96.
«Signori Greppi», esordì
diplomaticamente il Marengo, «non vorremmo sembrarvi troppo precipitosi e
arroganti, ma non avremmo agito in questo modo se non fossimo stati malamente
respinti la volta a scorsa a suon di menzogne. Siamo qui con questo mandato di
perquisizione perché siamo convinti della vostra responsabilità per ciò che
concerne la scomparsa di don Filippo. Insieme abbiamo ricostruito punto per
punto come sono andate le cose, partendo dall’enigmatico ritrovamento del
cadavere del prete…».
I Greppi risero
silenziosamente, mostrando ancora una volta tutta la loro altezzosità; ma la
pistola ben piantata sulle loro teste, gli impedì di compiere passi falsi.
«Il qui presente
Giannino fu fra i primi ad accorgersi della scomparsa di don Filippo. Fu il
primo, infatti, a intrufolarsi nella sua casa e a scoprire un biglietto con
riportate le intenzioni del sacerdote di sparire per sempre: un biglietto del
tutto fasullo, come abbiamo potuto confermare dall’analisi delle calligrafie».
«Interessante scoperta,
signor Marengo», disse il più vecchio dei Greppi, «ma non vedo cosa possiamo
c’entrare noi con quest'assurda storia. E tantomeno con il biglietto di cui
parlate».
«Il biglietto? Beh,
semplicemente… siete stati voi a scriverlo».
Risero di nuovo.
«Sappiamo a malapena
scrivere, Marengo», disse il più giovane dei Greppi, «come può insinuare una
cosa del genere?».
«Appunto. La calligrafia
non era particolarmente raffinata, sembrava scritta da un principiante. Ma
lasciatemi proseguire».
«Prosegua Marengo, che
questa storia comincia a divertirmi», disse il Greppi più anziano.
Calò un silenzio
pesante, che preannunciò la prima sciabolata del Marengo.
«Avete ucciso voi il
prete e poi l’avete gettato nello stagno di Burago, aiutandovi con un
carretto».
Il più vecchio dei
Greppi a questo punto si spazientì.
«Vedo che nemmeno con le
buone volete capirla. Significa che siete duri di comprendonio».
«Sarà, ma non ritiro una
virgola di quel che ho detto».
«E allora spiegatemi di
che diamine di carretto state parlando. Noi non abbiamo mai posseduto un
carretto!».
«Suvvia, volete smetterla
con queste farneticazioni?», si fece avanti l'altro fratello.
«Vi scaldate signori Greppi?»,
domandò con una punta d'ironia il Bosi, «c’è qualcosa che ha stuzzicato il
vostro buonumore?».
«Non mi ha scaldato
niente», disse il più barbuto dei due, «ma odio essere accusato di nefandezze
che non ho compiuto. Vi ripeto che non so nulla del carro di cui parlate…
e non so nulla di questa maledetta storia!».
I presenti tirarono un
sospiro per alleggerire l'angoscia, ma fu ormai evidente a tutti che i Greppi
avevano cominciato ad arrampicarsi sui vetri.
«Signori Greppi, abbiamo
le prove che il carretto che abbiamo trovato appartiene a voi», disse il
Marengo.
«Mi piacerebbe tanto
sapere come avete fatto ad avere queste prove, sinceramente mi viene da
ridere».
Erano già d’accordo i
Banfi di intervenire al momento opportuno. S’erano infatti nascosti dietro
l’ingresso dei Greppi e avevano seguito l’intera scena, come da copione, pronti
a buttarsi nella mischia, non appena avessero tirato in ballo la vicenda del
carretto.
«Chiedo permesso», disse
il signor Banfi, entrando nella dimora dei Greppi, affiancato dal figlio
Calimero.
«Voi?», disse stupito il
maggiore degli indagati.
«Siamo vicini di casa,
lo so, ma so anche che ciò avete raccontato fino a oggi non corrisponde alla
verità», disse il Banfi, con risolutezza, facendosi spazio fra i presenti
asserragliati intorno ai fratelli malavitosi come un plotone di esecuzione.
«Come si permette di dire
certe cose? È vero che siamo vicini, ma sarebbe quantomeno fuorviante asserire
che noi e voi siamo amici».
97.
«Mai pensato che fossimo
amici», disse il Banfi, «in ogni caso vorrei farvi presente che io posso
testimoniare contro di voi. So tutto del vostro carretto».
«Si può sapere di quale
carretto state parlando?».
«Il carretto che avete
sempre custodito nel vostro cascinotto, a pochi metri da qua. Se pensa che non
sia verosimile la mia tesi, dimostrateci il contrario, ossia che il mezzo è
ancora al suo posto».
I due Greppi si
guardarono costernati, ma ben lontani dall’idea di qualunque resa. Brillava nei
loro occhi un luccichio perverso, che faceva rima con il ghigno disperato che
contrassegnava i loro volti come una maschera d'orrore. Mossero gli occhi
dall’alto al basso, volendo comicamente dimostrare che non avevano più tempo da
dedicare a gente che sosteneva i teoremi più assurdi pur di metterli in
difficoltà. Di fatto avevano il callo per reggere qualunque accusa, e ancora
una volta erano, dunque, convinti di poterla fare franca.
«Ora che mi fate davvero
perdere la pazienza», andò avanti il più anziano dei fratelli, «possiamo andare
a vedere quello che volete, e se il carretto non è al suo posto è solo perché
qualcuno ce l’ha rubato».
«Proprio così»,
intervenne il più giovane dei Greppi, «non nascondo che più volte alla nostra
tenuta hanno fatto visita persone non proprio per bene».
«Proprio voi parlate di
persone per bene?», sentenziò il Boffalora, centrando questa volta
l’intervento.
«Eppure, più volte ci
hanno fatto visita i ladri», raccontò il maggiore dei Greppi, «possiamo
dimostrarlo come volete. Ci sono ancora le serratura divelte del pollaio».
Il Marengo e l’Ortolina
si scambiarono uno sguardo stanco e preoccupato. Sapevano di averli in pugno,
ma non comprendevano come potessero ancora trovare la forza e il coraggio di
dichiararsi innocenti. Non avevano mai incontrato soggetti in grado di
inventare di sana pianta nuove tesi per dichiararsi estranei a fatti che li
vedevano palesemente immischiati in prima persona. Pensarono che certi
individui non fossero degni di essere considerati uomini.
«Signori Greppi»,
riattaccò il Marengo, «vorrei precisarvi che le assi del carretto mostrano
ancora le tracce del sangue versato da don Filippo».
«Il sangue di don
Filippo?», ridacchiò il più vecchio dei Greppi, «e chi vi dice che non fosse il
sangue di una gallina?».
«So riconoscerlo il
sangue di una gallina», azzardò il Boffalora, recuperando alla grande i punti
persi nelle ultime ore, «e non è quello che si viene a trovare su un vetusto
mezzo di trasporto, abbandonato nel cuore della più lussureggiante foresta del
circondario».
A un certo punto il
Giannino prese a starnutire come un forsennato, l’ennesimo attacco di rinite, e
per qualche secondo tornò il silenzio nella lugubre stanza dei Greppi. Il
Marengo ebbe così modo di riorganizzare il discorso e avviarsi alla stoccata
finale, contando su un nuovo intervento: quello di Calimero, che avrebbe
preferito mille volte essere lasciato in pace.
98.
«Calimero, tocca a te»,
disse lapidario il Marengo.
«Signori...», e gli si
gelarono le parole in bocca, percependo come una coltellata nello stomaco
l’occhiata malvagia dei Greppi.
«Forza ragazzo», gli
disse l’Ortolina, «non ti fare impressionare».
«Signori», esordì con
maggiore risolutezza, «ricordo molto bene la sera di una decina di giorni fa...
e non potete non ricordarla anche voi».
«Non sappiamo di cosa
parli, ragazzo. E in ogni caso stai bene attento a quel che dici, perché a noi
i bugiardi non piacciono».
Questa volta, però,
Calimero non si lasciò intimidire e proseguì audacemente per la sua strada,
dopo aver rotto definitivamente il ghiaccio.
«Signori», riattaccò,
«una decina di giorni fa avete cercato di vendermi un candelabro, un candelabro
d’argento. Vi sfido a dire che non sia vero. Perché significa che state barando
in modo spudorato e infingardo».
«Vai avanti se hai il
coraggio», disse il più vecchio dei Greppi.
«Sicuro che vado avanti.
Ebbene, vorrei farvi presente, supponendo che abbiate la memoria corta, che oggi
chiunque può testimoniare che quel candelabro era lo stesso che aveva in casa
don Filippo».
I due Greppi scoppiarono
in una clamorosa risata, applaudendo come si fa nel corso di uno spettacolo del
circo equestre.
«E proprio di quel
candelabro che abbelliva la mensola sopra il camino della curia, è quello di
cui vi siete serviti per assassinare don Filippo, colpendolo alla testa»,
precisò il Marengo.
«Peccato, però, che di
quel candelabro non ci sia più traccia, non è vero ragazzo?», e continuarono a
ridere sguaiatamente come maschere di carnevale.
«È qui che vi
sbagliate», disse temerariamente il Calimero, ripristinando l’assoluto silenzio
di pochi istanti prima, quando il Giannino era stato colto da un attacco di
allergia.
«È qui che vi
sbagliate», ribadì istantaneamente.
E a questo punto i
Greppi provarono per la prima volta un certo imbarazzo, non sapendo più come
destreggiarsi.
Lasciarono che un altro
minuto di silenzio si consegnasse all'eternità, dopodiché riprese la parola il
più giovane dei due sgherri che tentò l’inverosimile per tirarsi fuori da un
inghippo ormai senza via d’uscita.
«Cosa vorresti dire?».
«Le cose, semplicemente,
non sono andate come pensate. Dopo avere rifiutato la vostra offerta, infatti,
pur senza avere alcun presentimento sul vostro conto, non so per quale motivo,
m’è venuto in mente di seguirvi. Non so dove eravate diretti e per che scopo,
ma non avevo altro da fare e così vi ho...».
«Brutto cane
vigliacco!», ululò il più giovane dei Greppi, alzandosi di scatto con il pugno
teso.
«Aspetti signor Greppi»,
intimò l’Ortolina, facendo ronzare la canna della pistola intorno alle sue
tempie, «lasci finire il giovane. Cos’è tutta questa rabbia improvvisa?».
I Greppi erano alle
corde. Ormai era evidente a tutti: compresi gli stessi accusati.
«Beh, alla fine vi sono
stato alle costole fino all’orto abbandonato e... vi ho visto benissimo mentre
scavavate la buca per farlo sparire per sempre».
«Diavolo di un cane»,
mormorò di nuovo il più anziano dei Greppi.
«Bene, signori»,
intervenne il Bosi, «e adesso se volete seguirci, farebbe piacere anche a noi
andare a vedere dov’è finito il bel cimelio di don Filippo...».
99.
I due Greppi, immobili
per l'istante più doloroso di tutta la loro esistenza, respirarono
profondamente, avvolti da una nube di infamante candore; il più giovane fu il
primo ad alzarsi con il passo più stanco del solito e la voglia di spaccare
tutto ciò che aveva intorno. Indossò un nuovo paio di pantaloni, presto imitato
dal fratello più grande che ancora pareva non rendersi conto di quel che stava
accadendo. Poi, tutti insieme, come una scolaresca in gita, si diressero al
famoso orto dimenticato: davanti i due incriminati, con la pistola
dell’Ortolina a un metro di distanza, a chiudere la fila i tre giovani,
travolti da un sentimento sconosciuto, misto euforia ed eccitazione.
«Bravo Calimero»,
sussurrò all’amico, il Giannino.
«Non ho fatto altro che
il mio dovere».
«All’inizio, però, dì la
verità, te la sei fatta sotto», mormorò l’Ambrogino.
«Beh, sì, non è stato
facile, lo devo ammettere. Me ne sarei tranquillamente stato sulle mie, ma dopo
l’intervento dell’Ortolina è stato tutto più semplice».
Giunsero al cospetto del
grande vivaio derelitto con il sole ormai ben alto sull’orizzonte, velato da
timide nubi che di tanto in tanto, regalavano disegni surreali all’incantesimo
celeste. Fu un momento di grande tensione collettiva e chiunque avrebbe ammesso
di non essersi mai trovato prima in una situazione tanto minacciosa. Nessuno
fiatò, e in religioso silenzio, con una banale sbracciata, il Marengo indicò ai
due Greppi di fare saltare fuori il candelabro.
Nessuno di essi, però,
si mosse.
«Signori, per favore,
non rendiamo ancora più complicata la situazione», disse il Bosi.
Ma ancora i fratelli non
alzarono un dito.
«Calimero?», ordinò
l’Ortolina.
«Ora non ricordo con
esattezza il punto, era buio e osservavo da lontano, ma... fatemi fare un giro
veloce».
Il ragazzo si staccò dal
gruppo e cominciò a percorrere avanti e indietro il piccolo e infestato lembo
di terra, dove da anni ormai non cresceva più nulla; se non qualche ortaggio
selvatico, che nemmeno gli insetti dimostravano di apprezzare.
«Signori Greppi», disse,
da una decina di metri dal capannello, «se non mi sbaglio è proprio qui che
seppelliste il candelabro».
A ben guardare, infatti,
la terra era ancora smossa, rendendo evidente a chiunque che in quel misero
angolo abbandonato da Dio, contrassegnato da una vitalba che pareva esalare il
suo ultimo respiro, giaceva l’oggetto della disputa.
«Avete sentito cos’ha
detto Calimero?», intimò l’Ortolina ai due appuntati, «se ora voleste, da brave
persone quali dite di essere, scavare in quel punto per vedere cosa c’è sotto,
ci fate un immenso piacere».
I due Greppi furono
presi dallo sconforto. Sapevano che qualunque mossa gli sarebbe costata la vita
e dunque non poterono far altro che obbedire.
Li supportò cinicamente l’Ambrogino
che servì loro una vecchia pala tutta arrugginita, coricata su se stessa a due
passi dall’ingresso dell’orto.
«Forza signori», berciò
il Bosi.
Prese la pala il più
giovane dei Greppi che con ritmo lento e cadenzato, quasi stesse scavando la
sua tomba, cominciò a vangare. Non ci mise molto ad arrivare al dunque, e dopo
pochi istanti si udì il tintinnio di un oggetto: proprio il famoso candelabro
di don Filippo.
«Volete essere così
gentili da recuperarlo dalla fossa e consegnarlo nelle nostre mani?».
«Cani bastardi», disse
il più giovane dei Greppi, «vi pentirete amaramente di quello che ci state
facendo passare».
«Lo vedremo caro
Greppi», disse il Boffalora, ridacchiando, «ora sia così gentile da mostrarci
il reperto una volta per tutte».
L’uomo alzò il candelabro
e lo piantò davanti al naso di Calimero fulminandolo con lo sguardo; e fu
evidente a tutti che, il braccio più esterno dell’oggetto, era ancora
impiastrato dal sangue del povero don Filippo.
100
15 agosto
La Cesira andava di
fretta, con la sua solita andatura, comica e febbricitante. Non c'erano stati
questa volta topolini da eliminare la mattina presto, ma Ferragosto era
arrivato e voleva che ogni cosa fosse a posto. D'altra parte, da quando era
morto don Filippo, s’era presa carico da sola di tutti gli impegni e le
scadenze della parrocchia e ogni giorno che passava sembrava ancora più
affaccendata di prima. Peraltro non poteva contare molto sugli altri
compaesani. La perpetua pareva persa in un mondo tutto suo, irrecuperabile
meteora in cerca di un nuovo ospite da servire; mentre le altre donne, fra
casa, figli, e mariti, avevano sempre un mucchio di cose da fare per poter stare
a pensare anche ai festoni per la celebrazione religiosa. La Cesira non stava
più nella pelle anche perché di lì a poco sarebbe arrivato il prete di Cavenago
per dire messa; senza contare che c’era in programma addirittura una grande
festa per fine serata.
Non era stato facile
decidere per una chiusura in pompa magna, ma alla fine tutti i paesani erano
stati felici di accogliere questa nuova proposta, arrivata da chissà dove, per
sollevare animi depressi da troppi giorni; consci del fatto che lo stesso don
Filippo sarebbe stato lieto di dare una bella botta alla solita routine.
Peraltro il giorno prima i due Greppi erano stati consegnati alla polizia, e
finalmente era stata fatta giustizia e chiarezza sulla torbida vicenda costata
la vita al prete del paese. Insomma, era parere unanime che non ci fosse migliore
momento per poter benedire il cielo e l’intero villaggio del vimercatese con un
po’ di sano e spontaneo baccagliare.
La donna giunse in curia
che il sole era sorto da poco, colorando tante nuvolette disposte una in coda
all'altra, come pecorelle al pascolo. La perpetua dormiva ancora, ma aveva le
chiavi per entrare in chiesa dal retro e così non dovette scomodare nessuno. Raggiunse
la saletta di fianco al piccolo organo, famelica come un gattino randagio in
cerca di un goccio di latte, dove erano accatastati gli ultimi paramenti da
sistemare; e prese ad addobbare l’altare principale e i due laterali più
piccoli, dove il prete sarebbe finito durante l’omelia per rivolgere una
preghiera a sant’Antonio e a santa Lucia. Ai più sensibili una scena del genere
avrebbe suscitato un sentimento a metà strada fra la pena e la tenerezza. Nel
giro di un’ora aveva, d'ogni modo, fatto tutto, con il suo solito
insopportabile ma necessario puntiglio. Si rilassò per qualche istante sulla
panchina più esterna della chiesa, attendendo l’arrivo dei primi fedeli.
La messa prese il via
alle nove in punto, come tutte le domeniche, benedetta dall’enorme crocefisso
che troneggiava sopra l’altare maggiore e dal caloroso "benvenuti
fratelli" del sacerdote cavenaghese, ancora con le lacrime agli occhi. La
chiesa fu subito contrassegnata dal giubilare collettivo e catartico dei
fedeli, raccolti in un religioso e commosso silenzio. La missione del Marengo e
i suoi uomini aveva regalato un sentimento di grande felicità e distensione a
tutti i parrocchiani, ma anche la consapevolezza di vivere in un mondo dannato,
sempre pronto a mostrare il suo lato peggiore quando meno ce lo si aspetta. Ma
finalmente era arrivato Ferragosto, una delle feste più attese dell’anno, che
in qualche modo, in quest'occasione, avrebbe davvero segnato un nuovo inizio
per la comunità.
In prima fila, le donne
vestite di nero, reclamarono al Signore un po’ di pioggia, e lo ringraziarono
per avere consentito al Marengo di fare luce sull’omicidio di don Filippo.
C’erano ancora molte cose che sfuggivano al popolino, ma l’importante era che i
due assassini di cascina Branca non fossero più in giro a seminare terrore.
Durante la predica il curato di Cavenago ricordò ancora la figura dell’amico
prete, e benché fosse venuto a conoscenza di tutti i risvolti della vicenda,
del ricatto e della tresca con la giovane Agnese, non fece altro che spendere
parole di encomio per il collega scomparso.
«E ora andiamo in pace»,
concluse, «e se qualcuno di noi ha voglia di fare festa, ben venga, anche il
Signore ne sarà contento. Ma non dimentichiamo don Filippo, che, potete starne
certi, è ancora qui in mezzo a noi e lo sarà fino alla fine dei nostri giorni».
101.
Il Mario Vismara era uno
dei più apprezzati musicisti della zona, a suo agio fin da bambino con gli
strumenti musicali. Ogni volta che c’era da fare festa chiamavano lui, un po’
come accadeva con il Giuan da Zin quando c’era da scannare un maiale. Arrivò a
bordo di un calesse malandato, trepidante per il caldo e innervosito da un
battibecco avuto con la moglie prima di partire, e fu subito accolto con grande
calore dai buraghesi. Dante Cereda e Giovanni Galbusera compirono quattro passi
di danza per sottolineare il suo beneaugurato arrivo.
«La Cesira!
Vogliamo la Cesira!», prese a sbraitare la Ilma Casiraghi.
La volevano in mezzo
alle donne maritate, per festeggiare con loro, per ringraziarla del lavoro
svolto e per dimostrarle una volta per tutte che, nonostante il carattere
burbero, chiunque le voleva bene, come a una persona di famiglia.
La donna se ne stava in
disparte, come sempre in imbarazzo di fronte all’ipotesi di lasciarsi andare.
Non comprendeva, d'altra parte, la necessità da fare baccano, di divertirsi:
per lei il divertimento era una sorta di tributo agli inferi. Avrebbe preferito
continuare a farsi gli affari suoi o, meglio ancora, filarsela a casa per
concedersi un po’ di meritato riposo. Ma le cose non dovevano andare così,
visto che anche la Maria Casiraghi ci mise del suo per tirarla nella
mischia:
«Senza la
Cesira non possiamo dare il via alle danze! Cesira! Cesira!».
Alla fine la donna,
seppur con reticenza, raggiunse il gruppo delle ammogliate, regalando loro un
timido sorriso.
«Ma non pensate di farmi
fare chissà che cosa», mugugnò, «non voglio dare scandalo adesso che sono già
vecchia».
Rebecca Mariani le
strinse la mano e la ringraziò privatamente, mentre tutte le altre presero a
saltare benedette da un'elettrizzante euforia.
Perfino la Marta Bucchi si
unì ai festeggiamenti, fortunatamente libera dalle malelingue che la volevano
coinvolta nell’omicidio del prete. Si abbandonò a un ballo elegante e sensuale
che non lasciò indifferente la lunga fila di uomini che, ancor più intontiti della
Cesira, se ne stavano in mezzo alla piazza a fumare come turchi e a far finta
di seguire la musica del Vismara.
«Hai capito la strega?»,
disse il Luciano Brioschi.
«Forse dovremmo imparare
ad apprezzarla di più», disse il Marengo.
«L’avrà imparato nel
corso di qualche sabba», affermò sarcastico Modesto Galli, indifferente al
suggerimento del saggio del villaggio, fino a quel momento intento a parlare di
mais con l’amico Pinuccio Villa.
Anche i ragazzi erano in
subbuglio, esaltati da una festa che pareva promettere grandi cose. Maschi e
femmine se ne stavano ai margini della piazza, separati in due gruppi, sapendo
che questa sarebbe stata una ghiotta occasione per far colpo su qualcuno o
qualcuna. C’erano l’Ambrogino e la Lina che non smettevano di scambiarsi
occhiate languide; mentre Andrea Brambilla bofonchiava agitato con il figlio di
Domenico Carimati, parlando di tutto e di niente, divorato da uno strano
desiderio di scappare chissà dove.
«E il Giannino?»,
domandò all’improvviso il Calimero, «si può sapere dove è finito?».
L’Ambrogino sapeva
tutto, ma aveva taciuto, in accordo con il compagno di ventura. Ce ne sarebbe
stato, del resto, di tempo per far circolare certe voci.
«Non ne ho la più
pallida idea», disse indirizzando alla Lina un sorriso malizioso.
Ce l’aveva però
l’Agnese, con la quale il Giannino, per la prima volta in vita sua, s’era messo
a rimirare un affascinante spicchio di luna, non lontano dal sinuoso e
sempiterno scorrere del Molgora.