Ieri pomeriggio a casa di Alda Merini. Suoniamo tre volte il citofono e non risponde. Quando risponde si capisce che ha le scatole girate, dice:
“Sono a letto con la febbre, cmq salite”.
Saliamo, al secondo piano di Corso di Ripa Ticinese, 47, dove la poetessa vive dagli anni Cinquanta, proprio di fianco a un interessante negozio di dischi. Varchiamo la soglia della sua abitazione e trasaliamo. Un puttanaio. Alda è sdraiata sul suo letto – in realtà non lo si riesce a vedere bene essendo sommerso da ogni cosa possibile – ha le unghie pitturate, la faccia stanca, tirata, giallognola, dice di aver appena avuto una colica renale. Ci dice di “andare di là”, in salotto.
La breve anticamera che separa la stanza da letto dal salotto è una specie di tunnel sormontato da quadri, tele, fotografie, ritagli di giornali, mensole traballanti, gingilli, soprammobili... i muri cadono, su quel che resta dell’intonaco ci sono scritti una marea di numeri di telefono, frasi, dediche. Ho la macchina fotografica, ma faccio fatica a esprimermi, non c’è nemmeno lo spazio per muovere mezzo braccio. Anche il mio collega è in difficoltà, sembra un pachiderma, con un gomito incontra l’angolo di un quadro che cade a terra. La Merini impreca, ma Alberto la rassicura immediatamente dicendole che il quadro sta benone.
In sala la poetessa si accomoda su una specie di poltrona, il mio collega su uno sgabellino. Io – in virtù dell’età – sto in piedi, alle mie spalle c’è un pianoforte che vorrei sfiorare per vedere se è accordato; a destra una foto gigante di Einstein, a sinistra un quadro di Magritte. In giro per la stanza c’è di tutto: fiori, tv, foto, giornali, cicche delle sigarette, pacchetti di sigarette, un casino che non si può immaginare. I pavimenti sono luridi. Lerci. La Merini prende una sigaretta dal pacchetto e spezza il filtro. Fuma, senza filtro. E inizia:
“Cosa volete?”.
“Intervistarla”.
Parte l’intervista. Sono io a fare le domande ma la poetessa sembra molto più interessata ad Alberto che al sottoscritto. Peraltro dice che gli uomini magri non le sono mai piaciuti. Le mie domande rimangono perciò in sospeso, mentre affondano solo quelle del mio collega.
"Cos'è la morte?", sputa Alberto.
"Una pace infinita".
Alla fine capisco che tutto quello che ho da chiederle non le interessa minimamente. La mia aria da giovane mi punisce. Le mie domande sono quelle di uno che non può capire, comprendere, intuire ciò che si cela nella mente e nel cuore di un’ottantenne con alle spalle anni e anni di manicomio e amori che, comunque, dice chiaramente di volersi tenere per sé:
“C’è gente così assurda interessata solo a sapere come facevo l’amore a vent’anni”.
Alla fine mi arrendo. Chiudo con Majorino, che dice di amare, Milva, che bestemmiava dietro le quinte dei teatri, Vecchioni, il rompi coglioni... Le stringiamo la mano – debole e molle - e ce ne andiamo. Ci aspetta un aperitivo e ancora tante altre belle parole da spendere su un altro grande poeta, quello di “Just Like a Woman”.
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