Usa?".
"Da dove?".
"Dall'America".
"Stai attento a come parli".
Mauro ci pensò su.
"Il robot di tuo nonno potrebbe andarmi".
Il mio aggressore allentò la presa regalandomi di nuovo il respiro.
"Quando me lo dai?".
"Decidi tu".
"Decidi tu".
"Non saprei".
"Va beh ci penso e poi te lo dico".
Il mio aggressore se ne andò lasciandomi sul collo le impronte dei suoi polpastrelli sudaticci; e del robot non ne riparlammo mai più.
“Cosa ne pensi di noi? – mi domandò all'improvviso Cecilia.
Deglutii imbarazzato.
"Non saprei".
"Sei arguto".
Ridemmo.
"Dai dimmi qualcosa".
"Cosa?".
"Per esempio cosa ti piace di me".
“Cosa mi piace di me?".
"Cosa ti piace di me!".
"Ah, scusa, ho sbagliato a parlare”.
“Non mi sembra una cosa così difficile".
"No, però...".
Volò via qualche secondo.
"Io per esempio so benissimo cosa mi piace di te - riattaccò Cecilia vedendomi in panne.
“Davvero?".
"Certo".
"Per esempio?".
“Mi piacciono le tue mani. Falangi, dita, unghie, palmi. Sono eleganti, maschili, nervose. Sanno trasmettere tenerezza, sicurezza, intelligenza".
"Wow!".
"Soprattutto quando gesticoli. Quando impugnano una biro o semplicemente tengono stretta, tra l’indice e il medio, una sigaretta. Lo osservavo anche stasera…".
"Doppio wow!".
"E poi...".
"Poi?".
"Mi piace il tuo modo di muoverti e di atteggiarti. Di stare in mezzo alla gente. Di parlare. E il tono pacato della tua voce. L’impressione che dai di scendere sempre dal pero, anche se, lo so benissimo, nella maggior parte dei casi è solo perché non hai voglia dar retta a qualcuno che non ha nulla di interessante da raccontarti. La tua innata comicità: sei così buffo che, a volte, anche senza volerlo, mi stendi dal ridere”.
“Buffo?".
"Esattamente".
"Questa non me l’aveva mai detta nessuno".
"C'è sempre una prima volta".
Ci fu una breve pausa.
"Ma cosa intendi dire? A me non sembra un bella cosa essere giudicati in questo modo da una ragazza".
“E' una bellissima cosa invece!".
"Dici?".
"Dico. Un uomo mi deve sapere far ridere perché è buffo o, che ne so, originale; non di certo perché è bravo a far le battute".
“Capisco".
“E infine, se me lo permetti, c’è il tuo naso – tartagliò Cecilia ridacchiando.
“Il mio naso?! - ribattei preoccupato.
“Già”.
“Ma se dicono tutti che ho il nasone”.
“Tuttavia su di te sta bene. Senza, credimi, perderesti il tuo fascino, il tuo charme".
"Stai scherzando”.
"Affatto. Spesso gli uomini contraddistinti da un naso importante sono anche quelli più carismatici. Non per niente, nel Medioevo, coloro che erano caratterizzati dai nasi più pronunciati si facevano ritrarre apposta di profilo per sottolineare la loro autorevolezza, la loro aristocrazia. E poi, il naso negli uomini, non è certo come per le donne. Se non obbedisce a certi criteri canonici della bellezza non è quasi mai un problema".
"Anche Gaber aveva il nasone”.
"Non solo lui".
"Anche Dante".
"Eh già".
"Peraltro esiste un'intera letteratura sul naso".
"Cioè?".
"Non sai che in base alle caratteristiche morfologiche di un naso si può risalire al temperamento di una persona?".
"Ma va?".
“Mettiti di profilo – fece Cecilia arrestando il nostro incedere, più o meno in corrispondenza del vecchio negozio della signora Enza, dirimpetto alle scuole elementari.
La assecondai. La ragazza cominciò a ispezionare il mio naso come un detective.
“Mi sembra di essere Vitangelo Moscarda – reclamai.
"Chi?!".
“Il protagonista di Uno, nessuno, centomila, di Pirandello”.
Cecilia rise.
“Eh! – proseguì -. Qui abbiamo addirittura un doppio naso!”.
“Un doppio naso?!”.
“Già. Prominente e col dorso leggermente in evidenza. Un naso di questo genere indica una persona dall’intelligenza spiccata, ma anche chiusa e gelosa dei suoi sentimenti. Probabilmente sei anche contraddistinto da buone capacità pratiche e da una discreta dose di autoritarismo”.
“Fantastico. Mi sembri una di quelle che leggono l'oroscopo".
Ridemmo entrambi.
“E del tuo naso che mi dici?".
“Eh no, non divaghiamo. Sei tu, adesso, che devi dirmi qualcosa di me. Non è da qui che eravamo partiti?".
Tacqui per pochi secondi. Non volevo risponderle approssimativamente, ma nemmeno far la figura del fesso che - se interpellato - non sa spiaccicare parola.
“Istintivamente potrei dirti tante cose - mugugnai serioso e concentrato -. Che mi piacciono i tuoi capelli, i tuoi occhi, le tue labbra; i vestiti che indossi, le scarpe che scegli, il velo di trucco che ogni giorno ti dà un tocco di classe in più; la tua brillantezza, la tua spontaneità, la tua voglia di metterti in gioco. Ma vedi, ci conosciamo da così poco tempo... che avrei davvero voglia di scoprirti piano, piano; per essere sicuro di non farmi sfuggire niente. Un giorno, vedrai, troverò il coraggio di dirti bene tutte le belle cose che penso di te”.
Cecilia mi guardò con tenerezza, raccolse la mia mano e insieme ci rituffammo nel presente di via Ferrario.
C'era un silenzio apocalittico. La nebbia sempre più fitta. I lampioni dell'incrocio tra via Dante e via Gramsci cercavano in tutti i modi di far valere le loro ragioni, ma invano. La vetrina del Villa - il rivenditore di biciclette e motocicli che avevamo davanti agli occhi - e il caratteristico crocefisso in legno risalente ai primi del Novecento poco distante - si intravedevano a fatica.
"Ho i brividi - mi disse Cecilia.
"Hai freddo?".
"Da morire".
"Se vuoi...".
"Cosa?".
"Potrei abbracciarti".
"Magari!".
Allungai il mio braccio sinistro sulle spalle di Cecilia e la strinsi a me.
"Così va meglio? - le domandai.
Ma non ebbi risposta. All'improvviso mi ritrovai con le spalle al muro. Cecilia, mossa da chissà quale astrusa intenzione, con gli avambracci obbligò all'immobilità il mio corpo, fissandomi con due occhi profondi come la notte. Sopra le nostre teste lampeggiava il sempiterno semaforo del Malcantone. La nebbia ci avvolgeva a mo’ di un gigantesco e minaccioso mantello indossato da chissà quale orrenda creatura. La ragazza socchiuse gli occhi, allentò le braccia e pose infine le sue labbra sulle mie.
Un brivido che risuona ancora oggi mi attraversò dalla testa ai piedi, dopodiché accadde qualcosa di strano, misterioso. Si mosse il vento. Un odore acre sconvolse le nostre narici. Poi tutta una serie assurda di sensazioni, perlopiù visive e tattili. Scomparvero la vetrina del Villa, il crocefisso, la pensilina delle scuole elementari… L'asfalto sotto i nostri piedi liquefece e il lampeggio del semaforo si ridusse a un lontano e banale luccichio. Cecilia abbandonò la mia bocca; mi squadrò perplessa e impaurita, stringendomi forte le mani.
"Che cosa sta succedendo? – mi chiese.
"Temo che la nebbia ci stia giocando un tiro dei suoi".
"La nebbia?".
"Questa non è una nebbia come le altre".
"Cosa vuoi dire?".
"Ti ricordi l'anno scorso quando è scomparso Sandrino?".
"Certo che mi ricordo".
"Secondo me è stata la nebbia".
"Ma non dire scemenze".
"Non dico scemenze".
"La nebbia?".
Il tempo rallentò il suo cammino, lo spazio abdicò, le stelle presero a brillare di una luce sconosciuta e a vorticare su se stesse come trottole impazzite. E a noi parve di volare come in un film, in un sogno, in un mondo parallelo. I nostri animi andarono in escandescenza…
Fotografammo sbigottiti dall'alto le vie e le strade della Brianza come non le avevamo mai viste. Vuote, silenziose, eppure così incredibilmente vitali. Le luci dei benzinai, i fumi delle fabbriche, i casolari di campagna, i boschi di Montevecchia… tutti posti dove entrambi avevamo vissuto chissà quali avventure. Infine la sorpresa nella sorpresa: allo stesso modo in cui era venuto l'odore acre sparì e con esso il vento. I nostri sguardi e i nostri animi si rasserenarono. Piano piano tutto tornò come prima…
La vetrina del Villa, il crocefisso, le pensiline delle scuole medie, riguadagnarono le loro postazioni… Io e Cecilia serrammo involontariamente gli occhi, sopraffatti da una sofisticata beatitudine. E al nostro risveglio, come per magia, della nebbia non c'era più traccia.

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