lunedì 12 aprile 2010

Short stories: "La lunga notte di Joe Cadillac"

I

Dei ragazzi pomiciavano indiscreti. Altri discutevano concitatamente. Alcuni sorseggiavano del vino novello in bicchieri scintillanti. C’era, insomma, aria di festa, come spesso accadeva in occasione di un’esibizione di Joe Cadillac, from Colnago, CAP 20040. Con Joe c’erano i compagni di sempre, il batterista, il chitarrista, il bassista, il tastierista. Il primo era il più anziano della band, un quarantenne con la coda e i baffi, il sorriso sardonico, gli avambracci ricamati di tatuaggi; su uno, in particolare, era disegnato un serpente a sonagli che, con le sue enormi fauci, divorava una prosperosa e avvenente fanciulla. Un tipo allegro, il vero trascinatore del gruppo (escluso Joe naturalmente), l’unico che non si demoralizzava mai, anche quando le serate non erano delle migliori. Il chitarrista aveva una trentina d’anni, ma sembrava molto più anziano. Meno esuberante del batterista rispondeva a ogni comando impartito da Joe con umiltà e rassegnazione. Con addosso un paio di pantaloni alla zuava e un berretto alla Huck Finn si destreggiava con la sua preziosa Fender Stratocaster che esibiva agli amici con grande orgoglio, senza però farla toccare a nessuno: uno strumento del genere, evidentemente, l’avrebbe potuto abbandonare solo nelle grinfie di Johnny Cash in persona. Il bassista era un omone con le spalle larghe, il doppio mento, e un ciuffo di capelli ribelli alla Jerry Lee Lewis. Anche lui sulla trentina, era fidanzato con una moretta rotonda e petulante, con la bocca larga e gli occhi da civetta. Infine, il tastierista, il più giovane della band, sui venti anni, l’ultimo acquisto del gruppo, era contraddistinto da vistosi basettoni e un voluminoso naso a patata. Portava una tshirt con ricamato lo stemma di Superman e un paio di scarpe demodè.
Joe Cadillac si aggirava come una faina per i tavoli del locale, mostrando a tutti la sua spavalderia. Puntava gli occhi soprattutto su qualche viso mai visto prima, ragazze arrivate da chissà dove per assistere a un suo concerto. A tutti, comunque, diceva che fra poco avrebbero assistito all’apocalisse... Al suono di queste parole il pubblico andava in visibilio. Fischi, grida e mugolii si rincorrevano per il locale, amplificando l’atmosfera euforica che già si respirava. A Joe – era noto - piaceva fare la rockstar e ai ragazzi che lo seguivano, evidentemente, non dispiaceva fargli credere che lo fosse. Eppure, Cadillac, qualcosa della rockstar, ce l’aveva davvero. A cominciare dal modo in cui calcava il palcoscenico dove, a parte suonare, faceva un po’ di tutto: si sdraiava, si rotolava, beveva, prendeva in bocca il microfono, insultava, gridava oscenità, in un americano quasi sempre maccheronico, ma in qualche modo efficace e coinvolgente. Insomma, non era certo una fra le tante mezze calzette che si alternavano per i caffé della Brianza per ricevere un po’ di applausi, regalando qualche originale pezzo dal vivo. Lui – si vedeva lontano un miglio - aveva una marcia in più: e se per gli altri guardare il pubblico dall’alto era una costante sfida contro se stessi, per Joe era la cosa più naturale del mondo.
La data al Tapiro - bar di Bellusco aperto da poco, dove spesso proponevano musica dal vivo - l’aveva presa Danny Brambilla, il chitarrista di Joe. Si era messo d’accordo con Angelo Stucchi, responsabile dei concerti, un sessantenne canuto e barbuto:
“Una serata con Joe Cadillac? Certo che la possiamo organizzare – aveva detto Angelo, masticando con rabbia un sigaro ormai giunto alla fine.
“Ti porto qui l’intera Brianza – gli aveva risposto Danny con grande caparbietà.
“Con Joe non si scherza”.
“Joe non ti deluderà”.
“Quanto?”.
“Cosa?”.
“Quanto chiede?”.
“Quanto offri?
“100”.
“Troppo poco”.
“150”.
“Siamo in cinque”.
“200”.
“Cinquanta a testa e non se ne parla più”.
“Andata”.
“Joe non ti deluderà”.
Alle 22.30 Joe, per primo, guadagnò il palco. Con uno scatto felino agguantò la chitarra elettrica, un giocattolo di 500 euro che aveva acquistato dopo aver dimenticato la Gibson acustica in riva al mare - era andato in gita a Borgio Verezzi con un amico, si era ubriacato, e solo sulla strada del ritorno, ormai oltre Serravalle Scrivia, si era reso conto di essersi lasciato dietro qualcosa di assai prezioso, ma ormai verosimilmente impossibile da recuperare – e cominciò a violentare l’aere del locale con sferzate elettriche micidiali, l’intenzione di ricordare il Dylan del periodo anfetaminico, quello di poco precedente il misterioso incidente motociclistico del ’66.
Debuttarono con ‘Gangster’, pezzo al fulmicotone, di quelli capaci davvero di annullare per qualche secondo il respiro, selvaggi, quasi punk. Joe prese a digrignare i denti come un satanasso e Danny a seguirlo con i suoi fraseggi, fissandolo quasi intimorito, battendo il piede a tempo, e con il solito stuzzicadenti incastrato fra i due incisivi, il suo modo personale per scaricare l’ansia e la paura, forse, che da un giorno all’altro Joe potesse lasciarlo a casa. ‘Gangster’ era uno dei brani più rappresentativi del repertorio di Joe, con il quale l’artista di Colnago raccontava, verosimilmente, se stesso anni prima, nel pieno di uno dei periodi più bui e burrascosi della sua vita, perennemente sull’orlo del baratro, in bilico tra redenzione e maledizione. Il pezzo risaliva alla fine degli anni Novanta e vedeva Burt, il protagonista della canzone, alle prese con tutto ciò che c’è di più lontano dal quieto vivere: sbirri, donne di strada, gioco d’azzardo. Nelle gesta del protagonista – raccontate con grande enfasi da Joe - si intuiva la sua voglia di spaccare il mondo in due, mandare a quel paese padri e padroni, ma anche la realtà di un cuore troppo tenero per poter caparbiamente imporsi nella società. Era dunque, soprattutto, la sua straordinaria sensibilità e la rara capacità maschile di interpretare i sentimenti altrui a emergere, a scapito dell’aurea da duro e invincibile che avrebbe voluto, probabilmente, far credere. In ogni caso, alla fine della canzone, Burt scopriva l’amore, il vero amore, e con ciò finiva per raddrizzarsi, per abbandonare le cattive compagnie e per mettere su famiglia, forse il sogno che ancora Joe non era riuscito a realizzare.
‘Adriana’ fu il secondo pezzo della serata. Ma diciamolo subito: la Talia Shire di Stallone non c’entrava proprio nulla. Il fatto è che c’era sempre qualche sprovveduto che – scrutando per la prima volta la sua scaletta - chiedeva a Joe dove fosse andato a scovare la brillante idea di dedicare una canzone alla moglie di Rocky Balboa, mandandolo, peraltro, su tutte le furie. Adriana, in realtà, era stata una delle ragazze più importanti di Joe, con la quale, però, aveva ormai perso ogni contatto. Erano stati insieme per diversi anni, poi lei lo aveva scoperto fare il cascamorto con una sconosciuta in un’osteria di Montevecchia e addio fidanzamento. Joe aveva fatto di tutto per farsi perdonare, ma non c’era stato verso. Adriana era una donna fedele e sincera al suo uomo e come tale esigeva altrettanto rispetto dal partner. Sicché uno sgarro del genere non poté proprio mandarlo giù. Scomparve dall’oggi al domani dalla vita di Joe e per il rocker fu un colpo tremendo. Era sinceramente affezionato ad Adriana e non poter più improvvisamente contare su di lei lo mandò in cortocircuito. Prese a esagerare con l’alcol e divenne violento. In un paio di occasioni fu anche protagonista di risse pesanti. Contemporaneamente prese a scrivere canzoni cariche di una rabbia inaudita. Una di queste divenne appunto ‘Adriana’, nel cui ritornello la attaccava dicendo che se non tornava indietro era solo perché nel suo petto batteva il cuore di una ‘puttana’. Il fatto, poi, che ‘Adriana’ facesse rima con ‘puttana’ lo portò seriamente a credere di aver composto il capolavoro della vita.

II

Al terzo pezzo Joe cominciò veramente a dare il meglio di sé. Raggiunse il piatto più grosso della batteria e iniziò a prenderlo a testate. Il suo capo sembrava di cemento armato. Dava l’impressione di non provare alcun dolore, come se stesse avendo a che fare con una superficie di polistirolo. Il pubblico, naturalmente, impazzì di gioia.
“Vai Joe!”.
“Grande Joe!”.
“Facci sognare!”.
“Rock ‘n roll!”.
“Adriana puttana!”.
E via di questo passo, gridavano dei ragazzi puntando il pugno verso il cielo.
Arrivarono la quarta e la quinta canzone, che se ne andarono però senza lasciare il segno. Poi fu la volta del sesto brano in scaletta, in cui Joe attaccò con un altro numero dei suoi: quello dello scarafaggio. Sdraiatosi per terra, con la pancia all’aria, l’ombelico al vento, prese a mimare una specie di coleottero con le elitre in panne. Joe diceva di aver letto pochi libri nella sua vita, ma ‘La metamorfosi’ di Kafka - che una professoressa di italiano delle medie gli aveva ordinato di leggere per punizione, dopo aver colpito una compagna di classe con un sasso in testa - non era più riuscito a dimenticarlo. Evidentemente, nei suoi spettacoli, per qualche strano disegno della mente umana, ritornava a vivere quella brutta esperienza, che poi cercava di esorcizzare riportando in vita il Gregor Samsa che si sveglia la mattina trasformato in un gigantesco insetto, incapace di compiere le più normali azioni quotidiane... Stava dunque scalciando come un matto - proprio come fanno gli scarafaggi ritrovandosi all’improvviso sottosopra - quando d’un tratto, con la coda dell’occhio, scorse una affascinante ragazza scivolare ai piedi del palco e mettersi a ballare come una forsennata. Una giovane sconosciuta che, solo più tardi, si seppe essere l’amica del fornitore del bar, di nome Greta. Cadillac provò un vago senso di inquietudine, tipico di quando aveva a che fare con fanciulle di una bellezza imbarazzante. Riacquisì immediatamente la postura eretta e prese a fissare la ballerina. La giovane che aveva destato la sua attenzione, costringendolo a finire anzitempo uno dei suoi numeri di maggior successo, aveva i capelli biondi, lunghi, lisci, gli occhi verdi, le ciglia sottili, le labbra carnose e, ciliegina sulla torta, un atteggiamento a dir poco accattivante, ingraziato da un abito che definire succinto sarebbe stato un eufemismo. Greta stette al gioco di Joe, e gli rispose col suo stesso movimento degli occhi a cui lui fece seguito tirando fuori la lingua come un pervertito. Cadillac era al settimo cielo: forse era la volta buona per vivere una magica serata all’insegna di sesso, alcol e rock ‘n roll.
Passarono il settimo e l’ottavo pezzo. L’aria del bar satura di elettricità. Poi, dalla nona canzone in avanti, si entrò dritti nella leggenda, nel pieno di un’odissea musicale senza eguali. Il titolo del nuovo brano in scaletta, ‘Motel Sex’, scopiazzato da una canzone di Danny Cohen, sgangherato newyorkese arrivato al successo ormai con i capelli bianchi. Fu come vedere Joe, con i suoi lamenti, decollare da un campo abbandonato del Texas, inseguito da tutti gli altri della band. Al Tapiro si cominciò dunque a respirare un’atmosfera davvero speciale. L’eternità a un tiro di schioppo. L’impressione di trovarsi non in Brianza, regione obsoleta, perdutamente grigia di smog e lavoratori irosi, ma in uno stato lontano, tipo appunto l’irraggiungibile e meraviglioso Texas. Sicché dai campi di grano, orzo, avena che circondavano il locale, qualcuno con giù probabilmente qualche birra di troppo, giurò di aver visto zampillare flutti di oro nero e John Lansdale parcheggiare la sua Ford - ricoperta dalle finissime e coloratissime polveri di Nacogdoches - al fianco di quella di Joe.
‘Motel sex’ si riferiva a un amico intimo di Joe, Brian Esposito, un quarantacinquenne dalla vita a dir poco incasinata. L’uomo aveva un’azienda tutta sua, attiva nel campo della produzione di articoli in ferro battuto e felicemente prospera fino ai primi anni del Duemila. Il fallimento non l’aveva previsto, preso com’era dalle innumerevoli beghe tirate in piedi dalla moglie moldava, che di punto in bianco lo aveva piantato, per tornare al paese natio, insieme alla loro figlioletta di due anni. L’uomo, comprensibilmente, non aveva retto al colpo e si era lasciato andare, vivendo come un mentecatto, senza un briciolo di dignità. Certe sere era così ubriaco da non riuscire ad arrivare a casa, e si fermava quindi a dormire dove capitava, una volta, forse, addirittura sotto il ponte per andare a Concorezzo, fra stracci e cartoni del vino. Sono voci che non hanno mai trovato una conferma, tuttavia la sua dipendenza dall’alcol era un fatto conclamato. Nonostante le notevoli difficoltà economiche, però, non aveva perso l’abitudine di andare a rimorchiare lungo il vialone delle Industrie, sulla strada per Monza. Ragazze nigeriane, senegalesi, ucraine, russe, che qualche volta ospitava per intere notti in una stanza del Motel Ranieri, lungo l’arteria provinciale che conduce a Melzo. ‘Motel sex’ era dunque una canzone vivace, apparentemente allegra, ché in realtà nascondeva la profonda amarezza di avere perso per sempre un vero amico.
Con la decima canzone – ‘La perla di Finale Ligure’ – molti del pubblico abbandonarono le rispettive postazioni e seguirono l’esempio di Greta. La musica, d’altronde, s’era fatta così coinvolgente che anche i muscoli più indolenziti reclamavano il desiderio di potersi muovere al tempo dei brani spumeggianti di Joe Cadillac. Con il brano dedicato alla vecchia fiamma del rocker di Colnago, pre-Adriana naturalmente, un tale dall’aria distinta nonché disinvolta, si avvicinò a Greta, e cominciò a roteare i suoi fianchi sfiorando le grazie della giovane tutt’altro che infastidita. I loro occhi si stimarono immediatamente, ma questa scena a Joe non piacque per nulla. Quanto era vero Iddio nessuno poteva mettersi a fare gli occhietti dolci a colei che aveva deciso di accompagnare a casa dopo il concerto, la più bella del reame che di diritto spettava esclusivamente al re della serata, per l’appunto se stesso. Quell’uomo, quella mezza sega, non aveva alcun diritto di mettere il becco nei suoi affari, e dunque si meritava una bella lezione. Ma era necessario stare attenti con le parole, già altre volte la situazione gli era sfuggita di mano, causando il finimondo.
“In questa sala c’è qualcuno di troppo – si limitò a dire, puntando gli occhi verso l’alto.
Il boato della folla fece tremare i bicchieri sui tavoli.
“E questo qualcuno di troppo se si vuole bene è bene che levi i tacchi”.
“Grande Joe! Ti vogliamo nudo! – fece un suo fan non lontano da Greta.
“Non sto scherzando. Certe facce al mio concerto non hanno senso di esistere. In macchina, nel baule, ho un coccodrillo. E con questo chiudo”.
Gli applausi scrosciarono impetuosi. Joe minacciò con uno sguardo di fuoco il suo rivale – del tutto inconsapevole del fatto che si stesse rivolgendo a lui - dopodichè riattaccò con l’ennesima chicca: ‘Coca Blues’.
Con questa canzone Joe si riferiva a un altro amico, l’ennesimo poco di buono, specializzato in spaccio – hashish e cocaina soprattutto – attivo presso i giardinetti di Omate, sotto le pensiline delle scuole elementari e addirittura nei bagni della biblioteca di via Cesare Battisti. Aveva composto per lui questa canzone, subito dopo aver saputo del suo arresto. Degli sbirri lo avevano sorpreso vicino al benzinaio della Star e portato di filata a San Vittore: stava chiacchierando con un cinquantenne malvestito, anche lui coinvolto nel traffico degli stupefacenti.

III

‘Pallottole’, il brano seguente, lo dedicò alle tante figure leggendarie della cinematografia hollywoodiana che lo avevano colpito da bambino. Giganti come John Wayne – soprattutto quello di film come “La battaglia di Alamo” o “Il Grinta” - ma anche Gregory Peck, James Stewart, Clarke Gable, tutti citati nel pezzo. Proseguì quindi con il suo show saltellando su una gamba e muovendo la testa come uno struzzo. Poi fingendo di estrarre la pistola dal fodero per fare fuoco sul pubblico e i suoi comprimari. Infine si avvicinò al bordo del palco e chiese da bere al primo cameriere che gli passò di fronte, che immediatamente esaudì il desiderio del rocker, tornando con un calice stracolmo di vino. Cadillac compì, a questo punto, un gesto del mento per fargli capire che non era necessario appoggiare il bicchiere ai piedi del microfono, come si fa di solito, ma doveva lui stesso accompagnarlo alle sue labbra, facendo sì che potesse contemporaneamente continuare a suonare la chitarra. Il cameriere stette al gioco e tese il braccio verso l’alto, permettendo a Joe di portare a compimento il suo sketch e di abbeverarsi come un bufalo delle praterie.
Quando finì ‘Pallottole’, Joe - anche per far riposare un po’ le orecchie dei presenti - propose qualche pezzo acustico. Disse che erano delle canzoni che aveva scritto il giorno prima all’Osteria dei cacciatori, dalle parti di Osnago, in compagnia di una fantomatica groupie raccattata chissà dove, dopo un improbabile incidente automobilistico. Un brano – il più surreale - parlava di un tal Johnny la Iena, millantante predicatore locale (o qualcosa del genere) torturato per aver rubato una gallina al centro geriatrico di Vimodrone. L’ultimo pezzo della serata fu la dirompente ‘Buonanotte’. Il rocker di Colnago raccolse nuovamente a sé i musicisti gridando al microfono per tre volte di fila “rock ‘n roll” e invitando il pubblico a imitarlo.
“Questa però non c’entra niente con De Gregori – disse alludendo alla celebre ‘Buonanotte fiorellino’.
“Meglio così – urlò qualcuno.
“De Gregori è meglio che si metta a pascolare le pecore – chiuse Cadillac.
L’inizio della canzone ricordava la dylaniana ‘Alla long the watchtower’, tre accordi, il primo in minore, i suoni acidi delle chitarre... Dal punto di vista lessicale era uno dei pezzi più criptici ed enigmatici di Joe. Il testo diceva tutto e nulla. Sembrava davvero scritto a caso, senza capo né coda, nani, clown, fate e folletti... Danny, madido di sudore e con l’ennesima sigaretta incollata alle labbra, attaccò in Si minore, straziando le corde della Stratocaster e ricordando al pubblico con un grido indiavolato, che questo non era un addio, ma un semplice arrivederci. Joe lo squadrò malamente – da quando in qua qualcuno poteva prendere iniziative senza il suo permesso? - poi prese a cantare a squarciagola. Il brano finì con i presenti in delirio e molti ragazzi che cercavano in tutti i modi di provocarlo perché potesse inventarne un’altra delle sue, altri invece richiedevano insistentemente il bis di ‘Adriana’. Ma inutilmente: Joe, per quella sera, non aveva più orecchie per nessuno.
Il rocker di Colnago scese per ultimo dal palco, preceduto dal fido Danny, e cominciò a baciare e stringere mani a destra e a manca. Francesco, un collega di lavoro, gli disse che era stato eccezionale. Maria, la fidanzata di Francesco, gli giurò di non averlo mai visto così in forma, per di più con qualche chilo in meno. Lara, una amica di Linda, sua cugina di secondo grado, gli raccontò che per vivere non poteva fare a meno del suo blues, dei suoi stivali da cowboy, del suo straordinario charme. Brando e tutti gli altri del giro del Tapiro – compreso Angelo Stucchi - si congratularono con lui, dichiarandosi suoi fan sfegatati e desiderosi di vederlo ancora all’opera. Insomma, si fecero avanti un po’ tutti, tranne l’unica persona che Joe avrebbe voluto vedere: Greta. Joe chiese dunque a Danny se aveva visto in giro la ragazza che poco prima avevano notato ballare come una scalmanata sotto il palco, ma non ebbe risposta affermativa. E così andò anche con tutti gli altri a cui si rivolse: sembrava che Greta fosse scomparsa nel nulla e con lei il misterioso trentenne che l’aveva affiancata con quell’aria da viveur. A Joe non restò che ordinare l’ennesimo bicchiere di vino e accomodarsi al bancone, lasciando che piano piano il pubblico che lo aveva applaudito fino a quel momento cominciasse a sfollare. Gli ultimi ad andarsene furono i ragazzi della band, in successione, il batterista, il tastierista, il bassista e infine Danny. Suonarono le tre quando i camerieri del locale cominciarono a tirar su le sedie e a pulire il pavimento. E solo allora Joe si rese conto di essere rimasto l’unico al Tapiro.
“Hei Joe, non vai a casa a dormire? – chiese Angelo Stucchi, rilassato e sorridente.
“Domani che giorno è? – domandò Cadillac, con la faccia stravolta e gli occhi stralunati.
“Domenica”.
“Allora non c’è fretta”.
“Comunque sei stato forte. Davvero”.
“Mi prendi per il culo?”.
“Perché dovrei?”.
“Perché ti porto qui un sacco di gente che beve...”.
Joe Cadillac ne aveva abbastanza. Bevve l’ultimo goccio di vino e, anche lui, finalmente, lasciò il locale. Con la sua caratteristica andatura dinoccolata raggiunse lo spiazzo campestre - dove trovò ad aspettarlo l’indistruttibile Renault 4 rossa - e si apprestò a far ritorno a casa. L’aria era pungente e il buio feroce. Non si vedeva in giro anima viva, tuttavia intravide in lontananza – seminascosta dalle fronde di un salice contorto - una Toyota station vagon, al cui interno, due persone, non stavano di certo rimirando le stelle. Indagò un po’ più approfonditamente fino a scoprire ciò che non avrebbe mai voluto scoprire: esattamente quello... Joe si mordicchiò le labbra e bestemmiò sottovoce. Ancora una volta s’era dimenticato che i sogni finiscono quando si scende dal palco e che quello che si vive suonando dal vivo è una cosa, tutt’altra cosa invece è la realtà nuda e cruda... Joe Cadillac, con il suo sguardo pieno di pioggia e silenzio girò la chiave del cruscotto e imboccò la strada di sempre. Il rock ‘n roll, dopotutto, era anche questo: sapere riconoscere l’ennesima frustrante sconfitta.

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