mercoledì 3 marzo 2010

Brianza Borderline: "L'improvvisata"

Strattonatala con violenza alla fine le era montato sopra, scambiandola per una sprovveduta giovenca in calore e trasformando se stesso in un passionale toro da monta. Poi aveva cominciato a sfregare l’accendisigari sul suo osso pubico, tipo ciò che era solito fare quando, appena adolescente, intendeva raggiungere il piacere senza chiamare in causa direttamente la giovane partner che, pensava lui, all’idea dell’esplicita richiesta di una manovalanza fuori dall’ordinario, si sarebbe potuta sentire male, tanto da mandarlo a quel paese. Intorno ad essi una decina di persone scalpitava come tifosi allo stadio e ragazzette accodate per recuperare gli ultimi biglietti per un concerto di Laura Pausini; in molti avevano iniziato a sbellicarsi dalle risate, applaudire, fare boccacce…
Sicché era in corso una di quelle serate epiche, decisamente out, in cui Alessandro aveva deciso di darci dentro pesantemente con l’alcool e, poi, di pari passo e di conseguenza, con tutto ciò che potesse anche solo lontanamente ricordargli il secondo motivo per cui gli piaceva un sacco stare al mondo: il sesso, o più precisamente, le ragazze del vialone delle Industrie. Certamente, Linda, non si può dire che fosse una particolarmente avvezza all'eccentrica e stravagante abitudine di riscaldarsi al fuoco di un ciglio stradale, tuttavia, in qualche modo, aveva il potere di ricordare una sgualdrina in piena regola, a lui, e in generale a tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, la frequentavano, sottoscritto compreso. Ciò era inconfutabilmente dovuto al suo esagerato modo di vestire e di atteggiarsi: scollature al limite della decenza, trucco immoderatamente pesante, assurdi e scostumati accavallamenti delle gambe che lasciavano intravedere barlumi di pizzo pieni di sorprese. Dunque in quel frangente - che peraltro si era tutti un po’ su di giri - Linda lasciò senza timore che Alessandro facesse ciò che gli pareva, vestendo per un attimo i panni della donna di costume della porta accanto, e facendo sì che l’intera umanità raccolta intorno ad essi godesse dell’improvvisato spettacolo.
Ci trovavamo nell’atrio del palazzetto dello sport di via Santa Tecla, dove io e Linda impiegavamo il nostro tempo e la nostra giovinezza tutte le sante sere svolgendo ogni tipo di mansione e faccenda: eravamo al contempo baristi, portaborse, spazzini, giardinieri, segretari, guardiani, elettricisti… Al timone della struttura - dal quale le nostre labbra dovevano necessariamente pendere se non volevamo correre il rischio di ritrovarci dall’oggi al domani disoccupati - c’era il nostro caro, amato e odiato, diretto superiore, Paolo Mariani, direttore del palazzetto, nonché insegnante di basket, un po’ negriero e un po’ razzista. Erano i tempi in cui quasi tutte le sere Alessandro, Renato, Osvaldo, venivano a trovarci e si fermavano da noi a far di tutto fuorché lasciarci compiere ciò per cui eravamo addestrati e pagati.
Il mio debutto al Santa Tecla era avvenuto in occasione di una tiepida sera di ottobre di fine anni Novanta. Gli ippocastani di via Verdi erano quasi del tutto imbruniti e le giornate avevano incominciato a farsi incredibilmente corte. Stormi di uccelli si organizzavano in grandi V per imminenti trasvolate oceaniche e ormai, la gente, raramente si fermava in giro dopo l’ora di cena. Mi trovavo lì per via di una partita a calcetto che avevo messo in piedi con un nugolo di ragazzi del quartiere, squinternate e abuliche anime di provincia solo lontanamente consce del fatto che la Terra ruota intorno al sole. C’erano Andrea il piagnisteo, Flavio la trottola, Roberto il gorilla, Mauro la faccia da chiulo…
Al tempo lavoravo come operaio in una specie di falegnameria di Casatenovo, dedita alla fabbricazione di oggetti e portaoggetti in legno e altre cianfrusaglie sui generis, probabilmente destinati agli scaffali degli autogrill o a negozi frequentati soprattutto da casalinghe represse e depresse. Prestavo il mio servizio per otto ore al giorno, eppure non guadagnavo quasi niente, sennonché il solito mal di schiena a fine giornata. Dunque, assai presto, mi venne da guardarmi intorno, così da far saltare fuori un impiego un po’ più decente, nonché redditizio. Andai incontro a Linda – regina del palazzetto da circa un annetto - accomodata sbracatamente al di là dei doppi vetri della reception, per saldare il conto dell’affitto del campo: la partita si era conclusa da pochi minuti, la mia squadra s’era aggiudicata la vittoria per 18 a 5, io avevo fatto ben otto goal. Sembrava la Cindy Lauper di Just Want To Have Fun con quei capelli che le rimbalzavano da tutte le parti, gli occhi devastati da svirgolate selvagge di matita e una spigliatezza a dir poco chiassosa. Consegnandole il malloppo le dissi:
“Ecco qua… il campo di stasera”.
“Grazie – ribatté.
“Grazie a te”.
Linda contò approssimativamente e sbrigativamente i soldi e li ripose in un cassetto.
“Ah, scusa – riprese prima che potessi tornarmene sui miei passi.
“Sì?”.
“Per caso conosci qualcuno che cerca lavoro?”.
“Non so, perché?”.
“Qui c’è bisogno di un barista”.
“Un barista…”.
“Già”.
“Se vuoi vado dagli altri e chiedo”.
Compii un'inezia di passi, motivato a raggiungere i miei compagni - nel frattempo assiepatisi attorno al bancone del bar, pronti per ubriacarsi di Gatorade - quando mi resi conto che un lavoro del genere, molto probabilmente, era proprio quello che faceva per me. Finalmente mi sarei potuto lasciare alle spalle l'odiata falegnameria. Tornai da Linda e le dissi:
“Adesso che ci penso… ma lo sai che, forse, proprio io avrei bisogno di un lavoro del genere?”.
Gli occhi di Linda luccicavano di speranza.
“Ma va?”.
“Eh sì”.
“Beh allora, se ti va, da domani puoi iniziare”.
“Subito?”.
“Hai bisogno di lavorare o no?”.
“Beh, sì, ma…”.
“Domani alle 19.00 si inizia”.

Io e Linda familiarizzammo immediatamente. In particolare fu lei ad aprirsi oltremisura e fin da subito con il sottoscritto, come se avesse da sedare una sete di amicizia rimasta troppo a lungo immacolata: in un paio di giorni era come se ci conoscessimo da anni, poche ore di convivenza e già sapevo tutto della mia nuova e originale collega. Nei dettagli mi raccontò che era separata, senza figli, che suo padre se ne era andato da poco per colpa di un male legato al vizio dell’alcol, che puliva la casa due volte la settimana, che aveva un’iguana di nome Trapezio, che la sua migliore amica era una lesbica di Porto Recanati, che amava fare la doccia fredda, che il viaggio più bello della sua vita lo aveva fatto in Belize due anni prima con una cugina appassionata di esoterismo, che i suoi cantanti preferiti erano Omar Faruk Tekbilek e Consuelo Luz, un paio di nomi che, probabilmente, aveva imparato a pronunciare da pochissimo tempo. Infine, ciliegina sulla torta, Linda mi narrò per filo e per segno di tutte le sue rocambolesche avventure sessuali, compresa quella che aveva recentemente avuto con uno sconosciuto incontrato per caso a Cefalù.
La ragazza – semi coricata su un asciugamano spiegato su un ondulante quadrato di battigia - respirava con tutta la forza dei suoi bronchi incatramati dal fumo delle sigarette, lo iodio diffuso per l’aria e contemplava gli ultimi rossori di un tramonto che, magistralmente, si riflettevano, come solo altre rarissime volte le era parso di osservare, sulla superficie del mare. D’un tratto scorse un fusto venirle incontro con un sorriso scolpito alla Ridge di Beautiful. L’uomo le si piantò innanzi e con encomiabile disinvoltura prese a recitarle una poesia che poi rivelò alla donna essere stata scritta dal suo poeta preferito, l’americano Walt Whitman. Disse lo sconosciuto:
“Straniero, se tu passando mi incontri e desideri parlare con me, perché non dovresti parlarmi? E perché io non dovrei parlare con te?”.
“Se hai voglia di scopare non serve che mi reciti una poesia… - questo è quello che Linda avrebbe voluto dirgli di primo acchito.
“Hei, ma che bella poesia! – è quello che invece gli disse realmente; tutto sommato l’idea di poter scambiare due chiacchiere con qualcuno non le dispiaceva: era da tempo che un uomo non le faceva venire l’acquolina. Mr. mascella neandertaliana si sedette al suo fianco e, di lì a poco, senza tanti tentennamenti, si concessero l’uno all’altro.
“Com’è che si chiama il tuo poeta? – commentò Linda subito dopo aver amoreggiato, rimbambita da un’estasiante beatitudine.
“Walt Whitman”.
“Walt?”.
“Whitman, con la doppia W e la acca. Non lo conosci?”.
“Forse l’ho sentito”.
“Comunque è un autore moderno”.
“Moderno?”.
“Sì, deve essere morto qualche anno fa”.
“Una decina d’anni fa?”.
“Su per giù”.
I due tacquero per un istante.
“Ha scritto un magnifico libro di poesie”.
“Uno solo?”.
“Sì, ma è un libro molto lungo, molto bello e molto intenso: per scriverne uno di questa portata è necessaria un’intera vita, credimi”.
“Il titolo?”.
L’uomo si fece pensoso.
“Non ti ricordi più…”.
“Sì che mi ricordo, aspetta…”.
“Non ti ricordi…”.
“Pezzi d’erba, Fili d’erba o… Foglie d’erba, eccolo il titolo esatto!”.
“Che titolo del cazzo”.
L’uomo ammutolì.
“Comunque, più tardi, me lo segno – disse Linda, individuando l’espressione affranta di colui col quale aveva appena fatto l’amore - così a casa, magari, vado a cercarne una copia in biblioteca”.

Insediatomi al palazzetto le prime settimane trascorsero liete e felici. Il lavoro non mi dispiaceva, Linda ed io ce la davamo ad intendere a meraviglia, e anche con gli sportivi - cestisti, rugbisti, pallavolisti - avevamo instaurato un ottimo rapporto. Sebbene fossimo al lavoro si respirava quasi sempre una bella atmosfera, per niente opprimente e stressante, di certo nulla a che vedere con quello che avevo patito tra le seghe e i trucioli di Casatenovo: il via vai di gente teneva alto il morale, c’era la musica di Gamma Radio di sottofondo, spesso partivano chicche di tutto riguardo, e poi il capo, grazie a Dio, si faceva vedere di rado.
Le ultime partite si giocavano alle 23.00, e dunque poco dopo la mezzanotte ci si salutava: le saracinesche precipitavano come lame di ghigliottina dalle sommità incrostate degli ingressi e i cancelli si chiudevano. Ma non era sempre così. Talvolta, infatti, era esattamente in concomitanza con l’ora di chiusura che, rimasti soli con i nostri amici che, come al solito, erano venuti a farci visita, cominciavamo la giornata, o meglio, la nottata. Si partiva col suonare, cantare, bere, fumare, per arrivare di tanto in tanto a cogliere perfino i luccichii del primo albeggiare. All’inizio cercammo di mantenere un certo contegno, consci del fatto che determinate regole, almeno in un luogo pubblico, andavano assolutamente rispettate, ma poi le cose, inspiegabilmente, precipitarono. Ci fu chi si mise a rubare le birre dal frigo, chi a organizzare veri e propri festini per soli adulti, chi a giocare a calcetto o a tennis all’una di notte senza pagare una lira. E fu così che, com’è facilmente intuibile – sono passati intanto circa cinque, sei mesi, dal mio insediamento al Santa Tecla - avvenne la catastrofe.

L’inverno era passato, le giornate s’erano allungate, le rondini svolazzavano, gli insetti pullulavano, l’edicolante di via Verdi non era più bardato come un eschimese e il suo volto era tornato a sorridere. Alessandro era già da un po’ di giorni che aveva cominciato a tampinare una pallavolista di nome Katia. La ragazza veniva da Bellusco, aveva i capelli biondi, l’aria sbarazzina, era sempre allegra e gioiosa; il suo unico difetto, a voler proprio essere pignoli, era forse quello di non sapere esprimersi tanto bene in italiano, sebbene fosse italiana più di tutti noi messi assieme: una volta che, non ricordo più per quale motivo, mi capitò di interagire con lei per via dei numerosi chewingum che, inspiegabilmente, finivano appiccicati sul pavimento degli spogliatoi delle ragazze, la giovane, rivolgendosi alle sue compagne di squadra, aveva sbraitato:
“Chi ha la cicca, la buttasse!”.
Vagamente mi ricordava la Michelle Pfeiffer di un film con Sean Connery ambientato in Russia che avevo visto in quei giorni in tv. La sua indiscutibile avvenenza fisica era ulteriormente messa in risalto dal fatto che sapeva sempre scegliere i vestiti più giusti con i quali accompagnarsi. Aveva uno stile tutto suo, oserei dire brillantemente vintage. Indossava degli appariscenti e simpatici cappellini verdognoli, o beige, del tutto simili a quelli portati da certi pescatori, pantaloni a zampa in velluto, il cui orlo spesso finiva sotto le scarpe, giubbetti attillati in renna o in pelle, camicie contrassegnate da fiori e ricami in esubero.
All’inizio Alessandro si limitò ad osservarla andare e venire dal palazzetto, fare stretching prima degli allenamenti, entrare nello spogliatoio e uscirne con i capelli inzuppati, e qualche volta con la sigaretta in bocca. Dopodiché passò gagliardamente all’attacco.
Fu una sera che Katia si era messa a parlottare con Linda nei pressi del bar che scorsi Alessandro raggiungerla e attaccare per la prima volta bottone con lei. Katia era alle prese con qualche nocciolina avanzata dall’ora dell’aperitivo, mentre Linda si ciucciava smodatamente un bastoncino di liquirizia, non importa se Paolo, il grande capo, le aveva più volte raccomandato che, dietro al bancone del bar, andava mantenuto un certo decoro e una certa compostezza. Il giovane si fece avanti sfruttando l’arma preferita con la quale era solito far breccia nel cuore di una ragazza: quella di raccontare barzellette; va infatti detto che, se c’era una cosa che davvero il giovane sapeva compiere meglio di chiunque altro, era proprio quella di narrare storie a sfondo umoristico aventi come protagonisti i classici Pierino, carabinieri, calciatori, ingegneri, pompieri. Si avvicinò a Katia saltellando come un ranocchio in amore e le disse:
“La sai l’ultima sui carabinieri?”.
“No”.
“No?”.
“No – affermò Katia ridacchiando e riflettendo sul fatto che, quel tipo, probabilmente, non lo aveva mai visto in vita sua.
“Allora posso raccontartela?”.
“Se ci tieni?”.
“Ci tengo”.
“E va bene, sentiamo”.
“Due ubriachi, uscendo dall’osteria, decidono di tornare alle rispettive dimore per smaltire i fumi della sbronza – partì Alessandro -. Il primo ubriaco, varcando l’uscio della propria casa e vedendosi riflesso nello specchio d’ingresso, corre a chiamare l’amico: Pietrooo! Pietrooo! Corri! Ho i ladri in casa! Pietro sentendolo lo raggiunge e gli dice: Adesso vengo lì e gli spacchiamo la faccia! I due salgono le scale, spalancano la porta, ma la richiudono immediatamente: Cacchio, sono in due! Andiamo a chiedere rinforzi! Sono in strada e passa una automobile dei carabinieri: Ferma, ferma! Ci sono i ladri in casa mia! I carabinieri raggiungono la casa dell’ubriaco; uno di loro sale verso l’appartamento coi due uomini, dà un calcio alla porta, la apre, quindi la richiude istantaneamente esclamando: C'era già un collega sul posto...”.
Katia scoppiò a ridere, mentre Linda si eclissava, regalando la sua attenzione a due aitanti giocatori della squadra di pallacanestro che le avevano chiesto qualcosa da bere.
“Bella! – commentò.
“Ti è piaciuta, eh!”.
La ragazza annuì soddisfatta.
“Se vuoi ne ho altre da raccontarti”.
Katia sorrise facendogli capire che sarebbe stata lieta di sentirne di nuove: dopotutto per gli allenamenti era ancora presto.
“È la prima notte di nozze di due innamorati – riprese Alessandro -. Lei dice a lui: Caro, ti devo confessare che ho un piccolo difetto: sono daltonica! E lui: Anch’io, cara, ho un piccolo difetto da confessarti: non sono svedese, sono del Ruanda!”.
Katia rise sguaiatamente.
“Aspetta. Non ho finito. Senti questa – andò avanti il ragazzo, convinto ormai di aver intortato ben bene la frivola pallavolista -. In una scuola cattolica dell’Irlanda del Nord la maestra chiede a Maria, una sua alunna: Cosa vuoi fare da grande? La ragazza risponde: La prostituta. Scusa, non ho capito, cosa hai detto? La prostituta, ribatte la ragazza. Ah, meno male – chiude la insegnate - avevo capito la protestante!”.

Sicché i due, proseguendo di questo passo, entrarono presto in confidenza, tanto che, di lì a poco, presero addirittura a sbaciucchiarsi spudoratamente come ragazzini delle medie proprio di fronte all’entrata del palazzetto:
“Ma con tutti i posti che ci sono proprio qui dovete mettervi a slinguare? – diceva loro Osvaldo, in tono scherzoso.
“Ma tu che cazzo vuoi? – gli rispondeva Alessandro, in tono altrettanto amichevole.
“Perché c’è qualcosa di male a baciarsi in pubblico? – reclamava Katia, che evidentemente non aveva ancora compreso il buon grado d'intesa che intercorreva tra i due amici.
“No, no, per carità, fate pure!”.

Una notte piovosa di tarda primavera dalla struttura sportiva, ormai, si erano eclissati quasi tutti: rimanevano i soliti quattro scalmanati, nostri partner di vita, che con ogni genere di attività fisica, verosimilmente, non avevano nulla a che spartire. Alessandro, congedatosi da essi, appollaiati e sonnolenti su uno dei tanti tavolini del bar, andò incontro a Linda per chiederle se lui e Katia sarebbero potuti andare a rilassarsi un po’ sul grande materasso verde, situato ai bordi della palestra, che normalmente utilizzavano le ragazze di ginnastica artistica in occasione di esercizi particolari. Linda gli rispose senza il minimo indugio che potevano fare quello che volevano – come sempre del resto – senza dunque porsi troppi interrogativi, sottolineando però che, da lì a un’ora, ce ne saremmo andati tutti quanti a dormire: per la notte non erano in programma festeggiamenti particolari. Sicché, i due, presesi sottobraccio, febbricitanti come perpetue in gita alla Madonna del Bosco, se la filarono di corsa e raggiunsero il morbido accessorio a disposizione del Santa Tecla; io e la mia collega intanto cominciavamo a sbrigare le consuete faccende lavorative di fine serata: scopare per terra, svuotare i cestini, contare i soldi, spegnere le luci, recuperare i palloni, fissare le reti da tennis…
A un certo punto, del tutto inaspettatamente, la porta d’ingresso si spalancò e scorgemmo varcare la soglia Paolo in compagnia di tutti gli altri dirigenti del palazzetto: con il nostro diretto superiore c’erano anche Virgilio, Santino, Ginetto e Sebastiano.
“Sorpresa! – esordì Paolo.
“Sorpresa! – ripeterono in coro i suoi accompagnatori.
“Heilà! – dissi io allegramente -. Che ci fate qui a quest’ora?”.
“Siamo passati a trovarvi. Eravamo fuori per una pizza e… abbiamo pensato che…”.
“Oh, bene! Volete qualcosa? – intervenne Linda alle prese con un sacchetto dell’immondizia stracolmo.
“Perché no? Cosa prendiamo ragazzi?”.
“Io niente, grazie – si fece avanti Ginetto, il più vecchio del gruppo, un omino con la barba bianca e le spalle curve.
“Io prendo un limoncello – disse Santino.
“Anche a me – proclamò Virgilio.
“Un limoncello? – domandò Sebastiano.
“Eh, cosa vuoi prendere a quest’ora? Abbiamo finito di mangiare dieci minuti fa! – commentò Paolo.
“Beh, in effetti – arguì il primo.
“Vada per il limoncello allora – disse Paolo -. Dai Linda, faccene cinque”.
“No, io no – ripeté Ginetto.
“Ah scusa. Gino non lo vuole. Quattro allora”.
“Bene – disse Linda.
La mia collega, all’improvviso, sbiancò. Mi avvicinai a lei e, attento a non farmi sentire dai capi rapiti da discorsi tutti loro, le dissi:
“C’è qualcosa che non va? Sei impallidita di colpo e…”.
“C’è che mi è venuto in mente solo adesso…”.
“Cosa?”.
“Che di là ci sono quei due pirla…”.
“Chi?”.
“Ale e Katia”.
“Di là dove?”.
“Sul materassone”.
“E che cosa son là a fare?”.
“Che ne so!”.
“Allora Linda… come è andata stasera? – ripartì Paolo interrompendo il nostro silenzioso e segreto chiacchierio.
“Benone – fece Linda impacciata.
“Non ci sono stati casini?”.
“Figurati”.
“Hanno pagato tutti?”.
“Ma certo, per chi mi hai preso?”.
“Non si sa mai… - disse il capo ridacchiando.
“Hei Paolo, visto che siamo qui, perché non andiamo a dare un’occhiata al tabellone dei punti in palestra? Così verifichiamo una volta per tutte se è vero che non funziona più come dovrebbe! – propose Sebastiano.
“Sì, è una buona idea – ammise Ginetto.
“D’accordo – disse Paolo -. Qualcuno mi accende le luci? – domandò, sollecitando il sottoscritto a muoversi.
Linda ed io sgranammo gli occhi increduli: se i capi scoprivano che c’erano in palestra dei nostri amici avremmo passato dei guai seri; era sottinteso che, se Alessandro e Katia si trovavano dove non si sarebbero dovuti trovare, in palestra appunto, entro la quale era rigorosamente proibito campeggiare quando non erano in corso partite o allenamenti, in un modo o nell’altro, era perché noi gliel’avevamo permesso. L’unica nostra speranza fu dunque quella concernente la remota ipotesi che i due, nel frattempo, potessero essersela squagliata; perché improvvisamente stuzzicati dall’idea di andare a farsi quattro passi all’aria aperta, o forse – ma in questo caso non saprei dire come – perché consapevoli anch’essi dell’improvvisata dei capoccia. Insomma, non ci rimase che aspettare incrociando le dita.

Paolo e la sua banda guadagnarono spavaldi il corridoio che li separava dalla zona destinata agli atleti e in breve furono a destinazione. Ancora avvolti dalle tenebre udirono degli strani, benché quasi impercettibili, rumori, provenire dal grande materasso verde situato di fronte alle spalliere: sembravano mugugni, sibili, respiri, ansimi.
“Che diamine succede là in fondo? - chiese Paolo insospettito.
“Non si vede niente - fece Sebastiano.
“A quest’ora la palestra dovrebbe essere vuota – bofonchiò Ginetto.
“Qualcuno vada da quei due pirla a dirgli di muoversi ad accendere le luci! – riattaccò il capo.
Ma proprio mentre l’uomo ordinava di venire a darmi una mossa, io pigiavo sugli interruttori elettrici, facendo sì che i giganteschi riflettori infrangessero il buio e illuminassero una scena a dir poco stucchevole: Katia governava dall’alto le intenzioni di Alessandro, nella tipica posizione di chi non sta certo giocando a briscola.
“Ditemi che non è vero – commentò Paolo, incredulo.
“E invece… - mugugnò Ginetto, sbalordito.
“Non ci posso credere - fece Sebastiano, attonito.
“Mai vista una cosa del genere – fu il commento dello scombuiato Virgilio.
Katia e Alessandro restarono immobili per pochi secondi, nella utopistica speranza che l’accensione delle luci non fosse altro che l’innocua conseguenza di un dito rovinato per caso su un pulsante della reception, cosa che spesso accadeva. Ma presto s’avvidero che i loro presupposti erano ben lontani dalla verità: c’era qualcuno di troppo alle loro spalle che li osservava in cagnesco.
“Che cazzo state facendo? - gridò Paolo.
“Sì, che cazzo state facendo? – lo imitò Sebastiano.
“Che cazzo stanno facendo? – abbaiò Virgilio.
Katia precipitò al suolo per recuperare maglietta e reggiseno, così da proteggersi al più presto dalle iridi di quelli che per lei non erano altro che degli sconosciuti; mentre Alessandro – che invece sapeva benissimo con chi stesse avendo a che fare - si rannicchiò su se stesso come un riccio, stupidamente convinto di poter passare in qualche modo inosservato.
“Dio mio, ma questi due... - blaterò Paolo - questi due sono venuti qui… Linda, buon Dio, Linda, vieni subito qui!”.
Conscio del fatto che Linda non potesse sentirlo, il capo dei capi, col suo stuolo di leccapiedi, corse dalla mia diretta superiore. La raggiunse in un secondo.
“Ci sono due tuoi amici che stanno scopando sul materasso delle ginnaste!! – le disse con gli occhi fuori dalle orbite.
“Cosa?!”.
“Hai sentito benissimo!”.
“Io…”.
“Come cavolo si chiama quello là – fece Paolo cercando di ricordare il nome di Alessandro -. Bruce Springsteen – lo soprannominò - che cazzo ci fa in palestra con…”.
“Ma…”.
“Ma?”.
“Io non so niente”.
“Tu non sai niente? E io secondo te so qualcosa?”.
“Io…”.
“Io cosa ti pago a fare?”.
“Ma…”.
Paolo cercò di domare la rabbia compiendo delle assurde smorfie del viso, ma senza ottenere grandi risultati.
“Ti aspetto qui domani alle dodici in punto - disse a Linda, con le guance infuocate.
Girò i tacchi e se ne andò.

Linda si presentò all’ora dell’appuntamento con due borse sotto gli occhi gigantesche e tre quarti di seno fuori sede. Aveva passato una notte da lupi. S'era girata e rigirata su se stessa tante di quelle volte da patire addirittura degli strani capogiri. I due si accomodarono a uno dei tavolini del bar - a quell’ora del giorno così insolitamente e desolatamente vuoti e abbandonati a se stessi - e presero a fissarsi furenti.
“Non credo che ci sia molto da dire… – partì Paolo – tieni presente però che quella di ieri è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso… in realtà è da tempo che ti teniamo d’occhio e che cerchiamo qualcuno con cui rimpiazzarti: il tuo comportamento al centro è sempre stato a dir poco biasimevole; hai sempre fatto di testa tua, non hai mai rispettato le regole, in sostanza ti sei presa gioco di noi e del Santa Tecla. Vorrei dirti che mi dispiace ma non ci riesco. In questa lettera c’è scritto che hai due mesi di tempo per sparire dalla circolazione”.
Linda non fiatò; durante la notte da lupi si era già immaginata tutto. La sera di quello stesso giorno venne dunque a salutarmi dicendomi che non sarebbe voluta stare un giorno di più in un posto dove non era desiderata. Ricordo che cercai di dissuaderla dal suo intento, sottolineando che, magari, Paolo avrebbe potuto fare marcia indietro se lei si fosse comportata meglio, ma non ci fu nulla da fare. La mia amica se ne andò con gli occhi gonfi e il passo stanco e di lei non seppi più nulla.

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