71.
«Via libera», disse Radu.
«Aspetta», ordinò Teschio.
«Lasciamo che se ne vadano del tutto…».
Radu non stava più nella pelle: ancora
una volta, forte della tipica impazienza giovanile, e dell'ardore che lo
consumava legato alla speranza di poter presto rivendicare la mamma, avrebbe
voluto forzare i tempi per risolvere definitivamente il caso.
«Dobbiamo muoverci».
Teschio lo guardò divertito,
trovandolo per un istante più grande e maturo della sua età. Pensò che non gli
sarebbe dispiaciuto se fosse stato suo figlio. Avrebbe, infatti, sotto sotto, desiderato
un figlio, ma il destino, evidentemente, non era stato dello stesso avviso:
l'ultima storia importante, degna di poter creare i presupposti per una prole,
l'aveva avuta dieci anni prima con una donna che, senza preavviso, l'aveva
lasciato per un dirigente dell'Esselunga, divorziato con già due pargoli da
mantenere. Da allora non ne aveva più voluto sapere di relazioni serie.
Nonostante le apparenze da macho
che non deve chiedere mai, era un sentimentale, un romantico; una persona
contraddistinta da sentimenti profondi, che se venivano disillusi, la portavano
a chiudersi a riccio e a soffrire come un leone costretto a morire dietro alle
sbarre di uno zoo cittadino, intriso di smog e umidità. Era fatto così. Di
tanto in tanto si concedeva qualche donnetta senza troppe pretese, ma badava
bene di non farsi coinvolgere troppo sul piano emotivo. Erano storie da una
notte e via, per nulla struggenti, tristemente meccaniche, come meccanico è un
qualunque gesto che si compie senza pensare, tipo timbrare il biglietto della
metropolitana.
Razionalizzava lo squallore di
certe situazioni, ma alla fine si convinceva che gli andava bene così. Sicché,
negli ultimi tempi, solo una donna era riuscita a stimolarlo un po’ più del
normale, ridandogli quel sapore di conquista che aveva perduto da millenni:
Nadia. Proprio lei, la moglie di Cinghiale... non l'avrebbe mai potuto
immaginare che in questa storia assurda ci potesse anche essere spazio per un
vivido e onnisciente scombussolamento del cuore. E invece...
Pensò a lei anche mentre si
accingeva a conquistare la roulotte di Aicha, con il suo beniamino; e più
passavano le ore da quel felice primo incontro in casa Schilef, dopo la sortita
di Rafael, più percepiva il suo animo sussultare. Ora, poi, che aveva trovato
perfino il coraggio di invitarla fuori, si sentiva al settimo cielo, riuscendo
a vedere le cose con un ottimismo esagerato.
«Sei pronto?», domandò a Radu.
«Lo sono da un pezzo».
«Però conviene organizzarci un
attimo…».
Sul volto di Radu si materializzò
un gigantesco punto interrogativo.
Teschio tentò di
tranquillizzarlo.
«Tu farai il palo, mentre io,
nella roulotte, cercherò prove dell'assassinio di tua madre…».
Il piccolo parve contrariato.
«Voglio essere io a scoprire chi
ha ucciso mia madre».
«Sarai, infatti, tu a scoprirlo.
Ma per prima cosa è indispensabile non farci beccare…».
«Cosa vuoi dire?».
«Io m'intrufolo nella roulotte e
tu vai avanti e indietro lungo il marciapiede, come una sentinella, con fare
disinteressato, avvertendomi se dovessi vedere qualcuno puntare da queste parti.
Nessuno può farlo meglio di te...».
«Scuse. Voglio salire anch'io
sulla roulotte».
Teschio s'indispose.
«Radu, non fare il bambino
dell'asilo. Per portare a termine con successo una missione è necessario essere
compatti e…».
Radu non insistette.
«Va bene, facciamo come vuoi.
Basta che ci muoviamo».
Con fare circospetto lasciarono
la radura del parco e si portarono sulla ciclabile che affiancava la roulotte
di Aicha. Passò a gran velocità un tipo con un casco mastodontico e un paio di
pantaloncini da hawaiano; Teschio lo mandò mentalmente a quel paese.
Di fronte all'ingresso della
roulotte, i due detective si regalarono un gesto di intesa con gli occhi,
dopodichè il più anziano si avvicinò scaltramente all’abitazione rom, facendo
forza sulla serratura con una specie di chiavistello. Radu gli fece cenno di sì
col capo: la via era libera e si poteva procedere con l'ispezione.
72.
Le cose sull'altro fronte
andarono, invece, un po’ più a rilento; ma quando Benzina terminò con
l'operazione di pulizia, con Giacinta a pochi centimetri nauseata dal tanfo
opprimente delle feci canine impiastrate sotto la suola dell'amico, si sentì
Fatima ruotare la serratura della porta del camper e uscire con in mano due
voluminosi sacchetti di iuta. Non fu possibile intuire ciò che potessero
nascondere, tuttavia i due che la osservavano a sua insaputa, compresero che la
donna stesse per lasciare la roulotte, in barba ai suoi buoni propositi di
preparare un succulento piatto tradizionale.
Benzina fu sopraffatto da una
scena horror, con la donna che s’incamminava per liberarsi dei brandelli di
qualche nemico fatto a pezzi la sera prima con una mannaia. Controllò il fondo delle
sacche per vedere se colavano gocce di sangue. Da qualche giorno, di fatto, era
vittima di disegni onirici lugubri e pesti di questo tipo, sortilegi che lo
lasciavano con l'amaro in bocca, incredulo di fronte alla capacità della sua
mente di elaborare simili romanzate, degne del miglior esordio alla Edgar Allan
Poe.
Si rallegrarono, in ogni caso,
all'idea che avrebbero presto avuto modo di passare al setaccio la casa
ambulante, senza pericoli. Giacinta regalò all'amico un sorriso privo di ogni
rancore, mandandolo in sollucchero: anche per loro era ufficialmente via
libera.
«Forza», disse Benzina.
Uscirono allo scoperto,
sincerandosi che Fatima si fosse finalmente dileguata. La strada era stracolma
di mezzi che andavano e venivano, ma non ci fu il rischio di essere colti in
fragrante: l'uscio della roulotte dava, infatti, sul marciapiedi, stretto fra
la ciclabile e l'area verde destinata ai quattrozampe, dove il traffico era
meno imponente.
Giacinta si appoggiò alla rete
della zona cani, e si guardò intorno con grande attenzione. Lasciò passare una
mamma in compagnia del proprio piccolo nel passeggino, dopodichè fece cenno a
Benzina che poteva entrare in azione. L'uomo si avvicinò al camper con una
leggiadria da ippopotamo imbolsito, e cercò di fare leva sulla serratura,
impugnando uno strumento analogo a quello di Teschio, ma non ottenendo lo
stesso risultato: del resto era la prima volta che cercava di violare
l'ingranaggio di una porta, a mo' di uno dei tanti esperti scassinatori visti e
rivisti al cinema o in tv. Vedendolo in difficoltà, Giacinta dondolò la testa
sconsolata. Gli si avvicinò con garbo:
«Che succede?».
«Non riesco a far girare la
serratura».
«Sei una sega. Dai a me».
La ragazza si mise a trafficare
con il punteruolo e in meno di cinque minuti fu un in grado di vincere la
soglia dell'abitazione di Fatima. Fu sopraffatta dall'odore pungente di una
spezia indefinita, che più volte, però, aveva respirato venendo a contatto con
qualche famiglia rom. Le ricordava quand'era piccola, piccola, e con mamma e
papà andavano a fare visita a una famiglia sinti che abitava dalle parti di
Cinisello. Ogni volta che salivano a bordo del loro camper, era come fare un
salto in un paese lontano, esotico, forse proprio nell'India dell'undicesimo
secolo, da dove l'etnia che li rappresentava aveva iniziato il suo lungo e
rocambolesco pellegrinaggio.
Giacinta non sapeva quasi nulla
delle origini del suo popolo, ma più volte s'era soffermata sulla sua pelle più
scura, ambrata, in antitesi con i colori pallidi dei ragazzi della sua età che
vedeva correre per le strade di Sesto San Giovanni. Capiva che era diversa
dagli altri non solo per il fatto di vivere in un roulotte e di non avere altro
da fare che industriarsi per poter involare qualcosa di nuovo e bello in
qualche negozio o abitazione, ma anche, appunto, per una carnagione che non
trovava degna corrispondenza fra le tante persone che la circondavano. Si voltò
per guardare Benzina. L'uomo le indicò di iniziare a perlustrare.
A Giacinta cominciò a battere
forte il cuore.
73.
Teschio trovò una roulotte
disordinatissima, con panni sporchi da tutte le parti, e stoviglie piene di
pezzi avanzati di cibo. E un odore nauseabondo. Anche il caldo la diceva lunga.
Si respirava a fatica, un po’ come era accaduto nella roulotte di Radu
all'indomani dell'omicidio di Slagena. Non ebbe modo di muoversi con grande
agilità, in mezzo a tutto quel putiferio, ma con coraggio si mise in testa di sindacare
con accortezza maniacale ogni angolo della casa ambulante. Partì dal cucinino.
Spostò il lerciume dei piatti per indagare lo stato delle posate, e magari
riscontrare la presenza di un coltello sospetto. Ma non trovò nulla di tutto
ciò. Erano semplici e comuni forchette e cucchiai, alcuni con ancora
appiccicati chicchi di riso. Subì un conato di vomito, ma proseguì con
stoicismo per la sua strada. Osservò un bicchiere mezzo pieno di vino
puzzolente. Si chiese come si potesse vivere in un simile immondezzaio. Anche
lui non era un campione di pulizia e igiene, ma qui, davvero, constatò che
fosse peggio che trovarsi in una porcilaia. Un posto ideale per una dimora
animale, non umana. Ma tant'è. S'avvide che evidentemente non tutti dovessero
vivere la sporcizia e il disordine allo stesso modo. Forse, in certi casi, per
alcuni astrusi paradigmi esistenziali, anche il caos più assoluto poteva essere
contemplato come un sorriso gaudente. Non andò comunque avanti a elucubrare più
di tanto e passò a indagare le secrete del cucinino. C'era la spazzatura colma,
con lo strato superiore dei rifiuti completamente coperto da bucce nerastre di
banana, che contribuivano pesantemente a rendere ancora più micidiale l'odore
stantio del camper.
«Hei!».
Radu non stava più nella pelle.
Si avvicinò alla porticina, richiamando l'attenzione del grande capo. Teschio
barcollò.
«Che fai lì? Torna al tuo posto».
«Volevo sapere…».
«Torna al tuo posto! Se arriva
qualcuno stiamo freschi! Muoviti!».
Era un ordine al quale Radu non
poté non obbedire. Con il cuore in gola e la consapevolezza di avere fatto una stupidata,
tornò a passeggiare lungo il marciapiede, sincerandosi che non ci fossero rom
nei dintorni. Sospirò, quando s'accorse che era tutto sotto controllo. Passò un
pensionato al quale sorrise astutamente. L’uomo, colpito dalla trasandatezza
del piccolo, lo rimproverò con una smorfia.
«Sparisci merda», bofonchiò il
ragazzino.
Teschio, intanto, con
un'agitazione che gli corrompeva sempre più l'animo, continuava a cercare.
Giunse al letto. C'erano quattro cuscini, uno sopra all'altro e un lenzuolo
sudicio, pieno di briciole e peli. Provò un altro conato di vomito, pensando a
quel che dovesse essere accaduto di recente in quell'alcova.
«Che schifo», sibilò, finendo con
lo sguardo ai piedi del mobiletto che affiancava il giaciglio di Aicha.
Individuò un mucchio di vestiti
gettati alla rinfusa, coperti da un piccolo cesto di vimini. Lo tolse e si mise
a rovistare fra i panni sporchi. Fu colto da un brivido gelido, quando notò un
fazzoletto macchiato di sangue. Lo studiò con particolare attenzione, cercando
di capire quale fosse la sua provenienza. Sembrava un fazzoletto comune,
femminile, con il bordino disegnato da piccoli ricami. Non seppe dargli una
spiegazione; sarebbe potuto essere il sangue di chiunque, pensò all'epistassi
di uno dei figli di Aicha... Non c'era motivo di credere che dovesse essere
quello di Slagena… Troppo avventata e ottimistica come supposizione. Ma i dubbi
crollarono definitivamente quando scorse, nel punto più basso del montone di
abiti, una camicetta da donna con un frammento di manica pesantemente impregnata
di liquido ematico. Qualcosa non tornava.
74.
Teschio la fissò con grande
coinvolgimento, riflettendo sul fatto che potesse benissimo essere una
camicetta di Aicha. Quello che però non tornava era come potesse essersi macchiata
in quel modo. Non era il segno di una banale ferita: il sangue, infatti, pareva
assai copioso, corposo, e colorava gran parte del vestito. Quel che doveva aver
provocato quel disastro poteva essere stato solo un taglio profondo, una
lesione ben più importante di una banale perdita di sangue dal naso o di un
ematoma provocato da una caduta accidentale. Gli si accese una lampadina in
testa e per la prima volta azzardò che potesse, dunque, essere proprio quella
la prova dell'assassinio di Slagena. Solo una violenta accoltellata poteva, di
fatto, spiegare quello scempio impresso sulla camicetta come un’immagine su una
lastra fotografica.
Tuttavia si sorprese pensando ad Aicha
e alla sua scarsa intelligenza; tutti sanno, infatti, che la prima cosa da fare
quando si commette volutamente un omicidio, è far sparire completamente le
tracce. Perché lei non l'aveva fatto? Perché il marito non le aveva dato
consigli a riguardo? E se il marito fosse ancora all'oscuro di tutto? E' vero,
il montone di vestiti pareva sorto apposta per nascondere l'indumento più
compromettente… ma ci sarebbero stati mille altri modi ben più efficaci per far
sparire la prova di un assassinio; senza andare tanto lontani, i dintorni della
stazione erano pieni di angoli remoti, dove rifilare qualunque cosa
pregiudizievole. Teschio fu di nuovo preda della desolazione. E tornò a pensare
che quel sangue non fosse quello di Slagena, ma di chissà chi…
Pensò alle galline che aveva
visto sgozzare da sua nonna quand'era piccino. Aveva visto litri di sangue
andando a trovare i nonni in campagna. Se lo ricordava come fosse ieri. La
nonna afferrava i pennuti con le sue possenti manone e gli tranciava il collo
con un taglio netto o un'incisione profonda. In pochi secondi si rovesciavano
al suolo cascate di rosso vivo. Non era un bello spettacolo. Ma è così che
facevano i contadini dalla notte dei tempi. S'immaginò, dunque, che anche Aicha
avesse potuto far fuori un pollo da qualche parte, per poi ritrovarsi col
vestito completamente impiastrato. Guardò più da vicino la camicetta, per
capire se fosse possibile distinguere a una sola occhiata il sangue umano da
quello di un uccello. Ma ci rise sopra scoprendosi di fronte a un'impresa a dir
poco insormontabile. Si sarebbe seduto sul letto se non fosse che, ancora con
l'indumento di Aicha fra le mani, notò una specie di adesivo appiccicato, in
mezzo ad altri di difficile interpretazione, alla porticina del bagno.
Si avvicinò con curiosità e notò
che riprendeva in tutto e per tutto l'effige presente sulla medaglietta
scoperta nei pressi della roulotte di Radu. L'agitazione lo pervase: era il
simbolo dei Dionisio. Deglutì con un'ansia parossistica e, dopo aver mollato la
camicetta incriminata in cima al provvidenziale montone di vestiti, saltò
all'esterno per richiamare l'attenzione di Radu. Il piccolo si guardò intorno
come un furetto, prima di catapultarsi al servizio del grande capo.
«Che c'è?», domandò, mostrandogli
un'esagerata riverenza.
«Sali un attimo», disse Teschio.
«Ma…».
«Non fiatare e datti una mossa».
Teschio, con un cenno nervoso del
mento, indicò a Radu l'adesivo incollato all'uscio del wc. E non fu necessario
porgli domande in merito alla sua autenticità.
«Puttana, puttana… questo è il
marchio dei Dionisio».
Teschio lo guardò, fra l'eccitazione
e lo sconvolgimento.
«Nessun dubbio, vero?».
Radu bestemmiò sotto voce.
«E' identico a quello della
medaglietta».
75.
Scesero di corsa dal camper e si
diressero alla stazione, cercando di dissimulare il più possibile i loro
intendimenti. Riuscirono senza problemi nell'impresa, camuffandosi fra l’andirivieni
dei pendolari e i vivacissimi colori delle bancarelle dei marocchini che
vendevano vestiti e scarpe a prezzi stracciati. Si ritrovarono alla fine del
parcheggio libero ansimanti, come cavalli da corsa, dopo una lunga galoppata
fra le praterie del centro America. Si guardarono con gli occhi stralunati
consapevoli di avere in mano la situazione: le due prove raccolte bastavano e
avanzavano per librare il colpo di grazia e incastrare una volta per tutte
l’assassino di Slagena.
«Aicha, è stata Aicha», disse
Radu, con l'aria trafelata.
Teschio non ribatté: la sua testa
era in completo subbuglio.
«Voglio essere io a ucciderla».
L’uomo s’incupì.
«Ragazzo, non correre. Abbiamo
fatto una scoperta importante, ma non dobbiamo essere precipitosi. Potremmo
rovinare tutto…».
«Ha ucciso mia madre… voglio
essere io a vendicarla».
Teschio comprese benissimo la
furia del piccolo, ma dovette trovare un modo per calmare i suoi bollenti
spiriti, prima che facesse qualche pazzia.
«Sarai tu a risolvere il caso»,
gli disse, cercando di ammansirlo con eleganza. «Ma adesso andiamo con ordine,
non facciamoci prendere dalla foga...».
«Cosa si fa, quindi?», domandò
Radu, irrequieto.
Teschio si fece meditabondo, percependo
che con le loro sole forze non avrebbero potuto fare molto, se non rischiare di
finire in un mare di guai. Si autoconvinse, pertanto, della necessità di
doversi affidare a qualche figura competente, in gamba, con mezzi reali per
poter completare l’opera in modo degno e risoluto. Ci ragionò per un po’, senza
giungere, però, a conclusioni particolarmente vantaggiose. Non conosceva
nessuno, del resto, di un certo calibro, che potesse realmente sfilare gli
ultimi fili della matassa e chiudere abilmente la faccenda. Non aveva mai avuto
a che fare con le forze dell'ordine, se non per casini da lui vissuti in prima
persona.
«Ci pensiamo con calma...»,
tagliò corto Teschio, «andiamo, intanto, a vedere cosa stanno combinando quei
due. Sperando che non li abbiano beccati».
«Magari c'è di mezzo anche
Fatima».
«Ho i miei dubbi. Una pazza basta
e avanza».
Abbandonarono il trambusto della
stazione e raggiunsero la roulotte di Fatima. Scorsero Benzina che brancolava
avanti e indietro di fronte alla casa ambulante della donna; ma non videro
Giacinta.
«Sarà dentro a cercare indizi…»,
blaterò Radu.
Teschio si scaldò pensando a
Benzina che, a quanto sembrava, aveva lasciato alla ragazzina l'arduo compito
di setacciare la roulotte di Fatima, per rivelare tracce dell'assassino.
«Ciao ragazzi, già qua?», esordì
Benzina al loro sopraggiungere.
«Vedo che ti sei dato da fare»,
ironizzò Teschio.
«Lei mi sembrava più scaltra e…
più sveglia».
«E tu sei un cacasotto», disse
Radu.
Benzina fece finta di nulla,
essendo ormai abituato alle bastonate dei partner.
Teschio introdusse la testa nella
roulotte di Fatima, intimando a Giacinta di venire fuori che avevano ormai in
pugno il caso.
«Che succede?», domandò la
ragazza, con apprensione.
Teschio non aprì bocca, ma con un
segnale del capo, ordinò a tutti di seguirlo senza fare storie. Fra via Bellini
e via Loduvico Ariosto c'era un altro parchetto preso spesso d'assalto da rom
ed extracomunitari, dove conquistarono una panchina; e dove Teschio rivelò a
Benzina e Giacinta il frutto delle ultime scoperte.
«Dio mio», disse Giacinta,
allibita.
«Porca troia», corresse il tiro
Benzina.
«Allora è stata lei…».
«Le prove sembrerebbero
incastrarla alla grande», disse Teschio. «Ma ora dobbiamo capire come muoverci,
come proseguire nelle indagini. Mica possiamo catturarla come si cattura un
cane fuggito dal canile, infilarle le manette e…».
«Anche perché non ne abbiamo… di
manette», disse ridacchiando Benzina, guadagnandosi l'ennesima smorfia di
sufficienza da parte del gruppo.
«Come procediamo, quindi?»,
incalzò Giacinta.
«Tanto per iniziare ci
converrebbe far sapere a Rafael quel che abbiamo scoperto. E sentire se può
darci qualche consiglio su come andare avanti».
Nessuno obiettò. Di fatto,
nessuno aveva proposte alternative da fare.
76.
I quattro si diressero al bar di
Rafael, con passo sostenuto, rischiarati da un cielo lindo e profumato d’estate.
«Dobbiamo darci una mossa, se non
vogliamo che Aicha sparisca», disse Giacinta.
«Se non è sparita fino a oggi,
non sparisce più», disse Teschio.
«Se ha lasciato sparsi per la
roulotte i vestiti macchiati del sangue di Slagena, significa proprio che non
ha alcun timore di essere beccata», sottolineò Benzina.
«Non capisco da dove derivi tutta
questa sua sicurezza», disse Teschio.
«Probabilmente dalle droghe che
usa. Secondo me i Dionisio l'hanno rimbambita ben bene...».
«Mi suona strano», replicò
Teschio. «Come farebbe il marito a volerla ancora con sé? Se fosse come dici
non avrebbe nemmeno la testa per badare ai figli. E invece non mi sembra messa
così male. Io e Radu l'abbiamo vista bene. Sembrava tranquillissima. S'è
imbarcata coi figli e via...».
Passò una autoambulanza a sirene
spiegate. Radu la seguì fino al punto in cui intraprese una curva a gomito.
Sognò che potesse esserci a bordo sua madre, che veniva trasportata d'urgenza
all'ospedale, per poi essere curata e guarire completamente. Gli vennero le
lacrime agli occhi pensando che stava svanendo sotto mezzo metro di terra, ma
cercò di non mostrare il momento di difficoltà, fissando il marciapiede, come
si fissa cogitabondi il titolo di un articolo di giornale.
«In ogni caso, non è del tutto
vero che non abbia nascosto le tracce», disse Giacinta. «Il fatto che abbia
sommerso i vestiti sotto una pila di indumenti sporchi, indica la sua
intenzione di volersi proteggere. Teniamo, inoltre, presente che nessuno di noi
ha trovato l'arma del delitto. Sicuramente il coltello che ha usato per
uccidere Slagena l’ha fatto sparire velocemente».
«Parli come un detective», disse
Benzina, stupefatto.
«Non hai tutti i torti. Certo, se
avessimo individuato il coltello dell'assassino...», puntualizzò Teschio.
«Magari con ancora le tracce del
sangue di Slagena... dai, non esageriamo», disse Benzina.
Trovarono Rafael alle prese con
la macchina del caffé, che faceva le bizze dal giorno prima; aveva un problema
con il filtro dell'acqua. A un signore aveva praticamente servito un caffé
vomitevole che il cliente s'era rifiutato di pagare.
Rafael aveva le mani ricoperte di
grasso e i capelli arruffati, ma fu ben disposto a servire i bisogni degli amici.
Li vide e mollò al volo il trabiccolo della Faema per accoglierli gentilmente.
«Allora?», disse.
Il volto di Teschio si irrigidì.
«Ho capito», disse Rafael.
«Andiamo sul retro».
Li guidò oltre la porticina che
sorgeva alle spalle del bancone, allontanandosi da orecchie indiscrete,
lasciando all'inserviente il compito di soddisfare la clientela.
«Sputa il rospo», disse Rafael.
Teschio gli raccontò tutto per
filo e per segno, dal momento in cui avevano lasciato Nadia, all’epilogo della
mattinata. Gli disse della visita ai Dionisio, della terribile atmosfera patita
in quell’androne infernale, dell'incontro con Cinghiale, della perlustrazione
delle case ambulanti di Aicha e Fatima...
Rafael li guardò incredulo. Non
avrebbe mai immaginato tanta efficienza da parte di un gruppo così improvvisato;
benché provasse per loro rispetto e in un certo senso anche affetto, li
riteneva sostanzialmente una masnada di poveri cristi, che non sarebbero nemmeno
stati in grado di scovare i bagni della stazione di Sesto, figuriamoci un
assassino. Per qualche secondo non fiatò, dopodichè si fece avanti con l'unica cosa che gli pareva
davvero sensata, anche se sapeva che i due giovani sinti avrebbero potuto passare
qualche guaio, soprattutto Radu che era ormai orfano.
«Dobbiamo avvertire la polizia».
Giacinta tracollò.
«Scordatelo».
Benzina e Teschio la guardarono allibiti.
Lei li affrontò con altrettanta risolutezza.
«Toglietevelo dalla testa.
Avevamo detto di no agli sbirri».
«È vero», disse Teschio, «ma non
sapevamo che piega avrebbero preso le cose».
«Teschio non mi deludere», disse
Radu.
«Ragazzi... guardiamo in faccia
la realtà... la situazione è troppo grande per le nostre umili capacità investigative.
È un giro troppo grande per noi. Credo che Rafael abbia ragione. Arrivati a
questo punto solo le forze dell'ordine sarebbero in grado di chiudere
definitivamente il caso, dando un degno epilogo alla vicenda».
Giacinta lo guardò affranta.
«Non ci voglio credere».
«Non ti preoccupare... vedrai che
saranno clementi anche con te e Radu...».
«In effetti, dovessimo pensare di
eliminare noi Aicha... poi finiremmo dalla parte dei colpevoli», disse Benzina.
Radu lo fissò stranito,
consapevole che il suo sogno di poter vendicare la mamma con le sue stesse mani
fosse ormai del tutto tramontato.
«Io finirò in un orfanotrofio»,
disse sconsolato.
77.
Arrivarono alla caserma dei
carabinieri con la faccia stravolta dalla spossatezza e con l’ansia disegnata
fra le pieghe delle bocche contratte. Con loro c'era anche Rafael che, ormai
totalmente rapito dalla vicenda, aveva preferito disertare il lavoro: qualche
ora di assenza non gli avrebbe stravolto gli incassi, pensò.
Li accolse il comandante Saverio
Nazaro, un burbero membro delle forze dell'ordine, con un gigantesco naso a
patata e due orecchie da Dumbo.
«Venite».
Li indirizzò a una stanza
privata, dove furono fatti accomodare. Radu rimase colpito dall'austerità
dell'ambiente e provò una specie di attacco di claustrofobia: gli sudarono le
mani e sentì il cuore battere strani colpi.
Giacinta lo rassicurò con un
sorriso dolce.
«Stai tranquillo».
«Sono tranquillo».
Al comandante si affiancò un
subalterno smilzo, con il labbro inferiore mangiucchiato dalla furia di un
herpes tignoso, che chiese al gruppo le generalità. Risposero in coro
all'appello, ma il brigadiere fece intendere che la questione rom, l'avrebbero
dovuta affrontare in separata sede.
«Dite, dunque, che è stato
commesso un omicidio e che la vittima è la mamma del ragazzino», riattaccò il
comandante.
«Esattamente», disse Teschio.
«Non c'è tempo da perdere se vogliamo incastrare l'assassino…».
Il comandante s'infastidì.
«Signor?».
«Sanvito Franco, detto Teschio».
«Signor Sanvito», disse il
comandante, «la prego di contenersi».
Teschio strabuzzò gli occhi. Per
un attimo aveva pensato che il comandante si volesse complementare con lui per la
sua sagacia.
«Siamo noi a dirigere le
operazioni. Lei ci deve solo dire quello che sa…».
Teschio non replicò e si diede
una calmata.
«Vada avanti».
Il capobanda chiarì nei dettagli
ciò che era accaduto. Parlò meticolosamente della setta dei Figli di Dionisio e
di quelle che si presumeva dovessero essere state nel tempo le loro principali
malefatte. Gli riferì di Radu e della scoperta del corpo della madre, riverso
su se stesso, in una pozza di sangue; della tumulazione del cadavere; del giro
nelle roulotte dei presunti colpevoli e della finale e inevitabile decisione di
rivolgersi ai carabinieri, con il coinvolgimento di Rafael.
Lo smilzo prese nota di tutte le
sue dichiarazioni, alzando di tanto in tanto gli occhi per guardare in faccia
il curioso interlocutore.
«Perché non ci avete avvertiti
subito?», domandò Nazaro.
Cadde il silenzio.
«Volevamo dare una mano a Radu e…
ci siamo trovati in mezzo a una vicenda che non avremmo mai potuto immaginare,
molto più grande di quella che avevamo prospettato», disse Benzina, temendo di
poter essere accusati di occultamento di cadavere e chissà che altro.
«Anche la vostra posizione non è
delle migliori…», sospirò il comandante, «ma con voi la vediamo dopo. Chi vi ha
indirizzato ai Figli di Dionisio?».
«Un'amica», disse Teschio,
guardando Rafael, col timore di dire qualcosa di inopportuno.
«Quale amica?».
«Si chiama Nadia Schilef,
intervenne Rafael. Per la precisione è una mia amica. Frequenta il mio
locale…».
«Come mai conosce la setta?».
Ci fu un altro attimo di
silenzio.
«Non me l'ha mai detto. Me ne
parlava senza spiegarmi da dove derivassero le sue informazioni».
Il comandante non abboccò.
«Torneremo ad affrontare questi
punti che non mi sembrano per nulla chiari…».
Teschio e Benzina deglutirono
amaramente.
«Adesso è necessario andare in
cerca di questa…».
«Aicha», intervenne Giacinta.
«Bene», disse il comandante.
Si alzarono simultaneamente dalle
rispettive comode, pronti a guadagnare l'uscita, ma l'estemporanea banda fu
immediatamente redarguita da Nazaro.
«I ragazzini rimangono qui».
Radu, per poco, non scoppiò in
lacrime.
«Non possono venire con noi?»,
chiese Teschio.
«Direi proprio di no», affermò
con veemenza il comandante. «Temo che, per colpa vostra, abbiano già visto fin
troppo».
«Loro non c'entrano», disse
Giacinta. «Siamo stati noi a coinvolgerli. Ci lasci venire».
Il comandante dondolò il mento,
indicando al brigadiere di prendersi cura dei due giovani, e di trattenerli in
caserma fino al loro rientro. Nazaro, con Teschio, Benzina e Rafael, partirono
alla ricerca di Aicha.
78.
La trovarono sdraiata sul prato,
intenta a mangiucchiare un legnetto di liquirizia, con gote alla Battisti e le
sopracciglia pitturate di fresco.
«Eccola», disse Teschio.
Sembrava la donna più felice del
mondo, come se aver ammazzato un essere umano non avesse minimamente scalfito
la sua coscienza, regalandole una sorta di gioia metafisica. Davanti a tanto
menefreghismo, Teschio fu colto da un attacco di rabbia: se pensava al dolore
che aveva passato e a quello che stava passando Radu… a dir poco gli prudevano
le mani. Ora più che mai intuiva il peso delle parole del piccolo, quando
reclamava di non desiderare altro che uccidere personalmente l'assassino di sua
madre; se si passano certi limiti, diventa davvero difficile domare le
pulsioni, pensò, anche se il riferimento è a un giovincello con un’intera vita
davanti.
Il comandante si accorse del
momento critico dell'uomo e lo rassicurò con parola bonarie.
«Stia calmo, ormai ce l'abbiamo
in pugno...».
Era in compagnia dei due figli e
di altre donne rom che né Teschio né Benzina avevano mai visto. C'era una donna
anziana, con una folta chioma grigia, che faceva giocare i piccoli con il
copertone di un'automobile mezzo sfasciato, recuperato ai piedi della muraglia
che dava sulla ferrovia. I bimbi ridevano come matti, come se avessero fra le
mani il più bel gioco della loro vita.
«Dividiamoci», disse il
comandante.
Nazaro e Teschio entrarono dal
cancello di via Gramsci; il brigadiere, Benzina e Rafael, da quello di via
Monte Santo. Tutti si mossero con cautela, per non dare nell'occhio e sollevare
un inutile putiferio che, senz’altro, avrebbe reso più difficili le operazioni
di cattura. Per il parco, ignari di ogni cosa, bighellonavano sereni e
tranquilli alcuni corridori, e gruppetti di anziani con il cagnolino al guinzaglio.
I primi a raggiungere Aicha furono
il comandante e Teschio.
La donna li vide e li riconobbe all’istante,
come individui che non erano certamente lì per caso: glielo si leggeva in
faccia che la stavano cercando. Non ci mise molto, pertanto, a capire che
doveva darsela a gambe. Si alzò di scatto e si mise a correre senza criterio, verso
lo spazio riservato alle bocce; la sua condanna a morte.
«Non ci sarà molto tempo da
sprecare con gli interrogatori», cincischiò il comandante, sottintendendo che
il comportamento dell’assassina fosse stato fin troppo eloquente.
Aicha, cercando di fuggire alle
grinfie di Nazaro e Teschio, finì dritta fra le braccia del brigadiere, di Benzina
e di Rafael. Oppose resistenza con delle grandi manate, cominciando a urlare frasi
sconnesse come una posseduta. Il comandante seguì la prassi e la costrinse alle
manette, attirando l'attenzione dei giocatori di bocce che allibiti, si
chiedevano che diamine stesse succedendo in quel caldo e anonimo pomeriggio
sestese.
«Io non c'entro niente!», prese a
gridare.
«Adesso lo vedremo», disse il
membro delle forze dell’ordine.
«La figlia del destino non
c'entra niente!».
«Sicuramente».
«Lasciatemi tornare dai miei
figli! Non possono stare senza di me!».
Il comandante non le dette retta,
ansimando come un cane da corsa.
La donna controbatté, sempre più
disperata:
«Allora vi colpirò con la
maledizione di Dionisio!».
«Forza signora. Collabori che
sennò peggiora le cose».
«Il santone vi ucciderà tutti
quanti!».
«Signora, non dica scemenze».
«Voi non sapete con chi avete a
che fare!».
Comandante e brigadiere la
sollevarono di forza e la trasportarono sulla camionetta parcheggiata in via
Gramsci, pronta a ingabbiare sedicenti assassini e truffatori di ogni sorta.
Le donne rom seguirono la scena
sbigottite, come se tutto ciò che stesse accadendo fosse privo di qualunque
logica. Osservandole, Teschio pensò che forse nemmeno loro erano al corrente
dell'omicidio di Slagena; e per un istante provò pena per quei piccoli che,
inconsapevoli del trambusto generale, continuavano imperterriti a correre
dietro al pneumatico marcescente, convinti che la madre si fosse messa a
giocare a guardie e ladri.
Di ritorno in caserma, il
comandante dispose all’unanimità di non muoversi fino a nuovo ordine.
Giacinta e Radu non stettero più
nella pelle e vedendo passare in manette l'assassina di Slagena, dimentichi di
ogni preoccupazione, si abbandonarono a un abbraccio fraterno.
«Hai visto?», disse Giacinta.
«Voglio vederla marcire
all'inferno», fece Radu.
Aicha sparì con il comandante e
per due ore gli improvvisati detective furono presi in ostaggio dal brigadiere, interrogandosi stupiti su tutta
una serie di passaggi poco chiari, desiderosi di capire il momento in cui
l'incredibile avventura avrebbe finalmente avuto il suo epilogo.
Benzina chiese di potersi recare
in bagno, per risolvere un generico, ma impellente bisogno: ancora una volta fu
vinto da una violenta colica addominale, che a questo punto, fu evidente a
tutti, dovesse sopraggiungere tutte le volte che si trovava a dover affrontare
compiti particolarmente ardui. Giacinta e Radu risero di gusto.
Compilarono numerosi documenti
per mettere regolarmente a verbale tutto ciò che era successo e per assicurare
alle forze dell'ordine il loro ritorno in caserma per il lunedì successivo,
necessario a risolvere le posizioni dei due sinti e a chiudere la pendenza
legale relativa all'occultamento del cadavere. Rafael cercò di spiegare che lui
non c'entrava niente, che si era unito alla combriccola solo per la far visita
ai carabinieri e che doveva tornare al più presto al suo bar; ma ogni suo
lamento fu vano.
«Finché non ricevo l'ordine del
comandante, dovrò trattenervi. Compreso lei, signore».
Il brigadiere li lasciò liberi
nel primo pomeriggio, comunicandogli che, se non avessero rispettato gli
impegni presi, avrebbero passato un mare di guai.
Appena fuori tirarono un grosso
respiro di sollievo: nessuno poté credere a quel che era accaduto; a parte Radu,
forse, al quale brillarono gli occhi gioia.
79.
Il giorno successivo, un caldo e
afoso sabato di luglio, si ritrovarono al bar di Rafael per festeggiare: alle ventuno
il padrone di casa serrò le saracinesche e stappò le tre bottiglie di vino più
pregiate che aveva, che conservava in cantina per le occasioni più importanti,
deciso, con i suoi ospiti, a isolarsi dal mondo.
«Ci voleva!», esultò Benzina.
Rifocillò i ragazzi con due
panini super farciti e chiamò al telefono Nadia per proporle di unirsi alla combriccola.
«Il caso è finalmente risolto»,
le disse.
Nadia arrivò dopo un quarto
d'ora, ansiosa di sapere come erano andate nei dettagli le cose, in che modo
avevano catturato Aicha, ma anche per poter guardare ancora negli occhi
Teschio, quell’uomo che aveva appena conosciuto, ma che aveva già avuto così
tanto da darle.
Sopraggiungendo, il capobanda,
non riuscì a domare l’imbarazzo e arrossì come un peperone stagionato, mettendo
a nudo tutta la sua sensibilità, troppe volte tenuta nascosta da atteggiamenti
da superman.
«Benvenuta», fu l'unica cosa che
riuscì a dirle, dando a Nadia l'impressione di trovarsi di fronte a un uomo
diverso da quello con cui aveva avuto a che fare fino a quel momento e che,
addirittura, l'aveva chiamata per un'uscita intima.
«Non siamo qui a festeggiare?»,
gli domandò, percependo il disagio dell’uomo e cercando di metterlo,
cinicamente, ancor più in difficoltà.
«Infatti», blaterò Teschio.
«Dalla tua faccia non si
direbbe».
Teschio cercò di ricomporsi,
riacquisendo la sua solita statura, sollecitato dalla volontà di poter presto
buttarsi a capofitto in quella che si prospettava una storia d'amore coi
fiocchi, come non ne viveva da tempo immemore. Fece accomodare la donna vicino
a sé e le spiegò precisamente come s’erano snodati i fatti, com'era avvenuta la
cattura della donna rom e delle rocambolesche ore trascorse in caserma.
«E i ragazzi?», domandò la moglie
di Cinghiale.
«Lunedì abbiamo un altro incontro
con i carabinieri. Dobbiamo risolvere il problema dei documenti, non sono
nemmeno registrati all’anagrafe...».
«Dio».
«Ma non escludo l'ipotesi di
poter prendermi cura di Radu in prima persona…».
Nadia si mostrò sorpresa.
«Lo faresti davvero?».
«Già».
«E' una bellissima notizia».
Teschio le sorrise dolcemente.
«Lui lo sa?».
«Non ancora. Anche perché, per il
momento, nulla è deciso… non vorrei offrirgli false speranze».
«Sei un uomo di cuore, Teschio…».
Teschio arrossì di nuovo.
«Considerando che ha paura di
finire in orfanotrofio…», tagliò corto.
Radu e Giacinta non dettero retta
a nessuno e presero a stuzzicarsi come il giorno della gita in riva al
Villoresi. Giacinta gli morsicò il braccio come una piccola cannibale.
«Brutta stronza».
Radu rideva concitato, provando
un sentimento sempre più vivo e percependo una vaga eccitazione che poco aveva
a che vedere con il semplice e innocuo gusto di divertirsi fanciullescamente.
Era la prima volta che gli capitava e non gli dispiaceva affatto. Per un
istante avrebbe voluto baciare sulla bocca Giacinta, assaporare il gusto delle
sue labbra, il miele del suo corpo, per poi impossessarsi del suo respiro. Ma
tremava all'idea di arrivare a tanto, benché si rendesse conto di averne già
avuto occasione, quando avevano dormito insieme e lui s'era ritratto da
qualunque smaliziata azione dell'amica. Il piccolo non sapeva nulla del suo
destino, e della seria possibilità che, d'ora innanzi, gli avrebbe potuto fare
da padre l'amato Teschio. Era talmente felice di avere vendicato la mamma che
non pativa più alcun dolore e anche il presentimento di finire in un
orfanotrofio s'era fatto piccolo e impalpabile.
«Alla salute di Radu!», gridò
Benzina, alzando al cielo il suo quarto calice.
Risposero in coro tutti gli
altri.
«E adesso musica!», vociò Rafael.
Il proprietario del locale si
avvicinò alla radio che partì con un vecchio brano di Cat Stevens cantato da
Rod Stewart. Giacinta si avvicinò a Radu per invitarlo a ballare e così fece
Nadia con Teschio. Tutti e due, rimbambiti dall'euforica atmosfera, accettarono
di buon grado.
Benzina guardò Rafael con aria
tremebonda: restavano solo loro due, ma fu chiaro a entrambi che non fosse il
caso di unirsi alle danze.
80.
Al termine dei festeggiamenti,
ben oltre la mezzanotte, Benzina era completamente ubriaco; anche Rafael non
era in condizioni ottimali e continuava a saltare per aria come un bambino al
gioco della corda.
I primi ad andarsene furono
Teschio e Nadia, desiderosi di aprire una nuova parentesi sul loro divenire.
Fuori dal locale si guardarono con aria tesa, anche se i fumi dell'alcol
avevano ormai sciolto ogni inibizione.
«Ti va di fare due passi?», si
fece avanti Teschio.
«È tardi, ma non ho nessuna
voglia di rincasare».
Si incamminarono lungo via
Gramsci, entrambi fiduciosi di poter presto imboccare la strada per la casa di
Nadia.
Radu e Giacinta si divertivano,
intanto, a tenere sveglio Benzina che barcollava, prendendolo apertamente per i
fondelli.
«Hai sonno Benzina? Non ti va di
fare un partitina a carte?».
«Che giorno è oggi?», domandò
l'uomo, mostrando tutta la sua alienazione.
«Oggi? Oggi è domenica... sei
scemo, per caso?».
Giacinta fu la più perfida.
Radu rise compiaciuto, tirandogli
in testa delle briciole di pane.
«Ragazzi, non avete sonno?»,
chiese Rafael, auspicando l'imminente congedo dei più giovani.
«Sonno? Cos'è il sonno? Il nome
di un nuovo panino?», chiese Giacinta, facendosi beffa anche del proprietario
dell’esercizio che li ospitava.
Rafael la guardò disgustato,
incapace di organizzare una replica. Si limitò a grattarsi i baffi.
«Dai andiamo, la festa è durata
abbastanza», mugugnò Radu, fattosi serio all'improvviso. «C'è una cosa che
vorrei fare adesso...».
Giacinta lo fissò stupita,
chiedendosi il senso di tutta quella foga: in pochi secondi aveva cambiato
totalmente espressione. Radu le fece intendere che aveva una certa premura, e
che avrebbe contato su di lei per poter risolvere l'impellenza scaturita così
frettolosamente fra i suoi neuroni.
Rafael li congedò con un sorriso
sincero.
«Arrivederci ragazzi».
Inquadrò Benzina, curvo sul
tavolo, privo di sensi.
«Questo lo tengo qui con me a
dormire. Non mi sembra nelle condizioni di tornare a casa da solo».
«Auguri», disse Giacinta.
«Ciao Rafael, ci vediamo», disse
Radu.
All’esterno, Radu si mise a
correre all'impazzata, come se stesse fuggendo da un calabrone infervorato.
«Dove scappi? Sei ubriaco anche
tu?».
Radu non rispose e proseguì nella
sua danza forsennata.
Giacinta lo inseguì e, forte di
una falcata più potente della sua, con il cuore che batteva come un tamburo, in
pochi istanti lo raggiunse.
«Sei impazzito?».
Si fermarono contro un muro, dove
c'era scritto una frase con lo spray, che nessuno dei due si preoccupò di
leggere: “Tu mi rubi l'amore”.
«Vieni con me?».
«Dove?».
«Voglio andare alla fabbrica a
salutare la mamma».
Giacinta tracollò.
«A piedi fino a là?».
«Io vado, tu fai come vuoi».
Si rimisero in marcia
silenziosamente, uno di fianco all'altro, come scolaretti in gita; rivolgendosi
la parola, solo quando i silenzi e le angosce della notte erano calati su tutto
il sestese e furono, ormai, in procinto di attraversare il confine con
Brugherio. Scorsero il cartello che indicava l'inizio del nuovo paese e
finalmente si sentirono più tranquilli. Dopo una decina di minuti intrapresero
la strada che dava sulla fabbrica abbandonata.
Individuarono il buco dal quale
s'erano introdotti con Teschio e Benzina, trovandolo ancora più sconquassato
della volta prima, come se, nel frattempo, l’avessero vinto altri disperati. A
Radu venne il magone, ripensando a quella sera maledetta. Quante cose erano
cambiate, però...
«Prima tu», disse Giacinta.
Il piccolo varcò la soglia agilmente
e si diresse come una scheggia verso il punto in cui avevano seppellito
Slagena; ricordando bene ogni angolo, ogni piega, ogni sasso, di quel brullo e
insignificante appezzamento di terreno, compreso l’attrezzo arrugginito che
spuntava come un dente avvelenato dall'aia antistante l'ingresso principale
della fabbrica.
Si fermarono in religioso
silenzio dinanzi al giaciglio di Slagena, un tutt'uno con l'ambiente
circostante, pregando ognuno per conto proprio. La luna brillava alta nel cielo
e nell’aria trionfava l'odore penetrante e tonificante del sambuco.
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