mercoledì 3 marzo 2010

Brianza Borderline: "L'amante segreto di Lolita"

La bella Lolita - soprannome volutamente preso in prestito dal celebre romanzo di Nabokov - lo andò a trovare per l’ultima volta in un anonimo pomeriggio estivo del 2000: quel dì, peraltro, non aveva niente da fare, se non eventualmente dare una mano alla madre a rassettare la casa, cosa che, comprensibilmente, non aveva nessuna voglia di assecondare. Si lasciò alle spalle la sontuosa dimora dei genitori - ultimamente ancora più appariscente dopo la costruzione di un elegante portichetto che si proiettava in aria dall’enorme finestra della cucina, e sul quale ora l’intenzione del padre era quella di farci scorrere sopra dei rami di glicine - verso le due del pomeriggio. In cielo splendeva un gran bel sole e dell’aria afosa di qualche giorno prima si era persa ogni traccia: per fortuna, pensò la ragazza, perché il caldo lei lo odiava, mentre amava a dismisura il freddo pungente dell’inverno, e tutto ciò che con esso ha a che fare: la neve, la nebbia, la brina.
Varcato il cancello di casa scorse Roberto Ghezzi venirle incontro. Il ragazzo abitava accanto alla sua dimora e da tempo le ronzava intorno. In realtà, fra i due, c’era già stato qualcosa mesi prima, tuttavia, adesso, almeno da parte di Lolita, non vi era più nulla. Loro abitudine era andare a nascondersi tra le radure verdeggianti del parco Molgora, dove nessun occhio indiscreto li avrebbe potuti scovare: entrambi avevano alle spalle una famiglia bigotta - assolutamente intollerante all’ipotesi che qualcuno potesse abbandonarsi a lussuriose performance prematrimoniali – e dunque era necessario non far sapere in giro certi particolari piccanti del loro rapporto. Roberto le rivelò che in serata ci sarebbe stata un’altra gara di scooter, l’ennesima, lungo una strada abbandonata dalle parti di Ruginello, nei pressi di una nota fabbrica che cadeva a pezzi, spesso presa d’assalto dai cosiddetti urban explorers. Ma lei, senza pensarci due volte, declinò l’invito. Quelli della sua età cominciava a non sopportali più. Si sentiva molto più grande e più matura di loro; dei piscialletto con l’orecchino al naso e la sigaretta in bocca, tutto fumo e niente arrosto.
Imboccata via Cadorna, raggiunse via Marsala e successivamente via Burago. Qui le venne in mente di quella volta che per poco non cadde dal motorino della sorella: una macchina era spuntata all’improvviso da un cortile vicino al Ponte di San Rocco, facendole perdere per un attimo l’equilibrio: c’era l’asfalto viscido e ancora non sapeva cavalcare molto bene un destriero a due tempi. Superata via Galbussera intraprese l’infinito rettilineo di via Moriano, voltò a sinistra e si portò sulla vecchia strada per Ornago. Quest’ultima contrada la conosceva molto bene: da lì infatti si potevano magnificamente rimirare le montagne e a lei tutto ciò che aveva a che vedere con esse – il silenzio, la maestosità dei paesaggi, la vita misteriosa degli animali selvatici - benché si trattasse solo delle umili Prealpi, piaceva da morire. La strada comunale di cascina Branca, la via dove abitava lui, era la prima a destra. Lui? Sì, lui, l’innominabile, colui che Lolita frequentava ormai da un paio d’anni, nel segreto più assoluto.
Alla ragazza piaceva tutto di quell’uomo; sebbene avesse quasi l’età di suo padre. Parlava di lui come di una persona straordinariamente gentile, dolce, intelligente. Al sottoscritto, in particolare - che chissà per quale arcano perché aveva eletto a suo confidente ufficiale - aveva rivelato che solo con lui riusciva a sentirsi veramente a suo agio. Solo con lui riusciva davvero a sentirsi in pace con se stessa e ad apprezzare la vita nelle sue sfaccettature più nobili e nascoste.
“È un’anima speciale – mi raccontava lolita -. Anime che oggi si trovano in giro sempre più raramente”.
“Un’anima speciale?”.
“Sì, un’anima speciale”.
“Cioè?”.
“Tu non puoi capire”.
Viveva in un misero appartamento dotato di sole due stanze. La cucina era poco più larga di un cucinotto. Il lavandino era quasi sempre in disordine, colmo di piatti e bicchieri da lavare: l’innominato entrava in azione solo quando la pigna di stoviglie rischiava seriamente di crollare su se stessa. C’era al centro del locale un tavolino traballante, sormontato da riviste e giornali, del quale, presumibilmente, l’uomo si serviva per sedersi a mangiucchiare frugalmente qualcosa: è difficile infatti pensare che avesse particolari attenzioni per l’arte culinaria. La seconda stanza dell’appartamento consisteva in un divano sgualcito, un letto a una piazza e mezza - perennemente sfatto - una vecchia scrivania, una stufa a legna, una grossa libreria. All’uomo di Lolita, evidentemente, piaceva molto leggere. Sulle mensole del mobile spiccavano soprattutto libri di autori francesi. Si potevano trovare Proust, Perec, Hugo, Pennac… Le pareti della stanza erano qua e là abbellite da quadri e stampe. Sopra la stufa troneggiava il ritratto di un signorotto dell’Ottocento, di fianco alla libreria, la foto di una ragazza vagamente somigliante a Martha Plimpton, vicino alla stufa, lo schizzo a matita di un casolare di campagna. A quanto pare l’innominato era single: in realtà nessuno ebbe mai l’opportunità di sapere qualcosa di preciso sulla sua vita relazionale, sul suo passato, sull’ipotesi che potesse avere avuto o meno figli o mogli. Misterioso era anche il lavoro che faceva per campare.
“Scrive – diceva Lolita.
“Scrive cosa? – le domandavo.
“Tu non puoi capire”.
“Ancora con questa storia?”.
“Tu non puoi capire.
Lolita non avvertiva mai l’innominato prima di andarlo a trovare. Si presentava alla sua porta come un angelo, e l’uomo era come se fosse lì da sempre ad aspettarla. In particolare, il dì di cui stiamo narrando, la ragazza non dovette nemmeno compiere lo sforzo di pigiare sul campanello per varcare la soglia della sua scialba dimora: la porta era praticamente spalancata e quest’ultimo giaceva mezzo addormentato sul divano, con la tv accesa, e il volume a zero. Secondo Lolita stava respirando l’estate, uno dei suoi diletti preferiti.
“Respirando che? – le chiedevo ogni volta che saltava fuori l’argomento.
“Respirando l’estate”.
“Da quando in qua si respira l’estate?”.
“Tu non puoi capire”.
“Ma la vuoi smettere con questo tu non puoi capire!? Se non mi racconti mai niente mi vuoi spiegare come faccio a capire qualcosa?”.
Lolita scoppiava a ridere.
“Eh, non hai tutti i torti… ma vedi, quelli come te, presi quasi esclusivamente da sottane che svolazzano e giri dell’oca in bicicletta, non possono comprendere certe cose”.
“Invece te e il nonno, anime elette…”.
“Il nonno?”.
“Come lo vuoi chiamare il matusa che vai a trovare un giorno sì e un giorno no?”.
“Beh, non è così vecchio”.
“Ma se ha già tutti i capelli bianchi”.
“Sei geloso?”.
“Chi, io?”.
“No, io”.
“Ma che, scherzi? Io dovrei essere geloso di… ma fammi il piacere”.
A tu per tu con l’innominato Lolita si trasformava. I suoi occhi cambiavano profondità, velocità ed espressione. Una luce speciale li attraversava, come se in quel respirare l’estate cui accennava potesse davvero nascondersi qualcosa di magico. Solitamente imbronciata e pensosa, la ragazza diveniva all’improvviso solare e luminosa. La sua tenace aggressività, la sua insopportabile strafottenza – lati del carattere probabilmente dovuti alla rabbia interiore maturata nel tempo per colpa di quella sorta di malessere esistenziale che, nonostante gli agi, condizionava pesantemente la sua famiglia - tutt’un tratto venivano meno. Quell’uomo, ponderai, aveva probabilmente il dono di saperla accudire meglio di chiunque altro; di saperla abbonacciare quando era fuori di sé, rassicurare, quando si trovava a tu per tu con i suoi complicati e insormontabili conflitti psico-adolescenziali. Tuttavia, non so le volte che, in tutta onestà, mi ero domandato cosa facessero realmente e concretamente quando rimanevano soli: cosa potevano fare un quasi cinquantenne e una sedicenne per ore insieme? Respirare l’estate come diceva Lolita? Mettersi a giocare a scacchi? Mah, mi sembrava tutto così assurdo… (e forse sì, devo ammetterlo, un po’ era anche per via della gelosia).
I genitori di Lolita naturalmente erano all’oscuro di tutto: se avessero saputo che la loro figlia più piccola frequentava anche solo platonicamente un uomo di trent’anni più vecchio di lei, l’avrebbero come minimo rinchiusa in casa fino ai venticinque anni, dopo aver tempestato di chiamate le forze dell’ordine. Eppure tra loro c’era davvero qualcosa di speciale, di incredibilmente diverso, particolare, eccentrico. Fra le stranezze più evidenti di questo anomalo e sensazionale rapporto c’era per esempio quella relativa al fatto che i due non comunicavano quasi mai, se non attingendo alla cosiddetta comunicazione non verbale.
“Noi comunichiamo con i sensi – raccontava Lolita.
“Con i sensi?”.
“Tu non puoi…”.
“E te pareva”.
Comunicavano con i sensi... dunque se la davano a intendere, per esempio, con un banale sguardo, un delicato sorriso, un impercettibile movimento delle mani, del mento, delle spalle. Per me erano come degli extraterrestri. Un dì addirittura Lolita mi tirò in ballo la telepatia.
“È una parola che deriva dal greco – asseriva -. Tele = lontano, patia = sensazione. Con essa intendiamo una comunicazione che avviene oltre l’attivazione dei cinque sensi fisici, tra una mente e un’altra. Una facoltà che, a quanto pare, alcune persone riescono a sviluppare maggiormente di altre, ma che potenzialmente riguarda tutti”.
“E a te queste cose chi le avrebbe dette?”.
“Lui me le ha dette”.
“Il vecchio?”.
“Ti ho già detto che non è vecchio”.
“Però ne sa di cose il tuo…”.
“Ne sa certo più di te”.
Tra i passatempi più originali dell’uomo c’era anche quello concernente il fatto di mettersi a osservare i pirrocori - dei piccoli insetti simili alle cimici - che gironzolavano tra gli anfratti dei muri e i cespugli di lunaria e belle di notte, presenti nel suo brullo giardinetto. Spesso Lolita lo affiancava in questo inusuale divertimento: li seguivano scontrarsi fra loro, tergiversare su una briciola di pane, arrampicarsi l’uno sull’altro e di tanto in tanto ne stuzzicavano qualcuno con un legnetto caduto dai vicini tralci di vite, o con la punta delle dita.
Quel pomeriggio, quando l’innominato si accorse che Lolita era di nuovo venuta a fargli visita - e se ne avvide quasi immediatamente in quanto la ragazza, dopo una manciata di secondi che se ne stava ritta come una pertica innanzi a lui, cominciò a picchiettare i piedi sul pavimento per ridestarlo - se ne rallegrò e, senza minimamente scomporsi, le regalò il consueto bel sorriso di benvenuto. Lolita contraccambiò la sua convincente espressività con un impercettibile gesto della mano, un delicato nonché immemorabile movimento dell’indice, pieno di emotività, e con la gioia che, si vedeva fin troppo bene, le sprizzava da tutti i pori.
La giovane, quel dì, vestiva dei pantaloni neri attillati, una canottiera della stessa tinta dei pantaloni e un paio di scarpe da ginnastica dell’Adidas. L’uomo aveva addosso la solita camicia a quadretti, con le maniche rimboccate, e un paio di pantaloni di lino tutti stropicciati; non portava né calze, né scarpe, randagio e zingaresco come sempre. I due andarono avanti a fissarsi per qualche istante – i giganteschi occhi castani di lei, i minuscoli occhi azzurri di lui – dopodichè, la ragazza, stimando, come già le era capitato, che il sofà era abbastanza largo per abbracciare entrambi, scelse di sdraiarsi al suo fianco. Poggiò la testa sulla spalla dell’uomo e fece scivolare il suo braccio sinistro intorno alla sua vita, mentre l’innominato la stringeva a sé con il braccio destro, affondando - si direbbe senza malizia - la mano oltre l’elastico dei fuseaux. Più o meno in questa posizione – e sottolineo più o meno - rimasero fino al tramonto del sole.
“Ma avete fatto qualcosa?”
“Eh?”.
“Cioè, alla fine, dopo esservi sdraiati insieme…”.
“Ti prego”.
“E dai!”.
“Non c’è altro da sapere”.
“Non ci credo”.
“No. E comunque, se anche ci fosse, non sono affari tuoi”.
Sicché, l’unica cosa che riuscii a inquadrare, è che i due stettero per un imprecisato numero di ore ad ascoltare i suoni provenienti dalla finestra semiaperta della stanza nella quale s’erano accoccolati; fra questi il frinire dei grilli e delle cicale, il dirompente rombo di motorini in lontananza, l’acuto stridio dei macchinari del falegname che lavorava nei pressi della casa dell’uomo, il delicato vocio dei bimbi in cortile. Dunque, pensai, doveva essere proprio a questo che si riferiva Lolita quando parlava della possibilità - potenzialmente data a tutti - di respirare l’estate: con ciò la ragazza voleva indicare semplicemente il fatto di potersene stare pacificamente a contemplare la vita che, soprattutto durante d’estate, esplode in tutto il suo fragore.
“Si vede che non capisci niente – mi diceva Lolita, quando le rendevo noto questa mia vivace e perspicace riflessione -. Mica si respira solo l’estate… tutte le stagioni possono essere respirate. Basta essere allenati. Allenati con lo spirito e con la mente”.
“Cioè?”.
“Cioè, è così”.
“Tu parli per frasi fatte”.
“Non è vero”.
“Il vecchio ti ha rimbambito il cervello”.
“Sei proprio un demente. Ma perché perdo tutto questo tempo con te?”.
Giunta la fine del giorno una gigantesca palla di fuoco rossa lambiva la linea dell’orizzonte, riflettendosi sulla maggior parte delle superfici vitree presenti nel bilocale del compassato signore di mezza età. E fu in concomitanza di ciò che i due decisero di congedarsi per sempre l’uno dall’altro. Tanto per cambiare non si dissero nemmeno mezza parola: era da due anni che si vedevano ogni settimana, più di una volta alla settimana, e adesso si lasciavano definitivamente senza nemmeno dirsi ciao. Incredibile. La ragazza si alzò lentamente dal divano, racimolò tutti i suoi averi sparsi per la stanza, accumulatesi nel corso delle tante visite che si erano accavallate fino a quel momento - tra cui una borsetta che era appartenuta alla madre di lui, e un poster che riproduceva in grande scala una foto di Manuel Alvarez Bravo - e riguadagnò l’uscio. Strizzò gli occhi fissando per l’ultima volta quello che volenti o nolenti avrebbe ricordato come uno dei suoi amanti migliori, varcò la soglia e scomparve.
La strada per andare a Ornago che Lolita aveva percorso così tante volte in passato, circondata da lussureggianti campi di grano e da numerosi e coloratissimi casolari di campagna, non la riconosceva più: il suo cuore era troppo gonfio di emozioni per poter percepire e valutare e discernere limpidamente le cose come prima. Nemmeno le montagne che svettavano in lontananza con tutta la loro austerità avevano su di lei il solito effetto pacificante. La ragazza fu colta da una specie di crisi isterica. Lacrime e sorrisi cominciarono ad accavallarsi sul suo volto come onde sulla battigia. Per un po’ di volte peregrinò come un automa lungo la vecchia strada che porta al paese del famoso sanatorio, respirando profondamente e imprecando a squarciagola contro le macchine che le passavano vicino, quasi sfiorandola. L’uomo che abitava in quell’appartamentino di Cascina Branca, con il quale aveva vissuto alcuni dei momenti più belli della sua vita, non lo rivide mai più.
“Dai, andiamo a vedere come sta… magari ha perfino cambiato casa - cominciai a dirle.
“Vaffanculo”.
“Ma perché vi siete lasciati così se vi amavate…”.
“La vuoi finire. Se non la finisci…”.
“Cosa”.
“T’ho detto di andare affanculo! Io cogli imbecilli non ci parlo”.
Forse, pensai, decisero di salutarsi per sempre in quanto razionalmente consci del fatto che un domani - quando sarebbero quasi sicuramente emersi dei problemi relazionali, auspicabile conseguenza della notevole differenza d’età - nessuno dei due avrebbe mai e poi mai avuto il coraggio di dirsi una volta per tutte addio. Oppure perché era banalmente giusto che finisse così, senza una reale motivazione, così come apparentemente senza una reale motivazione i pirrocori continuano ancora oggi le loro corse arzigogolate tra le crepe dei muri del giardino dell’amante segreto di Lolita.

Nessun commento:

Posta un commento