La prima canna della vita Alberto Colnago se l’era fatta con l’amico Giovanni Bartoloni, un ex compagno di classe delle medie, pieno di lentiggini e lo sguardo da vampiro. Erano i primissimi anni Novanta, magici tempi in cui il tempo sembrava non passare mai, come in un bellissimo e raggelante quadro di Giorgio De Chirico, con tutte quelle statue classicheggianti, i palazzi di gesso, i manichini, una professoressa d'italiano indecisa se trascorrere la sua vecchiaia a Milano o a Siracusa, sua città natia… Il tempo… un concetto astratto, perennemente sospeso, ibernato, in un frigorifero virtuale che, evidentemente, solo giovanissime, vanitosissime, e spregiudicate anime come le loro potevano spalancare, richiudere, gestire a proprio piacimento… il tempo e la relatività. E il relativismo. Un amico dei due, Fulvio, proprio in coda al Ventesimo secolo, aveva scritto una canzone che rende perfettamente l’idea del rapporto fra Alberto e Giovanni e, appunto, il movimento regolare e costante delle lancette dell'orologio. Un passaggio della strofa diceva:
“Piove, piove e nuvole di questo tempo senza fine…”.
Di questo tempo senza fine…
I Nirvana e Andy White si erano da poco esibiti al Bloom di Mezzago, il paese degli asparagi; Barton Fink, dei fratelli Coen, era da poco comparso nelle sale cinematografiche; Tom Fogerty, Steve Ray Vaughan, Son House, Nico, erano da poco passati a miglior vita, più o meno silenziosamente: e il rock ‘n roll non sarebbe stato più lo stesso. La ditta abbandonata Rosier, in via Cesare Battisti, quartiere generale di chi amava l’avventura e odiava il conformismo, era crollata su se stessa sotto i colpi efferati e impietosi delle ruspe.
Ad Alberto e Giovanni piaceva definirlo un magico periodo anche perché non c’era niente di tutto ciò che c’è oggi… eppure si stava benissimo. Non c’era internet, il navigatore satellitare, il digitale terrestre. La maggior parte dei giovani non aveva nemmeno il pc; coloro che lo possedevano erano mosche bianche, extraterrestri, drogati dell’hitech; c'era per esempio Enrico Valtolina - un quarantenne che viveva a Omate con la madre ottuagenaria - che smanettava su un monitor vintage, ma era considerato una specie di Ufo. A quei tempi non c’erano nemmeno i telefonini. Incredibile. Oggi come si fa a vivere senza telefonino? Eppure, allora, come in un quadro di Giorgio De Chirico…
Snob. Alberto e Giovanni erano soprattutto degli snob (specialmente Giovanni). Amavano fare i diversi e sottolineare la loro superiorità guardando dall'alto verso il basso le persone che incontravano. Leggevano, per esempio, cose che nessuno leggeva; che nessuno si sarebbe mai sognato di poter leggere, se non in un’aula universitaria, con davanti un negriero pronto a uccidere chiunque osasse anche soltanto ipotizzare che movimenti come il crepuscolarismo furono - da un punto di vista chiaramente letterario - di minore entità; ma come biasimare chi avrebbe potuto avanzare un'opinione del genere?
Prestavano le loro iridi esclusivamente agli scapigliati e ai crepuscolari. Tutto il resto era da buttare. Anche Tom Clancy? Anche lui. Anche Ken Follett? Soprattutto. I loro amici, a parte Fulvio, erano dunque le celebrità di certi salotti ottocenteschi dell’Italia settentrionale alla stregua di Emilio Praga, Iginio Ugo Tarchetti, Ambrogio Bazzero, Guido Gozzano… tutti bellimbusti che non se la passarono molto bene, sebbene fossero dei mezzi geni. Anzi. Gran parte di essi, se le biografie non sono un’opinione, se ne andarono anzitempo al creatore devastati da tutto ciò che potesse ridurre in brandelli il cuore e l’anima di una persona. Qualcosa che funziona ancora oggi, come l’alcol e le droghe; qualcosa che oggi, invece, si stenta a riconoscere – se non nei paesi di serie B - come il freddo, la fame, la tubercolosi (il mal sottile!), la lebbra, la peste, la pellagra…
Il giorno del suo primo spinello Alberto Colnago - con la sua bellissima e coloratissima maglietta di Michelle Shocked, vista da poco in concerto a Milano - si trovava a casa di zia Giannina, sorella maggiore del padre, alla quale si era da poco rotto il televisore. La donna non poteva stare senza tv, dacché gli era morta Giuliana, per le conseguenze di una colica renale, la gatta con cui viveva da quasi vent’anni. Il ragazzo aveva, dunque, cercato in tutti i modi di sistemarglielo, ma dopo due ore di disumana fatica, tra fili impolverati e strane lampadine, aveva mollato definitivamente il colpo: lui con la tecnologia, nonostante la buona volontà, non aveva mai avuto un gran feeling.
“Bisogna chiamare il tecnico – le aveva detto.
“E la messa?”.
“La messa?”.
“Come faccio ad ascoltare la messa?”.
“Va beh, zia, la messa… anche se ne salti qualcuna, cosa vuoi che succeda?”.
“Io non posso saltare la messa”.
“Ok, stasera lo dico a papà, così vede di chiamare subito il tecnico”.
“Ma tu non sei capace di aggiustarlo?”.
“Ci ho provato”.
“I giovani d’oggi non sanno fare più niente”.
“Dai zia, non dire così”.
“Io non posso saltare la messa”.
Suonò il campanello. Alberto sbirciò dalla finestra della cucina e per poco non finì accecato dalle foglie appuntite di una sansevieria sistemata maldestramente sul davanzale, di fianco a un sapone per i panni secco e rugoso e a un'impolverata immagine del cardinale Schuster. Vide l’amico Giovanni, fresco e vitale come un bufalo scorrazzante per le infinite e meravigliose praterie americane, pronto a manifestargli tutta la sua pena dovuta al fatto di avere davanti a se, ancora una volta, un intero pomeriggio da inventare.
“Io non ho niente da fare – gli disse l’amico.
“Quindi?”.
“Se anche tu non hai niente da fare… potremmo non fare niente in due”.
“Sei un genio. Ti seguo a ruota. Dove andiamo?”.
“In comune”.
“A fare?”.
“A guardare per aria”.
“Sei il solito coglione”.
“Ti amo amico mio”.
A destinazione si accomodarono su una panchina circolare, sotto le verdi e rinfrescanti fronde del grande e centenario gelso che domina l’angolo sud della piazza municipale, davanti al viottolo che conduce in via Marco d’Agrate, lasciandosi alle spalle il “Gimot”, centro per anziani. Si misero a parlottare della casa diroccata che sorge alle spalle del Ragno Verde. Volevano esplorarla da cima a fondo, affascinati da un movimento pseudo culturale del quale avevano da poco sentito parlare e in cui s'immedesimavamo perfettamente: la cosiddetta corrente degli Urban explorers. Il movimento, sorto in Inghilterra anni or sono, concerneva l’insano e abulico piacere di confrontarsi con tutto ciò che cade a pezzi, in rovina, in perdizione; cose, in generale, ben poco stimate dall’immaginario collettivo; fra cui case o fabbriche abbandonate, aree periferiche disastrate, discariche abusive, boschi derelitti, siti il più possibile fatiscenti, dimenticati da Dio e dai cristiani. Qualcuno avrebbe potuto dare del malato di mente a un Urban explorer. Tuttavia, la gran parte di essi, era semplicemente rappresentata da persone desiderose di riportare in vita periodi della storia dimenticati. A pensarci bene c'è molta poesia in tutto ciò. Qualcosa del genere viene evocato anche da Edgar Allan Poe in un suo racconto. Gli Urban explorers erano, dunque, degli studiosi, dei romantici, seriamente convinti che solo nei luoghi più spaventevoli fosse possibile riesumare le tracce di un recente passato rimasto misteriosamente amalgamato ai muri, ai pavimenti, alle pericolanti infrastrutture resistite all’avvicendamento degli anni. Tracce che, all’improvviso, si organizzavano nel loro immaginario come le scene di un film, facendoli in qualche modo stare meglio, e comprendere con maggiore entusiasmo i delicati e arcani meccanismi e percorsi che regolano storie e vicissitudini, e di conseguenza il significato filosofico, etico e morale dell’uomo e del suo valore evolutivo. Assorti dalla conversazione all’improvviso Giovanni si era messo a rollare come se niente fosse. Come se stesse dando una mano alla mamma mantovana a preparare i tortellini.
“Che cazzo fai? – gli chiese Alberto.
“Non vedi?”.
“Non vedo”.
“Sto preparando una canna”.
“Scherzi?”.
“Macchè”.
“Una canna…”.
“E allora? Non hai mai visto nessuno farsi una canna?”.
“Forse, no…”.
“Oddio”.
“Come si fa?”.
“Guarda e impara”.
Giovanni terminò di confezionare lo spinello in pochi minuti. Un compito che, per la verità, non assolse con eccessiva malizia. In fin dei conti, pensò Alberto, nemmeno lui doveva essere così avvezzo allo sbalordimento dei tetraidrocannabinoidi; del resto chi l’aveva mai visto cimentarsi con questa interessante forma di artigianato? Benché l’amico tentasse in tutti i modi di fargli credere esattamente il contrario… ché insomma: a quei tempi, chi non sapeva inventarsi una canna in meno di tre minuti, era passabile per un autentico ritardato, indegno di appartenere alle nuove generazioni.
Il giovane si infilò la canna in bocca e, dopo averla accesa, cominciò a tirare come un forsennato, espellendo nuvole di fumo a volontà. Passarono una manciata di minuti, a monte dei quali Giovanni disse all’amico:
“Dai”.
“Dai che?”.
“Dai fuma”.
“No dai”.
“Dai fuma, non fare il fesso!”.
“Ma…”.
“E’ come fumare una sigaretta!”.
“E se dopo non mi riprendo più?”.
"Non ti riprendi più? Ma cosa ti inventi?".
“E se poi mi viene un attacco di panico?”.
“Non ti viene l’attacco di panico”.
“A un mio amico gli è venuto un attacco di panico”.
“Perché era preso male”.
“Cioè?”.
“Cioè fuma e taci”.
Alberto agguantò lo spinello e cominciò a inspirare veleno. All’inizio lo fece con grande parsimonia e titubanza, come se fosse davvero possibile finire catapultati in un altro mondo semplicemente avendo la canna tra le mani. Poi, verificando che non succedeva niente di grave, divenne via via sempre più disinvolto e spavaldo. Da un tiro divennero due. Da due, tre. E infine, orgogliosamente impettito, ne compì addirittura un quarto prima di passare ancora il mitra nelle mani del diavolo. Giovanni fu di nuovo alle prese con lo spinello, con Alberto che introduceva l’ennesima e agonizzante cantilena.
“Ma non succede nulla”.
“Per forza. Cosa ti aspetti?”.
“Pensavo di andare fuori”.
“Ma se hai fatto solo un tiro”.
“Ne ho fatti quattro, amico mio”.
“Non sono niente”.
Giovanni continuò imperterrito a fumare.
“Adesso me la ripassi? – domandò Alberto, quasi con ilarità.
“Ma perché continui a farmi queste domande da idiota?”.
“È una domanda”.
“Certo che te lo ripasso. Quando si fuma insieme… si fuma in due”.
“Questo concetto mi sfugge”.
“Toh, prendi la canna, e tappati la bocca”.
Alberto fece altri quattro tiri, quando, d’un tratto, cominciò a girargli la testa. Inconsuetamente.
“Ma cosa mi hai dato da fumare?”.
“Perché?”.
“Mi sento strano”.
“Ci stiamo fumando dell’ottima maria”.
“Maria?”.
“Marijuana”.
“Ah, marijuana”.
“Il cioccolato l’ho finito ieri”.
“Cosa c’entra?”.
“Il cioccolato è l’hashish”.
“Ah. Ma perché si usano tutti questi nomignoli?”.
“Per non farsi beccare dagli sbirri”.
“Geniale”.
Giovanni riprese a darci dentro, mentre Alberto iniziò a dare chiari segni di squilibrio mentale.
“Giovanni…”.
“Che c’è?”.
“Non mi sento tanto bene”.
“Non sparare cazzate”.
“Te lo giuro”.
“Cosa ti senti?”.
“Mi viene da ridere anche se non c’è niente da ridere”.
“Allora va tutto bene”.
“Sei sicuro”.
“Sicurissimo”.
Giovanni guardò Alberto e cominciò a ridere lui stesso.
“Ma lo sai che hai proprio una faccia da pirla?”.
“Perché?”.
“Perché hai una faccia da pirla”.
“Ma lo sai che anche tu hai una faccia da pirla?
“Sì, ma la tua lo è molto di più della mia”.
I due amici presero a insultarsi a vicenda, e sembravano felicissimi di ciò. Intanto la canna - ridotta ormai a un centimetro di filtro sbavato - finiva calpestata dalla punta vorace delle scarpe di Giovanni.
“Basta, io non fumo più, mi sta girando tutto”.
“La canna è finita”.
“Non lo so…”.
“Come non lo so? Non vedi che l’ho appena spenta?”.
“No, io non fumo più”.
“Ho capito!!”.
“L’hai finita?”.
“È finita, è finita”.
Alberto ripensò all’amico Elio, che una volta gli aveva raccontato di essersi fumato un gigantesco spinello tutto solo dietro al boschetto dell’St, per poi rimanere due ore a parlare di calcio e basket con una robinia. Infine gli cadde l’occhio su un sacchetto di cellophane che si muoveva per aria e che all’improvviso virò il suo vagabondare in direzione del negozio di Massimo il parrucchiere. Il sacchetto di plastica andò a infilarsi con precisione millimetrica nel portaombrelli situato appena fuori l’ingresso dell’esercizio. E che lo si voglia credere o meno, fu quella una delle gioie più grandi della sua vita.
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