giovedì 31 maggio 2012

How To Feed A Guard Dog?


anch'io leggevo fumetti
quando?
tempo fa
quando?
tempo fa, cazzo
sì, ma quando?
non sei a posto
sono a posto
sei drogato?
sono drogato
mangi caramelle?
bevo vino rosso
non il bianco?
non ancora
non lo digerisci?
non bene
cosa c'è che non va?
gli attriti in corea
cos'è la corea
una filastrocca
in esperanto?
anche
il beneplacito ce l'hai?
per cosa?
per la vita
non so, non è cosa da poco
appunto
ci sei?
ci sono
che fai
vivo
la vita?
forse
perché
non credo
sei ateo
già
di già
credo solo nelle forze di van der waals 
capisco 

eredi bonelliani

giugno 2012, ha senso debuttare con un arizona luglio 1972? mah, sembra che manchi un pò di fantasia... così, in prima battuta su saguaro, ma devo ancora leggerlo. a parte le idee futuriste (che non ci sono), ma anche le ambientazioni, i temi, perchè sempre gli USA? ci sono posti meravigliosi anche nel cuneese o in basilicata... sembra, dunque, che i fantasmi di tex continuino a serpeggiare anche se ormai nessuno sa + chi sia willer...

Diavolo di un Tolstoj

Leggi, leggi i moderni, il nuovo, e qualcosa ti piace anche, riesci ad arrivare alla fine di un paio di libri. Ma poi leggi Il Diavolo e ti rendi conto di cosa voglia dire sapere veramente narrare e ci sono poche chance di sbigottire dinanzi a un contemporaneo. La letteratura s'è impoverita, basta (ri)leggere Tolstoj. 

mercoledì 30 maggio 2012

Affari condominiali: sesto piano, appartamento B


L'appartamento B del sesto piano era l'unico privo di abitanti. Gli ultimi se n'erano andati da sei mesi. Non era però, di loro proprietà. Apparteneva, infatti, a una famiglia di Ornago che aveva possedimenti sparsi in mezza Brianza, compresi numerosi alloggi. Erano i signori Cavenago, benestanti da tempo. Gli ultimi ad aver preso dimora dell'appartamento B del sesto piano erano stati, dunque, due napoletani, di passaggio in Brianza per un lavoro a tempo determinato. Due napoletani, tanto simpatici, quanto furbi, scaltri e con un solo obiettivo: vivere a sbaffo. Ciro Borrelli aveva la faccia larga come un neandertaliano, le sopracciglia folte e i bicipiti da pesista; il suo volto si configurava in un ghigno perenne, in grado di spaventare anche sua madre. Biagio Marotta era un po' più carino, ma basso di statura e con due piedi completamente sproporzionati all'altezza, a mo' di un hobbit. Sarebbero potuti andare d'accordissimo con la banda di Antonello del quarto piano, se solo avessero avuto modo di incontrarsi e fare amicizia. In realtà le loro strade s'erano incrociate qualche volta in locali malfamati di Vimercate, ma nessuno dei due gruppi s'era reso conto di abitare nel raggio di pochi metri e che avrebbero potuto unire le loro forze per mettere a soqquadro la Brianza. Prestavano il loro servizio per una ditta di costruzioni, la Belotti Spa, che stava realizzando un pontile dalle parti di Calusco d'Adda, con l'idea di fornire un'alternativa al famoso traghetto di Leonardo Da Vinci, a Imbersago. Il sindaco della cittadina, Augusto Prosperi, per anni aveva cavalcato la proposta, giungendo infine ad averla vinta grazie all'unanime approvazione del consiglio comunale. Si alzavano alla mattina alle cinque e tornavano alla sera non prima delle 20.00. Gestivano degli orari assurdi e per tale motivo nessuna persona del circondario li conosceva; quasi nessuno aveva scambiato con essi qualche parola o confidenza se non per qualche caos relativo al quieto vivere condominiale, concetto che, ai due campani, evidentemente sfuggiva. Andavano e venivano come zingari, senza mai salutare nessuno, ridendo sotto i baffi, come iene, senza dare mai la possibilità a qualcuno di capire cosa avessero in serbo. Semmai la loro presenza era notata nel week end, quando per qualche astruso motivo non uscivano e stavano in casa a ubriacarsi fino all'alba. Era un'eventualità piuttosto remota, ma poteva capitare e per i vicini era la fine. Di fatto amavano troppo andare in giro a fare baldoria, a strafarsi e rimorchiare prostitute ovunque capitasse. Amavano vivere il fine settimana all'insegna dell'eccesso; rincorrevano l'eccesso con tutte le loro forze, con l'unico obiettivo di strafare senza freni, anche se significava creare problemi ad altre persone. Rischio e sconsideratezza erano il loro pane quotidiano. Non stupisce, pertanto, sapere che più volte avevano corso il pericolo di finire dietro le sbarre. L'ultima volta era capitata a Ciro che era stato beccato con una pallottola di hashish nei pantaloni. Era accaduto qualche mese prima che approdassero in Brianza, dalle parti di Pistoia. Era finito al commissariato di polizia della cittadina, e da lì al fresco per una notte. Ma aveva vissuto l'esperienza con gioia. Una volta che il secondino l'aveva abbandonato come un mentecatto dietro le sbarre, s'era sentito orgoglioso di aver sfidato i poteri forti e di non avere provato alcun timore. Le indagini avevano evidenziato che non c'erano i presupposti per il carcere, e l'indomani Ciro aveva, quindi, riguadagnato le polveri del cielo; con l'amico pronto a riprenderselo al di là della casa circondariale, alla stregua di un Dan Aykroyd, tutto pastasciutta e mandolinate. Allo stesso modo correvano il pericolo di finire all'ospedale, per l'ennesima bagordata. Biagio, una sera di autunno del 1984, aveva vomitato l'anima per il troppo bere, ma aveva continuato a darci dentro come un satanasso, finché, presso il nosocomio di Pistoia, non l'avevano rimesso in sesto con una potente lavanda gastrica, dalla quale era riemerso come uno straccio per pavimenti inzuppato di candeggina. Nei momenti di massima rilassatezza, successivi magari a una sera meno devastante del solito, andavano all'Adda o al Ticino a pescare. Entrambi amavano questo diletto, che avevano concretizzato in pompa magna, con l'acquisto di due canne da pesca di tutto riguardo, in pratica l'unico bene materiale significativo di cui disponevano. Condividevano l'hobby con il signor Tresoldi, ma non sapevano nemmeno che esistesse. Semmai s'erano accorti della figlia, carina e dannata quanto basta per suscitare le loro turpi voglie. Sicché si sdraiavano a prendere il sole lasciando che le esche compissero il loro mestiere. Ma difficilmente tornavano a casa col pesce da cucinare. Il più delle volte, contro qualunque logica comportamentale, sfilavano il pesce dall'uncino mortale e lo rilasciavano in libertà. Nel frattempo si ammazzavano di canne e se la giornata doveva proseguire durante la notte, pure di cocaina. I soldi non gli mancavano, anche se erano tragicamente in arretrato con l'affitto. Semplicemente non volevano pagarlo, sapendo che nel giro di qualche mese avrebbero cambiato aria. Come sempre. Si rifornivano di hashish e cocaina da uno spacciatore di Milano. Lo chiamavano il portaborse. Nessuno sapeva il perché. Era un malavitoso di quelli con la M maiuscola. Spacciava nel week end, nascondendosi fra le fronde dei platani che scorrono verso viale Brianza, mortificati dal lugubre incedere delle gallerie ferroviarie. Aveva tutto per ogni occasione. Durante la settimana frequentava il Leoncavallo, dove si divertiva a tampinare qualche bella ragazza in vena di esperienze estreme. Non si sapeva molto della sua vita. Non si sapeva nemmeno dove dormisse e vivesse. Ma c'è chi asseriva che si fosse ritagliato un angolo in un ex rifugio della Stazione centrale, dove aveva ricavato un misterioso pertugio nel quale aveva nascosto un fantomatico tesoro. Erano le voci che circolavano fra i numerosi tossicodipendenti che ruotavano intorno alla sua losca attività, e sulle quali ci si concentrava per vivere con meno angoscia la consapevolezza di essere finiti in un tunnel senza via  d'uscita.
«Il portaborse, fra qualche anno, tirerà fuori il suo malloppo e se ne andrà ai Caraibi a fare la bella vita». Così si raccontavano i vari scappati di casa, in attesa di essere riforniti dal boss dello spaccio locale. Ciro e Biagio intuivano la sua presenza da lontano, per via della sua andatura tipica, a scatti. Chi lo conosceva, infatti, non poteva sbagliarsi sul suo conto. Era come scorgere all'orizzonte la sagoma della Statua della Libertà. Recuperata la dose quotidiana, puntavano la loro Lancia metallizzata - dopo anni di incuria ridotta a un colabrodo, ma in qualche modo sempre funzionante - verso i lidi più disparati. Se avevano qualche soldo in esubero, sceglievano di far cagnara in un night, se avevano qualche soldo in meno, si accontentavano di inseguire qualche minigonna lungo le strade del sud di Milano che si perdono nell'umidità campestre della Bassa. Stando ai loro racconti, in un episodio recente, avevano creduto di avere rimorchiato due fra le più belle ragazze della zona; ma s'erano presto resi conto che, quelle che avevano fra le loro sudice mani, erano tutt'altro che donne. Erano scoppiati in una risata isterica, prima di finire tramortiti da un conato di vomito, mettendosi a bestemmiare e a imprecare come pazzi.
«Porca puttana!! Porca puttana!! Che cazzo è sta roba!! Che cazzo è!!».
Ridevano per non piangere. Ma passata una curva dalle parti di Baggio, vicino al Quartiere degli Olmi, s'erano accostati e avevano letteralmente scaraventato le due creature giù dal mezzo, non prima di aver loro sfilato i pochi spiccioli che avevano raggranellato nelle ultime ore. Erano sotto l'effetto di qualche stupefacente e non s'erano resi conto che gli avrebbero potuto fracassare l'osso del collo, andando incontro a guai più che seri. Erano dei veri balordi, fieri di esserlo. Ma fra loro, ed i loro simili, vigeva una fratellanza quasi commovente. Un giorno, per esempio, che si trovavano al bar di Jimmy, a Omate, poco distante dal condominio della frazione, un ragazzo muovendosi maldestramente per recuperare un boccale di birra, aveva fatto cadere gli occhiali di Biagio. Il ragazzo s'era scusato e Biagio, quasi, non gli aveva fatto nemmeno caso, considerando del tutto involontaria l'azione del giovane. Ma Ciro non era riuscito a mandarla giù. Che fosse volontario o meno quel gesto andava punito, perché Biagio era il suo amico fraterno e nessuno poteva avere il diritto di torcergli un capello, tantomeno fargli cadere gli occhiali. In verità era pieno di cocaina fino all'ultima cellula del capo, e anche il motivo più banale sarebbe stato il pretesto giusto per sfogarsi su qualcosa o qualcuno, infierendo senza pietà. Sicché, senza alcun preavviso, aveva preso la testa del ragazzo e l'aveva immobilizzata davanti a sé, prima di sferragli una bocciata violenta sul naso. La gente intorno era costernata e ammutolita. Il poveraccio s'era accasciato al suolo in un mare di sangue, cercando di trattenere con le mani quel poco di naso che ancora gli era rimasto. Perfino Ciro era sbigottito dalla furia dell'amico, al punto da prenderselo sottobraccio e accompagnarlo fuori a prendere un po' di aria, convincendolo a stare calmo che era tutto sotto controllo e che nessuno voleva fargli del male. Dal modus vivendi della coppia si poteva intuire, dunque, il motivo per cui l'appartamento B del sesto piano non era ancora stato venduto: era semplicemente fatiscente e tutti quelli che andavano a visitarlo se ne andavano con le mani nei capelli. Sembrava che per un anno vi avessero abitato dei maiali, non degli esseri umani. Il proprietario, riprendendone visione dopo quasi due anni dall'ultima volta che gli aveva messo piede, non aveva potuto credere ai suoi occhi. Regnava la desolazione più totale. Il mobile della sala era piegato su se stesso, con i piedi della parte destra spariti. Un'anta era divaricata e conteneva una pila di giornaletti pornografici, bottiglie di rum vuote e pacchetti di sigarette usati come portacenere pieni di mozziconi spenti. Il tavolo della cucina era scomparso, le sedie abbandonate in malomodo in ogni angolo dell'appartamento: una si trovava addirittura dentro la vasca da bagno, con un paio di chew-in-gum appiccicati. Sui muri c'erano delle scritte a biro e poster di automobilismo e donne con abiti succinti. In un angolo della cucina pullulavano gli scarafaggi. Al proprietario era venuto un colpo. L'avevano fatto sedere, perché gli mancava l'aria. Gli avevano procurato un bicchiere di acqua, per poco non s'era messo a piangere. Alcuni dei mobili maciullati dalla furia napoletana erano l'ultimo ricordo che gli rimaneva della madre scomparsa da pochi anni. Non era stato facile mandare giù il boccone amaro. Era riuscito a pronunciare una sola parola:
«Bestie».
S'era interrogato con chi gli faceva la corte, chiedendosi come potessero esistere delle persone di questo tipo, del tutto disinteressate al rispetto delle cose degli altri; gente che, dovendo soggiacere a un contratto, con delle regole ben precise, poi faceva tutt'altro, appropriandosi in modo indebito delle case altrui e non rispettando gli impegni presi: primo fra tutti quello di saldare regolarmente la rata dell'affitto. Filiberto Cavenago non aveva tutti i torti. Alla fine i due guappi se n'erano andati senza lasciare traccia e solo a questo punto s'era reso conto che i documenti in suo possesso erano completamente falsi. Travolto dal dispiacere, s'era affrancato alla moglie, arrivando a stilare un ritratto piuttosto vergognoso del duo. Dovevano essere tipi che, probabilmente, si sapevano destreggiare agilmente in simili situazioni, seguendo un copione ben rodato che non lasciava trapelare margini di errore. Prendevano in affitto una casa, lavoravano in prossimità di essa per un breve periodo, e poi sparivano nel nulla come se niente fosse, riproponendosi altrove con lo stesso iter, e facendola sempre franca. A Ottobre del 1985 Ciro e Biagio, dopo avere ricevuto l'ultimo stipendio dalla ditta del pontile e aver lasciato furtivamente il condominio omatese, nel corso di una notte buia e piovosa, avevano trovato sistemazione da un amico, a Paullo, che aveva libero un grosso locale a pianterreno, nel quale per anni aveva accumulato la merce che vendeva ai mercati. Si chiamava Marco Piccinini e dacché aveva abbandonato il commercio all'ingrosso, s'era dato al lavoro di guardiano notturno, in una piccola ditta di Peschiera Borromeo. Avevano preso contatti con lui un paio di mesi prima di lasciarsi la Brianza alle spalle, proponendogli un affare che non avrebbe mai preso piede, concernente il contrabbando di un piccolo arsenale destinato all'esercito italiano. S'erano sistemati con due sacchi a pelo sgualciti sotto una grossa finestra, che di mattina fungeva da sveglia elettronica e passavano tutto il giorno a bere e a fumare. Quando non si dedicavano ai bagordi giocavano a carte, puntando pochi spiccioli e coinvolgendo anche Marco e i suoi amici, in dispute che in un paio di occasioni erano finite a cazzotti. Poi, però, i risparmi avevano cominciato a scarseggiare e non avevano avuto altra alternativa, se non quella di rimettersi in cerca di un posto tranquillo, dove riproporsi alla maniera del “mordi e fuggi”, che fino a quel momento non li aveva mai traditi. Avevano, dunque, riflettuto sul fatto che, per la prima volta, avrebbero potuto puntare all'estero. Da anni sognavano di girare l'Europa a caccia di esperienze e femmine con un background genetico ed esistenziale diverso da quello incontrato girovagando per l'Italia e, quindi, teoricamente più eccitante. Non era necessario andare chissà dove. La Svizzera andava benissimo. Avevano individuato una specie di cascina, dove allevavano polli e altri capi di bestiame. Si trattava di ripulire le gabbie degli animali e somministrare quotidianamente il cibo necessario al loro sostentamento. Puzzavano da fare schifo, ma tutto sommato si guadagnava bene e non c'era da faticare più di tanto. La soffiata era arrivata da un parente dell'amico che li aveva ospitati a Paullo.
«Lì c'è, letteralmente, un bel pollo da spennare», gli avevano detto.
«Cercano stagionalmente dei manovali per chiudere dei lavori improvvisi e poi li lasciano andare. Pagano in nero...».
Avevano trovato alloggio presso un appartamento squallido alla periferia di Annemasse, nel dipartimento dell'Alta Savoia, lungo il corso del fiume Arve. Era un casermone grigio, edificato negli anni Sessanta, per certi versi riconducibile al palazzone omatese. Il covo, però, era più piccolo e fatiscente, con i muri corrosi dall'umidità. Anche lì avevano, dunque, messo in atto la solita tiritera. E anche in questo ambito datore di lavoro e locatore non avevano minimamente percepito la malafede dei nuovi venuti, giudicandoli addirittura simpatici e disponibili. Non si davano più, però, agli appuntamenti di strada, avendo preso a frequentare assiduamente un night della zona, dove il mondo della prostituzione pareva più affascinante e idoneo al loro fabbisogno sessuale. La prima volta vi erano andati una sera che tornavano da un ristorante con alcuni altri lavoratori della zona, single, con alle spalle vari reati legati soprattutto al mondo della ricettazione. Aveva insistito un teppistello locale, Augustin Masson, abituato a far visita al Poivre rose dopo la giornata lavorativa. Appena superato l'ingresso, una bionda di vent'anni s'era letteralmente aggrappata al collo di Ciro per dirgli che aveva voglia di bere qualcosa. Gliel'aveva detto nella sua lingua, di origine slava, che l'uomo non comprendeva, ma erano bastati pochi e semplici gesti a fare quadrare immediatamente le cose. Ciro non se l'era fatto ripetere due volte, ben conscio del fatto che dietro a quella normale richiesta si celasse un intero mondo da esplorare. Al bancone del locale, circondato perlopiù da sessantenni bavosi con la sigaretta che pendeva dalle labbra, avevano ordinato un superalcolico a base di rum e s'erano accomodati ai bordi di una specie di ring, dove sfilavano ragazze completamente nude, che si contorcevano su se stesse mimando amplessi apocalittici. Una giovane con i capelli colorati d'azzurro e un piccolo seno appuntito, s'era sdraiata sul pavimento, lasciandosi accarezzare in ogni sua parte intima da una collega con un piglio assatanato. Ciro non sapeva più dove guardare, trovandosi a mezzo millimetro dalle tette più belle del creato e non tanto distante da due maestre di kamasutra. Finito di bere s'era trovato completamente in braccio la ragazza che l'aveva accolto con tanto entusiasmo al suo arrivo, distogliendolo definitivamente dallo spettacolo pornografico. La ragazza s'era data da fare accarezzandogli con grande malizia i pettorali e molleggiando i seni sul suo volto che in breve s'era fatto paonazzo. Ciro godeva come un matto, accorgendosi dopo pochi minuti che nel mezzo del ring stava accadendo qualcosa di assai curioso. L'aveva capito dallo scalpore sollevato dai presenti che s'erano messi ad applaudire con forza e da una serie di bestemmie in francese che avevano conquistato con prepotenza l'aere del locale a luci rosse. Aveva quindi spostato la giovane che gli faceva compagnia sulla sola coscia destra, aprendosi un varco visivo in tutto quel ben di dio che troneggiava davanti ai suoi occhi. C'era la giovane di prima con i seni appuntiti che fustigava come una matta un ragazzotto che conosceva molto bene: era Biagio. Non aveva capito come fossero arrivati a quel punto e cosa ci facesse lì il suo amico, fatto sta che la scena lo aveva intrigato all'inverosimile, colmandolo di gioia. Ciro sospettava che il campare dovesse avere accettato senza remore, visto che era lì che mimava il verso di un cane bastonato, sfilandosi piano piano tutto ciò che lo copriva, come se fosse la cosa più divertente e naturale del mondo.
«Sei bello!! Sei bellissimo!!», gli aveva gridato Ciro, in estasi.
Biagio aveva mandato un bacio al socio, alzando il braccio e mimando una smorfia di dolore, soccombendo all'ennesima sferzata della donna di costume. Sicché la serata era proseguita con questo andazzo, con i due che s'erano, in seguito, imboscati in un privè con le rispettive escort, che avevano mostrato loro i gioielli di cui erano padrone e su cui sapevano di poter contare per spillare quattrini ai poveri cristi come i due italiani. Si erano ridati appuntamento per un'altra nottata off-limits, quando le luci dell'alba erano già spuntate; ed erano andati avanti a frequentarsi per un paio di mesi. Ma il giorno dell'esplosione del reattore di Chernobyl, i due uomini erano di nuovo senza lavoro e senza fissa dimora, con le due ragazze ormai relegate al mondo dei ricordi. Con l'ultimo datore di lavoro le cose erano finite prima del previsto, per via di una leggerezza da parte di Biagio, che – in un momento di assenza del responsabile – s'era avventato sulla cassa. Sapeva che alla fine di ogni giorno si accumulava un bel gruzzoletto e aveva inscenato una specie di rapina. S'era intascato l'intera somma di denaro, gridando ai quattro venti che c'erano stati i ladri. Ma non s'era accorto che la moglie del proprietario, da un pertugio dell'ufficio di fronte al locale principale dell'azienda, aveva visto tutto. In ogni caso, all'arrivo dei carabinieri, Ciro e Biagio avevano già fatto perdere le loro tracce, evitando di finire ancora una volta dietro le sbarre. Da quel giorno avevano iniziato a peregrinare senza sosta, di paese in paese, nei dintorni del ginevrino, in attesa di poter, di nuovo, darla a bere a qualcuno. Tutto sommato gli piaceva l'idea di fermarsi ancora un po' all'estero, tanto che avevano cominciato a masticare perfino un po' di francese. Faceva ridere la loro parlata, un incrocio fra l'idioma transalpino e il napoletano verace, ma in qualche modo riuscivano a farsi capire con sempre maggiore facilità. Con la primavera del 1986, però, stava facendosi impellente la necessità di trovare un nuovo disgraziato da spolpare, per poter racimolare qualche quattrino e tornare alla vita di sempre. Per un po' di notti avevano dormito in macchina, calando i rispettivi sedili e stendendo due materassi recuperati in una specie di centro sociale a Bellerive, un borgo affacciato sul lago di Ginevra. Anche se le cose cominciavano a mettersi maluccio, amavano andare avanti con questa vita randagia e continuavano a sentirsi liberi e padroni dell'universo; una sensazione che veniva amplificata quando riuscivano a consumare qualche sostanza stupefacente, recuperata per pochi franchi da qualche scappato di casa come loro. Iniziavano a ridere come idioti e non c'era nulla che potesse creargli scompiglio o dolore. Era il loro paradiso artificiale al quale non avrebbero mai e poi mai rinunciato. Avevano assistito alla deflagrazione di Chernobyl in un bar di Ginevra. Era un localino misero e malandato, nella zona periferica della città. Era preso d'assalto soprattutto da brutti ceffi che amavano tirare tardi mangiando schifezze e organizzandosi in risse e giocate d'azzardo. C'erano anche molti extracomunitari che avevano trovato lavoro nelle tante fabbriche che circondavano la metropoli. Ciro e Biagio avevano ordinato un hamburger senza tante pretese, con una pigna di cipolle e maionese. E una birra a testa.
«Non male questa birra», aveva tartagliato Ciro, godendo di un sorso più convinto degli altri.
«Ha un buon sapore... deve essere una birra belga, quelle che vengono dal Belgio hanno un sapore più marcato e dolciastro delle altre...».
«Ma tu che cazzo nei sai?».
«Sono stato in Belgio con mio cugino quando avevo vent'anni e le birre di là, me le ricordo molto bene. Fidati, questa è una birra belga».
«Excusez-moi, est une bière belge?», aveva chiesto al volo Ciro, al cameriere che gli passava di fianco con un vassoio pieno di bicchieri sporchi.
«No, No. Cela vient d'une brasserie à Clermont-Ferrand», aveva specificato il cameriere.
Ciro aveva guardato l'amico con aria di rimprovero e compassione, mandandolo virtualmente a quel paese; ma Biagio non era affatto convinto di quel che aveva appena detto l'inserviente ed aveva ripreso con la sua tiritera:
«Secondo me ha sparato a caso. Questa birra viene dal Belgio. Cazzo, te lo giuro...».
Ciro, però, non aveva avuto voglia di assecondarlo una seconda volta e aveva mollato la disputa andando avanti ad addentare il suo panino, con un pezzo di cipolla che gli era finito sui pantaloni facendolo imprecare. Era già una serata poco felice, non valeva la pena peggiorare la situazione. Anche l'aria familiare del locale non era servita più di tanto a ridargli morale. Le cose, di fatto, erano precipitate in men che non si dica, ribaltando le carte in tavola nel giro di una decina di giorni, e neanche la canna più tosta or ora avrebbe potuto rendere meno faticoso il momento in cui il mondo veniva a conoscenza del disastro di Chernobyl. I loro volti erano emblematici. Entrambi tirati ed emaciati, per le troppi notte passate all'addiaccio e il cibo scadente col quale s'erano accompagnati da una bagordata all'altra, alla fine s'erano persuasi che qualcosa stava cambiando, che il vento aveva cambiato rotta, e che, quindi, questa volta non sarebbe stato facile trovare una nuova sistemazione ideale, come era sempre accaduto senza problemi negli ultimi tempi. La cercavano da giorni, ma senza successo. C'erano andati vicino in un panettiere che cercava un commesso; ma loro erano in due e nessuno dei due era piaciuto al proprietario. In effetti, s'erano presentati con un'aria da prendi schiaffi che nemmeno offrendosi gratis avrebbero avuto chance. Avevano pertanto in più di un'occasione rimuginato sul fatto che avrebbero potuto giocare meglio le opportunità che gli si erano presentate fino a quel momento. Si sarebbero potuti tenere stretti i lavori incontrati e ora non avrebbero patito la sempre più evidente assenza di quel minimo che possa rendere degno di chiamarsi tale un uomo. Fra di essi cominciava a serpeggiare dell'astio, se non altro a livello subliminale. Non erano ancora arrivati a rinfacciarsi l'inettitudine reciproca, ma era chiaro che non sarebbe mancato molto al triste epilogo. In parte davano colpa alla sfortuna. Al fatto che all'improvviso gli astri si fossero messi contro di loro. Erano molto superstiziosi, come ogni buon napoletano che si rispetti. Tutti e due conservavano nel portafogli un'immagine di San Gennaro e un gingillo riproducente un peperoncino, caro all'immaginario di chi proviene dalle pendici vesuviane. Erano anche arrivati a pensare che il vecchio datore di lavoro potesse avergli lanciato il malocchio. O forse era stata la moglie, con quell'aria da strega e gli occhi da gatta selvatica.
«Brutta puttana», la chiamava Ciro.
Tuttavia c'era stato ben poco da imprecare. Questa volta se l'erano voluta. La colpa era solo loro. Specialmente di Biagio e della sua bravata. Che motivo c'era di mettersi a rubare dal piatto in cui stavano mangiando? Bisognava proprio essere fessi. Ciro non vedeva l'ora di poterglielo rinfacciare. Aspettava solo il momento opportuno. Al primo attacco, avrebbe detto la sua, lasciandolo senza parole. In effetti, il 26 aprile del 1986 avrebbero ancora avuto una casa e un lavoro se Biagio non si fosse messo in testa di ottenere più di quel che un onesto stipendio era in grado di assicurargli. C'era già stato qualche alterco fra i due compari, ma niente di serio. Alla fine riuscivano sempre a buttarla sul ridere. La peggior cosa s'era verificata nel momento in cui Biagio aveva puntato un coltello al collo di Ciro, recitando la parte di un efferato assassino. Ciro era sbiancato perché sembrava che l'amico stesse facendo sul serio. Nei suoi occhi aveva letto il terrore. In realtà erano le pupille dilatate da un'assunzione smodata di droghe e alcol. Alla luce di tutte queste considerazioni piuttosto malinconiche e rassegnate, nelle loro menti aveva cominciato a farsi largo l'ipotesi che presto non avrebbero potuto far altro che arrendersi all'evidenza e tornare da dove erano venuti. Non volevano tornare in Italia, perché sapeva di resa, ma si rendevano conto che se le cose non fossero girate per il verso giusto nei prossimi giorni, non avrebbero avuto molte altre alternative. Sarebbero dovuti rientrare in Italia con la coda fra le gambe e la testa bassa. La cosa peggiore sarebbe stato ritrovarsi in una situazione così difficile da dover bussare alle porte dei familiari. Proprio loro che s'erano presi gioco di tutti, pavoneggiando la loro superiorità e intraprendenza... non sarebbe stato facile. E non solo per l'orgoglio. C'erano parenti che li avrebbero lasciati volentieri per strada, e ciò precludeva la necessità di dover supplicare i consanguinei per ricevere una mano, prima di poter di nuovo decollare per altre avventure professionali. C'era da strisciare come vermi, e la cosa non li allietava per niente. Nel bar insieme ad essi c'erano vari turisti che parlavano in tedesco. Era un capofamiglia con i suoi due pargoli, un improbabile zio over-size e una moglie biondissima, con un musino da cerbiatto che non aveva lasciato indifferenti Ciro e Biagio. Avevano l'aria preoccupata e seguivano la trasmissione con grande coinvolgimento. A un certo punto lo zio era scoppiato in una risata fragorosa, del tutto fuori luogo. Gli altri l'avevano guardato con viva disapprovazione. Ciro e Biagio avevano dedotto che avesse fiondato qualche stupida battuta, che evidentemente non era stata condivisa, trovandolo il più simpatico di tutti. Il primo commento di Ciro alle immagini spettrali del reattore di Chernobyl era stata una bestemmia. Biagio non aveva battuto ciglio.
«Guarda che è successo qualche casino. Speriamo che non sia qui vicino», aveva detto Ciro, più per una sorta di pragmatismo esistenziale che non per una reale ansia.
Biagio continuava nella sua attività masticatoria, apprezzando con particolare godimento una salsa che non avrebbe saputo riconoscere. Al limite, aveva assaggiato qualcosa del genere una volta che, per caso, s'era trovato a prendere parte a una cena di vip a Milano, sul finire degli anni Settanta, dopo aver fatto un favore a un tipo dell'entourage di Pillitteri. Qualunque cosa stesse succedendo non gliene importava nulla. L'unica cosa che gli importava in quel momento era mangiare e bere, continuare a mangiare e bere in santa pace.
Se anche fosse scoppiata una bomba atomica, non si sarebbe dato grandi pene, in fondo viveva la vita più per dovere che altro... e non aveva grandi amori di cui preoccuparsi.
«Comunque, secondo me, ci conviene tornare in Italia».
Ciro l'aveva buttata lì, consapevole di non esserci arrivato per caso, dopo averci riflettuto per almeno una settimana. Ma aveva trovato impreparato l'amico, che all'improvviso era rinsavito dimostrando tutto il suo scetticismo.
«Che cazzo dici?».
Ciro aveva temporeggiato per qualche secondo, fissando come un beota il tubo catodico, maledetto dalla notizia proveniente dall'Ucraina.
«Le cose si stanno mettendo male. Non possiamo più fare finta di niente».
Biagio s'era addolcito.
«Mai tu stai a guardare le puttanate della televisione? Non hai ancora capito che sparano solo cazzate?».
Ciro era zittito, lasciando il campo libero al socio che aveva colto il disappunto dell'amico.
«Magari fra un anno o due. Qui si sta da dio. Che cazzo torniamo a fare in Italia? Siamo scappati per levarci dai coglioni... e adesso...».
«E col lavoro come la mettiamo?».
Era partita un'altra bestemmia, mentre il proprietario del locale alzava il volume del televisore per capire nei dettagli cosa stesse capitando. Ciro e Biagio lo avevano guardato con aria accondiscendente, prima di ordinare un'altra birra, l'ultima della triste serata. Una coppia di quarantenni, nel frattempo, era entrata e s'era accollata con gli occhi sgranati all'unico tubo catodico presente nel misero locale, affiancando la famiglia di tedeschi, sempre più calata nella parte di futuri sopravvissuti. Gli italiani non avevano proferito parola, sorpresi da un malessere che non conoscevano, ma che lasciava intendere tante cose: forse era davvero arrivato il momento di tirare i remi in barca e tornare da dove erano venuti.

domenica 27 maggio 2012

i panni stesi

correre a ritirare i panni stesi ad asciugare che piove che sta cominciando a piovere subito dopo la presentazione del libro dell'assenza in una piccola ma carinissima libreria di mantova chiamata il pensatoio dove vendono anche il latte e un signore che mi fa le domande e un amico che fa le foto e di ritorno dal camposanto dove il fratello di gaetano con la divisa da soldato lungo il fiume che da sempre corre e scorre anche nel settecento anche la crescita delle piante di rumex e le innumerevoli specie di salice piangente e i lucci e il sonno della domenica pomeriggio

Aeroporto Malpensa, Palazzo Ducale...

115 - Aeroporto Malpensa - Varese
116 - Palazzo Ducale - Mantova

giovedì 24 maggio 2012

viva i rom


nasco rom
sono rom
vivo rom
dormo rom
penso rom
cullo rom
giro rom
mangio rom
penso rom
chi mi dice
cosa dice
mangio rom
bevo rom
viva i rom
piano rom
mezzo piano
mezzo busto
canto rom
piscio rom
stanco rom
neve rom
vino rom
primo rom
secondo rom
quarto rom
25.687 rom
ebreo rom
cecoslovacco
rom
tiepido rom
carino rom
veloce rom
stanco rom
portavoce rom
drogato rom
hashish
vino rom
perspicace rom
jazz rom
manouche
manouche

lunedì 21 maggio 2012

Favole generazionali

Raramente si incontrano libri che ti fanno volare dall'inizio alla fine. Fine è uno di questi. Qualcuno l'ha descritto così: una favola generazionale di puro terrore metafisico.

domenica 20 maggio 2012

e pubblicità


ho rubato
questa foto
a eliot lee hazel
non s'è accorto
ritrae madre e figlia e sorella
e cane
e pubblicità

Affari condominiali: sesto piano, appartamento A



38 anni, amico di Domenico Ciccarelli, col quale andava fuori a bere, spesso. Con lui viveva la mamma di quasi settant'anni e un gatto di nome Rododendro, per tutti Rodo. Il fratello maggiore era migrato in Germania da tempo, subito dopo la maturità, mentre il padre se n'era andato per un'embolia quando i due fratelli erano ancora piccoli. Non era una famiglia triste, ma nemmeno troppo felice. Sembrava una famiglia dell'Ottocento, di quelle che vivevano giorno per giorno senza farsi troppe domande, accettando quasi tutte le vicissitudini che gli venivano imposte dal fato, convinti della necessità di dover soggiacere a un disegno divino che non sempre era comprensibile. Questa era la cornice esistenziale riguardante Sergio Perego, inquilino dell'appartamento A del sesto piano. Non gli dispiaceva vivere con la madre, anche se aveva ormai un'età tale da doversi arrangiare da solo. Di fatto, si arrangiava da solo, visto che guadagnava bene e non doveva chiedere niente in casa… Lavorava come operaio presso una ditta della zona industriale agratese che fabbricava porte e serramenti. Lavorava sodo, senza mai lamentarsi. Aveva tutte le mani ruvide e tagliuzzate. Aveva cominciato a lavorare presto, a sedici anni, dopo due anni di nullafacenza, indeciso se continuare con gli studi o meno. E già da qualche mese cominciava a fare il conto alla rovescia per andare in pensione. Lavorava da ventisei anni e gliene mancavano praticamente una ventina. Aveva superato il giro di boa e nonostante non fosse più un ragazzino, si autocompiaceva del traguardo raggiunto. Non aveva nessuna intenzione di lasciare l'appartamento materno perché, in sostanza, gli conveniva. Trovava sempre tutto ciò di cui aveva bisogno, non doveva rifarsi il letto, né prepararsi da mangiare, viveva come un pascià, chi gliel'avrebbe fatto fare di cambiare aria? Le scuse per il popolino che lo assillava erano numerose. La prima riguardava la necessità di stare vicino alla madre anziana, che avrebbe sicuramente avuto presto bisogno di aiuto; anche se, al momento, godeva di ottima salute. La seconda concerneva il fatto che si sarebbe accasato altrove solo se avesse trovato l'amore della vita. Altrimenti non concepiva la necessità di dover cercare un'altra soluzione abitativa. Non era nel suo DNA. Tutti i suoi avi, brianzoli veraci, s'erano comportati nello stesso modo. O si erano sposati, o erano rimasti ancorati alle sottane materne. Uno era lo zio Gino, il fratello della madre. In realtà più volte era stato vicino all'idea di andarsene, ma poi tutto era naufragato senza ritegno. In ogni suo tentativo di volgere lo sguardo oltre le mura di casa, c'era sempre la stessa persona, forse l'unica ragazza della sua vita, potenzialmente disposta a legarsi a lui. Uscivano spesso insieme e in certi momenti il loro rapporto pareva idilliaco; poi, però, all'improvviso si rompeva qualcosa e non si vedevano più per settimane, dovendo rincorrersi qualche mese più tardi. Andava avanti così da circa quindici anni. Lei era Elisabetta Brunelleschi, veniva dalla Toscana e non si era mai completamente adattata alla realtà locale. Tuttavia aveva incontrato proprio in Sergio, un alleato ideale col quale trascorrere i pomeriggi festivi e alcune serate. I primi tempi le cose funzionavano. Ed Elisabetta non avrebbe escluso la possibilità di potersi fidanzare ufficialmente. Più tardi, però, passati i trent'anni, qualcosa s'era irrimediabilmente perso. Forse c'era di mezzo anche l'aspetto sessuale. Non erano mai stati a letto insieme, ma si erano più volte baciati. Sergio, però, baciava malissimo, e ogni volta che si mettevano all'opera, versava nella bocca della partner quintali di saliva, convinto che si dovesse fare così per risolvere al meglio l'atto affettuoso. Così gli aveva raccontato un amico alle medie, e con questa assurdità s'era portato alla maturità. Elisabetta non era così sicura delle sue qualità d'amatore, in ogni caso era andata avanti a frequentarlo, in fondo anche lei non era una molto sveglia sotto quell'aspetto. Andavano al cinema, fuori a cena, o a vedere qualche spettacolo teatrale. I discorsi erano quasi sempre scontati e banali, ma c'era della sana genuinità nel loro vedersi, che poche coppie dell'epoca, molto più spregiudicate, condividevano. Poi le cose s'erano raffreddate del tutto e lei era stata categorica con Sergio.
«Siamo amici da tanto tempo, e così vorrei che rimanessero fra noi le cose», gli aveva detto una sera in un locale di Vimercate.
Non era un caso. Da un po' di giorni, infatti, aveva cominciato a frequentare Tony Martucci, un tipo strano che abitava a Verano e che bazzicava spesso nel vimercatese, dove usciva con amici che conosceva da una vita. Si ritrovavano in un bar del centro, poco distante dal budello storico della cittadina, nel quale, una sera, s'era recata anche Elisabetta con la sorella. Desideravano bere qualcosa in compagnia, dopo parecchio tempo che non si vedevano, e alla fine erano state tampinate da Tony e il suo amico Virgilio Tabucchi. Tony s'era avventato sulla più piccola delle sorelle, con un piglio lontano mille miglia da quello sornione di Sergio. Non c'era paragone. Nel giro di mezz'ora erano già in qualche modo affiatati e pronti per approfondire la conoscenza. Di lì a qualche sera erano, dunque, usciti da soli, baciandosi per la prima volta. Elisabetta aveva toccato il cielo con le dita. Ora sì che poteva dire di avere baciato un ragazzo come Dio comanda. Ora sì che poteva dire con certezza che l'unico altro amore della vita non aveva nessuna dimestichezza con certe effusioni. Sergio, che aveva cominciato a credere in un futuro definitivo con lei, sapendo della decisione presa dalla ragazza, c'era rimasto malissimo. Anche perché non ne comprendeva il motivo. La ragazza non gli aveva parlato di Tony. Aveva perfino confidato alla madre che entro breve si sarebbe fatto la sua famiglia, e la madre aveva cominciato a spargere la notizia, esaltata, benché non avesse la minima idea di chi fosse la futura nuora. All'improvviso Sergio era sbiancato, abbandonato a se stesso, precipitato in una voragine che non conosceva. S'era ritrovato all'improvviso impacciato e incapace di assumere un comportamento idoneo alla situazione. Per certi versi s'era reso assai ridicolo.
«Ma dai, cosa stai dicendo? Vieni qui che ci sposiamo e...».
Erano fuori a mangiare una pizza in un ristorante di Oreno. Elisabetta non l'aveva presa bene, ormai i suoi occhi puntavano altrove.
«Cosa stai dicendo Sergio? Forse è il caso di non vederci del tutto se intendi perseguire in questo modo...».
«Perché non dovremmo vederci se ci siamo sempre visti?».
«Perché adesso le cose stanno cambiando».
«Ma cosa stai dicendo?».
La conversazione era degenerata ed Elisabetta non era riuscita a finire la pizza per via dell'agitazione. Arrivati a questo punto, pur non sapendo dove sarebbe andata con la nuova conquista, aveva deciso che forse era proprio il caso di darci un taglio definitivo. Erano rincasati con lo sguardo lungo e triste.
«Allora quando ci vediamo?», le aveva chiesto Sergio sull'uscio di casa.
«Sergio, forse non ci siamo capiti...».
Erano state le ultime parole di Elisabetta. Lo aveva lasciato come un pesce lesso a bordo della sua auto. Evidentemente non aveva capito nulla di ciò che gli aveva confidato. Si comportava come un bambino immaturo. Ma non si era posta il problema che ciò potesse essere dipeso dal fatto che non era stata sincera. Se gli avesse confidato come stavano realmente le cose, forse, avrebbe reagito in modo meno rocambolesco. Sicché da quel giorno, più o meno un mese prima dell'esplosione di Chernobyl, non si sentirono più. Sergio non era più lui. Continuava, fortunatamente, ad andare al lavoro, ma faticava a reggere il pensiero che Elisabetta non sarebbe più stata sua. Non riusciva a concepirlo. Non riusciva soprattutto a concepire il fatto che non ci fosse un motivo alla base di questa sua decisione. Cosa poteva averle fatto cambiare idea così all'improvviso? Qualcosa non quadrava. Non era da lui pedinare le persone, non lo aveva mai fatto in vita sua, tuttavia in questo frangente, dopo l'ennesima notte insonne alla ricerca di una spiegazione sull'accaduto, aveva preso l'assurda decisione: appostarsi sotto la casa di Elisabetta per capire i suoi movimenti e le sue intenzioni. Per capire se la domanda che lentamente, ma con sempre maggiore intensità s'era insinuata nella sua mente fosse vera: c'era un altro uomo nella vita della ex? Lo avrebbe scoperto lui stesso. Era la sera prima dell'esplosione del reattore di Chernobyl, venerdì 25 aprile 1986, una tiepida sera di fine aprile. Con la sua macchinetta aveva raggiunto la via di Cavenago, dove Elisabetta viveva con la madre. Si era appostato a una decina di metri dall'ingresso della sua abitazione, una distanza sufficiente a poter scrutare chi entrava e usciva dalla palazzina senza essere notati; c'era peraltro un grosso albero a mascherare la visuale, permettendo al detective di osservare senza essere osservato. Erano le 20.00. Ma non aveva voluto lasciare nulla al caso. Era venerdì sera e immaginava che se qualcuno fosse venuto a prenderla lo avrebbe fatto fra le 20.00 e le 21.00, l'orario ideale per uscire per una cena, per il cinema o per bersi una birra. Alle 20.15 era ancora tutto calmo e tranquillo. Erano passate solo un paio di persone: un signore sulla sessantina con un cane al seguito e una ragazzetta trafelata con diverse borse fra le mani, fra cui un borsone contenente presumibilmente vestiari per qualche attività sportiva. Sergio stava passando il tempo leggendo il giornale, un numero dell'Unità che gli aveva regalato un collega appena finito il lavoro. In prima pagina c'era un editoriale di Natalia Ginzburg dedicato al 25 aprile. Lo aveva letto con interesse, benché non avesse alcuna attrazione per il mondo letterario evocato dalla scrittrice italiana. Non sapeva nemmeno che avesse scritto Lessico Famigliare, libro che aveva fatto la storia del Novecento. In fondo gli piacere l'idea di tenersi aggiornato e se capitava di far sapere che era successa questa o quell'altra cosa. S'era soffermato sul seguente passaggio: “No alla guerra significa dire no a Gheddafi e no a Reagan. No al terrorismo che uccide gli innocenti e i bambini negli aeroporti, e no agli aerei che gettano bombe e uccidono innocenti e bambini nei loro letti. Oggi dire no alla guerra significa rifiutarsi di alzare un'arma contro un proprio simile…”. Non era d'accordissimo con queste parole. Lui da sempre votava DC, non gli stavano simpatici i comunisti, e per di più nutriva grande ammirazione per Ronald Reagan che, a quanto pare, la Ginzburg, non apprezzava. E invece Sergio condivideva quasi tutte le sue azioni politiche. Di sicuro tutte quelle relative agli esteri. Condivideva il fatto che Reagan promuovesse la rappresaglia militare in Libia, e che ora avrebbe puntato sulla Siria e l'Iran. Considerava l'Estremo oriente un serbatoio di pazzi dinamitardi, con una civiltà mostruosamente più arretrata della nostra. Con un occhio leggeva e con l'altro teneva sotto controllo la strada, cercando di verificare l'avvicinamento di qualche tipo sospetto ai citofoni di casa Brunelleschi. E ci aveva visto giusto. D'un tratto era sopraggiunta una fiammeggiante auto di grossa cilindrata, sconosciuta. Pareva una specie di fuoriserie, con i finestrini abbassati e dei fanali che gli erano sembrati quelli della Lamborghini del cugino Alfonso Perego. Ma non gli interessava più di tanto approfondire le caratteristiche del mezzo. Voleva inquadrare al meglio il nuovo venuto, perché con ogni probabilità era colui che gli stava soffiando la donna. Era stato attraversato da un pensiero: eliminarlo.  Ma come? No, non era da lui… Tony indossava un paio di jeans e una camicia azzurra con le maniche rimboccate, che svolazzava completamente aperta su una banalissima t-shirt bianca. Non poteva, però, non ammettere la sua avvenenza. Il ragazzo si presentava bene, aveva osato pensare con rammarico, ben meglio di lui. Erano soprattutto i capelli ad avvantaggiarlo, con un ciuffo biondo da star cinematografica. Lui non poteva competere. Da tempo aveva cominciato a perderli. Si era avvicinato con un balzo al citofono dell'amata, e aveva pigiato con sicurezza su un pulsante che dava l'impressione di conoscere già bene. Poi s'era allontanato dal cancello d'ingresso accendendosi una sigaretta e guardandosi in giro con aria soddisfatta. Fumava con grande soddisfazione emanando ampie boccate di sigaretta che si scioglievano nel cielo bituminoso della sera. A Sergio era andato il sangue alla testa. Era diventato tutto rosso, e faceva fatica a respirare. Era divorato dalla rabbia e dall'incapacità di fare qualcosa di concreto come scendere e tiragli un cazzotto sul muso. Senza rendersi conto aveva accartocciato il giornale, gettandolo ai piedi del sedile. Teneva la testa bassa per non correre rischi, con gli occhi tesi all'insù per non perdersi nulla, ma la posizione gli stava provocando un principio di mal di testa. Ma doveva, voleva, resistere. Se era quello il tipo di Elisabetta c'era da stare freschi. Con uno così sarebbe stata davvero dura. Per un attimo aveva incrociato le dita, invocando il nonno in paradiso che potesse cambiare le carte in tavola, facendo sì che quel ragazzo non fosse altro che il nipote di una nonnina della stessa scala di Elisabetta. Speranza vana, visto che Sergio sapeva benissimo che lungo la scala di Elisabetta non abitava alcuna nonnina, né altre ragazze che potessero spiegare l'arrivo baldanzoso di un aitante trentenne. Sicché il nonno di Sergio dall'alto dei cieli non aveva potuto fare granché, e dopo cinque minuti di attesa Elisabetta era comparsa di fronte al giovane amante con una minigonna vertiginosa, il rossetto sulle labbra e un decolletè che Sergio non le aveva mai visto nemmeno col binocolo. Era sbigottito, divorato dalla tristezza e dall'ansia. Perché con lui non s'era mai abbigliata così? E adesso, conciata in quel modo, cosa avrebbe combinato con quel bellimbusto? Mica ci sarebbe finita a letto... con lui non era mai andata a letto, non poteva farlo prima con qualcun altro... Era divorato dai dubbi. Lui le aveva aperto garbatamente la porta facendola accomodare come se stesse servendo una principessa, poi aveva lanciato il mozzicone ancora acceso in direzione di un tombino, prima di infilarsi lui stesso nell'abitacolo, ingranare la prima e partire verso chissà quali lidi. Sergio per un quarto d'ora era rimasto come un automa a osservare le macchine correre avanti e indietro di fronte alla casa di Elisabetta. Non voleva credere ai suoi occhi. Non era vero... e invece era verissimo. Era l'unica donna della sua vita... e adesso non era più niente. S'era messo a fare il detective e incredibilmente aveva azzeccato la peggiore delle sorti. Non voleva crederci. Cercar di essere ottimisti era un'utopia. Alla fine s'era rimesso in moto. Aveva vagato per mezza Brianza con la testa calda e pesante e le lacrime che sembravano sgorgare da un momento all'altro, ma non sgorgavano mai. Era la collera a trattenerle, una rabbia che a tal punto avrebbe volentieri sfogato sulla faccia della sua ex, che lo aveva abbandonato così, dopo anni di sentimento e passione, come un verme, come un animale qualsiasi. Era arrivato fino a Renate, un paesino dopo Monticello Brianza. Era sceso dalla macchina e s'era messo a girare su se stesso come una trottola cercando un valido motivo per rincasare. Ma un motivo non arrivava. Aveva così pensato che potesse sedare la sua malinconia in un solo modo: bere. S'era accorto di avere un assoluto bisogno di bere. Alcol. In passato era già stato ricoverato per un'ulcera fulminante dovuta al troppo bere, ma non era certo, adesso, il caso di soffermarsi su questo tipo di problema. Essere di nuovo ricoverato per un'ulcera, per certi versi, gli pareva addirittura una benedizione. Era, dunque, tornato sui suoi passi, verso Vimercate, con gli occhi luccicanti e un magone mai provato. S'era fermato in un baretto lungo lo stradone per Casatenovo e aveva ordinato senza tentennamenti un Negroni. L'aveva scolato in cinque minuti e ne aveva ordinato subito un altro. La testa aveva cominciato a vacillargli con il terzo, reggeva bene, ma fino a un certo punto. Lo stomaco dava già degli strani segnali dopo mezz'ora che era arrivato al bar. Era forse il caso di andare in bagno. Aveva liberato la vescica appoggiando come un disperato la mano sopra la tazza del water, per reggere il peso di un corpo che non gli apparteneva più. Poi s'era guardato allo specchio, notandosi con due occhiaie profonde e un senso di sbandamento incipiente. Da tempo non era conciato così. Ma era quello che voleva. Ora che i fumi dell'alcol cominciavano ad avere il sopravvento, aveva avuto l'impressione di sentirsi, se non altro, più leggero. Tornato al suo posto al bancone, aveva osservato malignamente una coppia che si scambiava calde effusioni, incauta di fronte ai tanti presenti. Sembrava una coppia felice. Ciò che non sarebbe stata la sua, ora naufragata per colpa di un possessore di Lamborghini con il ciuffo spavaldo. Alla fine di questa laconica digressione metafisica, s'era scolato in un sol colpo il mezzo Negroni che ancora gli rimaneva. E con questo erano tre. Una bella media, in nemmeno un'ora. Aveva avuto uno strano capogiro mentre andava a pagare alla cassa. La titolare del bar l'aveva osservato con aria accondiscendente. Capitavano spesso tipi del genere, per sua fortuna, ma quello che aveva davanti pareva davvero conciato male. Sergio s'era rimesso in moto osservando intorno a sé un paesaggio che gli pareva estraneo. Le luci della sera si fondevano fra loro, creando orizzonti cubisti, inframezzati da lampi di luce che correvano a folle velocità. Erano le macchine che gli passavano di fianco e gli suonavano sollecitandolo ad andare dritto e a schiacciare un po' sull'acceleratore, visto che non passava i trenta chilometri  all'ora in una strada dove in media si raggiungono gli ottanta chilometri all'ora. Non si sa come, però, era riuscito a tornare da dove era venuto. A Vimercate s'era dunque fermato in un altro bar. Sentiva di non essersi ancora espresso al meglio. Aveva ancora sete. Sete di alcol. S'era così nuovamente rifocillato in zona Piazza Marconi, nello squallido locale che dava sulla file di pensiline del pullman, dove due millenni prima dei romani avevano scelto di ubicare una zona dedicata al culto degli dei. Era il caso di darci dentro con ulteriore foga, se voleva davvero spegnere i sussulti dell'anima. Erano così arrivati uno in fila all'altro altri due Negroni. In totale facevano cinque. Nemmeno un cammello avrebbe retto un simile apporto di sostanze alcoliche. A questo punto chiunque avrebbe rischiato il coma etilico, ma non lui. Con un sangue chissà come avvezzo da anni a certe esagerazioni. S'era rimesso in macchina mezz'ora dopo, con lo stomaco gonfio come una cisterna. S'era fermato a fare pipì in mezzo alla strada, dalle parti della cascina San Paolo. Non finiva più. Gli sembrava che non pisciasse da una vita. Come aveva fatto la sua vescica a trattenere così tanta urina? Se l'era domandato mentre ricuciva il membro nel suo reparto stagno. A questo punto poteva dirsi sazio e soddisfatto. Il suo pensiero era pari a zero, e l'idea di Elisabetta ridotta a un lumicino incolore. Era così che voleva stare, era così che era riuscito ad arrivare. Gli mancavano pochi chilometri per arrivare a casa. Ma a destinazione s'era reso conto di non essere perfettamente in grado di infilare la macchina nel box. Così l'aveva lasciata in strada, dietro a quella di Fabiano Sirtori che rimaneva quasi sempre fuori. Erano quasi le due di notte e non c'era in giro un cane. Perfino attraversare la strada a piedi non era stato facile, ma alla fine era riuscito a raggiungere il cancello del condominio omatese. Regnava il silenzio più assoluto. Infilata la chiave nella serratura era stato colto da un brivido di freddo. Poi era sopraggiunto un picco di angoscia inaspettato, prima di vedere tutto nero e sentire la pressione sanguigna precipitargli sotto le scarpe. Sergio aveva superato di mezzo metro il cancello, ma non aveva fatto in tempo a rendersi conto che le sue gambe non lo reggevano più. In una frazione di secondo era crollato su se stesso, impattando con il suolo senza avere nessuna coscienza di ciò che stava accadendo. Era finito col muso per terra, impiastrando le mattonelle di sangue: il naso grondava come una fontana, ma lui era in un altro mondo. In quella miserabile posizione era rimasto per tre ore di fila, prima che, allo scoccare delle cinque del mattino, il signor Tresoldi guadagnasse l'uscio di casa per andare con un amico a pescare alla cava di Cavenago, diletto che spesso, al sabato, si concedeva. Non aveva creduto ai suoi occhi. Quello era Sergio Perego e in vita sua non l'aveva mai visto conciato in quel modo. S'era seriamente spaventato. Gli si era avvicinato e trovandolo esanime s'era preoccupato che potesse essere morto e che se l'avesse toccato poi avrebbero potuto incolpare lui dell'omicidio. Non aveva fatto in tempo a ragionare sull'assurdità del suo timore, che già stava pigiando come un ossesso il citofono di casa Perego.
«Signora, la prego, corra dabbasso, c'è suo figlio che...».
Non era servito andare oltre. La signora Perego, con le croste agli occhi e i capelli arruffati come una megera, s'era infilata la prima camicia che le era capitata a tiro e indossate le ciabatte s'era precipitata verso l'ingresso del condominio. Non sapeva nemmeno chi l'avesse contattata, ma, come pervasa da un presentimento malato, sapeva che non poteva far altro che rotolare per le scale per vedere cosa fosse accaduto al figlio. Lo aveva trovato in una pozza di sangue raggrumato, tipo le scie di rossore che si lasciano dietro le vittime di qualche agguato mafioso. Il suo Sergio lo avevano ammazzato.
«Sergio!!! Santa Maria...».
La donna stava per svenire. Non riusciva a capacitarsi di quel che i suoi occhi stavano mettendo a fuoco. Gli avevano ammazzato il figlio davanti a casa. S'era piegata su Sergio, alzandogli la testa, e gridando come una forsennata, aveva svegliato l'intera famiglia Vismara del primo piano.
«Me l'hanno ammazzato!! Me l'hanno ammazzato!!».
Il signor Tresoldi era attonito, con le canne da pesca in mano, sembrava un burattino da condurre al macero. Gli sembrava di essere stato catapultato all'improvviso in un film di fantascienza. Da quando in qua venivano commessi dei delitti così efferati a Omate? Mai s'era sentito parlare di una cosa del genere. Era talmente esterrefatto che non aveva nemmeno trovato il coraggio di confortare la povera donna, rannicchiata su se stessa come una cagna morente.
«Sergio! Figlio mio!».
La donna era distrutta, le lacrime le avevano invaso il volto, trasformato in una maschera gonfia e irriconoscibile. Biascicava. Ma mentre si era alzata per cercare un aiuto, per supplicare il signor Tresoldi di fare qualcosa, di chiamare qualcuno, la polizia, il pronto intervento, il padreterno, s'era accorta che dalla bocca del figlio erano uscite delle bollicine. Subitaneamente aveva riflettuto sul fatto che a un cadavere non sarebbero dovute uscire delle bollicine. Così s'era riaccovacciata sul corpo immobile del figlio cercandolo di osservare con maggiore discernimento. Il corpo, di fatto, nonostante la temperatura frizzante dell'aria, era caldo. Sergio era caldo o era ancora caldo? Una differenza abissale sulla quale era necessario indagare per capire cosa fosse realmente accaduto al trentottenne.
«Sergio! Sergio!».
La madre aveva riprovato a sollecitare il figlio, pian piano sempre più convinta del fatto che forse era solo svenuto. A tal punto, come in un miracolo, Sergio aveva aperto mezzo occhio destro, storcendo la bocca come se fosse rimasta immobilizzata per un'eternità e fosse necessario ridarle un po' di vigore con un esercizio fisico.
«È vivo! È vivo!», aveva gridato l'anziana donna, come in preda a un'estasi mistica. «Sergio! Sergio! Mi senti?».
Udendo queste parole, Sergio aveva ripreso vita tutto d'un colpo e cercato di farsi forza sulle braccia per riacquistare la stazione eretta. Tresoldi, sempre più annichilito, osservava la scena con gli occhi sbarrati.
«Non le può dare una mano, lei che sta lì impalato come un ciuccio?».
Tresoldi non sapeva nemmeno cosa fosse un ciuccio, ma si rendeva conto che forse era proprio il caso di intervenire a dare una mano al vicino di casa.
«Forza, si aggrappi a me», gli aveva detto Tresoldi, che finalmente cominciava a realizzare quel che fosse realmente successo. Gli era bastato incappare per caso in un'alitata del giovane, pesante come un macigno e fetente come una latrina a cielo aperto.
In piedi, Sergio, s'era guardato intorno come se vedesse il mondo per la prima volta. Aveva le labbra viola e il naso pennellato di rosso. Respirava male e aveva la vista annebbiata. I fumi dell'alcol non se n'erano ancora andati. Non era riuscito a dire granché, se non a tranquillizzare la madre.
«Mamma, che ci fai qui? Io sto bene. Ma tu che ci fai qui? Dai andiamo a casa…».
La signora Perego aveva preso sottobraccio il figlio e ancora agitatissima s'era diretta verso casa. Era la prima volta che vedeva suo figlio devastato in quella maniera. Sergio barcollava, ma in qualche modo era riuscito ad arrivare all'ascensore, dove la madre l'aveva sottoposto a un pesante interrogatorio, benché ormai avesse ben in mente ciò che era accaduto al figlio: Sergio era ubriaco fradicio, al punto da non riuscire più a reggersi in piedi.
«Ma ti sembra questo il modo di conciarti? Senza contare lo spavento che mi hai fatto prendere… Hai quasi quarant'anni e ti comporti ancora come un bambino. Ma si può sapere cosa t'è saltato in mente?».
Sergio non fiatava.
«Pensa alla gente... a quello che dirà la gente. Ma non ti vergogni?».
«Non ci ha visti nessuno, dai mamma».
Si era guardato allo specchio trovandosi raccapricciante, ma non aveva ancora realizzato esattamente i trascorsi delle ore prima. Si ricordava di essere stato a bere in un locale della Brianza, dopo aver visto la sua Elisabetta accomodarsi sulla Lamborghini di un biondo che avrebbe voluto maciullare con le sue stesse mani. E invece era lui che, seppur metaforicamente, era stato maciullato dal nuovo spasimante, vedendosi costretto a rifugiarsi in un covo di ubriachi e a meditare su un sogno che non si sarebbe più avverato. A casa s'era dato una sbrigativa lavata del capo, trovando pressoché impossibili da liberare le tracce di sangue che gli impiastravano ancora tutto il naso, e dopo essersi scolato mezza bottiglia di acqua, era filato in camera addormentandosi come un sasso fino alle quattro del pomeriggio. Nemmeno le urla della madre e i guaiti famelici di Rododendro verso mezzogiorno erano riusciti a ridestarlo. Per l'ora di cena, però, era in qualche modo riuscito a tornare in vita, anche se aveva un dolorosissimo cerchio alla testa e gli occhi ingialliti da un fegato che reclamava pietà. S'era accomodato al suo posto – un tempo il posto del padre - aspettando di essere servito dalla madre, ormai quasi rientrata nei gangheri. L'importante, aveva pensato, era che il figlio stesse bene, che non fosse ferito, né tantomeno morto come le era tragicamente sembrato vedendolo la prima volta, sbattuto a terra come un sacco di letame. Alle 20.00 era partito il telegiornale di Rai Uno. Si seguiva sempre in casa Perego, da quando la Rai era stata inventata; anche perché Rai Due era socialista e Rai Tre comunista; non c'erano molte altre chance per ottenere valide informazioni, non influenzate dai poteri forti: si dia infatti il caso che secondo i Perego fossero tutti poteri forti, tranne l'unico vero potere forte di cui erano vivi sostenitori, vale a dire la DC, che dal loro punto di vista era immacolato. Era partito lo speaker parlando di un disastro nucleare in Ucraina, della fuga di veleni radioattivi e del pericolo che avrebbero corso gli abitanti di Kiev. E gli italiani, in un secondo tempo. Gli piaceva l'idea di visitare Kiev, semmai fosse capitato, in futuro... Sergio ascoltava, ma aveva la testa da tutt'altra parte. Pensava ancora alla sua Elisabetta. Pensava ancora al rivale che al posto suo l'aveva caricata in macchina ed era fuggito chissà dove. Vigliacco. Cane vigliacco. Erano le uniche parole che riuscivano a prendere forma nel suo cervello. Era esploso un reattore nucleare, notizia che in qualche modo era riuscito a stuzzicarlo, ma non più di tanto. Da sempre, del resto, amava le notizie caratterizzate da retroscena scientifici, leggere i giornali di scienza, la tecnologia, gli sviluppi ingegneristici… Non che ci capisse granché - avendo la terza media non poteva ambire a chissà quali risultati - ma conservava una certa curiosità e un buon entusiasmo che spesso valgono di più di qualunque titolo accademico. Per questo almeno una minima fiammella s'era accesa nel suo cuore, ancora tronfio di dolore e “assenza”, ma per poco. Quando anche la madre s'era unita a lui per consumare un piatto di maccheroni col sugo – non a caso uno fra i piatti preferiti dal ragazzo ormai cresciuto – Sergio s'era alzato per girare canale. Ne aveva abbastanza. Ne aveva abbastanza di notizie negative. La sua vita era già stata fin troppo negativa, non era il caso di peggiorare la situazione. La sua Elisabetta era altrove, lontana da lui, se anche fosse scoppiato il reattore nucleare più potente della Terra, non gliene sarebbe fregato niente. Questa era la verità.
«Perché giri canale? Fammi sentire cosa stanno dicendo», aveva reclamato la mamma, più preoccupata di non potere vedere l'intero telegiornale com'era solita fare da quando avevano inventato la televisione, che non per la reale gravità del fatto che veniva reso pubblico.  
«Dai mamma, sono sempre le solite cose. Fammi vedere se dicono qualcosa di sport».
«Io voglio vedere il telegiornale. Poi dicono le cose importanti e noi non sappiamo mai niente…».
Sergio aveva squadrato la madre con tono malinconico e aveva ripristinato il primo canale. C'era ancora alle spalle dello speaker un gigantesco sarcofago grigio, una specie di bomba atomica, tipo quella che era appena esplosa nel suo cuore.

venerdì 18 maggio 2012

figlio di lupa


dentro l'elettrica
come un'elettrica
figlio di elettrica
moglie di patroclo
figlio di cane
moglie di bue
raggio di iena
maggio che va
figlio di lupa
moglie stamberga
treni a superga
gufi in olanda
brucia la fiamma
e il cuore si infiamma
lanzichenecchi
e buonanotte al secchio