giovedì 30 maggio 2013

Laila # 6


6.

Tempo da lupi

La pioggia di oggi è terrificante. Sembrano aghi di ghiaccio, taglienti e affilati, che perforano come frammenti meteorici la pelle del volto e delle mani. Perfino le creature delle pozzanghere se ne stanno rintanate, per paura di finire falcidiate da scariche di mitra inusitate. Si è peraltro levato un vento gelido, forse Maestrale, che fa dondolare con vigore le piante del mio piccolo giardino e quelle del mio vicino. A proposito di vicino… ieri sera, dopo una lauta cena, ho assaggiato la sua torta. Sarei un infame se dicessi il contrario: era davvero squisita. Ne ho divorato tre fette come un famelico abitante di un paese del terzo mondo. Quando lo rivedrò, se la luna mi assisterà, potrei anche fargli i complimenti. Lui mi dirà che è tutto merito della moglie e io gli risponderò di portarle i miei omaggi. Com'è vero che la vita degli uomini, a volte, è così dannatamente prevedibile e scontata. Ma non quella di un uomo che ama disperatamente una donna e poi, impazzito di dolore, decide di tagliare qualunque ponte con il passato, facendo perdere ogni traccia di sé, dimenticandosi di tutto e di tutti. Il sottoscritto, appunto. Laila era Laila, non ce ne saranno altre e…

Il divano di Freud

Ho appena finito di pranzare, un pranzo parco e leggero, un risottino e via. Non ho toccato la torta, che riservo per questa sera e per la colazione di domattina. Mi sdraio sul divano fissando il soffitto e pensando al sofà che per tanti anni ha servito Freud. Me lo vedo di fronte agli occhi, foderato, coperto di mille fiori colorati. Penso a quanto sarebbe bello se il divano di Freud potesse rivelare i suoi segreti; tutte le storie udite, le malefatte, gli impulsi omicidi, i disagi sessuali, le nevrosi fobiche, l'acrofobia, la claustrofobia, l'isteria. Sarebbe un modo diverso di leggere la vita del grande psicanalista. Lui stesso si sarà pur coricato su quel divanetto, raccontandogli qualche personale difficoltà, qualche turbamento, magari, addirittura, il desiderio di conquistare una ragazza. Ora che fine avrà fatto? Resterà qualcosa di lui, o l'avranno macerato in qualche discarica? Magari l'ha ritirato un parente, e starà giacendo in un salotto privato o in una mostra. Anna Freud, la figlia dello scienziato tedesco… potrebbe averlo ereditato lei, per poi nasconderlo in un buco sperduto della casa, in soffitta, in cantina, in solaio. Ma Anna Freud è scomparsa proprio l'anno scorso, dunque… dalle sue mani potrebbe essere passato chissà dove, non so se avesse figli, credo di avere letto che fosse lesbica…
Mi addormento pensando a Freud e a quanto mi sarebbe piaciuto conoscerlo. In un momento di ritiro e fuga dal mondo saprebbe, di certo, darmi qualche dritta, qualche consiglio. Magari troverebbe il senso delle mie pene in un trauma infantile che ho rimosso; ammesso che non basti la faccenda legata a Laila a giustificarle, il che non mi meraviglierebbe; penso che chiunque al mio posto, dopo quello che è accaduto, non starebbe di sicuro per strada a saltellare come un grillo; magari non si sarebbe allontanato dalla sua quotidianità, tuttavia starebbe soffrendo come un cane. Sicché, a volte, ci penso; all'ipotesi di aver patito un trauma quand'ero piccolo. Rivivo momenti dell'infanzia in cui una sorta di paura primordiale ha il sopravvento, senza sapere bene da dove derivi e che connotati abbia. Non so nemmeno se possa essere definita paura. E' più un senso di abbandono, di distaccamento che altro. Rivedo una parte di me stesso che aleggia nell'aria, senza angoli a cui aggrapparsi, come se fossi stato sradicato da qualcosa o da qualcuno. Dovrei forse analizzare meglio il rapporto avuto con mia madre, o con mio padre, interrogando proprio gli studi di Freud.
Ma se volessi per forza trovare reconditi messaggi dal mondo dell'infanzia, l'unica cosa certa di cui sono al corrente è che, per i primissimi anni di vita, ho vissuto un po’ dai nonni e un po’ con le balie, perdendo forse qualche riferimento affettivo; i miei genitori erano sempre in combutta fra loro e spesso lontani dall'Italia per lavoro. Mio padre era un industriale famosissimo nel suo campo e molto ricercato; mia madre una mezza artista, amica di alcuni grandi pittori esponenti dell'arte informale, movimento sorto a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta, prendendo spunto dall'espressionismo e dal surrealismo, correnti assai in voga anche adesso. Più volte ho sentito dire che i primissimi anni di vita sono fondamentali per un sano sviluppo psicofisico e che condizioni di simil abbandono patite nell'infanzia possono poi ripercuotersi pesantemente durante l'età adulta.
Potrebbe essere questo il motivo della mia ritirata dalle consuetudini del vivere quotidiano e in generale della mia vaga propensione alla solitudine, delle difficoltà che sovente incontro a interagire con il prossimo… Di sicuro alla Vian temevo i colleghi come si temono le belve della foresta africana, un aspetto comportamentale non proprio in linea con l'idea di un carattere equilibrato, dal quale mi difendevo esibendo con chiunque un atteggiamento freddo e distaccato. Solo Francesco e Filomena erano riusciti a stuzzicare la mia introversione, rendendomi un uomo più appetibile e simpatico. Poi Laila, certo Laila ha tirato fuori il meglio (e il peggio) di me. Ma quella è tutta un'altra storia. Dormo.

Messaggi onirici

Mi sono addormentato pensando di sognare Freud e invece ho sognato una ballerina di danza classica che mi faceva un po’ di moine. Non so dove sono andato a pescarla. Non ho mai avuto a che fare con le ballerine. Ha tentato più volte di baciarmi sulla bocca. Ne ero lusingato, ma il fatto che ci trovassimo in mezzo a tanta gente mi impediva di potermi fare avanti come volevo. Peraltro sembrava che dovessi nascondermi da qualcosa o qualcuno. Laila?
La ballerina insisteva e alla fine siamo riusciti a guadagnarci un angolino dove poter gestire i nostri comodi. Ma anche in quel frangente ero bloccato. Mi sentivo inibito, fuori luogo, era come se stessi compiendo qualcosa di sbagliato. Tuttavia provai un grande senso di piacere quando, alla fine, riuscimmo a baciarci profusamente, con ardore e compiacimento.
Era una ragazza bionda, con i capelli di media lunghezza, un bel viso delicato, un bel nasino all'insù e le sopracciglia trasformate in sottili tangenti sopraorbitali. Aveva anche un bel fondoschiena, messo in risalto da un paio di pantaloni attillati che lasciavano immaginare tutto. Il risveglio, grazie a questo sogno, è stato dolce e sereno e mi ha permesso di trovare la voglia e il desiderio di rituffarmi del mondo civile.

I tipi del bar

Innanzitutto il bar… Si trova in una vietta vicino all'edicola, poco distante da una bella area verde che non ho mai visitato, ma che dall'esterno pare assai ampia. Non sono ancora riuscito a capire come si chiami. Forse è un circolo proletario, o un'associazione di uomini liberi appassionati di carte, o una semplice bocciofila, con annesso sala ristoro e sala giochi. Dall'esterno non gli si dà due lire, è un insignificante parallelepipedo di cemento con un'insegna illeggibile e una lunga rastrelliera destinata ai clienti ciclisti. All'interno, però, si presenta piuttosto bene, è pulito e ordinato, l'arredamento è sobrio e delicato. Non escludo che ci possa essere di mezzo la curia. C'erano vari crocefissi appesi qua e là e un paio di giornaletti legati a qualche parrocchia o santuario. Ho incontrato dei tipi davvero buffi, come in un film di Fellini. Me ne sono stato in disparte osservandoli mentre bevevo il mio caffè.
Il più grosso è un omone di oltre cento chili presumo, con la faccia larga, la mascella da uomo primitivo e ciuffi di capelli bianchi. Fumava come un turco, una sigaretta dopo l'altra, dando l'impressione di masticare il filtro con rabbia e accanimento, come se avesse avuto fra le labbra un bastoncino di liquirizia da fare a pezzi. I suoi avambracci erano enormi, la circonferenza simile alla plafoniera che troneggiava sopra al bancone del bar. Su quello di destra era impressa una lunga cicatrice che, in prossimità del gomito, si aggrovigliava su se stessa come un serpente a sonagli. Più che parlare mugugnava, come il canto di un urside appena uscito dal letargo. Ecco a quale animale assomigliava… a un orso, era così dannatamente simile a un orso. Ogni tanto rideva di gusto, liberando un sentimento che pareva essere stato represso, nascosto in qualche recondito angolo della sua anima, forse anche nel suo caso, qualcosa che rimandava all'infanzia. I suoi occhi erano tristi, velati di striscioline rosse. Indossava a una maglietta a maniche corte, con le righe bianche e nere orizzontali, un paio di jeans di una taglia spropositata e un paio di scarpe che sembravano ciabatte. Si capiva che era di casa, e perfettamente a suo agio. Forse non stava tanto bene di salute. In uno dei suoi numerosi interventi mi pare di avere percepito che era da poco rientrato dall'ospedale per un problema cardiaco. Non mi stupirebbe con tutto il fumare che fa.
Con lui c'era un piccoletto, estremamente ridicolo, alto poco più di un metro e mezzo, con una giacchetta improponibile e un paio di pantaloni di velluto scuri che gli coprivano le scarpe; la sua corporatura ricordava quella di un ragazzetto, di un adolescente, ma era evidente che fosse un uomo: diverse rughe solcavano il suo volto e i capelli brizzolati lasciavano intendere il resto. Credo di aver capito che si chiamasse Giorgio. Sentii pronunciare il suo nome dalla cameriera, una bella ragazza di nemmeno trent'anni che con fare leggiadro andava e veniva per la sala, sistemando tavoli e sedie rimaste in disordine per la giornata appena trascorsa. Ogni tanto il nanerottolo mi guardava come se volesse ricevere da me un'approvazione a un suo ennesimo commento a proposito di questa o quell'altra cosa. Mi fece ridere di gusto quando suppose - esprimendosi ad alta voce, indifferente al fatto che non fosse necessario sforzare tanto l'ugola per farsi sentire, visto che eravamo in quattro gatti - che sarebbe potuto andare e tornare da Milano a piedi nel cuore della notte solo per far contenta la sua ragazza. Sosteneva di averlo già fatto in passato, e di non essere nuovo a trovate del genere. La sua voce era sottile e vibrante, tipo quella di un maschio castrato. Tirava spesso in ballo la sua ipotetica dolce metà, dicendo che spesso andava in giro con lei a fare compere o a visitare qualche città. L'orso non lo degnava di alcuna considerazione, ritenendo ciò che diceva un mucchio di balle utili solo a far passare la sera. Sembrava assuefatto dai suoi gorgoglii.
L'avrebbe inteso anche un bimbo dell'asilo che nessuno dei due avesse una donna o una famiglia propria. Lo spiegava peraltro il fatto che si trovassero lì a quell'ora della sera, quando ogni buon padre avrebbe dovuto essere a casa con i figli a chiacchierare o a giocare. Erano troppo sgraziati e apparentemente stupidi per avere una famiglia, mi dettero l'impressione di essere individui un po’ abbandonati a loro stessi, che si trovavano in quel posto dimenticato da dio solo perché non c'era un'altra realtà dove avrebbero potuto guardare in santa pace la televisione, autoconvincendosi di avere una vita sociale di tutto riguardo.
C'era anche un terzo elemento della compagnia, altrettanto pittoresco, ancorato allo stesso tavolo spoglio con la tovaglietta punteggiata da gocce di vino. Il suo sguardo sembrava quello di un pesce che si guarda intorno con gli occhi a mezz'asta, alla ricerca di un paradiso perduto, nascosto chissà dove, abitato da meravigliose vergini. Se il primo mugugnava e il secondo parlava come la raffica di un mitra, quest'ultimo si può asserire che boccheggiasse più che discorrere. Era il più silenzioso dei tre e in alcuni momenti sembrava che parlasse da solo. Muoveva le labbra come se stesse chiacchierando con un fantasma. A volte gesticolava, dando l'impressione di voler scacciare le zanzare. Lo trovai molto ridicolo, ma probabilmente era un parere soggettivo, visto che gli altri non davano grande peso alla sua eccentricità. Aveva una faccia rotonda, rubiconda, e un sorriso disegnato sul volto, come in uno stato di beatitudine perenne o benedetto da una droga in grado di cancellare ogni patema; e vestiva elegantemente, benché avesse abbinato i colori senza alcuna cognizione: il marrone dei pantaloni con il nero della t-shirt e le scarpe da ginnastica fra l'arancione e il giallo. Anche di lui non riuscii a intendere il nome, pur avendolo visto scambiare un bel po’ di battute con la cameriera, con la scusa di ordinare l'ennesima birra.
Rimasero al bar tutta la sera, fumando e bevendo senza ritegno, assistendo a una trasmissione sul calcio, forse l'unico argomento sul quale si sentivano un po’ ferrati. Un presentatore che non avevo mai notato prima commentava i risultati dell'ultima giornata di serie A e soprattutto la fortunata campagna acquisti della Juventus. Dirottare Brady alla Sampdoria per poi ingaggiare Platini e Boniek si era rivelata una mossa vincente; con la fantasia del francese e la volontà del polacco, tutte le altre squadre non avrebbero avuto vita facile nella lotta al titolo contro la Signora. Il cammino della Juve, di fatto, andava a gonfie vele, anche se la squadra più in forma pareva essere la Roma. L'orso ne era consapevole e, da juventino convinto, in più occasioni aveva picchiato il pugno sul tavolo sostenendo che i romanisti fossero tutti "delle merde". Il piccoletto azzardò una bestemmia, ma fu immediatamente redarguito dallo sguardo indiavolato della barista, evidentemente poco avvezza al linguaggio scurrile. Li lasciai che erano ancora al loro posto, con la faccia ingrugnita e un gran bisogno di sonno.

La seconda volta

Non amo dover fare per forza le ore piccole, ma se non mi addormento subito, non insisto, faccio altro. Peraltro non dovendo alzarmi per andare a lavorare potrei perfino scambiare il giorno con la notte senza alcun problema. Questa è una di quelle notti, piuttosto frequente del resto, negli ultimi tempi, in cui non c'è verso di abbandonarmi a Morfeo. Mi alzo e mi preparo una tisana ai mirtilli. La tisana ai mirtilli… proprio quella che mi faceva spesso Laila, quando dormivo da lei, calda e confortante come la carezza di una madre.  
La seconda volta l'incontrai una settimana più tardi. Dal momento in cui l'avevo vista in quell'occasione di ritorno dal rivenditore di oggetti di laboratorio per la Vian non me l'ero più scordata. Dopo una settimana senza alcun reale motivo, fui spinto a passare di nuovo dalle sue parti. Un'energia proveniente da chissà dove mi mise in marcia verso il suo nido infuocato. Era una giornata di sole splendente, il cielo azzurro e il sole enorme, illuminavano ogni cosa, come il sogno di un paradiso terrestre. Perfino lo smog sembrava meno imperante del solito e il canto degli uccelli libero dal frastuono del traffico. Mentre parcheggiavo la macchina nei pressi del chioschetto fui pervaso dallo stesso sentimento patito la volta precedente, un misto fra l'euforia e l'agitazione, fra la gioia più sopraffina e un'intransigente malinconia. Non capii il motivo di sensazioni così antistanti, ma era un sentimento di cui andai comunque fiero, mi gongolava, mi teneva vivo, sveglio, presente; era proprio quello che volevo, qualcosa che mi potesse sconvolgere, strappandomi dal placido tran tran della multinazionale, non importa se conservava e lasciava trapelare qualcosa di vagamente sinistro. Quel pomeriggio avevo perfino detto di no a una cena con Filomena per poter tornare a fare visita alla ragazza del chiosco. La mia amica era rimasta basita, per la prima volta avevo rimbalzato una sua proposta. Sono certo che, già in quell'istante, aveva fiutato che le cose fra me e lei (e Francesco) sarebbero cambiate.
Laila stava smanettando con un marchingegno a cui non seppi dare il nome. Sembrava un attrezzo per vaporizzare l'acqua, ma non ne fui per nulla sicuro e, in ogni caso, non m'interessò più di tanto razionalizzare la sua ingegneria. La vidi di spalle, con un grembiule nero e i soliti capelli raccolti dietro la nuca, che lasciavano scoperte due orecchiette da ragazzina. Non intervenni subito proprio per potermela gustare in quel modo, presa dalla sua attività, calata nei suoi panni tradizionali. Si voltò dopo un paio di minuti dal mio arrivo, dandomi l'impressione di sapere già che ero lì ad aspettarla. Pensai che potesse avermi intravisto per via di qualche riflesso, ma non individuai superfici brillanti di fronte a lei.
«Sapevo che saresti tornato».
Ancora una volta mi mise alle corde con un'uscita del tutto imprevedibile. Sapeva che sarei tornato? In che modo? Sentii una vampata di calore avvolgermi capo e membra, provocandomi una specie di capogiro. Allungai una mano verso il bancone per reggermi con maggiore forza, mascherando la defaillance. Fui vago, fingendo di non volere dare retta al suo micidiale esordio.
«Come va?».
Non mi rispose subito. Sorrise. E fu il sorriso più dolce che avessi mai visto. Notai ancora i suoi occhi scuri e profondi e il suo sguardo che, benché meraviglioso, aveva un non so che di… lontano e pericoloso. Possedeva dei lineamenti delicati e la pelle candida, priva di qualunque bizzarria epidermica, quasi quanto quella di un neonato. Percepii le stesse sensazioni della volta prima, quel senso di distanza, come se provenisse da chissà dove, da chissà quale luogo e tempo. Per un attimo pensai al tipo che avevo incontrato alla cappelletta degli appestati e che mi aveva raccontato dei tanti malati di peste che perirono nel milanese e in Brianza. Non so per quale motivo finii per collocare idealmente la mia interlocutrice a quella lontana realtà. In effetti, a uno sguardo più attento, dava l'impressione di essere caratterizzata da un volto all'antica, appannaggio di storie d'altri tempi. O almeno questo era ciò che mi suggeriva, avendola studiata solo per pochi minuti.  
«Perché non mi domandi come facevo a sapere che saresti tornato?».
Continuava a spiazzarmi, rendendomi difficoltosa qualunque replica. Capii che se volevo davvero tenerle testa dovevo per forza lasciarmi andare, stare al suo gioco, trattenere la mia goffaggine, dimenticando il fatto che stessi interagendo con una persona indubbiamente originale, che mi avrebbe potuto stendere senza pietà. Lei era Laila.
«Sentiamo». 
Mi congratulai con la mia veemenza.
«La verità è che ti stavo aspettando».
«Sul serio?».
Mi guardò con aria sbarazzina. 
«Fin dalla prima volta che ci siamo visti ho capito che ci saremmo incontrati di nuovo, che presto o tardi ci saresti stato tu lungo il mio cammino. Oggi, domani, dopodomani, non avrei saputo dire quando i nostri occhi si sarebbero rivisti, ma ero sicura che prima o poi avresti bussato ancora alla mia porta».
Parlava come un'indovina.
«Sai perché lo sapevo?», incalzò, disturbata dallo stridio acuto e fastidioso dei freni di un autocarro.
La buttai sul ridere senza troppo successo.
«Hai il dono della preveggenza?».
Mi fulminò, esibendo di nuovo quegli occhi di sfida che colsi anche la settimana prima mentre consumavo il mio panino, osservandola di sbieco.
«Perché certe cose si sentono…».
«Forse capisco quello che vuoi dire».
Mi sorrise di nuovo.
«Si sentono prima che accadono; o è come se accadessero da sempre, e non fanno che riconfermarsi di volta in volta, coinvolgendo anime diverse; non hai anche tu la stessa sensazione?».
Mi sconvolse il suo parlare forbito.
«Forse», mi limitai a dire.
«Se così non fosse, perché allora saresti venuto qui?».
Aspettai qualche secondo prima di rispondere, dicendomi che tanto valeva essere il più schietto possibile.
«Perché avevo semplicemente voglia di vederti…».
Andammo avanti a disquisire del più e del meno, fortunatamente con un tiro decisamente più rilassato, come due persone normalissime, senz'altro scopo se non quello di potersi conoscere meglio. Parlammo della sua attività, che conduceva da un paio d'anni, con un socio che non avevo capito bene in che rapporti fosse, e della voglia che aveva di poter un giorno cambiare aria, per andare a vivere in un paese lontano dove brilla sempre il sole. Pensai volesse riferirsi ai Caraibi o a qualche isola polinesiana, ma anche in questo frangente finì per lasciarmi a bocca aperta.
«Non è detto che sia un paese di questo pianeta, e non è detto che appartenga a questo mondo».
Tacqui, riflettendo che su certi argomenti avrei solo rischiato di fare la figura del fesso. Alla fine ci accordammo per trascorrere il dopolavoro insieme, forse la più bella serata che abbia mai trascorso in tutta la mia vita.

Serial killer

Più tardi, saranno state, forse, le tre, mi sono messo a pensare alla cattiveria, riflettendo, probabilmente, anche su me stesso e su quel che è successo con Laila. Mi sono domandato senza mezzi termini: io posso dirmi buono o cattivo? Mah. E da qui sono partito per un lungo giro di perlustrazione nei meandri della mia coscienza…
Sicché non saprei indicarmi né in un modo, né nell'altro. C'è chi dice che esistono buoni e cattivi; personalmente non ne sono molto convinto. Credo piuttosto che esistano sistemi educativi differenti che predispongono alla bontà o alla cattiveria. Nessuno nasce già forgiato a livello comportamentale, con l'intrinseca volontà di essere buono o cattivo, lo diventa col tempo, in base ai paradigmi che gli vengono imposti: la genetica è vera solo fino a un certo punto; lo dimostrano gli animali, che oggettivamente, obbedendo esclusivamente all'istinto e non conoscendo la ragione, non possono essere considerati buoni o cattivi. Se un tale diventa buono o cattivo è solo perché cresce in un determinato ambiente che lo porta a comportarsi seguendo un certo rigore. Alla luce di ciò si comprende perché - dal mio punto di vista almeno - concetti come inferno e paradiso siano del tutto arbitrari e fuorvianti. Evidentemente un tale che è destinato all'inferno lo è solo perché ha la sfortuna di capitare in una famiglia dominata dalla maleducazione, dall'insofferenza, dalla malattia, e non di certo perché magari ha fatto del male a qualcuno… L'inferno e il paradiso valgono solo per giustificare l'ignoranza dell'uomo.
Se si studiano le biografie di tutti i più grandi criminali, degli stupratori e dei serial killer, c'è sempre una devastante zona d'ombra nel loro passato; è da lì che parte tutto, non dalla loro cattiveria. Lo stesso vale per i pedofili: nella stragrande maggioranza dei casi hanno loro stesso subito abusi quand'erano piccini. Si può, dunque, definire qualcuno cattivo se a farlo diventare cattivo è stata semplicemente la iella di avere avuto a che fare durante l'infanzia con persone sostanzialmente malate e perverse? Seguendo lo stesso criterio logico, di fatto, non si è mai sentito parlare di santi partoriti da ambienti dove l'ateismo domina sovrano, o madonne che appaiono a persone che non abbiano mai visto un'immagine della santa vergine. E chi diventa prete o suora, guarda caso, è quasi sempre membro di una famiglia bigotta, clericale, e non di sicuro di un clan che organizza rapine alle banche o sequestri di bambini. Siamo in sostanza quel che siamo stati addestrati a fare e a diventare, senza avere la possibilità di cambiare il corso degli eventi, perlomeno degli eventi legati al metabolismo del nostro cervello. Il nostro libero arbitrio, quindi, è vero solo in parte, ed è del tutto falso ciò che ci hanno impartito durante le ore scolastiche di religione, secondo cui Dio lascia ai suoi figli la libertà di scegliere, scegliere il bene e il male, come se ci concedesse un lusso per privilegiati. La libertà di scelta è in realtà subordinata a un retroscena su cui non abbiamo alcun potere; sarebbe come dire a uno storpio che gli si lascia l'opportunità di scegliere quale strumento a corde suonare, dimenticandosi, però, che è privo di mani e piedi. Dio, dunque, se proprio ci volesse concedere la "facoltà del libero arbitrio", dovrebbe concedercela prima della nascita, dandoci l'opportunità di scegliere il grembo materno dal quale venire alla luce, un grembo possibilmente di proprietà di una bellissima, intelligentissima e buonissima signora, affiancata da un uomo dalle stesse mille virtù. Allora sì che avrebbe tutto molto più senso. A meno che, come indicano alcune religioni orientali, la vita terrena altro non sia che la piccola parentesi di un lungo e salvifico viaggio verso la redenzione. Ma gente di scienza come il sottoscritto, difficilmente potrebbe accontentarsi di simili risposte.

Sì, lo so, qualcuno potrebbe pensare che io voglia affrontare certi discorsi per sentirmi alleviato di un peso che mi porterò appresso per sempre; per potermi, in sostanza, discolpare; ma questa ipotesi è inverosimile. Di ciò che vado affermando, infatti, ne sono sempre stato convinto, anche prima di conoscere Laila e dar seguito alla vicenda che mi ha portato a cercare casa a Concorezzo, il più lontano possibile dai pochi affetti che avevo. Ribadisco che cattiveria e bontà non ci appartengono, ci sono imposte dalle vicissitudini, dall'evoluzione e dall'imprinting. Siamo e rimaniamo animali, con semplicemente solo una rete neuronale un po’ più complessa (che non vuol dire migliore) degli altri. 

LIVE!

L'estate è alle porte… e con essa la voglia di raccontare storie di tutti i giorni, dove non accade (quasi mai) niente, ma proprio per questo succede di tutto 


domenica 26 maggio 2013

niente di personale


così capita anche di finire sul giorno per avere scritto un cd di personaggi vissuti ere fa quando ancora crescevano le felci alte come sequoie anche questo è un bel modo di affrontare la quotidianità leggendo libri e masticando palloni gonfiabili, gonfiati, un giorno il giorno potrebbe essere quello dove un tempo scrissi di politica e metallurgia alla reception c'era una tipa tutto pepe convinta che l'ecstasy fosse una droga pericolosa se solo si potesse dedicare un po’ di spazio a questo tipo di esame 

venerdì 24 maggio 2013

Triplo stadio


Signora Cotillard
Riprende signora TAXXI
Rumba alla Edith Piaf
Ah, ah, ah
Triplo stadio
In bagno si cela
Non troppo nascosta
Chi ci passa accanto
E ualà, fa la spesa
Elastici di prim'ordine
Signora Chevalier
Del liceo Voltaire
Sapesse come vanno le cose in Ita(g)lia

La regina del pop turco

OBC, sesta puntata: Sezen Aksu

giovedì 23 maggio 2013

Laila # 5


5.

L'eresia catara

Alla fine sono giunto a Concorezzo per puro caso. Volevo scappare, isolarmi, ma in qualche modo rimanere in contatto con una grossa città, per non privarmi di comodità essenziali, come quella di andare al cinema. Di fatto Concorezzo non è molto lontano da Milano; in alternativa c'è Monza, anch'essa ben rifornita a quanto sembra di sale cinematografiche. I film sono un ottimo condimento alla solitudine. Qui, in ogni caso, sono certo che non mi verrà a cercare nessuno. So mimetizzarmi molto bene. Non ho cambiato nome e generalità, ma avrei potuto farlo. Non l'ho fatto perché, in fondo, non serve. Se anche un giorno qualcuno dovesse scoprire che mi sono rintanato a Concorezzo, chiudendomi in me stesso come una lumaca al sopraggiungere della stagione fredda, e che sono proprio io il tipo della Vian, non dovrò fare altro che rimettere mano ai bagagli e partire per qualche altro posto dimenticato, facendo perdere ancora una volta le tracce. Ho scelto Concorezzo senza alcuna premeditazione. Stavo osservando una cartina della Lombardia, una vecchia e rovinatissima mappa acquistata forse negli anni Quaranta da mio nonno, e l'occhio mi è caduto proprio su questo nome astruso: Concorezzo. Mi sono detto, cosa mai ci potrà essere in un posto chiamato con un nome così orrendo, Concorezzo? Nulla, mi sono detto: dunque, era proprio il posto ideale per sparire.
Prima di lasciare la Vian, Francesco e Filomena, scappando come un profugo afghano, ho scartabellato un volume della Treccani per vedere se si diceva qualcosa di questo postaccio. Così ho scoperto l'unica cosa per cui vale davvero la pena ricordare simili coordinate geografiche: l'eresia catara. Il catarismo riguarda l'intera Europa fra il XII e il XIV secolo, e proprio Concorezzo ha avuto un ruolo determinante nella sua genesi e diffusione. Oggi deve essere difficile intuire il punto in cui, i capostipiti del movimento, predicavano e compivano le loro azioni quotidiane. Tuttavia sarebbe interessante affrontare l'argomento con maggiore spirito critico per scoprire almeno qualche briciola del loro passaggio, cercando di riesumarne antichi umori e segni che avrebbero il potere di riportarci a epoche ancestrali, come a bordo di una macchina del tempo. Le creature delle pozzanghere sicuramente ne sanno qualcosa, ma sono sempre così defilate, che estorcerle un pettegolezzo è come chiedere al papa di girare nudo per la piazza del Vaticano. Se mi fosse venuto in mente, avrei potuto chiedere all'uomo che ieri mi ha accompagnato alla cappelletta degli appestati: di sicuro, così ferrato com'é in storia, avrebbe avuto qualcosa da dirmi, benché non si tratti del suo secolo prediletto.
Ho scoperto che proprio a Concorezzo sorgeva la più importante chiesa catara in Italia. Prendeva spunto dal bogomilismo bulgaro, setta eretica del decimo secolo riconducibile alle regioni dell'Europa sud-orientale. Credevano in due forze vive, palpabili e assolutamente contrapposte: il bene e il male, retaggio di un culto che rimandava addirittura ai messaliani, movimento religioso sorto in Mesopotamia nel quarto secolo. I catari presero, dunque, spunto da essi, dalla Tracia, terre ben lontane dall'immaginario collettivo locale, accusando la chiesa di essersi imborghesita e di vivere il vangelo senza una degna corrispondenza fra parola e azioni. Non avevano tutti i torti. A quel tempo gli stessi papi valevano più come magnaccia che figure degne di rappresentare la croce. Si macchiavano anche di orrendi delitti pur di poter raggiungere i propri obiettivi.
Sicché il cristianesimo era solo di facciata, un optional. La chiesa di Roma peraltro non ebbe remore a contrastare con violenza i catari e tutti coloro che si lasciavano influenzare dai movimenti eretici. C'erano timorati di Dio forgiati appositamente per combattere i nuovi credo, che serpeggiavano in gran parte del nord Italia e l'ipotesi che il vangelo di Gesù potesse essere mal interpretato per dare sfogo alla propria boria e ai propri egoismi. Fra questi ce ne fu uno particolarmente attivo nel nord del Paese, poi divenuto santo: Pietro da Verona, un frate francescano. Fece di tutto per debellare i virgulti catari, tuttavia alla fine fu proprio lui a rimetterci le penne, come in molti avevano predetto conoscendo la sua ferrea volontà di servire Dio. Accadde il 6 aprile del 1252. Pietro da Verona era stato avvertito del pericolo che avrebbe potuto correre raggiungendo Milano, da Como, lungo tracciati pieni di macchie forestali dove potevano tranquillamente essere tesi agguati. Ma non badò ai rischi, sapendo in cuor suo che prima o poi, qualunque strada avesse preso, l'avrebbero ucciso. Organizzò l'omicidio Stefano Confalonieri, figura eminente della chiesa concorezzese, da anni a capo del movimento e forte delle sue notevoli disponibilità economiche che gli permettevano di vivere come un pascià. Verso mezzogiorno l'inquisitore si trovò dalle parti della cosiddetta boscaglia di Farsa, presso un altro comune di queste parti, tal Seveso, se non vado errato. Quando s'accorse che qualcuno lo stava inseguendo era già troppo tardi. Si ritrovò con il cranio contuso da un oggetto contundente e istantaneamente a terra in un lago di sangue. Ma i suoi aguzzini non erano contenti, perché il povero frate respirava ancora. Si scagliarono allora sulla vittima con un lungo coltello perforandogli lo stomaco. Per Pietro da Verona ci fu ben poco da fare. Gli sciacalli se la diedero a gambe e il corpo del servo di Dio fu raccolto da alcuni passanti che lo trasportarono in un ospedale vicino. Pietro da Verona morì qualche giorno dopo senza avere più ripreso conoscenza.  
Ora non ricordo più bene i particolari, ma il primo cataro concorezzese mi sembra provenisse da Cologno Monzese, altro borgo di queste lande perdute. Fu il primo a farsi sentire come una voce fuori dal coro, e anche per questo lo fecero a pezzetti, in zona, intorno al 1180 (con le date rimango un fenomeno!). Ma ormai il seme dell'eresia era stato gettato e il dogma concorezzese sarebbe di lì a poco decollato. Ancora oggi è possibile intuire gli ipotetici discendenti degli eretici. Potrebbero, per esempio, essere i membri di famiglie che rispondono a cognomi particolari, come Paté; deriverebbero, infatti, da paterini, altro nome con cui venivano designati i catari. Oggi ho visto sullo stradario che esiste ancora una via centrale chiamata con questo nome. Non è escluso che nei prossimi giorni possa andare a fargli visita. Via Paterini…

La visita dei vicini

Cosa? Ho sentito bene? Credo che qualcuno stia suonando il campanello… troppo strano. Qualcuno deve sicuramente essersi sbagliato. Chi mai potrebbe venire a bussare alla mia porta, considerato che sono qui da pochi giorni e non conosco anima viva e non voglio conoscere anima viva? Ahia. Tiro un respiro profondo e abbandono lo scrittoio gironzolandogli intorno perplesso. Che faccio? Fingo di non aver sentito? Che faccio? Sentilo, di nuovo… e pensare che non avevo ancora udito prima d'ora il suono del mio campanello; e non avevo neanche mai riflettuto sul fatto che ci fosse. Ha un suono atipico, diverso dagli altri scampanellii sentiti finora: è un fischio, acuto e fastidioso. Al di là di quel che adesso deciderò di fare, dovrò presto o tardi trovare un modo per farlo zittire, o sostituirlo almeno con un suono più delicato. Se penso che il passaggio di un treno ha un suono più dolce, mi viene da sorridere… Ma perché insiste? Chi diavolo è che mi vuole con tanta foga? Io non sono nessuno… non esisto, che vogliono dal sottoscritto? Non so che fare. Aspetto ancora un… porca miseria nera, questo suono mi sta davvero facendo impazzire; come si fa a essere tanto insistenti? Non sarà mica qualche sbirro…
Ora che ci penso non c'è neanche il mio nome sul citofono. E' una cosa su cui non avevo mai riflettuto, non ho neanche la targhetta sulla porta a indicare lei mie generalità. Come fanno a sapere che abito qui? Ma so di essere perfettamente in regola, se anche fossero le forze dell'ordine, non ho niente di cui preoccuparmi, sono a posto, non c'è motivo di temere, sono scappato per volontà mia, niente a che vedere con la possibilità di vedermi trasformato in un ricercato, un latitante, un clandestino… Oppure… oh, già che stupido, perché non ci ho pensato prima? Probabilmente staranno cercando di mettersi in contatto con l'inquilino che viveva qui prima di me. Oddio, sicuramente starà andando così, chi vuoi che venga a cercare un quarantenne in fuga dalla società in questo buco dimenticato dagli angeli? Il suono, ancora, imperterrito. Va beh, togliamoci una volta per tutte lo sfizio e andiamo a vedere chi rompe così tanto le palle.
«Chi è?».
Ho la voce di un gallo castrato.
«Buongiorno, siamo i suoi vicini di casa».
I miei vicini di casa? Quali vicini di casa? Quelli della macchina abbandonata, di cui ho vagamente intravisto il capofamiglia, o quelli che mi stanno di fianco di cui non so nulla?
«Siamo venuti a salutarla, per conoscerla, darle il benvenuto e farle assaggiare una torta».
Mi viene da svenire. Non può essere vero. Dove deve andare una persona se vuole davvero isolarsi dal mondo, sulla Luna?
«Non dovevate».
«Ci mancherebbe».
Perché non mi lasciano in pace, cosa vogliono da me i miei vicini? Io non voglio vicini. Mi si gelano le parole in gola e ho i brividi. Cosa diamine vogliono da me? Le cose si stanno mettendo malissimo. Ho scelto di starmene da solo, non avere a che fare con nessuno, perché già dopo tre giorni dal mio arrivo mi vengono a perseguitare?
«Perché vi siete disturbati?».
«E' un piacere accogliere i nuovi venuti».
Ho capito: è inutile proseguire con la pantomima, non ho altre chance se non quella di andare a vedere che faccia abbiano. Non posso certo mandarli a quel paese. Però, un attimo… potrei anche dirgli che sto facendo la doccia… non potranno mica pretendere che esca ad accoglierli seminudo. Ma non so, così rischio che mi si presentino qui fra qualche ora, rendendomi l'imminente futuro un supplizio ancora più duro da sopportare, come quando si aspetta l'esattore delle tasse o il tipo che controlla che sei veramente a casa in malattia. Via, indossiamo le scarpe e andiamo una volta per tutte ad accogliere gli scocciatori.
Mi trovo davanti a due persone distinte, bellocce, lei con una folta chioma rossiccia, molto borghese, elegante, con un seno prosperoso; lui brizzolato, con due sopracciglia folte, e un viso da attore hollywoodiano; proprio l'uomo che ho visto dalla finestra, con la pigna di giornali sottobraccio, il tipo dell'auto parcheggiata nella solita triste posizione. La signora mi regala un sorriso splendido, mettendo in mostra una dentatura troppo perfetta per essere vera. Mi verrebbe da chiederle dove è andata a rifarsi la dentiera per farle capire che non ho alcuna intenzione di dare retta agli estranei, ma il buonsenso mi trattiene. Lui fa altrettanto, sorridendomi come una iena, stracciando vigorosamente il mio cenno del capo con un ghigno assatanato, molto imbarazzato.  Non mi fa una bellissima impressione, ma so che il primo giudizio su cose e persone non dovrebbe essere preso in considerazione. La donna mi consegna fra le mani il suo cimelio, preceduta da una vampata di profumo.
«Abbiamo visto che è arrivato qualche giorno fa e… ci è sembrato bello poterla accogliere con questo piccolo pensiero».
Sorrido per mascherare il disagio.
«Vi ringrazio signori, vi ringrazio molto, ma non dovevate, siete troppo gentili…».
Rimangono sulla soglia del mio abitato come pali della luce, come testimoni di Geova convinti di poter avere in pugno il prossimo adepto. Evidentemente si aspettano qualcos'altro.
«Lei è di queste parti?».
Ecco ciò che si aspettano, ora mi sembra tutto più chiaro, mi pare di rivivere la storia di ieri. Si parte dal tempo o da scuse stravaganti come quella di consegnare una torta appena tolta dai fornelli, per tentare di affondare il colpo e, in buona sostanza, avere nuovo materiale con cui spettegolare al prossimo incontro pubblico. Ne sono consapevole, ormai, e dunque mi ripeto seguendo bene o male lo stesso copione.
«Sono solo di passaggio».
Sembrano delusi dalle mie parole. Si capisce che vorrebbero conoscere più aspetti della mia vita, ma bado a esprimermi come vorrebbero, per non dargli troppe soddisfazioni. Me ne sto sulle mie, in fondo, posso dirmi un professionista del mestiere. Gli anni alla Vian lo possono confermare. Solo con Francesco e Filomena, e naturalmente Laila, mi lasciavo veramente andare, mostrando il mio lato più comico ed estroverso. La conversazione si blocca: io, infervorato, come uno scolaro al suo primo giorno in aula, con una torta in mano che vorrei non avere mai ricevuto e le ciabatte ai piedi, che mi fanno sembrare una specie di spaventapasseri; i miei due interlocutori con gli occhi impallati e uno sguardo da venditori di enciclopedie porta a porta, visibilmente delusi dal fatto di avere avuto a che fare con una persona tanto avara di sentimenti. Evidentemente, in questo paese, sono abituati a gestire le cose in questa maniera; ma suppongo che i nuovi venuti siano accolti con calore non tanto per un gesto di sensibilità, quanto per verificare che non siano portatori di qualche strana malattia; alla stregua di veri untori. Dalle mie parti quest'aspetto sociale pareva meno evidente, la riservatezza era più sentita e così anche i rapporti personali crescevano solo in determinati contesti, dopo essersi annusati con criterio e pudore. Anche ieri, in fondo, è andata così. I concorezzesi fanno di tutto per dare il benvenuto agli estranei, e mostrarsi accoglienti e solidali; in realtà, penso io, è solo un modo per tastare il terreno e verificare che non corrano pericoli e che la loro vita potrà proseguire tranquilla e serena con la stessa regolarità di sempre. Comunque sia mi offrono terreno fertile su cui indagare la natura umana, anche questo un tema sul quale amo soffermarmi.
«Bene, allora… grazie ancora».
Gli faccio capire che qualunque altro tentativo di proseguire nella conversazione sarebbe vano, e che tanto vale concederci ai saluti. La donna ha il viso tirato e si congeda con un sorriso di plastica; l'uomo ha il volto accigliato e sembra pentito di aver suonato alla mia porta. Pretendeva, forse, di invitarmi stasera a casa sua a giocare a Tresette? 
«Si figuri… allora, le auguriamo ancora il benvenuto e se ha bisogno di qualcosa, mi raccomando, non faccia complimenti, venga pure a disturbarci, in fondo… ci separano solo pochi metri».
La loro cordialità è rigida e forzata.  
«Lo farò, intanto molte grazie».
Sorrido di circostanza, felice di essere lasciato in pace. Non credo che si faranno rivedere molto presto.

Dinamiche condominiali

Stavo pensando… chissà perché oggi, i miei cari vicini, hanno dato per scontato che vivessi da solo. Non mi hanno fatto domande sulla mia vita privata, eppure sembrava chiaro a entrambi che vivessi senza compagnia. Anche le loro ultime affermazioni sono state palesi: mi hanno detto di farmi sentire se ho bisogno, senza minimamente supporre che potessi avere una moglie o dei figli e valutare, dunque, il discorso al plurale… eppure la casa è bella grande… chiunque supporrebbe che non ci si possa abitare singolarmente, ma con una famiglia, appunto. Che mi stiano osservando da giorni e io non mi sia ancora accorto di niente? Avendoli conosciuti non lo escluderei, in ogni caso, m'importa poco. Possono pensare quello che vogliono, io continuo nel mio imperturbabile silenzio. Peraltro anch'io ho cercato spiegazioni sul loro conto, osservandoli dalla finestra, come un membro dei servizi segreti; anche se non l'ho fatto certo per curiosità, ma solo per ammazzare il tempo fra una pausa e l'altra della giornata.
Non vorrei apparire scontroso a priori, però, desidererei mantenere le distanze con chi vive le conoscenze come un dovere, come una buona consuetudine. Dal mio punto di vista i vicini non devono per forza venirsi in contro; possono anche essere dei perfetti sconosciuti. Si fa un gran parlare delle belle abitudini trascorse, relative a famiglie che mettevano tutto in condivisione; ma è solo per giustificare il passato rendendolo più amabile di quello che fu, e così sfuggire alle angherie e alle difficoltà del presente. La verità è che si tiene solo conto delle belle cose di ieri, trascurando tutto il resto. Perché non si considera anche il fatto che si moriva giovanissimi? Si soffriva per anni di malattie banalissime come la bronchite e le conversazioni fra le coppie si limitavano a scurrili mandarsi a quel paese… Le specie di comuni che venivano a instaurarsi fra le famiglie che abitavano, per esempio, in una cascina, erano dettate dalla necessità e non dalla volontà; se avessero indetto un referendum, tutti avrebbero votato per ottenere la propria indipendenza, un po’ come è sempre accaduto per l'evoluzione storica degli stati: per una mera questione di sopravvivenza esisteva il motto "uno per tutti, tutti per uno". La realtà era molto meno affascinante. Gran parte delle famiglie che dividevano il pane quotidiano sarebbero state pronte ad azzannarsi l'una con l'altra, e non è escluso che ciò accadesse, per poi fare ricadere il tutto su orrendi tragedie figlie del fato. A volte si fa fatica a sopportarsi in famiglia, figuriamoci quando ci sono di mezzo altri nuclei, spesso numerosissimi, come se chi faceva più figli si sentisse in qualche modo più forte e potente degli altri. E' anche questo un retaggio evoluzionistico. Evidentemente guardare in cagnesco il vicino serviva a difendersi, a tenere alta la guardia, imparando da esso come comportarsi dinanzi a eventuali sinistri. Strategie comportamentali ordite da meccanismi antropologici di cui siamo precursori, ma che sostanzialmente ignoriamo.

La ragazza del chiosco

Oggi non penso di uscire. E se guardo alla voglia non ne ho neanche di scrivere. Quasi, quasi vado a citofonare al vicino… Da quando sono arrivato a Concorezzo sono stato assalito da uno strano torpore. Ho sempre sonno, ma quando decido di dormire, non riesco a chiudere occhio. E vengo assalito dagli incubi. Oggi mi manca Laila in modo spropositato e continuo a pensare a lei. Ma per fortuna non sto pensando al triste epilogo della nostra storia, bensì al giorno in cui ci siamo visti per la prima volta. Lei vendeva patatine in uno di quegli orrendi chioschi che spuntano come funghi lungo i provinciali di mezza Italia. Dall'esterno era increscioso, sembrava essere stato rimesso in sesto malamente, dopo averlo raccattato in qualche sfasciacarrozze. Dentro, però, sembrava pulito, più di molti altri dai quali pare che l'olio coli dalle pareti. Non le avevo ancora parlato e già il cuore s'era messo a sbatacchiare. Non mi era mai successa una cosa del genere con altre donne. Laila era già entrata prepotentemente nella mia vita, anche se non conoscevo nemmeno il suo nome. Lasciai che altri clienti mi passassero davanti per poterla osservare meglio, e non rompere l'incantesimo che mi aveva fatto sussultare come un ragazzetto delle medie. Ecco, semmai avessi dovuto rapportare l'impeto provato vedendola per la prima volta, potrei parlare solo delle primissime cotte giovanili, in cui ogni minuto era buono per innamorarsi di qualche ragazzetta, auspicando con lei sogni di gloria. Sentii menzionare il suo nome da un facinoroso con una lunga coda di capelli dorati. Un bel tipo, se non fosse che non gli avrei dato due lire, in termini di affidabilità: aveva i pantaloni macchiati di grasso e le mani putride e una parlata non dissimile da quella di uno scaricatore di porto. Si vedeva che aveva feeling con la ragazza del chiosco. Sorrideva con lei mentre le ordinava da mangiare.
«Laila, non dire cazzate», le disse riferendosi a dinamiche precluse agli sconosciuti.
Non udii correttamente il sillabato, e scambiai il suo nome per Linda o Leila. In realtà era Laila. Lui le aveva ordinato un hotdog e a quanto sembra aveva una certa premura, ma lei non ne voleva sapere di soddisfare le sue richieste e con aria civettuola si divertiva a indisporlo. Era circa l'una e tornavo da una visita da un rivenditore di oggetti di laboratorio, dove periodicamente mi recavo per ordinare nuovi pezzi da allestire alla multinazionale. Mi era venuta un'indicibile sete, dovuta alla moltitudine di salatini con cui mi ero rimpinzato poco prima con il proprietario dell'esercizio, e mi ero deciso a fermarmi alla prima occasione; era anche perché dovevo liberare la vescica che mi stava scoppiando, compito che assolsi prima di ordinare qualcosa da mangiare. Fu la stessa Laila a interpellarmi, vedendomi in grave defaillance.
«Signore?».
La sua voce era sublime, una di quelle voci che ti portano in alto, senza dover dare retta al resto. Era una bella e suadente voce da ragazza, dotata di una dolcezza speciale, quasi appannaggio di un'altra dimensione. Chissà quanti altri avventori avevano già provato quello che stavo provando io, mi dissi. Alla fine, non senza imbarazzo, riuscii a mugugnare due parole:
«Vorrei un panino».
Laila si sporse dalla balaustra e mi regalò un sorriso immenso. Notai il suo decolleté, che esibiva senza tanti tentennamenti e soprattutto il nero che troneggiava sul suo corpo: i capelli, gli occhi, e i vestiti. Era di una bellezza non convenzionale, come se nei suoi tratti fisionomici ci fossero rimandi al Medio Oriente, al Libano, a Israele. Vendendola la assimilai a qualche statuina del presepe, a una bellissima giovane che va a fare visita al bambin Gesù, una giovane di duemila anni fa. Ecco cos'era che mi sbalestrava: non riuscivo a collocarla nello spazio-tempo che ci rappresentava, era come se provenisse da un'altra epoca. C'era disequilibrio fra il suo mondo e le macchine che ci sfrecciavano accanto, il grigio, lo smog, le piante avvizzite. Erano i suoi occhi a suggermi tutto questo, dicendomi più di tutto il resto. Era come se nascondessero qualcosa di profondo, universale e, forse, drammatico.
«Un panino mi chiede, bene, meno male che non mi ha chiesto un cacciavite o una carriola. Mio signore, come vede qui abbiamo praticamente solo panini, ma ne abbiamo di tutti i gusti, le dimensioni, le razze. Se dà un'occhiata qui sotto se ne potrà rendere conto anche lei e così scegliere quello che gradisce di più».
Mi sentii sprofondare. La sua spigliatezza fu così travolgente che mi mise in totale sobbollimento. Ma mi resi conto che aveva perfettamente ragione, era stato come entrare in farmacia e chiedere una generica medicina. Ma come biasimarmi? Compii un rapido giro di ricognizione e individuai quasi per caso il prodotto da consumare:
«Quello».
«Questo? Mortadella e pancetta?».
«Direi di sì».
Mi fissò come si fotografa un pollo da spennare. E infatti non ci mise molto a prendersi gioco di me.
«Lei mi ricorda un tipo di animale che vive in Cina».
Non mi piacque la sua uscita, ma cercai di domare il disagio.
«Sa quei begli orsacchiotti che vivono sulle piante di bambù?».
Pensai volesse riferirsi a un panda, benché nessuno mai prima d'ora m'avesse assimilato a un animale del genere. Stetti al suo gioco.
«Cosa glielo fa pensare?».
«Ha l'aria da buono».
Mi prese in contropiede. Pensai, infatti, che intendesse riferirsi al mio aspetto fisico e alla mia tendenza alla pinguetudine e invece, a quanto sembra, considerò quello spirituale. Mi colpì anche per questo.
«Dunque non le ricordo il panda perché è cicciotto».
Rise. E per un momento parve eclissarsi. Divenne mogia tutto d'un colpo, mentre terminava di prepararmi il sandwich.
«Lei è di qui?», mi azzardai.
Mi guardò con fare minaccioso.
«Io sono di ovunque».
Mi piacque.
«Trovavo il suo accento un po’…».
«Ho vissuto in tante parti del mondo e potrei avere assimilato cadenze di ogni città e nazione».
Ebbi l'impressione che non volesse rivelare le sue vere origini, come se ci fosse qualcosa di anomalo da nascondere. La lasciai in pace, dirigendomi verso uno dei tavolini che circondavano il botteghino, dove già altri, compreso il cliente che mi aveva preceduto, s'erano accomodati. Mangiai con calma, non avendo nessuna fretta, osservando, di tanto in tanto, con la coda dell'occhio, Laila che si dava da fare per lustrare il bancone e l'affettatrice. Sfregava con grande foga, dando idea di compiere un lavoro che svolgeva di routine. Mi stupii quando, fotografandola di sbieco per l'ennesima volta, m'accorsi che mi stava guardando con gli occhi semichiusi, in tono di sfida. Provai una sensazione strana, mista eccitazione, tenerezza e… terrore. Da una parte avrei voluto gioire, dall'altra, però, mi frenò qualcosa che non riuscii a focalizzare, come se dalla sua aurea trapelasse qualcosa di troppo difficile da comprendere e analizzare. Continuai pertanto nel mio atto masticatorio, cercando di fare finta di niente e di concentrarmi su un paio di formichine che s'erano messe a gironzolare intorno a qualche briciola. Mi distrasse il vocio di un nuovo gruppo di persone che prese d'assalto il negozietto ambulante di Laila per ordinare cibo e bevande. Non ebbi il tempo di salutare Laila come avrei voluto, ma rientrando alla Vian non feci che pensare a lei, come se fossi stato sotto ipnosi. Ricordo ancora, peraltro, quel che disse Filomena vendendomi riacquistare la mia postazione usuale.
«Tutto bene?».
«Certo».
La mia collega mi aveva squadrato malamente.

«Hai una faccia…». 

martedì 21 maggio 2013

giovedì 16 maggio 2013

Laila # 4

4.

Incubi siberiani

Tutta notte a girarmi e rigirarmi nel letto, pensando a qualche fantasma che volesse divertirsi stuzzicandomi i piedi. Mia nonna mi raccontava che per molti spiriti burloni è uno spasso giochicchiare con i nostri piedi mentre dormiamo. Mia nonna aveva il debole per qualunque forza soprannaturale e in parte ha trasmesso a me quest'attitudine. Vedeva fantasmi ovunque e in numerose occasioni diceva di avere ricevuto miracoli. Per questo motivo ho più volte assimilato la nostra famiglia a quella de La casa degli spiriti, un libro uscito l'anno scorso, pieno di riferimenti apocalittici. Del resto, le creature delle pozzanghere, che solo io posso vedere, non possono che essere considerate entità non appartenenti a questo mondo. Ma il discorso è per me vero solo in parte. Vivrò pure esperienze psichiche borderline, ma, a differenza di mia nonna, non le ho mai associate a qualcosa di veramente anomalo, se non a qualche bizzarria dei neurotrasmettitori che ancora non sappiamo spiegare dal punto di vista fisiologico. Tutto qui. Non ci vedo nulla di trascendentale. Ecco perché anche l'altro dì, parlando della seduta spiritica legata al rapimento Moro, ho dato l'impressione di volermi dissociare da certi argomenti, ritenendoli se non fasulli, di sicuro adombrati da facili condizionamenti e suggestioni. Comunque sia, stanotte è stata una tragedia. Mi sono voltato non so in quante occasioni per sincerarmi che non ci fossero masse ectoplasmatiche desiderose di divorarmi. Ero troppo agitato per abbandonarmi a Morfeo. Mi sono addormentato solo quando dalle persiane ha cominciato a filtrare qualche raggio di luce, rischiarando la mia camera e neutralizzando qualunque potenziale cattiva intenzione messa in campo da soggetti non identificati. Ma non è una novità. Dormo spesso male e sono tormentato dagli incubi da un po’ di tempo. Il tutto s'è inasprito dopo la fine della mia storia con Laila.
Prima di allora raramente facevo sogni strani e rocamboleschi. Ora tutto è cambiato e le notti si sono trasformate in pericolose avventure fantascientifiche. Punto il dito sull'autosuggestione, tuttavia avvengono sovente cose che razionalmente non mi so spiegare. La seconda notte trascorsa a Concorezzo ho sentito un uomo urlare, come se lo stessero sgozzando. Il vocio era pulito, nitido, palese. E terrificante. In realtà non c'era nessun uomo che urlava, ma solo un gallo di qualche vicino che con il suo canto inaugurava una nuova alba. In pratica il canto dell'uccello s'era trasformato, dilatato, fino ad assomigliare al grido straziante di un essere umano. Tutto ciò credo si sia verificato nel mio cervello - i miei neuroni devono avere elaborato malamente un messaggio proveniente dall'esterno, dando vita a spasmi onirici inusitati - tuttavia è stato tutt'altro che piacevole. Per un attimo sono tornato all'infanzia, a quel sogno che feci nel letto dei nonni e che non ho ancora dimenticato, come se avesse ancora qualcosa da dirmi, se non altro a livello subliminale. In realtà non credo che fosse un sogno, ma… qualcosa di dannatamente vivo. Mi infilai sotto le coperte per fuggire a fantomatiche creature aliene e vidi una specie di lupo con le fauci spalancate: l'animale era completamente bianco, con due occhi azzurri e penetranti e la bava che gli colava dai bordi della bocca. Nella sua bellezza era un essere mostruoso. Avevo su per giù due anni. Ecco, la notte appena trascorsa, ho provato più o meno le stesse sensazioni. Mi sono svegliato impaurito come quella mattina di tanti anni fa, con l'unica differenza che, in quest'occasione, non c'era la nonna a rasserenarmi con le sue provvidenziali carezze. 
Ho gironzolato per casa come un robot, per scaricare l'ansia, e ho fumato un paio di sigarette di fila, prima ancora di fare colazione. Non mi piace fumare senza aver mangiato qualcosa, ma stamattina non è stato un risveglio come gli altri: per un attimo mi sono sentito completamente smarrito. Nessuno nella terra di nessuno. Certo, era quello che volevo, ma ho vacillato, ripensando alle mie ultime scelte, forse un po’ troppo azzardate. Mi ha rinsaldato solo il pensiero di poter godere di un capitale pressoché inestimabile, teoricamente in grado di rendermi la vita molto più facile. Dopo uno sbrigativo caffè mi sono appisolato sulla poltrona, inerme e svogliato, ma con il cuore che fortunatamente aveva smesso di battere come un martello pneumatico. Non avevo nessuna voglia di scrivere, né di pensare, ero in stand-by, né vivo, né morto. Avevo solo voglia di dormire, dormire per un indefinito numero di secoli, per recuperare il sonno perduto e non pensare a niente. E' andata avanti così per un paio d'ore. Ho indossato i primi vestiti che mi sono capitati a tiro (gli stessi che porto dal momento in cui ho messo piede in questo grigio villaggio) e mi sono messo a guardare fuori dalla finestra della cucina, ritrovandomi degente di un ricovero geriatrico. Ancora una volta mi sono soffermato come un detective sull'automobile del mio vicino, nella solita fastidiosa posizione, attraversato da un pensiero folle: e se l'uomo fosse morto? Quante volte si sente parlare di persone che vengono ritrovate giorni o mesi dopo la dipartita improvvisa, ormai completamente scheletriche, dimenticate da tutto e da tutti? Ne succedono di queste cose, si legge spesso sui giornali… Il mio vicino, invece (dico per fortuna, anche se non lo conosco) è sano e vegeto. Poco dopo, infatti, pronto per l'ora di pranzo, separatomi dalla mia corsia preferenziale, l'ho visto superare il cancello della sua abitazione. Stava tornando a piedi da non so dove, forse dall'edicola, stringendo sottobraccio alcuni giornali: ho riconosciuto il Corrierone e la sagoma di un magazine, forse un femminile. Se così fosse, posso intuire che l'uomo non vive solo, ma ha una moglie. Sicché i vicini potrebbero essere due. Magari più avanti giungerò a nuove scoperte…  
Dopo pranzo ho guardato un po’ di tv. Davano un documentario su una città della Siberia che non avevo mai sentito nominare: Akademgodorok. Solo dalla Russia arrivano certi nomi assurdi. E forse anche per questo motivo è una delle terre che mi affascinano di più. E' una città misteriosa a una ventina di chilometri da Novosibirsk, sorta appena venticinque anni fa, per ospitare alcuni fra i più importanti istituti di ricerca scientifici. Ne ho sentite di tutti i colori che perfino la storia della seduta spiritica di Prodi e i miracoli ricevuti da nonna, in confronto, sono bazzecole. S'è parlato di uno scienziato russo tenuto sotto controllo dai servizi segreti locali e americani, perché a conoscenza di programmi scientifici di straordinaria importanza, che non dovevano, per nessun motivo, essere resi pubblici finendo nelle mani dei media. In uno di questi si parlava di una bomba speciale, di grande potenza, legata al traffico clandestino di uranio iodio 131 e polietilene con TNT, vale a dire tritolo. Pensai che si stessero riferendo a un terrorista ma non era così. Poco dopo infatti lo speaker parlò di un progetto molto particolare: la realizzazione di una bomba in grado di annullare gli effetti di un gigantesco terremoto o di un'esplosione vulcanica. In pratica si proponeva di bombardare qualcosa per far sì che la geologia di un particolare territorio tornasse nella norma. Ho storto il naso. Qualcosa non mi tornava. La mia ipotesi è che dietro a tutto questo calderone ci fosse molto più prosaicamente l'idea di progettare ordigni di distruzione di massa. Ma questa non è stata la storia più interessante emersa dalle ricerche condotte ad Akademgodorok. Ancora più avvincente è stata la faccenda di Jurj Mocanov, un archeologo russo convinto che in Siberia vivesse un uomo preistorico riconducibile ai primi ominidi "intelligenti" che mossero i primi passi in Africa, due milioni di anni fa.
Stando alle conclusioni del promettente Mocanov, Charles Darwin è un ciarlatano, non sa quello che dice e teorizza. Un'opinione alquanto gagliarda, alla stregua del più temibile creazionista. Non è vero, quindi, che la stirpe umana deriva dalla Gola di Olduvai, in Tanzania, o dai territori limitrofi; le ricerche condotte in Siberia asseriscono che vi furono più "culle del genere umano" e che una di queste risalirebbe proprio a queste lande dimenticate da dio e dagli uomini, sferzate da inverni micidiali dove la temperatura raggiunge senza problemi i meno cinquanta gradi. In seguito sono stato investito da una sorprendente calma; mi sono accesso una sigaretta e messo a pensare a quanto tutto sia davvero relativo, proprio come spiega a livello cosmologico la relatività; compresa la vicenda che mi ha riguardato e che ha cambiato i connotati al mio divenire. Compresa Laila. Ho riflettuto sul fatto che anche nella vita di tutti i giorni ogni cosa dipende da un determinato punto di vista, da come e da dove si osservano le cose. Sono tornato alla trasversalità che analizzavo anche ore fa, proponendomi la possibilità di ragionare da una posizione mentale diversa da quella che normalmente mi rappresenta. Sono così arrivato a credere che sia del tutto lecito leggere la storia di un uomo così come si legge il volo interstellare di un'ipotetica supernavicella. Voglio dire… la storia di un uomo potrebbe, dovrebbe essere equiparata al tempo: assume, infatti, forme e spessori diversi in base al punto di vista dell'osservatore. Per un uomo che vive il presente, una qualunque tragedia assume i reali contorni del dramma. Ma se pensiamo a una tragedia risalente a centinaia di anni fa, ecco che, come per magia, la sciagura, la catastrofe, perde gran parte della sua tragicità, in favore di un sentimento che in alcuni casi potrebbe addirittura affascinare, rasentando il romanticismo. Penso a Giulietta e Romeo, alla morte di Cesare, all'uccisione di Achille da parte di Paride… Colpevoli, rei, demoni, che col passare degli anni (guarda caso il tempo) perdono la loro peccaminosità, in favore di un paradigma molto più "trasversale": l'umanizzazione.

La cappella degli appestati

Poi mi sono alzato e, deciso a cambiare aria, sono corso in bagno per farmi una doccia. Curioso. E' la prima volta da quando ho messo piede a Concorezzo che faccio qualcosa di utile per la mia persona. Sotto la doccia ho perfino canticchiato una canzone di Billy Joel: A bottle of white, a bottle of red, perhaps a bottle of rosé instead… Sistemato e profumato come un principino sono uscito per prendere una boccata d'aria e un po’ più di confidenza con questo strano angolo della geografia suburbana che fa capo alla città di Milano; che un giorno o l'altro non mi dispiacerebbe visitare. Ho gironzolato senza meta per un'oretta, affrontando vie che non avevo mai sentito nominare, limitrofe a uno stradone che se non sbaglio conduce a Monza, capitale della Brianza. Non c'è niente di bello, solo grigio, asfalto e cumuli di immondizia. Non mi capacito di chi vive in questo letamaio da una vita. E' il posto ideale per sparire, non di certo per vivere; ma forse corro un po’ troppo, come in tutte le cose, prima di dare un giudizio bisognerebbe capire bene come stanno realmente i fatti.  
Tornando sui miei passi ho affrontato una vietta che all'improvviso sbucava su una piccola radura, probabilmente alle spalle del centro sportivo, che vedo anche da casa mia, a un tiro di schioppo dall'uscita della tangenziale. Era completamente ricoperta di sterpaglie. Qui ho incontrato un uomo in là con gli anni, un filo di barba bianca e gli occhi circondati da un rossore sospetto: ho pensato, di primo acchito, che potesse soffrire di qualche strana malattia, legata all'insonnia o a un'allergia particolarmente aggressiva. Prima di rivolgermi la parola mi ha squadrato da cima a fondo, scambiandomi, forse, per un malintenzionato. Poi, probabilmente, rendendosi conto che vestivo elegantemente e che mi ero appena rasato, il patema ricamato sul suo volto è scomparso.  
«Per fortuna ha smesso di piovere».
I commenti sul tempo sono da sempre l'ideale per rompere il ghiaccio, mi son detto. Ma indeciso se dargli corda o meno, alla fine, ho taciuto. Ha proseguito da solo.
«Diventa tutto un pantano quando piove… colpa di un terreno troppo argilloso».
Lo guardai divertito, come si guarda un buffo personaggio della televisione. Compresi al volo la sua provincialità, che mi suonò simpatica e persuasiva. Parlava in italiano con una cadenza tipica, locale, che non mi apparteneva, il brianzolo, presumo. Dovevo avere letto da qualche parte che il brianzolo ha una vita lessicale tutta sua, assomiglia al milanese, ma ne è distante per vari aspetti ben identificabili dai glottologi. Presumibilmente risente del comasco e del lecchese e forse addirittura del bergamasco. Gli risposi che aveva ragione e che non c'è niente di peggio della palta che si incolla alle suole.
«Senza contare le mogli che si arrabbiano come iene se le portiamo la terra in casa».
Non obiettai e mi sciolsi definitivamente in un sorriso amichevole.
«Lei è di qui?», mi domandò bruciapelo.
Evidentemente le nozioni sul tempo e gli impantanamenti erano solo il pretesto per giungere a sapere qualcosa di me: ancora non si capacitava del fatto che un estraneo potesse aggirarsi dalle sue parti, con un'andatura così spavalda. Rimasi vago.
«No, sono qui di passaggio».
Vide che non avevo altro da aggiungere e fece cadere il discorso, soffermandosi sull'ampio spiazzo rurale che ci circondava. In fondo, guardando verso ovest, sorgeva una piccola costruzione, sormontata dalle fronde di alberi vigorosi. Dal punto in cui mi trovavo lo scambiai per un piccolo cascinale o una specie di ricovero per animali. Il mio interlocutore comprese il mio interesse e risolse istantaneamente ogni mio dubbio.
«E' per ricordare i tanti morti della peste».
Rimasi colpito dalla parola. Non l'avevo mai sentita menzionare in una circostanza tanto intima e triviale. Peraltro era così… obsoleta. Immaginavo che si potesse leggere su qualche libro o rivista o in seguito a qualche commento proposto in un documentario, ma così, su due piedi, nel bel mezzo di una passeggiata bucolica, suonava alquanto strana, fuorviante, ridicola. Mi rimandò di colpo al Seicento e alle vicende manzoniane, di cui serbavo il ricordo dagli studi affrontati durante gli anni della scuola superiore; qualcosa che, per un incomprensibile meccanismo dell'attività neuronale, mi era rimasto impresso più di molte altre letture. Tuttavia non seppi indagare sulla sua vera natura, i retroscena che consentivano al morbo di diffondersi; riflettei sul ruolo dei topi nella diffusione della malattia, concetto ben impresso nell'immaginario collettivo, e sui sintomi che dovettero patire le povere vittime, ma non seppi elaborare una risposta esaustiva.
«In questo campo, un tempo, venivano sepolti i morti per la peste».
«Capisco».
«Ce ne furono moltissimi, e non solo a Concorezzo…».
«E' una gigantesca fossa comune», dissi con una strana compiacenza.
«Esattamente, e quella cappella laggiù prova la sacralità del posto… anche se non tutti se ne rendono conto».
Non capivo cosa intendesse dire. Dondolai la testa immalinconito, fissando la struttura sulla quale avevamo soffermato le nostre attenzioni. Si accorse della mia titubanza e ancora una volta fu lui a prendere la parola per ammazzare l'empasse.
«Vengono qui a fare le porcate».
«In che senso?».
«Vede?», mi disse indicandomi una pigna di cicche di sigarette marcescenti e un metro più in là il cappuccio di un preservativo. «Questo è quello che si lasciano dietro, sanno che in questo angolo di paese nessuno viene a interrompere le loro sconcerie… e così vanno avanti indisturbati a macchiare un angolo di terra in cui anni fa veniva regalato l'estremo saluto a uomini e donne di tutte le età».
Capii che si riferiva alle coppiette che si appartavano per regalarsi attimi d'intimità. E a questo punto la magia di un pomeriggio così rilassato e piacevole andò a farsi benedire. L'idea della scappatella mi riportò dritto filato a Laila e alle innumerevoli volte che, anche noi, piuttosto che raggiungere casa, ci concedevamo l'uno all'altro illuminati dal bagliore delle stelle. Lo trovavamo molto più romantico che farlo nei posti più canonici, selvaggio, in linea con i nostri più primitivi istinti. Avevo pensato che dopotutto siamo figli di uomini erectus e mezzi neandertaliani che certo non badavano tanto al dove e come accoppiarsi; lo facevamo obbedendo a un dettame naturale che si ritrovavano a dover gestire senza tanti interrogativi, così come ogni mattina scrutavano il cielo per capire se la caccia sarebbe stata più o meno fruttuosa, sospettando che una giornata di pioggia e tempesta non avrebbe decretato il successo della missione. Era quello che facevamo anche io e Laila. La mia Laila. Vivevamo da primitivi, come adolescenti o, forse, meglio ancora, come ancestrali abitanti dell'Eurasia.
Il mio interlocutore s'accorse che non ero più gioviale come pochi istanti prima e mi regalò una smorfia ridicola: sembrava che volesse dirmi qualcosa di carino, senza trovare le parole adatte per farlo. Bastò questo a ridarmi un po’ di fiducia e a restituirmi la convinzione che non avevo fatto male a concedergli del tempo.
«Se vuole l'accompagno».
Intendeva affiancarmi nel mio pellegrinaggio alla cappelletta dei morti per la peste, benché non avessi ancora maturato appieno l'intenzione di raggiungerla. Accettai, comunque, di buon grado, pur non essendo convintissimo di volerlo ancora al mio fianco e di dover sentire i suoi nuovi mille aneddoti su questo o quell'altro retroscena di vita concorezzese. Malgrado ciò dovetti ammettere di avere a che fare con un tipo davvero istruito e appassionato di storia locale, qualcosa che aveva stuzzicato la mia curiosità. Mi chiedevo cosa ci fosse di così tanto bello e interessante da studiare in un paese così insulso come Concorezzo… A quanto pare, invece, anche qui ce n'erano di cose da raccontare e tenere in serbo per i posteri. Il mio uomo ne sapeva di cotte e di crude e pareva che le sue attenzioni principali ricadessero su uno dei periodi più bui della regione, quello del Seicento.
«La peste del quindicesimo secolo coinvolse tutto il circondario», mi disse, «e le vittime furono numerosissime».
Pensai che fosse ridicolo che sopra quel cumulo di ossa potessero, ora, coltivarci senza problemi, traghettando con rumorosi aratri e mietitrebbiatrici. Ironizzai fra me e me supponendo che il terreno dovesse essere particolarmente fertile, e potesse creare i presupposti per la maturazione di vigorose spighe di mais e frumento, frutto della decomposizione di uomini periti per il terribile morbo. Che orrore.
«Ce ne saranno sotto a migliaia».
«Addirittura. Non lo facevo così grande questo paese».
«Probabilmente li portavano anche dai villaggi vicini».
Mi indicò l'orizzonte a est.
«Vede quegli alberi laggiù?».
Annuii: erano dei grossi platani in fila indiana che coprivano gran parte della visuale a oriente.
«Lì c'è confine con Agrate».
«Agrate Brianza».
«Anche quelli di Agrate li portavano qui».
Andò avanti a parlare del Seicento, introducendo il fatto che in quel periodo gran parte dell'Italia del nord era soggetta al dominio degli spagnoli. Erano sopraggiunti all'onnipotenza secolare di Visconti e Sforza e non fecero granché per far fruttare i prodotti e le risorse della nuova terra. Non fecero niente di niente e, infatti, le campagne si inselvatichirono, i centri si ridussero e le carestie si fecero sempre più frequenti, innescate da inverni rigidissimi ed estati caldissime. Sembra che agli spagnoli interessasse solo racimolare quattrini, spremendo come limoni le tasche dei poveri concorezzesi, devastati oltreché dalla peste, da altri morbi caduti nel dimenticatoio come la pellagra, il tifo e lo scorbuto. Non fu come per i francesi, venuti prima e dopo, che, se non altro, pur disdegnando le consuetudini degli italiani, introdussero qualche riforma e si diedero da fare per organizzare una satrapia degna di rispetto e valore, moderna e autosufficiente. Capii, finalmente, perché il mio nuovo amico fosse così esperto di simili argomenti.
«Stiamo scrivendo un libro sulla storia di Concorezzo, e a me è toccato proprio il capitolo relativo al Seicento. Se tutto va bene usciamo per l'estate».
Mi piaceva l'idea di avere un vicino che faceva lo scrittore e ne volli sapere di più.
«Per quale casa editrice?».
Gli premette affermare che rimaneva un semplice prodotto locale.
«No, no, raccogliamo degli sponsor e ci dà una mano la Ghiringhella».
Vide il mio disappunto.
«E' la nostra libreria più famosa. Anche il suo titolare è coinvolto nel progetto: oltre a scrivere contribuisce alla stampa e alla diffusione».
«Certo, ha scelto un bel periodo», dissi divertito dalla boria del mio interlocutore.
«Il Seicento è un bellissimo periodo».
«Forse un po’ funereo».
Non controbatté, preso in contropiede dall'aggettivo che avevo utilizzato e che nemmeno io sapevo bene se fosse davvero il caso di calarlo nella nostra conversazione; ma allargò le braccia, come fa chi vuole esprimere una sorta di rassegnazione. Tornò a parlare della peste e del ruolo che proprio gli spagnoli ebbero nello scoppio della pandemia.
«Furono gli eserciti, muovendosi da una parte all'altra dell'Europa, a causare la pestilenza», affermò. «Nel 1630 gli equilibri militari con Austria e Francia erano tutt'altro che solidi e ogni pretesto, anche banale, diventava utile per sollevare un pandemonio; ci fu nel 1631 il trattato di Cherasco che determinò una breve tregua delle asperità belliche, ma poi tutto riprese daccapo, in una Lombardia devastata dalla povertà e dalla recessione economica. Solo a Milano si contarono almeno sessantamila persone morte di peste».
Ci ritrovammo senza accorgerci di fronte alla cappelletta in ricordo dei caduti, lungo un sentiero che, all'improvviso, si era fatto stretto e pericolante. Era una semplicissima e spartana costruzione, sormontata da un tetto vacillante e protetta da pareti spoglie e vetuste. Sul muro che guardava verso sud era riportata una scritta in latino e una data in numeri romani che non mi sforzai di comprendere. L'uscio era limitato da una porta di ferro battuto che riproduceva il disegno di una croce e permetteva di intravedere il rudimentale sacrario al suo interno, composto da un paio di stendardi rossi e un crocifisso in legno. Di fianco sorgevano due panche, semisommerse dai rovi e qua e là devastate dall'incuria e dalle intemperie. Nonostante tutto sembrava un posto piacevole dove trovarsi a passeggiare; sarebbe dovuto esserlo, pensai, d'estate, con il rigoglio dei vegetali e la mitezza del clima. Mi tornò in mente Laila, e l'ipotesi malsana di poterle presentare questa mia minuscola ma piacevole scoperta.
«E' stata rimaneggiata, ma risale a quasi quattrocento anni fa», mi spiegò il concorezzese, ancora concentrato sulla piccola costruzione. «E', infatti, ben presente nel catasto teresiano».
Mi accomodai su una delle due panche, lasciando sorpreso il mio accompagnatore, che mi guardò stranito, soffocando l'ennesima intenzione di poter diffondere il suo sapere. Per un attimo mi sentii felice; con il piede sollevai pochi centimetri di terra, convinto di poter incontrare qualche vecchio amico delle pozzanghere; ne scorsi due che, però, non mi considerarono più di tanto, presi com'erano dalle loro faccende quotidiane. Il terreno si stava asciugando e per creature come le loro che vivono solo con un buon tasso di umidità, stava diventando un grosso problema. Si misero a scavare più in fondo in cerca del refrigerio perduto, salutandomi con un vago cenno del capo, e facendomi capire che ci saremmo risentiti più avanti in occasioni più propizie. L'uomo al mio fianco mi osservò stupefatto; per la prima volta dal momento in cui c'eravamo incontrati, temette di avere a che fare con un fuori di testa, preso da chissà quali paturnie esistenziali; probabilmente detti davvero impressione di parlare con qualche fantasma. Non lo biasimai, ma lo tranquillizzai in fretta.  
«Buon uomo, la ringrazio molto per i suoi racconti».
Sorrise distrattamente.
«Essendo nuovo di questo paese, sono contento di avere conosciuto qualcosa di più… sa, per uno che viene da fuori, da una grossa città, è piacevole sapere che anche il più piccolo borgo ha qualcosa da raccontare».

Ci rincamminammo verso casa, uno davanti all'altro, in silenzio, come amici di vecchia data di ritorno da una scampagnata. All'imbocco della stradina che conduce alla cappelletta ci stringemmo la mano, salutandoci, incorniciati in un'atmosfera retrò e colorati dai riflessi di un cielo sempre più grigiastro. Il suo pugno era forte e deciso, conforme al carattere che avevo potuto decifrare chiacchierando con lui. Mi meravigliai del mio atteggiamento amicale. Nelle mie ipotesi iniziali c'era, infatti, quella di volermi emarginare il più a lungo possibile da uomini e cose, cercando l'isolamento più totale e il silenzio monacale. E invece… eccomi qui dopo solo tre giorni dall'esordio della mia nuova vita a stringere la mano a un mio simile, peraltro, felice di poterlo fare. Per un istante il peso di Laila è diventato più sostenibile, anzi, potrei dire in alcuni momenti di non aver nemmeno pensato a lei… grazie a un uomo di cui non so nemmeno il nome.