mercoledì 3 marzo 2010

Brianza Borderline: "Un servizio sulla religione"

Un giorno di tarda primavera del 1995, Andrea Brambilla bighellonava per la redazione del Giornale di Vimercate in cerca di Faustino Colombo, un redattore sfigato pieno di nei, con il quale aveva stretto amicizia, e con cui speso andava fuori a bere qualcosa. Non c’era lui e nemmeno il caporedattore al quale avrebbe potuto chiedere dove fosse. Si accomodò, perciò, alla sua scrivania e si mise ad aspettarlo, guardandosi intanto intorno svogliatamente. Notò una fotografia di Bruce Springsteen con la faccia da pesce lesso, appiccicata al monitor del pc: il suo amico era un gran fan del cantautore del New Jersey; un portamatite mangiucchiato, nella parte superiore, da piccole graffette; un ritaglio di giornale - forse del Corsera - sull’esplosione di un mobilificio a Lissone; un pacchetto di fazzoletti di carta ancora chiuso; un biglietto omaggio per l’autopista Badoer… Passarono diversi minuti. Di Faustino nemmeno l'ombra. Andrea, dunque, vinse un colpo di sonno improvviso e si mise a fantasticare. Fece uno dei suoi sogni preferiti: quello in cui si ritrovava a vestire i panni del direttore di Rolling Stone, la sua massima aspirazione professionale. Stava dando dell’incapace a un subalterno che non era riuscito a intervistare il cantante dei Counting Crows, Adam Duriz, di passaggio da Milano con una splendente e coloratissima groupie, quando all’improvviso varcò la soglia della redazione l’austero direttore del settimanale locale.
“Battiamo la fiacca? – gli chiese.
“No, perché? – rispose il giovane con aria assonnata.
“Cos’è quella posa da fancazzista?”.
“Sto aspettando Fausto”.
“Oggi non viene”.
“Ah”.
“Non hai niente da fare?”.
“Non ho detto questo”.
“Ce l’ho io qualcosa da farti fare”.
Andrea tacque.
“Mi hai sentito?”.
“Ho sentito”.
“Vuoi sapere cos’ho in serbo per te?”.
“Sono tutto orecchi”.
“Un bel servizio sulla religione”.
“Eh?”.
“Hai capito bene”.
“La religione?”.
“Esatto”.
Il ragazzo tacque di nuovo.
“Non sei sempre tu quello in giro in bicicletta?”.
“Più o meno”.
“Che ne dici allora di prendermi il tuo fuoristrada e andare in giro a domandare a tutti quelli che incontri cosa ne pensano di Dio, Gesù e tutto il resto”.
“Sta scherzando?”.
“Perché?”.
“Mi sembra un argomento spinoso”.
“Non direi…”.
“Mah”.
“Beh, se non me lo fai tu, affido il servizio a un altro. Ma poi non venire qui a piangere e a dirmi che ti faccio fare solo articolini per paraplegici mentali”.
“Tombini divelti, alberi caduti e ricci investiti dalle automobili?”.
“Appunto”.
“D’accordo, ci penso io”.
“Mi piaci così intraprendente”.
“Ma…”.
“Mi fai un articolo principale e un paio di box”.
“Per quando?”.
“Settimana prossima”.
Il direttore non disse altro. Compì un giro di chiappe di 180 gradi e scomparve oltre la porta del suo incasinatissimo ufficio.
Andrea rimase con la bocca aperta, a fissare ancora per qualche minuto lo stranito faccione di Bruce: era la prima volta che il direttore del Giornale di Vimercate gli affibbiava un compito tanto importante. Curioso… In ogni caso non poteva certo farsi cogliere impreparato. Magari lo avrebbe aspettato una promozione. Magari la tanto agognata assunzione, ché di essere pagato a pezzo non ne poteva più. Riguadagnò, dunque, la strada di casa allegramente, come raramente capitava andandosene dalla redazione, con la solita lista di articoli insulsi da sviluppare.
“Ciao nonna – disse una volta ad Agrate.
“Ciao”.
“Devo uscire di corsa”.
“Ma se sei appena rientrato”.
“Il capo mi ha commissionato un lavoro veramente impegnativo”.
“Cosa?”.
Ma la nonna di Andrea non ebbe risposta. Scansato dalla mente il voluminoso libro di “Tardoantico e alto Medioevo: metodologie di ricerca e modelli interpretativi”, con il quale contava di confrontarsi durante il pomeriggio - l'esame era vicino - il ragazzo era già in bicicletta, pronto a massacrare di domande chiunque gli capitasse a tiro.
“Cosa ne pensi di Dio? Credi in Dio? Hai idea di cosa significhi la parola Kyrie Eleison? – sono solo alcuni dei quesiti che rivolse a conoscenti e amici lungo il cammino. Domande alle quali gli interpellati reagirono in modo assai diverso: ci fu chi lo mandò a quel paese, chi gli chiese se era sicuro di sentirsi bene, chi si abbandonò a una fragorosa risata, come se avesse appena udito la barzelletta più divertente del mondo. In ogni caso, dopo tre giorni di lavoro spossante, ecco le risposte più interessanti che Andrea Brambilla aveva stoicamente raccolto.

Roberto, assistente sociale, clarinettista della banda di Arcore, un vistoso orecchino al naso:
"Tu credi in Dio?".
"Così, così".
"Tu credi in Gesù Cristo morto e risorto?".
"Ah sì, in quello sì".

Claudio, pensionato, accanito fumatore di sigari:
“Tu vai a messa tutte le domeniche”.
“Infatti”.
“Perché?”.
“Così mi hanno insegnato”.
“Per abitudine”.
“Forse”.
“O perché ci tieni a rispettare il terzo comandamento…”.
“Il terzo comandamento?”.
“Sai quali sono i dieci comandamenti vero?”.
“Non ne ho la più pallida idea”.

Silvia, impiegata presso un negozio del centro commerciale Carosello a Carugate, ex babysitter:
“Cos’è, per te, l'anima?”.
“È la parte immortale di una persona”.
“Cioè?”.
“La parte immortale degli uomini”.

Bruno, pensionato, amante della letteratura francese, delle musica francese, della cinematografia francese: su tutti Victor Hugo, Ives Montand, Eric Rhomer:
“Tu credi in Gesù morto e risorto?”.
Bruno scuote la testa e non spiaccica parola.

Giancarlo, perito meccanico, assiduo frequentatore dell’oratorio, con un debole per le canzoni Zucchero:
“Hai mai letto la Bibbia?”.
“Leggo sempre la Bibbia”.
“E allora mi dici dove sta scritto che non si possono avere rapporti sessuali prima del matrimonio?”.
“Mah, mah!”.
Giancarlo diventa rosso come un peperone.

Silvio, cantautore locale, dipendente della Star, innamorato di Johnny Cash e Bob Dylan:
“Che ruolo ha Dio nella tua vita?”.
“Nessun ruolo”.
“Cioè”.
“Ho cominciato a essere realista”.
“Cioè?”.
“Davanti a un morto o a un temporale non basta una preghiera”.
“Cioè?”.
“Dio non lo conosco, ma ho conosciuto i suoi seguaci. Molti falsi e codardi”.

Oliviero, spacciatore, abituale consumatore di hashish, cocaina, ecstasy, assiduo frequentatore di prostitute e travestiti:
“Che ruolo ha Gesù nella tua vita?”.
“Un ruolo determinante. È grazie a lui che riesco a tirare avanti".

Chiaffredo, pensionato, con l’hobby della pittura e le corse di Formula Uno.
“Quante preghiere conosci a memoria?”.
“Quelle che sanno tutti”.
“Per esempio?”. .
“L’Ave Maria e il Padre Nostro”.
“E poi?”.
“Cos’è che c’è ancora?”.
“Dimmelo tu”.
“L’Angelo di Dio”.
“Dai recitami l’Angelo di Dio”.
“Ma sei matto?”.
Chiaffredo ride di gusto.

Walter, ex dipendente della Breda, due mogli, due figli, due automobili, due bypass.
“Sai qual è la vera missione nella vita per un buon cristiano?”.
“Sì”.
“Qual è?”.
“Mettere il becco nelle faccende altrui”.
“Non esagerare”.
“I cristiani sono tutti dei gran… la chiesa poi…”.
“Beh, te lo dico io qual è lo scopo della vita per un buon cristiano: è diventare santo”.
“E allora mi spieghi perché tutti si professano cristiani ma il mondo va sempre peggio?”.

Suor Romilde, straordinaria imitatrice di Topogigio, recentemente colpita da una rara forma di epatite:
"Perché Abramo ebbe una sacco di partner (Sara, Agar, Chetura e concubine a iosa) mentre all'uomo moderno è permesso di averne solo una?".
"Erano altri tempi e poi la Bibbia va interpretata correttamente".
“Perché nella Bibbia c’è scritto che le donne che hanno il mestruo sono impure ed è quindi meglio starle alla larga?”.
“Erano altri tempi e poi la Bibbia va interpretata correttamente”.
“Perché nella Bibbia c’è scritto che…”.
“Erano altri tempi e poi la Bibbia va interpretata correttamente”.

Marcello, grafico pubblicitario, bassista dei Bachi da seta, credente arciconvinto:
“Mi spieghi il significato della morte di Gesù in croce?”.
“Mm, mm”.
“Mi spieghi cos’è lo spirito santo?”.
“Non lo so. Ma un giorno mi piacerebbe saperlo”.
“Sai che l’arcangelo Gabriele non è apparso solo a Maria e a Zaccaria, ma anche a Maometto (sul monte Hirāh, vicino alla Mecca)?”.
“Non mi interessa. Se nascevo musulmano probabilmente mi sarebbe interessato. Ma sono nato qui, quindi…”.

Felice, zio di secondo grado della madre di Andrea, interista sfegatato, gran divoratore di trippa e ossibuchi:
“Lo sai che il celibato - peraltro osservato anche da religioni lontane dal cristianesimo come lo zoroastrismo e il confucianesimo - probabilmente lo hanno consigliato e/o inventato per la prima volta sant’Agostino, sant’Ambrogio, e sant’Atanasio dopo almeno trecento anni dalla morte di Gesù? E che quindi nulla di tutto ciò è espressamente richiesto dalle sacre scritture?”.
“Chi? Che?”.
“Sei d’accordo con Einstain quando dice che la scienza senza religione è zoppa, ma la religione senza scienza è cieca?”.
“Te la sei provata la febbre?”.

Amanda, donna di strada di origine Moldava:
“… religione”.
“Anche io credo in religione. Gesù. Cristo. Madonna”.
“Davvero?”.
“Certo! Ortodossia! Ortodossa!”.
“Ortodossa?”.
“Ortodossa!”.
Amanda fa vedere ad Andrea le nuove giarrettiere che ha comprato a Sesto San Giovanni.

Laura, impiegata presso il mollificio paterno di Calco, appassionata di enologia e musica jazz:
“C’è chi dice che Maria Maddalena fosse l'amante di Gesù…”.
“È una bella idea”.
“Trovi?”.
“Erano uomini”.
“Gesù, poi, secondo alcuni, aveva anche dei fratelli…”.
“Buon per lui”.

Daniele, padre di Cecilia, ipercolesterolemico, socio del Club Alpino Italiano:
“Pensi che a Lourdes accadano davvero i miracoli?”.
“Assolutamente sì”.
“Non credi possa essere tutta suggestione?”.
“Assolutamente no”.
“E allora come mi spieghi il fatto che sono riportate più guarigioni straordinarie nella letteratura medica che non nei documenti ecclesiali concernenti il noto sito mariano?”.
Daniele non aggiunge altro e si lascia scappare un sorrisino imbarazzato.

Danilo, commesso in un negozio di vestiti a Peregallo, grande esperto di computer, amante delle scampagnate in mountain bike:
“Ti consideri religioso?”.
“Sì”.
“Perché?”.
“Perché sento che c’è qualcosa”.
“Cosa?”.
“Qualcosa, non lo so”.
“E allora come fai a credere in qualcosa che non sai cos’è?”.
“Io ci credo”.

Evelina, segretaria di un grosso imprenditore brianzolo, grande esperta di massaggi shiatsu e religioni orientali:
“Tu credi nella vita ultraterrena?”.
“Certo”.
“Come fai ad esserne così sicura?”.
“Ne ho avuto la conferma”.
“Scherzi?”.
“Ogni anno, in occasione dell’anniversario della morte di mio nonno, sento la sua mano poggiarsi sulla mia schiena”.

Giordano, studioso di storia moderna, chitarrista della band Bachi da seta, amante di gruppi come i Belle & Sebastian:
“Tu credi nell’aldilà?”.
“Certo. Ma conscio del fatto che l’aldilà non è altro che la proiezione di un aldiquà senza limiti”.

Monica, autrice del libro Giardini in Brianza, insegnante di lettere della scuola media di Busnago.
“Egli è colui che ha fatto crescere giardini, vigneti a pergolato e senza pergolato, e palme, e cereali vari al mangiare, e olive e melograni simili e dissimili. Mangiate del frutto loro quando viene la stagione, ma datene il dovuto ai poveri, il dì del raccolto, senza prodigalità stravaganti, ché Dio gli stravaganti non ama. (Corano). Dove sono riportate queste parole?”.
“Nella Bibbia?”.
“E se ti dicessi che sono riportate nel Corano?”.
“Mah, non so… mi suona strano”.

Giannina, novantenne sensitiva, abilissima ricamatrice e ammazza galline:
"Davvero ti è comparso san Antonio mentre eri moribonda in ospedale?".
"Sì”.
“E cosa ti ha detto?”.
“Di non rattristarmi che l'indomani sarei tornata a casa”.
“E poi come è andata?”.
“Come ha detto lui. I dottori erano senza parole. Mio marito piangeva dalla gioia".
"Veramente il cardinal Shuster, benedicendo la canottiera di tuo marito, ha fatto sì ch’egli guarisse da una misteriosa malattia ai polmoni?”.
"Già”.
“È vero che Angelino ti è apparso ai piedi del letto la notte stessa in cui se n’è andato?”.
“Indossava i pantaloni di velluto beige, quelli che metteva sempre…”.

Alessandro, gay, operaio in una fabbrica di Carnate:
“Qual è il significato della vita?”.
“Non ne ho idea”.
“Quando eri piccolo chi più degli altri ti ha avvicinato alla religione?”.
“Nessuno”.
“Tuo padre?”.
“Ho detto nessuno. Mio padre se ne è andato che avevo cinque anni e l’ultima cosa che gli ho sentito dire - sul letto di morte - è stata una bestemmia”.
“E dell’aborto cosa ne pensi?”.
Nessuna risposta.

Mattia, studente universitario, innamorato dei paesi nordici, delle piante grasse, delle ragazze acqua e sapone:
“Sai cosa sono le sacre Quarantore?”.
“Sì”.
“Cosa sono?”.
“C’è di mezzo la Pasqua”.
“Quindi?”.
“Non mi ricordo più”.
“Eppure sei stato battezzato?”.
“E allora?”.
“Il battesimo a cosa ti è servito?”.
“A niente”.

Filippo, studente in economia e commercio alla Bocconi, appassionato di musica progressive, moderno Casanova:
“Pensi sia importante affidarsi alle sacre scritture per trovare un senso alla vita?”.
Silenzio.
“Pensi sia importante affidarsi alle sacre scritture per trovare un senso alla propria esistenza?”.
“L’hai ascoltato l’ultimo disco dei Mercury Rev?”.

Roberta, neomamma, maestra d’asilo:
"Credi in Lazzaro resuscitato dalla morte?".
“Che domande mi fai? Sei ubriaco?”.
“Devo fare un lavoro per Il Giornale di Vimercate”.
“Senti, ho avuto una nottata e una giornata difficili…”.
“Ci vuole poco a…”.
“Ci vediamo”.

Silvana, esperta di arredamento e design, fotografa dilettante:
"Credi nella madonnina di Civitavecchia?".
“No”.
“Perché?”.
“Sono tutte stronzate”.

Ivan detto il Bogia, dipendente dell’Esselunga, gran bevitore, collezionista di filmini hard:
“Tu pratichi abitualmente turismo sessuale, ma vai a messa tutte le domeniche… pensi di essere coerente?”.
“Certo. Il sesso è una cosa. La chiesa è un’altra. E poi io non posso fare a meno di scopare”.

“Muoviti che è pronto da mangiare!”.
L’urlo di zia Teresa fu così forte che perfino Tigre - il gatto della famiglia, sdraiato sul davanzale della finestra, vicino a semi di zucca posti a essiccare, di solito insensibile anche ai rumori più molesti – si ridestò. L’animale rizzò le orecchie e, affranto, corse a rifugiarsi tra alcuni arbusti di belle di notte e lunaria. Andrea che stava annotando le cose più interessanti emerse durante le interviste nello studiolo del nonno, sistemò tutto in fretta a furia in una cartelletta malconcia, abbandonò la scrivania, e corse in cucina.
Al suo arrivo, i parenti, erano già ai rispettivi posti di combattimento, pronti ad abbuffarsi: c’erano zia, zio Melchiorre, nonno Tommaso, nonna Maria. Questa la tipica formazione del mezzogiorno. Poi, in serata, per l’ora di cena, si univano alla combriccola anche i tanti altri consanguinei del ragazzo, durante il giorno impegnati su altri fronti: la mamma, il papà, la sorella di Andrea e i suoi cugini. La famiglia di Andrea Brambilla era dunque una famiglia di quelle all’antica, dove assai spesso, figli, nonni e nipoti, si riunivano tutti sotto lo stesso tetto; tetto che, in realtà, era quasi sempre quello della casa dei nonni, una dimora risalente al Settecento, presso la quale lavoravano come custodi, dopo aver risposto a una provvidenziale inserzione su Famiglia Cristiana.
Ogni angolo della casa dei nonni del giovane era un frammento di storia passata. C’erano così tante cose vecchie e vetuste che elencarle tutte non sarebbe possibile: sgabelli fatti a mano, carretti con le ruote sbilenche, statue di angeli e cherubini, letti smisuratamente alti e austeri, quadri raffiguranti diavoli con la coda al capezzale di un morente, libri pieni di polvere risalenti al tempo di Napoleone, ripiani per lavorare i bachi da seta… La casa era completamente isolata dall’esterno, per cui, una volta fuori, sembrava davvero di aver viaggiato nel tempo, di essere stati catapultati di colpo dal Diciottesimo al Ventesimo secolo.
La tv andava. C’era uno speaker impettito che sciorinava le news del giorno: coltelli, squartamenti, rapine, guide senza la cintura, cani abbandonati, insomma, le cose di tutti i dì. Era il telegiornale di Rai Tre, cui sarebbero presto seguiti anche quello di Italia Uno e quello di Canale Cinque. Gli uomini erano interessati soprattutto alla politica e allo sport. Le donne alle tragedie e al costume. Qualche volta alle notizie seguivano sfrenati commenti, tipo:
“Che faccia da idiota”.
“Così andiamo indietro di cento anni”.
“Sono solo capaci di aumentare le tasse”.
Oppure:
“Ma guarda se si può”.
“Avrà l’amante”.
“Quella lì non sa fare niente”.
Sicché i telegiornali (e i quotidiani) in casa di Andrea erano all’ordine del giorno. E guai a fiatare. Forse è anche per questo che Andrea s'era messo in testa di fare il giornalista. Erano soprattutto il padre e lo zio del giovane ad andare su tutte le furie se qualcuno parlava durante un tg: i due reagivano in modo assolutamente biasimevole, lontani da qualunque logica socialdemocratica che dovrebbe regnare in ogni famiglia che si rispetti, quale era appunto quella del giovanotto. Il primo, percependo delle frequenze anomale, totalmente estranee al vocio meccanico e ingessato del telecronista, si alzava di scatto e, magari con il bolo alimentare ancora ballonzolante fra denti e gengive, correva all’altoparlante tv. A destinazione si piegava in due e assumeva la posizione di un giocatore di golf mentre effettua il tiro, andando a poggiare l’orecchio sull’altoparlante, per poi finire praticamente fagocitato delle news, in un mondo a metà strada tra l’onirico e il trascendente.
Zio Merchiorre era addirittura più spavaldo. In caso di chiacchierii indesiderati recuperava infatti con rabbia inaudita il telecomando - di solito appoggiato da qualche parte sulla tavola, vicino al bottiglione del rosso o a qualche michetta - e cominciava a pigiare come un pazzo sifilitico sul pulsante del volume. Il resto lo si può immaginare. L’audio della tv raggiungeva livelli inverosimili e fra i vari commensali non era più dato di confrontarsi. Inutile dire allo zio di abbassare, non sentiva, e il telecomando, non era possibile strapparglielo dalle mani, se non al costo della vita. Con ciò, quindi, si spiega il motivo per cui i telegiornali di casa Brambilla potevano essere seguiti comodamente anche dall’elettricista che abitava dall’altra parte del cortile - peraltro sordo come una campana - o da Tiziano, il barista che stava mezzo chilometro più avanti delle finestre della cucina della famiglia.

Spaghetti al sugo, cotoletta alla milanese, pomodori, insalata. Il menù del giorno e lo stesso, a dire il vero, che avrebbe contraddistinto anche di tutti gli altri dì. Sicché, dai Brambilla, durante i giorni feriali, c’era da accontentarsi di quello che passava il convento, senza fare tante moine, mentre i gustosi piatti elaborati seguendo le ricette di suor Germana, non sarebbero sopraggiunti prima di sabato o domenica, quando tutti erano a casa dal lavoro (o da scuola) e le donne erano ben liete e gasate di dar sfoggio alle loro doti culinarie. Nei giorni infrasettimanali, pertanto, il menu subiva minime variazioni, sennonché, sporadicamente, al posto della carne finiva fra i piatti qualche insaccato. Il nonno andava matto per il salame; la nonna per la pancetta; lo zio per il lardo.
Meritava però un discorso completamente a parte il venerdì. Il venerdì era un dì tutto speciale con un menù tutto speciale, poiché era il quinto giorno della settimana, quello in cui, secondo la tradizione cristiana – e quindi la tradizione dei Brambilla – Gesù spirò in croce. Il quinto giorno della settimana bisognava perciò fare penitenza, non importa se fosse Quaresima o meno.
“Dovremmo digiunare – diceva il nonno.
“Non esagerare – gli dicevano i nipoti.
“E invece è così. Gli arabi stanno un mese senza mangiare”.
“Sarà un eufemismo – interveniva Rosetta, cugina di Andrea, l’acculturata della famiglia.
“Non è un efrerismo, un efuerismo, un…”.
“Cosa vuoi che capiscano i giovani d’oggi? - blaterava nonna.
Morale della favola – per non fare torto a nessuno – nella famiglia di Andrea Brambilla venne introdotta dall’oggi al domani la seguente regola: chiunque avrebbe mangiato di magro tutti i santi venerdì, dal primo gennaio al trentun dicembre. Tonno e frittata a volontà!

Andrea mangiò in fretta. Tanto velocemente che gli altri stavano ancora dandosi da fare con il secondo quando si alzò da tavola. Il telegiornale su Italia Uno non era ancora cominciato; uno sketch pubblicitario raccomandava un detersivo particolarmente efficace, in grado di eliminare anche le macchie di grasso, catrame e resina più resistenti. Zia Teresa trafficava maldestramente con le bottiglie dell’olio e dell’aceto, utilizzate poco prima per condire la verdura; zio Melchiorre era pronto a impugnare il telecomando e a far fuoco; nonna stava decollando per il bagno, pellegrinaggio che, per via del diuretico, si accingeva a compiere tutte le volte che finiva il primo: i servizi erano in cortile e così la veterana della famiglia con le sue gambe malandate impiegava circa venti minuti per andare e venire; per questo motivo quando rimpatriava e cominciava a tagliuzzare la cotoletta, gli altri della famiglia erano già al caffé.
In cortile il ragazzo si accese una sigaretta. Il pacchetto che aveva acquistato in mattinata da Polifemo era già a metà: in quei giorni, a causa delle interviste, con la nicotina vi aveva dato dentro mica da ridere. Seguì con lo sguardo le parabole di fumo create dalle prime boccate, finendo per rimirare le verdeggianti fronde del centenario gelso che campeggiava con tutta la sua maestosità nel centro dell’aia. Prese a fissarlo per un po’, come ipnotizzato, godendo del suo fragrante respiro, della sua freschezza e della sua severità. Poi si mise a esplorare il bel cielo azzurro che si stagliava al di là di esso, e al di là del profilo di comignoli che contraddistingueva il tetto del fabbricato ottocentesco dove una volta abitavano i Beretta e dove, poco più in là, sorgevano le stalle. Infine tornò a pensare al suo servizio sulla religione con uno strano malumore: nonostante le numerose interviste fin lì fatte, non si sentiva ancora soddisfatto.
Prese così a delinearsi nel suo cervello l’ipotesi che, al di là dell’aspetto professionale, fosse scattato qualcosa nel suo intimo. Una molla, un brivido, una scintilla. Per la prima volta si trovò quindi a pensare che, molto probabilmente, il primo a non capirci niente di Dio, religione e sacre scritture, era proprio Andrea Brambilla. Proprio lui che si era divertito come un matto a verificare il pressappochismo, l’ignoranza, l’analfabetismo teologico di quanti aveva intervistato. Lui non era da meno. Lui che aveva trascorso gran parte della sua vita in oratorio. Dunque la sua anima – o chi per essa - cominciò a porsi nuovi e insospettati interrogativi, del tipo: dove sta la ragione? Dalla parte degli atei o dei credenti? Sono più vicini a Dio coloro che ostentano la sua esistenza con il paraocchi, o coloro che lo rifiutano, ma che inconsapevolmente lo vivono tutti i giorni? E se in realtà fossimo tutti degli agnostici? E se in realtà Gesù fosse solo una bella favola? E se in realtà la religiosità di un individuo dipendesse solo dai suoi geni? Inutile stare a rodersi il fegato: doveva trovare al più presto qualcuno che se ne intendesse davvero di religione e potesse aiutarlo a risolvere tutti i suoi dubbi.
Il primo nome che gli balzò alla mente fu don Francesco, un prete dell’Azione Cattolica che aveva conosciuto sul finire degli anni Ottanta nel corso di uno dei tanti incontri religiosi organizzati dalla parrocchia del suo paese. Sembrava un tipo tosto. Non di certo uno di quei sacerdoti bavosi e scontati che siamo soliti immaginare quando dobbiamo prendere in considerazione la classica figura religiosa che ci ha raccontato di Gesù e della Madonna quando eravamo piccini. Don Francesco sapeva raccontare le sacre scritture meglio di chiunque altro. Era poi un tipo brillante, grintoso, ironico. Ricordò di averlo incontrato l’ultima volta al Camaleonte, un bar di Vimercate. Era in compagnia di Veronica, con la quale si era fidanzato da un paio d’anni.
“Chi si vede! – gli aveva detto.
“Non ci posso credere”.
“Non dovevi venire a trovarmi a Roma?”.
“Ho avuto da fare”.
“Figurati. E questa bella giovane, non me la presenti?”.
“Si chiama Veronica”.
Don Francesco aveva preso sottobraccio la ragazza e le aveva detto:
“Sto giovanotto ce la fa ancora da solo o ha già bisogno del Viagra?”.
Di lui, però, adesso, non sapeva più nulla. A malincuore dovette perciò scartare l’ipotesi di potersi avvalere del suo aiuto per risolvere i dilemmi che lo attanagliavano.
Gianni, un suo amico delle scuole superiori, fu il secondo della lista. All’università aveva studiato teologia e filosofia… Probabilmente di argomenti concernenti il valore etico e sociale della religione ne doveva conoscere a bizzeffe… In realtà, rifletté Andrea, il suo ex compagno non era più in Italia da mesi: viveva a Parigi in una specie di comune e si era messo a fare il musicista.
Infine la sua attenzione fu catturata dall’idea di contattare lo storico che, tempo fa, aveva tenuto presso l’auditorium delle scuole medie del suo paese un incontro sugli esseni. Ma anche qui non andò molto lontano: la direttrice della biblioteca municipale - che aveva organizzato l’incontro - gli aveva rivelato che l’uomo era emigrato in Usa per insegnare in una prestigiosa università. Andrea cominciò ad avere sonno. Raggiunse il dondolo della casa padronale e si sdraiò sul suo morbido cuscino. Strizzò un occhio, poi l’altro e alla fine si addormentò.
Fece uno strano sogno. Un sogno assurdo. C’erano lui e il nonno che erano finiti chissà come negli angusti e polverosi sotterranei di una villa di Osnago e non erano più riusciti a tornare in superficie. Poi erano venuti in loro soccorso Giorgio Galimberti, un amico di infanzia di Andrea, e la sua ragazza in topless e li avevano tratti in salvo. Si erano quindi ritrovati tutti insieme in un bar sconosciuto dove, all’improvviso, era comparso una specie di sicario con un bazooka in mano e lo stuzzichino fra i denti che aveva iniziato a fare fuoco. Era scoppiato il finimondo. Il sicario aveva cominciato a sparare a raffica ferendo il nonno e colpendo alla tetta sinistra la compagna di Giorgio. Volavano sedie, tavoli e bottiglie di vino, con l’amico di Andrea che cercava in tutti i modi di arginare l’emorragia della ragazza con un panno per i piatti tappezzato di macchie d’olio, e il nonno che – incurante della ferita – saltellava come un grillo, felice di ingollare tutto il vino che voleva da una damigiana divelta dagli spari. Il sogno finì. E al suo risveglio, come per magia, Andrea ebbe perfettamente chiari i due nomi che facevano esattamente al caso suo: Marco e Fabrizio. Il primo in qualche modo riconducibile agli atei, ai miscredenti, ai mangiapreti; il secondo ai credenti, ai timorati di Dio, ai pinzocheri.

Marco abitava in zona Colleoni, in una delle tante villette a schiera che circondavano l’imponente centro affari. Era iscritto all’università da vent’anni, ma il titolo di dottore sembrava ogni giorno sempre più lontano. Non aveva figli, non aveva moglie, pareva non avesse nemmeno un parente, come se i parenti potessero solo ed esclusivamente dargli noie e scocciature. In compenso era costantemente attorniato da bellissime donne. Non per niente fra i suoi passatempi preferiti c’era proprio quello di svolazzare da un gineceo all’altro, totalmente indifferente ai sentimenti altrui e al concetto, quindi, di amore eterno. In molti si chiedevano come facesse, cosa gli facesse alle donne, quale mistero si nascondesse nei meandri del suo io e della sua mente febbricitante. La risposta era probabilmente racchiusa in quel particolare sex appeal che lo contraddistingueva, nell’innato charme che lo avvolgeva, in quell’aria strafottente e maledetta che lo accompagnava.
Le sue storie erano state innumerevoli. E fra queste alcune avevano suscitato grande scandalo. Ne ebbe una, per esempio, con una suadente politica locale, quarantenne, madre di due figli, moglie di un imprenditore della zona, piccolo ma tenace. La donna alla fine perdette completamente la bussola per Marco. Rivelò al marito di avere scoperto l’amore della vita, di non essersi mai sentita così ispirata sessualmente e spiritualmente. Fece le valigie per andarsene, ma quando si presentò alla porta dell’amante, costui le disse di tornare da dove era venuta che, probabilmente, della loro intesa, non aveva capito un fico secco. Poi c’era stata la vicenda con una giovanissima che Marco aveva conosciuto al Ragno Verde. La ragazza, imbambolata dalle sue parole, davanti alle vasche dei gelati e allo sguardo tediato della Mariuccia, aveva deciso di frequentarlo benché avesse più del doppio della sua età. Marco si divertì per un paio di settimane, dopodichè, quando la piccola cominciò ad affezionarvisi la mandò al quel paese:
“Non sono mica tuo padre – le aveva detto -. Per quanto mi riguarda non ho altro da dirti”.
Visse una storia perfino con un'affascinante attrice del cinema italiano, figlia di un grande regista, di cui però non posso, per ovvi motivi di privacy, rivelare le credenziali. Ma anche in questo caso tutto naufragò prima ancora di prendere il largo.
Marco aveva 40 anni e una cultura enciclopedica. Sapeva tutto di tutto e tutti. Parlava correttamente inglese e tedesco, e da poco aveva cominciato a studiare il cinese. Aveva una memoria prodigiosa: gli bastava sentire una sola volta un vocabolo straniero per farlo suo per sempre. La sua vera passione, però, era la storia, della quale amava ogni periodo, epoca, fatto e misfatto. Il suo debole, in particolare, erano le religioni monoteiste: era fissato con il cristianesimo, l’ebraismo, l’islam. Con ciò non stupisce sapere che per lui temi come testi biblici, vangeli apocrifi, agnosticismo, rotoli del Mar Morto, Opus Dei, erano come per un pendolare il calcio il lunedì mattina in metrò.
Andrea conobbe Marco grazie all’amico Enrico, un coetaneo col quale andava spesso a giocare a calcio. Li incontrò – rapiti da una severa conversazione - un pomeriggio al Camaleonte.
“Blaise Pascal – diceva Marco.
“Pascal? – aveva domandato Enrico.
“Esattamente. Messori (l’autore di “Ipotesi su Gesù”) sembra capace di parlare solo di lui”.
“E dove sta il problema?”.
“Il problema è che trascura tutto il resto”.
“Cioè?”.
“Trascura il fatto che esistono ben ottanta vangeli apocrifi; i vangeli agnostici; testi mussulmani che si è soliti trascurare ma che contengono invece miriadi di informazioni interessanti. Insomma: una moltitudine di altri spunti storici ai quali attingere per ricostruire dettagliatamente ciò che accadde duemila anni fa”.
“E perché si sarebbe comportato così?”.
“Per convincere gli altri e se stesso di un dogma che probabilmente non ha alcun fondamento storico”.
“Vuoi dire…”.
“Voglio dire”.
“Sei blasfemo”.
“Sto dicendo la verità”.
Andrea si sedette al loro fianco senza fiatare. Marco gli diede un’occhiata superficiale e fece ad Enrico:
“Pensaci ragazzo. E poi dimmi se dico sciocchezze. La prossima volta che ci vediamo andiamo avanti a discuterne”.

In casa nonna giaceva sulla sua poltrona personale, dove trascorreva sì e no il novanta percento della giornata. Sonnecchiava con le gambe sollevate, la posizione ideale per vincere la gravità e contrastare efficacemente lo sviluppo delle ulcere varicose. Al suo fianco, a portata di mano, su un angolo sbiadito del tavolo, si trovavano rosari e immagini sacre, pronti per essere impugnati e idolatrati nel corso delle consuete orazioni pomeridiane. In quel pandemonio di religiosità trash spiccavano le effigi di sant’Antonio, Padre Pio, Papa Giovanni XXIII, ma anche protettori celesti a dir poco sconosciuti. C’erano per esempio san Maturino o san Ursicio, le cui gesta, pensava Andrea, dovevano sfuggire perfino ai vescovi e al papa. Il giovane non vide gli zii, di sicuro, a quell’ora, già rincasati, e il nonno, evidentemente in anticipo sulla tabella di marcia, già in visita a qualche bar del centro. Dunque si trovò nella situazione ideale per aggrapparsi alla cornetta e telefonare a qualcuno senza sentirsi gridare alle spalle:
“La paghi tu la bolletta?”.
“No”.
“E allora basta usare il telefono”.
“Non lo uso mai”.
“Lo usi solo tu”.
“Non è vero”.
“Io non lo uso mai, e ogni mese la bolletta è sempre più alta”.
“Dai nonna non fare la spilorcia”.
Il ragazzo compose agilmente il numero di Enrico. Era libero. Disse all’amico che voleva intervistare il figuro col quale stava chiacchierando quel dì al Camaleonte, e che aveva quindi bisogno di delucidazioni in merito alla sua abitazione. Enrico gli fornì tutte le informazioni di cui necessitava, cosicché, un’oretta più tardi, ridente e spensierato, fu di fronte al citofono di Marco.
Si trovava nei pressi della casa dei Quirico, dove era solito recarsi da piccolo con i genitori, e la speranza, vana, di far breccia nel cuore della bella Ofelia, la primogenita della famiglia. Notò, come allora, il lungo filare di farnie che correva lungo la strada su cui si affacciavano le case, e una struttura diroccata dell’Enel. Lesse il nome inciso sulla targhetta del citofono: Marco Sigismondi. Il suo uomo. Pigiò una prima volta sul pulsante del trabiccolo in lamiera ma non ebbe risposta. Riprovò, ancora nulla.
“Forse è al lavoro – si disse, facendosi coraggio.
Di nuovo. Niente. Eppure Enrico gli aveva detto che era quasi sempre a casa a grattarsi la pancia.
“Chi è? – sentì brontolare all’improvviso.
“Un giornalista”.
“Niente pubblicità”.
“Nessuna pubblicità. Ho detto che sono un giornalista”.
Marco riattaccò. Poi, però, si spalancarono rumorosamente davanti ai suoi occhi due persiane e al di là di esse si stagliò la figura di un uomo che gli faceva cenno di entrare.
Il ragazzo attraversò il breve tratto di calpestabile che lo separava dall’ingresso vero e proprio - intorno al quale agonizzava un desolante giardino – e trovando la porta aperta, varcò l’uscio di casa Sigismondi.
Marco lo accolse a torso nudo, con i capelli rabbuffati, un paio di pantofole verdi, invernali, un paio di jeans ai quali il ferro da stiro non doveva stare molto simpatico.
“Chi sei? Che vuoi?”.
“Sono un giornalista del Giornale di Vimercate”.
“Ci siamo già visti?”.
“Sì”.
“Dove e come?”.
“Al Camaleonte”.
“Enrico…”.
“Infatti”.
“Che vuoi da me?”.
“Sono venuto per chiederti se saresti disposto a parlarmi un po’ di religione”.
“Cioè?”.
“Siccome devo fare un servizio per il giornale sulla religione in Brianza, pensavo che uno del tuo calibro potesse aiutarmi”.
“Potrei”.
“Potresti”.
C’era uno bello stereo appena superato l’ingresso della casa di Marco. L’uomo pigiò sul tasto play e fece decollare Dust my broom, una vecchia canzone di Elmore James, cantata da Taj Mahal, un pezzo che anche Andrea conosceva, poiché inclusa in una raccolta del cantautore originario di Harlem che possedeva da tempo. Il padrone di casa si accese una sigaretta, si accomodò su una sedia abbandonata senza criterio in mezzo al locale, e disse:
“Si può fare”.
“Grazie”.
“Quando?”.
“Quando sei disponibile”.
“Sono sempre disponibile… per queste cose”.
“Allora, se per te va bene, potremmo anche fare…”.
“Stasera”.
“Stasera”.
“Alle nove?”.
“Alle nove”.
“Perfetto”.
“Ottimo”.
“A dopo”.

All’ora dell’appuntamento Marco accolse il corrispondente del Giornale di Vimercate con un brano degli Allman Brothers. L’ospite pensò che l’intervistato dovesse essere un buon intenditore di musica, visto che durante il pomeriggio era alle prese con Taj Mahal e ora con una delle più grandi formazioni di rock sudista.
Andrea aveva con sé un blocnotes nuovo di pacca che aveva involato al nonno prima di cena – uno fra i tanti che conservava in un cassetto dello studio, presumibilmente avuti in regalo da banche o amministrazioni comunali - e un registratore tascabile che, quando non usava per le interviste, impiegava per registrare dischi pirata ai concerti. Nei suoi occhi si leggeva un certo nervosismo.
Marco vestiva gli stessi jeans del pomeriggio ma - rispetto a poche ore prima - era scalzo e con una tshirt anonima. Sembrava imbronciato, come se gli fosse andato storto qualcosa. Gli fece strada senza tante cerimonie. Superarono ingresso e salotto e in una decina di falcate silenziose furono in cucina. Qui, desunse Andrea, il suo nuovo conoscente gli avrebbe svelato gli arcani misteri della religione monoteista più potente del mondo e il suo rapporto con essa. La sua attenzione fu immediatamente catturata da numerosi fogli pieni di numeri e annotazioni, e un’anta del mobile principale della cucina letteralmente tappezzata di fotografie. Ritraevano Marco in compagnia di qualche bella ragazza, nei posti più disparati del pianeta. In un’immagine era riconoscibile la silhouette della Tour Eiffel, in un’altra i tradizionali saliscendi della Muraglia Cinese.
“Accomodati – gli disse.
Andrea si sedette sulla sedia che aveva più vicina. Marco fece un salto in salotto a spegnere lo stereo. Tornato gli chiese:
“Da cosa vogliamo cominciare?”.
“Da ciò che preferisci – fece Andrea, facendo intanto partire il registratore.
“Dammi qualche coordinata in più…”.
“Ho intervistato un centinaio di persone e ho scoperto che praticamente non c’è anima viva che mi sappia spiegare come si deve i motivi della propria fede o del proprio agnosticismo. Ho avuto quindi la netta impressione che non esistano dei veri credenti, né dei veri agnostici, ma solo individui saccenti e arroganti che blaterano a vanvera. Con ciò ho ricavato che la religiosità o la non religiosità di una persona non dipendono dagli sforzi fatti dall’individuo, ma solo dall’educazione ricevuta, dall’ambiente in cui si è cresciuti, dalla oggettiva difficoltà con cui si cambiano idee e opinioni”.
“Sono d’accordo con te. Benché io sappia perfettamente giustificare il mio agnosticismo”.
“Mi piacerebbe, infatti, sentire la tua posizione…”.
“Inizierei col concetto d'ipocrisia, se ti va…”.
“Per me va benissimo”.
Marco fece passare qualche secondo di silenzio poi disse:
“Come si fa, secondo te, a pretendere dagli altri qualcosa che nemmeno chi predica è in grado di rispettare?”.
Andrea non fiatò.
“Hai presente il primo comandamento della carità? – incalzò Marco.
“Ama il prossimo tuo come te stesso”.
“Ottimo. Adesso, però, dimmi: quante persone conosci che amano il prossimo suo come se stesso?”.
“Non saprei”.
“Non c’è nessuno”.
“Come fai a dirlo?”.
“Pensa attentamente a un qualunque tuo amico cristiano praticamente. Vedrai che sarà bravissimo a rispettare le feste comandate, recitare il rosario, osservare il digiuno, fregandosene però totalmente di chi gli sta accanto”.
Andrea corrucciò la fronte in segno di disapprovazione.
“Se così non fosse come mi giustifichi le centinaia di persone che ci abitano vicino e muoiono di fame e di freddo ogni giorno?”.
“In Africa, magari”.
“Non serve andare in Africa. Fai un giro per le cascine che ci circondano e scoprirai che sono piene di extracomunitari che versano in condizioni pietose. I cristiani sfiorano questi pezzenti con lo sguardo, ma poi tirano avanti per la loro strada. Ti pare possibile? Se tutti quanti amassimo veramente il prossimo, come predica il vangelo, queste persone non sarebbero ridotte così… Dunque, tornando a noi, come posso io appoggiare una religione i cui seguaci ignorano completamente la legge principale da essa promulgata? Sarei un ipocrita se mi professassi cristiano. E io, nella vita, vorrei essere di tutto, fuorché un ipocrita”.
“Eppure ci sono state persone come Madre Teresa di Calcutta che…”.
“Aspetta. Tu devi valutare il cristiano medio. Colui che, come me e te, obiettivamente, non sarà mai in grado di rispettare il nobile comandamento della carità. Il cristiano moderno, peraltro, non sa nemmeno cosa significhi la parola ‘prossimo’; la scambia infatti per un concetto di ‘prossimo’ fasullo, riferendosi pertanto a persone scontatamente meritevoli del nostro amore: parenti, amici, conoscenti di vecchia data. Ma non è questo il vero ‘prossimo’. Il vero ‘prossimo’ è colui che non si conosce, che fa paura, dal quale tutti stanno alla larga perché potrebbe minacciarci con un coltello appuntito, contagiarci con una pericolosa malattia… appunto, come dicevamo, l’extracomunitario che vive a pochi metri dalla nostra porta e che fingiamo di non vedere. Ecco colui che il vero cristiano dovrebbe soccorrere, abbracciare, servire, e che invece tiene a debita distanza, preferendo magari le inutili riunioni in parrocchia. Il resto sono solo sciocchezze messe in piedi per far tacere la nostra coscienza”.
“Fammi un esempio”.
“Posso farti quello relativo alle numerose famiglie che adottano un bambino a distanza e fieramente mostrano in giro la sua fotografia. Queste persone, questi cristiani, non hanno ancora capito che, se vogliono davvero fargli del bene, non devono adottarlo a distanza, ma portarselo a casa propria e allevarlo come un figlio vero; o recarsi nel suo paese e con i loro bei soldini aiutarlo a farsi strada nella vita. In realtà ce ne sarebbero molti altri…”.
“In ogni caso devi ammettere che la chiesa si dà spesso da fare per andare incontro ai poveri e agli emarginati”.
“Ma la chiesa è tutto e niente. Perché vedi… chiunque, anche un animale, è in grado di muoversi collettivamente. Pensa ai branchi di lupi. La cosa più difficile, invece, è muoversi da soli, accorgersi da soli che c’è qualcuno che ci chiede soccorso. Qui sta la vera sensibilità, la vera carità, il vero ‘prossimo’. Sensibilizzarsi davanti a un marocchino che bussa alle porte della Caritas è l’atteggiamento più scontato che si possa assumere. È pura demagogia, è ancora una volta sana ipocrisia. La tragedia del cristiano moderno sta dunque in questo: nel far di tutto per prendere parte a ogni iniziativa clericale, senza accorgersi però che è soprattutto il vicino di casa nella merda più totale a supplicare la nostra pietà. La chiesa è quindi il nascondiglio dei deboli, di chi non ha il coraggio di osare, di mettere il naso fuori dalla porta di casa. Tutti sanno far del bene con la chiesa e nella chiesa. Ma questo è un bene ridicolo, un falso interessarsi al prossimo. Il vero bene non può e non deve essere condizionato da altri, ma deve essere spontaneo; come tale quindi non può prendere forma in una struttura organizzata, che detta tempi e regole, una struttura qual è appunto la chiesa. È il singolo che deve mettersi in gioco per gli altri, per l’altro, nella difficoltà, nel silenzio, nell’umiltà, laddove nessuno batte ciglio, indipendentemente da tutto e tutti. Il singolo quindi che - senza far parte di nessuna associazione, congregazione, entourage religioso, sociale e politico - va a scovare Zaccheo in cima al sicomoro e lo invita a casa sua”.
“La fai facile…”.
“Non è facile, lo so benissimo, ma allora non chiamiamoci cristiani. Chiamiamoci aspiranti cristiani o meglio… cristiani ipocriti e fanfaroni. La fede, ragazzo mio, è un altro paio di maniche”.
Marco allungò le gambe sotto il tavolo e si sgranchì le braccia.
“Vuoi qualcosa da bere? – chiese ad Andrea.
“Perché no?”.
“Cosa vuoi?”.
“Quello che hai”.
“Vodka?”.
“Perfetto”.
Marco raggiunse una specie di credenza posta di fianco al frigo - un mobile antico, risalente come minimo agli anni Venti, simile a quelli che aveva anche la nonna di Andrea in cucina e nei quali ci si metteva un po’ di tutto, stoviglie, pasta, fazzoletti, ferri da stiro - e recuperò una bottiglia ancora sigillata di vodka e due bicchierini. Una mosca gironzolava insistentemente intorno alla sua testa, ma l’uomo non parve farci caso. Dalla finestra aperta della cucina si udiva il canticchiare di un uccello e il chiacchierio di qualche passante. L’uomo pose i bicchierini sul tavolo e li riempì fino all’orlo. In quello di Andrea, per poco, il liquido non strabordò. Agguantò il suo bicchierino e mandò giù, in un sol colpo, l’alcol in esso contenuto. Chiuse la bottiglia e si accese una sigaretta.
“Comunque non è solo l’ipocrisia a tenermi lontano dalla fede cristiana – riprese Marco -. Ci sono almeno un paio di motivi in più…".
"…".
"Il primo concerne le guerre, le distruzioni di massa, le catastrofi naturali. Il secondo la storicità di Gesù e alcune sue sorprendenti rivelazioni. L’interrogativo che mi pongo, nel primo caso, è il seguente: come posso io accettare un dio buono e magnanimo che afferma di amare le proprie creature, ma che poi le fa soffrire in maniera indicibile? Ti ho raccolto dei dati storici per farti capire dove voglio arrivare. E mi riferisco solo al Novecento…”.
L’intervistato fece scivolare sotto gli occhi di Andrea una tabella piena di numeri.
“1918, fine prima guerra mondiale: 10milioni di morti. 1945, fine seconda guerra mondiale: 68milioni di morti (6milioni gli ebrei massacrati da Hitler). 1951, sterminio di classe in Cina: 1milione di morti. 1953, fine guerra tra Corea, Usa e Cina: 3milioni di morti. 1967, rivolta antigovernativa in Nigeria: 2milioni di morti. 1975, guerra del Vietnam: 2milioni di morti. 1991, conflitti in Afghanistan: 1,5milioni di morti. 1948–oggi, conflitto arabo–israeliano: 1milione di morti. 1975–1979, genocidio cambogiano: 2milioni di morti”.
Recuperò una nuova tabella e continuò:
“Queste le catastrofi naturali… 1908, Italia: una scossa sismica del 10imo grado della scala Mercalli provoca 80mila vittime fra Messina e Reggio Calabria. 1931, Cina: un’alluvione dello Yangzi, il famigerato Fiume Azzurro, coinvolge un territorio esteso quanto la Gran Bretagna, causando la morte di 3milioni di persone. 1991, Filippine: il vulcano Pinatubo si risveglia dopo oltre 600 anni… i morti sono centinaia e centinaia di migliaia i profughi…”.
L’uomo fissò il suo interlocutore con lo sguardo stralunato.
“Capisci? – gli domandò.
“Penso di sì, tuttavia… dovresti anche ammettere la possibilità che l’uomo non sia ancora in grado - e magari non lo sarà mai - di comprendere appieno gli intricati piani del Creatore. Non è quindi da escludere che, dietro a queste catastrofi e carneficine, in realtà possano celarsi mosse divine a noi incomprensibili”.
“Eh no. Il discorso è molto più semplice. Se io voglio veramente bene a una persona faccio di tutto per farla star bene, stop. Al di là di ciò sono solo chiacchiere. Se c’è quindi Dio e ci vuole bene non può far accadere certe cose”.
Ad Andrea brillavano le guance dall’emozione. Finalmente aveva a che fare con qualcuno che di religione se ne intendeva veramente. Qualcuno che, a ragione o torto, aveva riflettuto sul cristianesimo, cosa che tutti quelli che aveva intervistato fino a quel momento non avevano di certo fatto. A questo punto anche il suo bicchiere fu vuoto, e dunque Marco provvide a riempirglielo una seconda volta.
“L’ultimo motivo infine che mi tiene lontano dal dio dei cristiani, come ti accennavo, riguarda la figura di Gesù – andò avanti il quarantenne -. Ho molti dubbi sulla sua storicità e su certe affermazioni da lui fatte, per esempio quelle sullo spirito santo. Parto quindi con la seguente domanda: dove sta scritto che Gesù Cristo è esistito veramente?”.
“Nei vangeli – rispose Andrea, gongolante.
“Lo sapevo che avresti risposto così”.
“Perché?”.
“Sei fuori strada”.
“In che senso?”.
“I vangeli non valgono niente. I vangeli non hanno alcun valore storico. Sono solo dei testi giunti a noi da chissà dove, pieni d'imprecisioni, leggende, falsità”.
“Metti dunque in dubbio il lavoro degli evangelisti?”.
“Nessuno sa chi abbia scritto veramente i vangeli. Secondo una recente ricostruzione pare addirittura che siano stati redatti per via di un ordine impartito dall’imperatore Costantino, circa 300 anni dopo la venuta di Gesù, per sedare il disordine sociale messo in piedi dalle numerose correnti religiose in voga in quel periodo. Si dice che all’epoca venissero idolatrati Hesus, Krishna, Mithra e Zeus. E che, alla fine, dopo una serie di incontri fra presbiteri, ebbero la meglio Krishna (che in sanscrito significa Cristo) e Hesus. Da questi due nomi saltò fuori quindi il nome Gesù Cristo, inventato di sana pianta. Ma è solo una fra le tante ipotesi. In realtà, se vogliamo trovare qualche indicazione sensata dell’esistenza storica di Gesù, dobbiamo confrontarci con altri testi”.
Marco interpellò degli appunti abbozzati a biro:
“Quelli, per esempio, di Giuseppe Flavio, storico giudeo-romano nato nel 37, dapprima delegato del sinedrio e governatore della Galilea, e poi consigliere al servizio dell’imperatore Vespasiano e di suo figlio Tito. O quelli di Cornelio Tacito, storico pure lui, venuto alla luce nel 55, e giudicato da Plinio il Giovane fra i più valenti studiosi dell’epoca”.
“Questi, dunque, confermerebbero l’esistenza di Gesù?”.
“Diciamo che potrebbero dirci qualcosa in più rispetto ai vangeli. In entrambi i casi infatti gli storici parlano davvero di un Gesù Cristo che fece miracoli e che morì in croce. Tuttavia quello che non sappiamo con certezza e che ci manda in crisi è se questi testi siano arrivati a noi nella forma originale, o siano stati manomessi nel corso dei secoli dai primi cristiani”.
“Prego?”.
“C’è il serio dubbio che le opere di Flavio e Tacito siano state trafugate, ritoccate, per dar credito all’esistenza di Gesù”.
“Ci sono prove?”.
“Prove no, ma ipotesi sì. La più lampante riguarda Flavio. Ce ne parla Voltaire nel suo Dizionario filosofico. Secondo il celebre illuminista, anticlericale di primo ordine, se le parole di Flavio fossero state vere, quest’ultimo si sarebbe dovuto convertire di corsa al cristianesimo, cosa che invece non è avvenuta: Flavio, nelle sue Antichità Giudaiche, parla troppo bene dei cristiani, e la cosa è alquanto inattendibile. Analogamente sono riscontrabili contraddizioni nell’opera Annali di Tacito”.
“Che casino”.
“È il caos di chi non vuol vedere come stanno veramente le cose”.
Dalla finestra spalancata della cucina si udirono gli schiamazzi di alcuni ragazzi. Andrea pensò alla solita banda di teenager che – da quelle parti - si cimentava con gli scooter in gare mozzafiato. Principiavano quelle assurde sfide con se stessi dai vitrei e giallognoli palazzi del Colleoni, per poi filare dritti a velocità inaudite fino al semaforo di via Montegrappa, poco dopo la pizzeria del fratello di Mino Reitano. Il largo e infinito rettilineo di via Archimede - a quei tempi ancora privo dei dossi rallentatraffico - e il curvone davanti alla Star, erano le parentesi più pericolose del tracciato, per le quali era assolutamente necessario godere di almeno due prerogative caratteriali per avere salva la vita: nervi saldi e grande capacità di concentrazione. Chi non beneficiava di simili attributi rischiava infatti di non rispondere adeguatamente ai dettami della forza centripeta, e di finire quindi direttamente catapultato in un pentolone dei pelati.
Una televisione andava. Quella di qualche famiglia vicina. Era in corso un varietà. Fu facile desumerlo per via dello squillare incessante di una valletta la cui voce non suonò nuova ad Andrea, ma il cui nome proprio non gli riusciva di indovinarlo.
Al di là della finestra le ombre della notte erano già calate da un po’, e l’umidità dell’aria cominciava a punzecchiare. Un leggero rossore, comunque, continuava a tinteggiare romanticamente l’orizzonte; l’orizzonte di via Archimede, la periferia, la frontiera; il confine tra il mondo dei sogni e quello reale; laddove i più fantasiosi riescono ancora a distinguere il volo di una fata dal salto di un folletto; laddove, molto più prosaicamente, sono spesso i coltelli a sferragliare: storie che arrivano da lontano, dall’est, dalla Romania; storie di bambini mai nati, bambine subito donne, uomini con la pistola salda nel cinturone pronta per essere impugnata in un duello d’altri tempi.
Dalla cucina della casa di Marco si intravedevano poi le luci dei lampioni della contrada e i fari di qualche tir spaesato in cerca dell’indicazione giusta per arrivare chissà dove, forse in capo al mondo, forse per la prima volta in Brianza.
L’uomo tossì tubercolotico, si stirò e si accarezzò il capo. Si alzò per bere un bicchiere d’acqua, riguadagnò il suo posto e disse:
“Ti scoccia se fumo?”.
“In che senso?”.
“Se mi faccio una canna”.
“Figurati…”.
Marco confezionò lo spinello, riprendendo intanto con la narrazione:
“E veniamo quindi a certe parole pronunciate da Gesù; parole imbarazzanti, assolutamente inconciliabili con l’idea di un messia infinitamente buono e misericordioso. Prendi…”.
Marco dette ad Andrea una copia del vangelo.
“Aprilo al capitolo 12, versetto 31 di Matteo”.
“Ecco”.
“Leggi - disse l’uomo dando fuoco alla sigaretta.
“Perciò vi dico una cosa: tutti i peccati e tutte le bestemmie degli uomini potranno essere perdonati, ma chi avrà detto una bestemmia contro lo spirito santo non potrà essere perdonato. Se uno avrà detto una parola contro il Figlio dell’uomo potrà essere perdonato. Ma chi avrà detto una parola contro lo spirito santo non sarà perdonato, né ora né mai”.
Marco sogghignò.
“Che c’è da ridere?
“Me lo domandi pure?”.
“Beh, sì”.
“Secondo te cosa vuol dire peccare contro lo spirito santo?”.
“Non ne ho la più pallida idea”.
“E secondo te chi ce l’ha ‘una più pallida idea’?”.
“Forse il papa”.
“Nemmeno lui”.
“Oh”.
“Te l’assicuro”.
“Non ti seguo”.
“Secondo te un messia davvero indulgente come Gesù può predicare una cosa simile?”.
“Cosa di preciso?”.
“Che chi pecca contro lo spirito santo è sostanzialmente destinato all’inferno per l’eternità… Matteo è fin troppo chiaro in tal senso”.
“Non saprei”.
“Rifletti. Ti pare che un messia buono e magnanimo possa pubblicizzare un Dio potenzialmente in grado di condannare per sempre una sua creatura, per aver peccato contro un qualcosa che, paradossalmente, non sa nemmeno cos’è?”.
“Probabilmente no”.
“Vedi? È l’ennesima assurdità del cristianesimo. Non per niente la pensava così anche il grande Bertrand Russell, fortemente scandalizzato da affermazioni di questo tipo”.
“Il matematico?”.
“Il filosofo, soprattutto”.
“Perché, cosa diceva?”.
“Diceva: 'Frasi di questo genere hanno recato paura e terrore all’umanità, e non mi sento di riconoscere un’eccezionale bontà in chi le pronunciò…’”.
Marco zittì e Andrea capì che, probabilmente, gli aveva detto tutto quello che aveva da raccontargli. L’uomo tracannò un ultimo bicchiere di vodka e strizzandosi gli occhi, si congedò definitivamente dalle richieste del suo interlocutore.
“Può bastare? – domandò.
“Direi di sì”.
“Sono stato abbastanza chiaro?”.
“Fin troppo”.
“Se hai qualcosa da chiedermi…”.
“Non mi viene in mente niente”.
“Adesso, quindi…”.
“Riascolterò tutto con calma, riorganizzerò i pensieri, e infine redigerò il mio servizio sulla religione in Brianza. Ora, grazie al tuo aiuto, non posso certo dire di non avere abbastanza materiale!”.
“Fammi sapere quando uscirà il giornale che andrò a comprarne una copia”.
“Te la porterò io”.
“Vuoi ancora da bere?”.
“No, no, grazie – disse Andrea ridacchiando e constatando che la bottiglia di vodka era quasi finita.

Il giorno seguente, Andrea, riascoltò l’intervista e si congratulò con se stesso: ci aveva visto giusto. Finalmente qualcuno era stato in grado di fornirgli informazioni veramente utili. Marco Sigismondi, un autentico fenomeno… Al di là delle tante cose che aveva imparato, era felice di aver conosciuto un tipo così fuori dagli schemi, un inclassificabile.
In ogni caso sapeva di essere solo a metà dell’opera. Dopo aver ascoltato il miscredente, il mangiapreti, doveva, infatti, ancora confrontarsi con il credente, il pinzochero, colui che aveva fatto del cristianesimo una ragione di vita, prima di potersi pronunciare. Solo così sarebbe riuscito ad avere abbastanza materiale per realizzare il servizio sulla religione in Brianza richiestogli dal direttore del Giornale di Vimercate e soprattutto per chiarire una volta per tutte la sua posizione… spirituale.

Fabrizio era lontano anni luce da Marco. Il suo stile di vita, i suoi sogni, le sue ambizioni, prendevano spunto da presupposti sociali e culturali che non avevano nulla a che spartire con quelli del secondo. C’era poi un luccichio speciale nei suoi occhi, che in Marco mancava.
Fabrizio abitava in centro paese, in un appartamento nei pressi della chiesa parrocchiale, con la moglie Francesca, sì e no della sua stessa età, molto simpatica e attraente, e due bellissime bambine: Martina la più piccola, la peste della famiglia, e Stella. Faceva il commercialista, un lavoro che non gradiva più di tanto, ma che comunque non si sarebbe mai messo in testa di cambiare, per non rischiare di compromettere l’economia familiare; in fondo guadagnava benone.
Andrea conosceva Fabrizio da sempre. Da quando ragazzino imberbe con le brache corte, i capelli a spazzola, e in tasca cento lire per comprare il ghiacciolo, si recava all’oratorio per giocare a pallone e seguire gli incontri di dottrina. Fabrizio era uno dei tanti ragazzi di don Giuseppe, il coadiutore della struttura donboschiana con il quale, peraltro, era lontanamente imparentato: sua nonna materna aveva una cugina di nome Vittoria che aveva lo stesso cognome del sacerdote ed era sua consanguinea.
Il ragazzo stimava e ammirava smisuratamente il suo amico - per lui una specie di fratello maggiore - ma non di certo per la sua religiosità. Ciò che lo intrigava era che sapesse suonare a menadito chitarra e pianoforte e conoscesse una marea di artisti che lui non aveva mai sentito nominare, e che di lì a poco avrebbero stravolto in meglio la sua esistenza. Grazie a Fabrizio, Andrea conobbe, infatti, giganti quali Bob Dylan, Neil Young, James Taylor… Mentre prima era convinto che l’universo discografico fosse composto solamente da rammolliti e piscialletto alla Raf, Umberto Tozzi, Antonello Venditti.
Andrea telefonò a Fabrizio la sera dopo l’affascinante incontro che aveva avuto con il miscredente.
“Pronto? – fece Fabrizio.
“Ciao Fabri sono…”.
“Non ci posso credere”.
Andrea ridacchiò.
“Quanto tempo è che non ci sentiamo?”.
“Un po’. Come va?”.
“Bene e tu?”.
“Non c’è male”.
“I tuoi?”.
“Anche”.
“A cosa devo l’onore di questa chiamata?”.
“Volevo sapere quando avresti un paio d’ore da dedicarmi”.
“Addirittura?”.
“È una cosa seria”.
“Che bolle in pentola?”.
“Devo fare un lavoro per Il Giornale di Vimercate… avrei bisogno del tuo aiuto”.
“Spiegati meglio”.
“Sto lavorando a un servizio sulla religione in Brianza e dovrei confrontarmi con un esperto”.
“Non sarebbe meglio un prete?”.
“Non credo”.
“Scherzi?”.
“Insisto”.
Fabrizio tacque per qualche secondo, poi domandò:
“Cosa ti interessa sapere?”.
“Un po’ di cose”.
“Per esempio?”.
“Qualcosa sul comandamento della carità, il significato del dolore, la storicità di Gesù, l’incomprensibilità dello spirito santo…”.
“Una passeggiata”.
Andrea rise di nuovo.
“Guarda che io ho fatto il catechista, non il teologo”.
“Dai Fabri, senza di te non posso finire il mio lavoro”.
“Quando?”.
“Domani sera alle nove?”.
“Domani sera?”.
“Domani sera”.
“D’accordo”.
“Ciao”.
“Ciao. A domani”.

Andrea si propose a casa dell’amico con la stessa attrezzatura di due sere prima: il blocnotes del nonno e il registratore tascabile. Trovò aperto il cancello della palazzina dove abitava Fabrizio, vinse la breve rampa di scale che lo separava dal pianerottolo sul quale si apriva l’ingresso di casa Longoni e pigiò sul campanello.
Andarono ad accoglierlo la moglie di Fabrizio e le due loro piccole. Francesca - raggiante e bellissima come sempre - indossava un vestito sbarazzino, intero, senza maniche, pieno di fiori; le due bimbe delle comuni tshirt e i pantaloncini corti, forse già la divisa per andare a letto.
“Buonasera miei cari – esordì Andrea, pacioso.
“Benvenuto! – disse Francesca baciandolo.
“Come state?”.
“In forma e tu?”.
“Non c’è male, grazie”.
“Dai vieni, non stare lì sulla porta”.
“Fabri?”.
“È al telefono, ma ora arriva”.
“Mamma mia quanto siete cresciute! – commentò il ragazzo, rivolgendosi alle due piccole.
“Perché sei così magro? – fece la più giovane della famiglia.
“Martina! Non iniziare a rompere le scatole agli ospiti! – la riprese la madre.
Andrea si accomodò su uno dei due divani del salotto. Francesca gli si sedette di fronte, con le bambine che presero a rincorrersi e a fare cagnara. Il giovane raccontò alla moglie di Fabrizio le ultime novità della sua scombussolata esistenza: le parlò della difficoltà di dover affrontare certi esami in università, del lavoro di giornalista, della breve e sofisticata storia d’amore che aveva avuto con una ragazza del paese di nome Cristina, che anche lei conosceva. Parlando, fotografava intanto angoli e arredi del locale. Osservò un grosso quadro alle spalle di Francesca, forse la stampa di un dipinto di Mirò; una mensola piena di libri; una rigogliosa pianta d’appartamento con vicino un vasetto vuoto; un tavolino pieno di riviste quasi sicuramente filoclericali: Famiglia Cristiana, Il Segno, Tracce.
Trascorsero pochi minuti, quando all’improvviso sbucò come un furetto dall’anticamera Fabrizio. Andò incontro all’amico col suo solito fare dimesso e scompigliato, con una biro infilata nel taschino della camicia e delle buffe ciabatte tirolesi:
“Vecchio mio! Finalmente ci si vede!”.
Si abbracciarono.
“Allora? Come va? – domandò Andrea a Fabrizio.
“Benone e tu?”.
“Non ci lamentiamo”.
“Vedo che sei sempre più grasso”.
“Me l’ha già ricordato tua figlia, grazie”.
Risero. Mentre Francesca guadagnava silenziosamente la strada per la cucina con le due piccole.
“Allora, che mi racconti? – chiese Andrea disinteressatamente.
“Che mi racconti tu… non sei tu quello che è sempre in giro dalla mattina alla sera?”.
Fabrizio si accomodò dove fino a pochi secondi prima era seduta la moglie.
“Oddio, già che ci siamo perché non mi chiedi anche quanti esami ho fatto?”.
“Appunto, quanti esami hai fatto?”.
“Lascia perdere”.
Sorrisero.
“A parte gli scherzi, dammi qualche ragguaglio in più in merito a questo tuo lavoro”.
“Ecco… devo fare un servizio sulla religione e la religiosità in Brianza. Devo scrivere 4 o 5 articoli sulla base di una serie di interviste fatte. Ho percorso avanti e indietro il paese in bici domandando a tutti cosa ne pensassero del cristianesimo, di Gesù e compagnia bella… in realtà non ho ottenuto grandi risultati”.
“Come mai?”.
“I brianzoli di religione e religiosità non ci capiscono niente”.
“Come fai a dirlo?”.
“Un giorno ti farò leggere le risposte che mi hanno dato”.
“Hai intervistato tanta gente?”.
“Un mucchio”.
“Interessante però…”.
“Più che altro mi sono fatto delle grandi risate”.
“Forse non hai parlato con le persone giuste”.
“Ho puntato sul popolino. Sul brianzolo medio. Non ho certo parlato con l’arcivescovo di Milano”.
“E come sei arrivato a me?”.
“A te e a Marco”.
“Marco?”.
“Un tale che abita al Colleoni. Il tuo alter ego”.
“Scherzi?”.
“È esattamente l’opposto di te”.
“In che senso?”.
“È un ateo convinto, ma preparato; a differenza di molti altri che si professano tali ma non sanno minimamente ciò che dicono. Discorrendo con lui non si può fare a meno di dargli ragione”.
Fabrizio fece una strana smorfia.
“Vado di là a prendere degli appunti. Ti va qualcosa da bere?”.
“Perché no?”.
“Alcolico?”.
“Analcolico. Stiamo leggeri”.
Il padrone di casa tornò con due bicchieri riempiti a metà di un liquido giallognolo, probabilmente un succo di frutta. Sotto il braccio stringeva una cartelletta piena di fogli, riportanti, desunse Andrea, dettagli in merito a ciò che gli avrebbe presto raccontato. L’intervistatore rise tra se e se ripensando alla vodka e al finimondo di due sere prima. Fabrizio gli passò un bicchiere e partirono con l’intervista.
“Da dove iniziamo? – chiese il primo.
“Da dove vuoi”.
“Da Gesù?”.
“Va benissimo”.
“Erano i primi anni Ottanta ed ero in vacanza in Toscana con Francesca. Avevamo appena visitato una necropoli etrusca e non trovavamo più la strada di casa. Lungo il sentiero - circondato da alberi slanciati e cespugli rigogliosi - non c’erano cartelli, né segnaletiche o indicazioni. Il tempo stava cambiando: delle nuvole minacciose incombevano da settentrione e già si udiva in lontananza il fracasso dei tuoni. Stavano in più scendendo le tenebre e non c’era in giro anima viva. All’improvviso sbucammo in una minuscola radura al cui centro sorgeva una chiesetta dimessa, antica, forse abbandonata. Le girammo intorno verificando a malincuore l’ingresso principale chiuso dall’interno. Ci strinse a sé un silenzio innaturale e l’ansia ebbe la meglio sui nostri animi. Poi, però, come dal nulla, sbucò un giovane - un ragazzo normalissimo, con una maglietta bianca, un paio di jeans, un paio di scarpe da ginnastica - totalmente indifferente alla bufera imminente. Tirammo un sospiro di sollievo: forse, qualcuno, avrebbe potuto finalmente darci una mano a ritrovare la strada maestra. Gli chiedemmo alcune informazioni, ma il ragazzo non rispose subito. Ci regalò all’inizio un semplice sorriso. Solo qualche secondo più tardi con voce calma e serena, ci indicò, quindi, la via giusta per far ritorno a casa.
Riprendemmo il cammino baldanzosi, ma poi accadde qualcosa di molto strano. Una sensazione di grande benessere e pace sconvolse i nostri cuori come a nessuno dei due era mai capitato di provare. E vivemmo così l’impressione di trovarci in una realtà nuova, in uno spazio parallelo, in una dimensione sconosciuta. Le nostre menti si eclissarono, come per magia, tutto si fece più chiaro e trasparente: il tempo, lo spazio, l’evoluzione umana… Alla fine, con grande stupore, ci domandammo il significato di tanta serenità e gioia interiore che dal nulla erano scaturite dopo aver incontrato quello sconosciuto ed entrambi giungemmo alla stessa conclusione: quel ragazzo che avevamo incontrato non era una persona normale, quella persona era Gesù”.
“Dai Fabri”.
“Era Gesù”.
“Una bella favoletta”.
“Sembra una favoletta”.
“Lo è”.
“Tante volte Gesù si cela proprio dietro a storielle come questa”.
“Perdonami. Ma sei inattendibile”.
“Lascia allora che te ne racconti un’altra...”.
“Sono tutto orecchi”.
“In questa circostanza Gesù vestiva, invece, i panni di una bambinetta… Mi trovavo in un paese del torinese per il matrimonio di un vecchio compagno del liceo. Eravamo in chiesa. In piena predica. Il prete raccontava del meraviglioso senso cristiano dell’amore per l’altro, per l’altra, per il compagno, per la compagna della vita: un legame indissolubile che vi fa diventare una cosa sola, diceva. Con me c’erano anche mia moglie e le mie due figlie. La più piccola cominciò a strillare. La presi quindi in braccio e uscii per farle prendere una boccata d’aria. Fuori brillava un pallido sole e degli uccelli volavano pigramente. Un’arietta felice scoteva le foglie dei tigli che circondavano la chiesa, e sovrastavano la lunga fila di macchine parcheggiate con il freno a mano tirato, lungo il pendente viottolo che conduceva alla navata principale. Abbassai gli occhi e vidi un gruppo di bambini giocare come forsennati: quattro o cinque marmocchi di nemmeno dieci anni si rincorrevano, si acciuffavano, si spintonavano. Improvvisamente mi venne incontro una ragazzetta alta non più di un metro, riccioluta, con un vestitino elegante, la quale mi chiese se ero sposato. Una domanda sciocca, banale, scontata, lo so, eppure sufficiente a mandarmi in tilt. Ebbi l’impressione che non fosse quella la domanda vera e che, quindi, la ragazzina, con essa, volesse in realtà sapere da me molto di più. Il suo sguardo mi trafisse e la mia anima percepì il disagio di mostrarsi in tutta la sua nudità, come se ci fosse più di un valido motivo per vergognarsi di qualcosa. Rimasi dunque intontito per diversi secondi, finché non le risposi semplicemente che sì, ero sposato. A tal punto, però, fissai per un istante la mia piccola che nel frattempo aveva smesso di ululare, e quando alzai di nuovo gli occhi verso la luce, della ragazzina, s’era misteriosamente persa ogni traccia. Mi affannai per ritrovarla, per chiederle quale fosse il suo nome, ma invano”.
“Gesù… in una bambinetta”.
“Proprio così”.
“Mi viene da ridere”.
“Posso capirti”.
“Io no”.
“Tu no?”.
“Sai qual è il punto?”.
“Quale?”.
“L’irrazionalità”.
“Cosa vuoi dire?”.
“Ti faccio un esempio. Domani vado al supermercato, vedo una vecchierella in difficoltà che mi chiede dove sono i pomodori… io le do le indicazioni che le servono. Poi torno a casa e sentendomi felice per chissà quale astruso motivo – verosimilmente dovuto a certe dinamiche fisiologiche del mio cervello - rivendico di aver incontrato Gesù… come diamine si fa a sostenere tesi di questo genere?”.
“Lo so che è difficile”.
“Non è difficile. È inaccettabile”.
“Non essere precipitoso. Non devi pensare ch’io voglia convincerti del fatto che sia davvero possibile incontrare Gesù in un comunissimo giovane o in una curiosa bambinetta. Questa è solo una metafora… è solo per farti capire che molto probabilmente l’uomo spende un’infinità di energie per cercare Dio quando in realtà ce l’ha sotto il naso tutti i giorni”.
“Ne sei convinto?”.
“Ne sono convinto. Più ci si pone domande complicate sul suo conto e più, paradossalmente, ci si allontana da lui”.
“Dio, però, non dovrebbe essere accessibile a tutti?”.
“Lo è infatti. Tuttavia l’uomo è spesso distratto da sciocchezze, e così non riesce a metterlo a fuoco come dovrebbe”.
“Vorrei una spiegazione matematica”.
“Sei sulla strada sbagliata”.
“La legge di gravità universale non è fatta di metafore”.
“In realtà, se la pensi così, sappi che mai nessuno scienziato o filosofo potrà esserti d’aiuto. Galileo, Newton, Kant… Tutti riconoscono la loro importanza, ma nessuno di essi è in grado di spiegarti ‘matematicamente’ Dio”.
Fabrizio estrasse un foglio dalla cartelletta e cominciò a leggere:
“Honoré de Balzac, nella sua Lettera a Madame Hanska, afferma di credere solo nell’incomprensibilità di Dio; Gesualdo Bufalino, nel suo libro Diceria dell’untore, riporta la frase Dio è un gigantesco eufemismo; Samuel Butler, nei suoi Taccuini, cita l’aforisma un Dio onesto è la più nobile opera dell’uomo; Emile Cioran appunta ovunque che Dio era una soluzione e non ne troveremo mai una altrettanto soddisfacente; Sigmund Freud, nel suo Totem e tabù, riporta che in fondo Dio non è altro che un padre potenziato… come vedi, queste sono altre menti illustri che tramite delle massime hanno tentato di dare un senso a Dio, senza ottenere però grandi risultati. La verità è che Dio va inseguito con la semplicità, l’umiltà, la spensieratezza e non con il raziocinio, la filosofia, l’archeologia”.
Fabrizio si concesse una pausa. Riprese fiato e bevve un goccio di succo di frutta.
“Papà mi fai vedere il libro degli alberi? – fece all’improvviso Martina, sbucando dalla cucina come un folletto.
“Amore, dopo lo vediamo – le disse Fabrizio divertito – lasciami finire l’intervista”.
“Lo voglio vedere adesso!”.
“Adesso non si può. Papà sta facendo una cosa seria, e se tutto va bene andrà anche sul giornale”.
“Sul giornale?”.
“Sì”.
“Allora sei diventato famoso?”.
“Non proprio. Ma la mia testimonianza potrebbe contribuire a rendere più bello un servizio che uscirà su Il Giornale di Vimercate”.
“Beh, se non sei diventato famoso non mi interessa granché”.
I due risero, mentre Martina tornava mogia da dove era venuta.
“Dunque, andiamo avanti – riprese Fabrizio -. A questo punto, dopo averti sommariamente spiegato dove - secondo il mio personale punto di vista - si nasconde Dio e le modalità che consentono di arrivare a lui, se sei d’accordo, ti racconto anche di come sia possibile zittire quanti ritengono impossibile conciliare la bontà divina con la sofferenza, le guerre e le malattie; circostanze davanti alle quali, peraltro, anche un buon cristiano, rimane spesso interdetto".
“Ottimo”.
“Prendiamo la Bibbia”.
“Vai”.
“Il testo sacro dei cristiani e degli ebrei dice che la morte e la sofferenza non facevano originariamente parte del disegno di Dio. Tutto ebbe inizio con Adamo ed Eva. Dal primo capitolo della Genesi sappiamo che l’Onnipotente fece germogliare molte specie di piante, fra cui l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. Il primo venne creato per garantire all’uomo l’eterna giovinezza, il secondo per mettere alla prova la sua libertà, il cosiddetto libero arbitrio. Il Signore disse quindi ad Adamo: Di tutti gli alberi del giardino tu potrai mangiare, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché nel giorno in cui ne mangerai, dovrai certamente morire. Ma poi arrivò il serpente, la più astuta fra tutte le bestie create dall’Altissimo, che prese a tampinare Eva dicendole: Non è vero che morrete se mangerete il frutto proibito. Anzi. Se lo consumerete diventerete come Dio. Eritis sicut deus! Sarete simili a Dio! Purtroppo la donna non intuì il doppio gioco del serpente. Rovinò clamorosamente nel suo tranello e, così facendo, trasgredì quello che Dio aveva raccomandato ad Adamo, condannando per sempre il genere umano a confrontarsi con guerre, fame, malattie…”.
“In pratica dobbiamo subire le conseguenze di un errore commesso da un’altra persona…”.
“È il mistero del peccato originale”.
“La chiesa quando non ha più metafore da proporre tira in ballo il mistero del peccato originale…”.
Fabrizio con l’aria trasognante e gli occhi luminosi sorrise all’amico e si concesse una nuova pausa. Si udì Francesca alzare la voce, rivolgendosi presumibilmente a Martina che doveva averne combinata un’altra delle sue:
“Te l’ho già detto mille volte! – gridò la moglie di Fabrizio.

"…".
"…".

"…".
"…".
“Proseguiamo adesso con le assurde teorie secondo le quali Gesù non è mai esistito e poi… con lo spirito santo…”.
“Flavio e Tacito sono stati manipolati”.
“Sei preparato, eh?”.
“Marco”.
“Mi sa che Marco ha voluto dirti solo quello che voleva lui”.
“Cosa intendi dire?”.
“Probabilmente è vero che i testi di Flavio e Tacito sono stati ritoccati, tuttavia non sono questi gli unici documenti recanti informazioni su Gesù. E a questo proposito sfido chiunque a dire che ogni documento in circolazione sulla vera o presunta storicità di Gesù sia stato manipolato da loschi cristiani”.
“Esempio?”.
“Abbiamo Plinio il Giovane, Luciano e documenti raccolti nel Talmud Babilonese, una collezione di scritti rabbinici ebrei, compilata tra il 70 e il 500 d.C.”.
“Di questi Marco non mi ha detto nulla”.
“Ognuno tira l’acqua al suo mulino”.
“Dunque che cosa salta fuori da queste fonti?”.
“Il primo, allievo del famoso retore Quintiliano, governatore romano di Bitinia e bla, bla, bla, ci ha lasciato una raccolta di lettere raggruppate in 10 libri. In alcune di queste, redatte fra il 111 e il 113, sono riportati chiaramente il nome di Gesù e il resoconto delle sue opere. In una lettera, per esempio, Plinio chiede consiglio all’imperatore sul modo più appropriato di condurre le procedure legali contro i cristiani. In un’altra racconta dello stile di vita dei primi seguaci di Gesù”.
“Poi?”.
“Luciano, personaggio risalente all’età degli Antonimi… nella sua opera La morte di Peregrino dice: i cristiani venerano un uomo, insigne personaggio che introdusse i loro nuovi riti, e che per questo fu crocifisso. Poi va avanti raccontando che ad essi fu insegnato dal loro originale maestro che essi sono tutti fratelli, dal momento della loro conversione, e perciò negano gli dei della Grecia, e adorano il saggio crocifisso, vivendo secondo le sue leggi”.
Andrea dondolò la testa immalinconito.
“E infine abbiamo il Talmud Babilonese – chiuse Fabrizio - nel quale è riportata l’ennesima frase a favore della storicità di Cristo: alla vigilia della pasqua ebraica un tale di nome Gesù fu crocifisso. Hai le idee più chiare adesso?”.
Ma a questo punto Andrea perse clamorosamente la concentrazione, volando a quella volta in cui Fabrizio gli fece ascoltare per la prima volta Bert Jansch. Si trovavano in tenda a Ceresole Reale – località piemontese dove i giovani del paese erano soliti darsi appuntamento per il campeggio estivo - e stavano chiacchierando di musica folk.
“Perché non c’è solo la scena del Greenwich Village newyorkese dei primi anni Sessanta – raccontava Fabrizio ad Andrea –. In Inghilterra facevano folk anche Paul Simon e James Taylor, ma soprattutto Bert Jansch e John Renbourn”.
“Mai sentiti prima d’ora! – aveva mugugnato il più giovane dei due.
“Ci sfido. Questa è musica di classe. E come sai, con le classifiche e la notorietà, la classe, mal s’accorda”.
“Hai qualcosa da farmi sentire?”.
“Perbacco!”.
Fabrizio aveva estratto dalla zaino una cassetta con in copertina un tale dal viso scarno e ingrugnito che imbracciava una chitarra acustica e Andrea l’aveva inserita nello stereo portatile che avevano a disposizione. Sicché era partita Strolling down the highway, il primo memorabile pezzo del disco.
“Wow! – aveva commentato estasiato il futuro giornalista, prima ancora che Bert iniziasse a cantare – questo con la chitarra è meglio di Dylan”.
“Beh, non è che ci voglia molto a battere Dylan… il menestrello di Duluth sarà anche un grande poeta, ma in quanto a voce e chitarra…”.
Dopo Strolling down the highway erano venute Smoky river, Oh How your love is strong, e molte altre canzoni che Andrea non aveva mai sentito. Infine, sazio di tanta bella musica, il ragazzo aveva vivamente ringraziato l’amico per avergli fatto conoscere un artista che, di lì a poco, avrebbe annoverato nei suoi best di sempre.
“Oh! Ma mi stai ascoltando? – fece Fabrizio all’improvviso riportando sulla Terra lo scagnozzo del giornale locale.
“Scusami – bofonchiò Andrea imbarazzato -. Mi sono menato via. Mi è venuto in mente, non so perché, di quella volta che, in campeggio, mi hai fatto conoscere Bert Jansch. Ti ricordi?”.
“Certo che mi ricordo – tagliò corto Fabrizio – ma non vorrai perdere la concentrazione proprio adesso che siamo alla fine!”.
Andrea rise.
“Spirito santo?”.
“Spirito santo”.
“C’è qualcosa, in particolare, che t'interessa sapere?”.
“Quello che non riesco a capire è come si possano accettare frasi come quella di Matteo concernente il fatto che tutti possono essere redenti, tranne coloro che peccano contro lo spirito santo. Come può un buon messia pronunciare simili parole, tenuto conto che nessuno sa cos'è lo spirito santo?”.
“Lo sapevo”.
“Cosa?”.
“Lascia stare”.
“Beh…”.
“Sicuramente non vuol dire che Dio è cattivo perché perdona solo quelli che vuole lui, i bravi e i buoni, abbandonando tutti gli altri a chissà quali orribili sorti”.
“Eppure questo è quello che si intuisce”.
“Questo è quello che tu vuoi intuire. Non credere che sia così facile peccare contro lo spirito santo”.
“Cosa vuol dire allora peccare contro lo spirito santo?”.
“Ti aiuto con le parole dello stesso Matteo”.
“Ancora Matteo?”.
“Ancora lui e forse non è un caso. Matteo per chiarire il significato del mistero del peccare contro la terza persona della santa Trinità si rifà a Gesù mentre è alle prese con dei farisei che lo accusano di scacciare i demoni in nome del principe dei diavoli. Da ciò, spiegano i teologi, si ricava che peccare contro lo spirito santo equivale nientemeno che alla volontà di attribuire al diavolo, al male, alla cattiveria, quelle che sono invece le opere di Dio. Un’azione verosimilmente benvoluta, pensata, tramata e ottemperata dall’uomo. E che, per tale motivo, non ha alcun diritto di essere assimilata all’ipotesi di un Dio reo e malvagio. Sei d’accordo?”.
"…".
"…".
Arrivati fin qui Fabrizio avrebbe probabilmente voluto aggiungere qualcos’altro. Andrea lo intuì dall’impeto con cui gli aveva rivolto quel ‘sei d’accordo?’. Ma l’imberbe giornalista, ormai, era veramente esausto. Perciò cercò e trovò agilmente un buon pretesto per chiudere garbatamente e definitivamente un’intervista che, in ogni caso, lo aveva pienamente soddisfatto.
“Mamma mia, che caos pazzesco – disse Andrea – questa faccenda dello spirito santo per me rimarrà sempre un enigma… piuttosto, adesso che mi ci fai pensare… non è che anch’io ho peccato o addirittura continuo a peccare contro lo spirito santo, senza rendermene conto? Cosicché un domani pure le mie chiappe si ritroveranno ad abbrustolire per l’eternità?”.
Fabrizio si abbandonò a una fragorosa risata.
“Ma va là! – gli disse –. Al massimo per uno come te Dio avrà in serbo qualche milione di anni al purgatorio, senza donne nei paraggi s’intende, ma nulla di più! Puoi stare tranquillo!”.
“Dici?”.
“È sicuro”.
Risero entrambi.
“Va bene Fabri – disse Andrea – con ciò direi che siamo proprio giunti alla conclusione. Anche tu, come Marco, mi hai dato un mucchio di informazioni utili e interessanti… Ti sono molto grato”.
“Figurati… sono io contento di averti potuto dare una mano. Sempre che sia stato all’altezza”.
“Non fare il modesto”.
“Lo sai anche tu che certi argomenti non sono per niente facili da affrontare”.
“Lo so bene: è per questo che sono venuto da te”.
Andrea e Fabrizio andarono avanti a chiacchierare del più e del meno per almeno mezz’ora. Parlarono del campeggio e delle castagnate a Lezzeno; delle gite sciistiche a Lizzola e del cane di don Giuseppe, Rocky; di Luigi che divenne per tutti Vipera dopo aver catturato un rettile innocuo tra le sterpaglie del parcheggio che si trova alle spalle del campo di pallone; di quella volta che Andrea con alcuni amici si mise a tirare i sassolini in testa a Carlo Maria Martini; di quella volta che Sergio Mariani cadde dalle scale e rimase esanime per diversi minuti davanti all’ingresso della sala giochi; di quella volta che a Chiara Spreafico saltò fuori una mammella tra i prati di Civate. Come sottofondo al loro nostalgico discorrere prima un disco dei Wagon – una nuova band statunitense che Fabrizio aveva appena scoperto - e poi uno dei sempreverdi Eagles. Infine, in concomitanza con le prime note di Tequila sunrise - Its another tequila sunrise, starin slowly cross the sky, said goodbye. He was just a hired hand, workin on the dreams he planned to try, the days go by – Andrea levò le tende.
“Cerca di farti sentire un po’ più spesso e, soprattutto, non solo quando hai bisogno – gli disse Fabrizio, sulla porta.
“Non mancherò”.
“Ci crediamo tutti”.
In strada l’aria era fresca, ma non fredda. C’era un bel silenzio. Di quelli che sembrava tutto così… infinito. Il cielo era sgombro di nubi e una sottile fetta di luna illuminava il mondo. Andrea percepì la piacevole sensazione di sentirsi profondamente in pace con se stesso e l’universo… così in pace con se stesso e l’universo che non se la sentì di rincasare subito. Prese dunque la strada per Omate, arrivò a Burago, a Vimercate, e dov’altro chi lo sa. Spinse con forza sui pedali del suo fuoristrada, respirando a pieni polmoni l’aria grassa della sera. E lo potrebbe giurare ancora oggi, fu per lui come volare.

Nessun commento:

Posta un commento