martedì 24 luglio 2012

Rapsodia gitana # 8


71.

«Via libera», disse Radu.
«Aspetta», ordinò Teschio. «Lasciamo che se ne vadano del tutto…».
Radu non stava più nella pelle: ancora una volta, forte della tipica impazienza giovanile, e dell'ardore che lo consumava legato alla speranza di poter presto rivendicare la mamma, avrebbe voluto forzare i tempi per risolvere definitivamente il caso.
«Dobbiamo muoverci».
Teschio lo guardò divertito, trovandolo per un istante più grande e maturo della sua età. Pensò che non gli sarebbe dispiaciuto se fosse stato suo figlio. Avrebbe, infatti, sotto sotto, desiderato un figlio, ma il destino, evidentemente, non era stato dello stesso avviso: l'ultima storia importante, degna di poter creare i presupposti per una prole, l'aveva avuta dieci anni prima con una donna che, senza preavviso, l'aveva lasciato per un dirigente dell'Esselunga, divorziato con già due pargoli da mantenere. Da allora non ne aveva più voluto sapere di relazioni serie.
Nonostante le apparenze da macho che non deve chiedere mai, era un sentimentale, un romantico; una persona contraddistinta da sentimenti profondi, che se venivano disillusi, la portavano a chiudersi a riccio e a soffrire come un leone costretto a morire dietro alle sbarre di uno zoo cittadino, intriso di smog e umidità. Era fatto così. Di tanto in tanto si concedeva qualche donnetta senza troppe pretese, ma badava bene di non farsi coinvolgere troppo sul piano emotivo. Erano storie da una notte e via, per nulla struggenti, tristemente meccaniche, come meccanico è un qualunque gesto che si compie senza pensare, tipo timbrare il biglietto della metropolitana.
Razionalizzava lo squallore di certe situazioni, ma alla fine si convinceva che gli andava bene così. Sicché, negli ultimi tempi, solo una donna era riuscita a stimolarlo un po’ più del normale, ridandogli quel sapore di conquista che aveva perduto da millenni: Nadia. Proprio lei, la moglie di Cinghiale... non l'avrebbe mai potuto immaginare che in questa storia assurda ci potesse anche essere spazio per un vivido e onnisciente scombussolamento del cuore. E invece...
Pensò a lei anche mentre si accingeva a conquistare la roulotte di Aicha, con il suo beniamino; e più passavano le ore da quel felice primo incontro in casa Schilef, dopo la sortita di Rafael, più percepiva il suo animo sussultare. Ora, poi, che aveva trovato perfino il coraggio di invitarla fuori, si sentiva al settimo cielo, riuscendo a vedere le cose con un ottimismo esagerato.   
«Sei pronto?», domandò a Radu.
«Lo sono da un pezzo».
«Però conviene organizzarci un attimo…».
Sul volto di Radu si materializzò un gigantesco punto interrogativo.
Teschio tentò di tranquillizzarlo.
«Tu farai il palo, mentre io, nella roulotte, cercherò prove dell'assassinio di tua madre…».
Il piccolo parve contrariato.
«Voglio essere io a scoprire chi ha ucciso mia madre».
«Sarai, infatti, tu a scoprirlo. Ma per prima cosa è indispensabile non farci beccare…».
«Cosa vuoi dire?».
«Io m'intrufolo nella roulotte e tu vai avanti e indietro lungo il marciapiede, come una sentinella, con fare disinteressato, avvertendomi se dovessi vedere qualcuno puntare da queste parti. Nessuno può farlo meglio di te...».
«Scuse. Voglio salire anch'io sulla roulotte».
Teschio s'indispose.
«Radu, non fare il bambino dell'asilo. Per portare a termine con successo una missione è necessario essere compatti e…».
Radu non insistette. 
«Va bene, facciamo come vuoi. Basta che ci muoviamo».
Con fare circospetto lasciarono la radura del parco e si portarono sulla ciclabile che affiancava la roulotte di Aicha. Passò a gran velocità un tipo con un casco mastodontico e un paio di pantaloncini da hawaiano; Teschio lo mandò mentalmente a quel paese.
Di fronte all'ingresso della roulotte, i due detective si regalarono un gesto di intesa con gli occhi, dopodichè il più anziano si avvicinò scaltramente all’abitazione rom, facendo forza sulla serratura con una specie di chiavistello. Radu gli fece cenno di sì col capo: la via era libera e si poteva procedere con l'ispezione.

72.

Le cose sull'altro fronte andarono, invece, un po’ più a rilento; ma quando Benzina terminò con l'operazione di pulizia, con Giacinta a pochi centimetri nauseata dal tanfo opprimente delle feci canine impiastrate sotto la suola dell'amico, si sentì Fatima ruotare la serratura della porta del camper e uscire con in mano due voluminosi sacchetti di iuta. Non fu possibile intuire ciò che potessero nascondere, tuttavia i due che la osservavano a sua insaputa, compresero che la donna stesse per lasciare la roulotte, in barba ai suoi buoni propositi di preparare un succulento piatto tradizionale.
Benzina fu sopraffatto da una scena horror, con la donna che s’incamminava per liberarsi dei brandelli di qualche nemico fatto a pezzi la sera prima con una mannaia. Controllò il fondo delle sacche per vedere se colavano gocce di sangue. Da qualche giorno, di fatto, era vittima di disegni onirici lugubri e pesti di questo tipo, sortilegi che lo lasciavano con l'amaro in bocca, incredulo di fronte alla capacità della sua mente di elaborare simili romanzate, degne del miglior esordio alla Edgar Allan Poe.
Si rallegrarono, in ogni caso, all'idea che avrebbero presto avuto modo di passare al setaccio la casa ambulante, senza pericoli. Giacinta regalò all'amico un sorriso privo di ogni rancore, mandandolo in sollucchero: anche per loro era ufficialmente via libera.
«Forza», disse Benzina.
Uscirono allo scoperto, sincerandosi che Fatima si fosse finalmente dileguata. La strada era stracolma di mezzi che andavano e venivano, ma non ci fu il rischio di essere colti in fragrante: l'uscio della roulotte dava, infatti, sul marciapiedi, stretto fra la ciclabile e l'area verde destinata ai quattrozampe, dove il traffico era meno imponente.
Giacinta si appoggiò alla rete della zona cani, e si guardò intorno con grande attenzione. Lasciò passare una mamma in compagnia del proprio piccolo nel passeggino, dopodichè fece cenno a Benzina che poteva entrare in azione. L'uomo si avvicinò al camper con una leggiadria da ippopotamo imbolsito, e cercò di fare leva sulla serratura, impugnando uno strumento analogo a quello di Teschio, ma non ottenendo lo stesso risultato: del resto era la prima volta che cercava di violare l'ingranaggio di una porta, a mo' di uno dei tanti esperti scassinatori visti e rivisti al cinema o in tv. Vedendolo in difficoltà, Giacinta dondolò la testa sconsolata. Gli si avvicinò con garbo:
«Che succede?».
«Non riesco a far girare la serratura».
«Sei una sega. Dai a me».
La ragazza si mise a trafficare con il punteruolo e in meno di cinque minuti fu un in grado di vincere la soglia dell'abitazione di Fatima. Fu sopraffatta dall'odore pungente di una spezia indefinita, che più volte, però, aveva respirato venendo a contatto con qualche famiglia rom. Le ricordava quand'era piccola, piccola, e con mamma e papà andavano a fare visita a una famiglia sinti che abitava dalle parti di Cinisello. Ogni volta che salivano a bordo del loro camper, era come fare un salto in un paese lontano, esotico, forse proprio nell'India dell'undicesimo secolo, da dove l'etnia che li rappresentava aveva iniziato il suo lungo e rocambolesco pellegrinaggio.
Giacinta non sapeva quasi nulla delle origini del suo popolo, ma più volte s'era soffermata sulla sua pelle più scura, ambrata, in antitesi con i colori pallidi dei ragazzi della sua età che vedeva correre per le strade di Sesto San Giovanni. Capiva che era diversa dagli altri non solo per il fatto di vivere in un roulotte e di non avere altro da fare che industriarsi per poter involare qualcosa di nuovo e bello in qualche negozio o abitazione, ma anche, appunto, per una carnagione che non trovava degna corrispondenza fra le tante persone che la circondavano. Si voltò per guardare Benzina. L'uomo le indicò di iniziare a perlustrare.
A Giacinta cominciò a battere forte il cuore.

73.

Teschio trovò una roulotte disordinatissima, con panni sporchi da tutte le parti, e stoviglie piene di pezzi avanzati di cibo. E un odore nauseabondo. Anche il caldo la diceva lunga. Si respirava a fatica, un po’ come era accaduto nella roulotte di Radu all'indomani dell'omicidio di Slagena. Non ebbe modo di muoversi con grande agilità, in mezzo a tutto quel putiferio, ma con coraggio si mise in testa di sindacare con accortezza maniacale ogni angolo della casa ambulante. Partì dal cucinino. Spostò il lerciume dei piatti per indagare lo stato delle posate, e magari riscontrare la presenza di un coltello sospetto. Ma non trovò nulla di tutto ciò. Erano semplici e comuni forchette e cucchiai, alcuni con ancora appiccicati chicchi di riso. Subì un conato di vomito, ma proseguì con stoicismo per la sua strada. Osservò un bicchiere mezzo pieno di vino puzzolente. Si chiese come si potesse vivere in un simile immondezzaio. Anche lui non era un campione di pulizia e igiene, ma qui, davvero, constatò che fosse peggio che trovarsi in una porcilaia. Un posto ideale per una dimora animale, non umana. Ma tant'è. S'avvide che evidentemente non tutti dovessero vivere la sporcizia e il disordine allo stesso modo. Forse, in certi casi, per alcuni astrusi paradigmi esistenziali, anche il caos più assoluto poteva essere contemplato come un sorriso gaudente. Non andò comunque avanti a elucubrare più di tanto e passò a indagare le secrete del cucinino. C'era la spazzatura colma, con lo strato superiore dei rifiuti completamente coperto da bucce nerastre di banana, che contribuivano pesantemente a rendere ancora più micidiale l'odore stantio del camper.
«Hei!».
Radu non stava più nella pelle. Si avvicinò alla porticina, richiamando l'attenzione del grande capo. Teschio barcollò.
«Che fai lì? Torna al tuo posto».
«Volevo sapere…».
«Torna al tuo posto! Se arriva qualcuno stiamo freschi! Muoviti!».
Era un ordine al quale Radu non poté non obbedire. Con il cuore in gola e la consapevolezza di avere fatto una stupidata, tornò a passeggiare lungo il marciapiede, sincerandosi che non ci fossero rom nei dintorni. Sospirò, quando s'accorse che era tutto sotto controllo. Passò un pensionato al quale sorrise astutamente. L’uomo, colpito dalla trasandatezza del piccolo, lo rimproverò con una smorfia.
«Sparisci merda», bofonchiò il ragazzino.
Teschio, intanto, con un'agitazione che gli corrompeva sempre più l'animo, continuava a cercare. Giunse al letto. C'erano quattro cuscini, uno sopra all'altro e un lenzuolo sudicio, pieno di briciole e peli. Provò un altro conato di vomito, pensando a quel che dovesse essere accaduto di recente in quell'alcova.
«Che schifo», sibilò, finendo con lo sguardo ai piedi del mobiletto che affiancava il giaciglio di Aicha.
Individuò un mucchio di vestiti gettati alla rinfusa, coperti da un piccolo cesto di vimini. Lo tolse e si mise a rovistare fra i panni sporchi. Fu colto da un brivido gelido, quando notò un fazzoletto macchiato di sangue. Lo studiò con particolare attenzione, cercando di capire quale fosse la sua provenienza. Sembrava un fazzoletto comune, femminile, con il bordino disegnato da piccoli ricami. Non seppe dargli una spiegazione; sarebbe potuto essere il sangue di chiunque, pensò all'epistassi di uno dei figli di Aicha... Non c'era motivo di credere che dovesse essere quello di Slagena… Troppo avventata e ottimistica come supposizione. Ma i dubbi crollarono definitivamente quando scorse, nel punto più basso del montone di abiti, una camicetta da donna con un frammento di manica pesantemente impregnata di liquido ematico. Qualcosa non tornava.  

74.

Teschio la fissò con grande coinvolgimento, riflettendo sul fatto che potesse benissimo essere una camicetta di Aicha. Quello che però non tornava era come potesse essersi macchiata in quel modo. Non era il segno di una banale ferita: il sangue, infatti, pareva assai copioso, corposo, e colorava gran parte del vestito. Quel che doveva aver provocato quel disastro poteva essere stato solo un taglio profondo, una lesione ben più importante di una banale perdita di sangue dal naso o di un ematoma provocato da una caduta accidentale. Gli si accese una lampadina in testa e per la prima volta azzardò che potesse, dunque, essere proprio quella la prova dell'assassinio di Slagena. Solo una violenta accoltellata poteva, di fatto, spiegare quello scempio impresso sulla camicetta come un’immagine su una lastra fotografica.
Tuttavia si sorprese pensando ad Aicha e alla sua scarsa intelligenza; tutti sanno, infatti, che la prima cosa da fare quando si commette volutamente un omicidio, è far sparire completamente le tracce. Perché lei non l'aveva fatto? Perché il marito non le aveva dato consigli a riguardo? E se il marito fosse ancora all'oscuro di tutto? E' vero, il montone di vestiti pareva sorto apposta per nascondere l'indumento più compromettente… ma ci sarebbero stati mille altri modi ben più efficaci per far sparire la prova di un assassinio; senza andare tanto lontani, i dintorni della stazione erano pieni di angoli remoti, dove rifilare qualunque cosa pregiudizievole. Teschio fu di nuovo preda della desolazione. E tornò a pensare che quel sangue non fosse quello di Slagena, ma di chissà chi…
Pensò alle galline che aveva visto sgozzare da sua nonna quand'era piccino. Aveva visto litri di sangue andando a trovare i nonni in campagna. Se lo ricordava come fosse ieri. La nonna afferrava i pennuti con le sue possenti manone e gli tranciava il collo con un taglio netto o un'incisione profonda. In pochi secondi si rovesciavano al suolo cascate di rosso vivo. Non era un bello spettacolo. Ma è così che facevano i contadini dalla notte dei tempi. S'immaginò, dunque, che anche Aicha avesse potuto far fuori un pollo da qualche parte, per poi ritrovarsi col vestito completamente impiastrato. Guardò più da vicino la camicetta, per capire se fosse possibile distinguere a una sola occhiata il sangue umano da quello di un uccello. Ma ci rise sopra scoprendosi di fronte a un'impresa a dir poco insormontabile. Si sarebbe seduto sul letto se non fosse che, ancora con l'indumento di Aicha fra le mani, notò una specie di adesivo appiccicato, in mezzo ad altri di difficile interpretazione, alla porticina del bagno.
Si avvicinò con curiosità e notò che riprendeva in tutto e per tutto l'effige presente sulla medaglietta scoperta nei pressi della roulotte di Radu. L'agitazione lo pervase: era il simbolo dei Dionisio. Deglutì con un'ansia parossistica e, dopo aver mollato la camicetta incriminata in cima al provvidenziale montone di vestiti, saltò all'esterno per richiamare l'attenzione di Radu. Il piccolo si guardò intorno come un furetto, prima di catapultarsi al servizio del grande capo.
«Che c'è?», domandò, mostrandogli un'esagerata riverenza.
«Sali un attimo», disse Teschio.
«Ma…».
«Non fiatare e datti una mossa».
Teschio, con un cenno nervoso del mento, indicò a Radu l'adesivo incollato all'uscio del wc. E non fu necessario porgli domande in merito alla sua autenticità.
«Puttana, puttana… questo è il marchio dei Dionisio».
Teschio lo guardò, fra l'eccitazione e lo sconvolgimento.
«Nessun dubbio, vero?».
Radu bestemmiò sotto voce.
«E' identico a quello della medaglietta».

75.

Scesero di corsa dal camper e si diressero alla stazione, cercando di dissimulare il più possibile i loro intendimenti. Riuscirono senza problemi nell'impresa, camuffandosi fra l’andirivieni dei pendolari e i vivacissimi colori delle bancarelle dei marocchini che vendevano vestiti e scarpe a prezzi stracciati. Si ritrovarono alla fine del parcheggio libero ansimanti, come cavalli da corsa, dopo una lunga galoppata fra le praterie del centro America. Si guardarono con gli occhi stralunati consapevoli di avere in mano la situazione: le due prove raccolte bastavano e avanzavano per librare il colpo di grazia e incastrare una volta per tutte l’assassino di Slagena.
«Aicha, è stata Aicha», disse Radu, con l'aria trafelata.
Teschio non ribatté: la sua testa era in completo subbuglio.
«Voglio essere io a ucciderla».
L’uomo s’incupì.
«Ragazzo, non correre. Abbiamo fatto una scoperta importante, ma non dobbiamo essere precipitosi. Potremmo rovinare tutto…».
«Ha ucciso mia madre… voglio essere io a vendicarla».
Teschio comprese benissimo la furia del piccolo, ma dovette trovare un modo per calmare i suoi bollenti spiriti, prima che facesse qualche pazzia.
«Sarai tu a risolvere il caso», gli disse, cercando di ammansirlo con eleganza. «Ma adesso andiamo con ordine, non facciamoci prendere dalla foga...».
«Cosa si fa, quindi?», domandò Radu, irrequieto.  
Teschio si fece meditabondo, percependo che con le loro sole forze non avrebbero potuto fare molto, se non rischiare di finire in un mare di guai. Si autoconvinse, pertanto, della necessità di doversi affidare a qualche figura competente, in gamba, con mezzi reali per poter completare l’opera in modo degno e risoluto. Ci ragionò per un po’, senza giungere, però, a conclusioni particolarmente vantaggiose. Non conosceva nessuno, del resto, di un certo calibro, che potesse realmente sfilare gli ultimi fili della matassa e chiudere abilmente la faccenda. Non aveva mai avuto a che fare con le forze dell'ordine, se non per casini da lui vissuti in prima persona. 
«Ci pensiamo con calma...», tagliò corto Teschio, «andiamo, intanto, a vedere cosa stanno combinando quei due. Sperando che non li abbiano beccati».
«Magari c'è di mezzo anche Fatima».
«Ho i miei dubbi. Una pazza basta e avanza».
Abbandonarono il trambusto della stazione e raggiunsero la roulotte di Fatima. Scorsero Benzina che brancolava avanti e indietro di fronte alla casa ambulante della donna; ma non videro Giacinta.
«Sarà dentro a cercare indizi…», blaterò Radu.
Teschio si scaldò pensando a Benzina che, a quanto sembrava, aveva lasciato alla ragazzina l'arduo compito di setacciare la roulotte di Fatima, per rivelare tracce dell'assassino.
«Ciao ragazzi, già qua?», esordì Benzina al loro sopraggiungere.
«Vedo che ti sei dato da fare», ironizzò Teschio.
«Lei mi sembrava più scaltra e… più sveglia».
«E tu sei un cacasotto», disse Radu.
Benzina fece finta di nulla, essendo ormai abituato alle bastonate dei partner.
Teschio introdusse la testa nella roulotte di Fatima, intimando a Giacinta di venire fuori che avevano ormai in pugno il caso. 
«Che succede?», domandò la ragazza, con apprensione.
Teschio non aprì bocca, ma con un segnale del capo, ordinò a tutti di seguirlo senza fare storie. Fra via Bellini e via Loduvico Ariosto c'era un altro parchetto preso spesso d'assalto da rom ed extracomunitari, dove conquistarono una panchina; e dove Teschio rivelò a Benzina e Giacinta il frutto delle ultime scoperte.
«Dio mio», disse Giacinta, allibita.
«Porca troia», corresse il tiro Benzina.
«Allora è stata lei…».
«Le prove sembrerebbero incastrarla alla grande», disse Teschio. «Ma ora dobbiamo capire come muoverci, come proseguire nelle indagini. Mica possiamo catturarla come si cattura un cane fuggito dal canile, infilarle le manette e…».
«Anche perché non ne abbiamo… di manette», disse ridacchiando Benzina, guadagnandosi l'ennesima smorfia di sufficienza da parte del gruppo.
«Come procediamo, quindi?», incalzò Giacinta.
«Tanto per iniziare ci converrebbe far sapere a Rafael quel che abbiamo scoperto. E sentire se può darci qualche consiglio su come andare avanti».
Nessuno obiettò. Di fatto, nessuno aveva proposte alternative da fare.

76.

I quattro si diressero al bar di Rafael, con passo sostenuto, rischiarati da un cielo lindo e profumato d’estate.
«Dobbiamo darci una mossa, se non vogliamo che Aicha sparisca», disse Giacinta.
«Se non è sparita fino a oggi, non sparisce più», disse Teschio.
«Se ha lasciato sparsi per la roulotte i vestiti macchiati del sangue di Slagena, significa proprio che non ha alcun timore di essere beccata», sottolineò Benzina.
«Non capisco da dove derivi tutta questa sua sicurezza», disse Teschio.
«Probabilmente dalle droghe che usa. Secondo me i Dionisio l'hanno rimbambita ben bene...».
«Mi suona strano», replicò Teschio. «Come farebbe il marito a volerla ancora con sé? Se fosse come dici non avrebbe nemmeno la testa per badare ai figli. E invece non mi sembra messa così male. Io e Radu l'abbiamo vista bene. Sembrava tranquillissima. S'è imbarcata coi figli e via...».
Passò una autoambulanza a sirene spiegate. Radu la seguì fino al punto in cui intraprese una curva a gomito. Sognò che potesse esserci a bordo sua madre, che veniva trasportata d'urgenza all'ospedale, per poi essere curata e guarire completamente. Gli vennero le lacrime agli occhi pensando che stava svanendo sotto mezzo metro di terra, ma cercò di non mostrare il momento di difficoltà, fissando il marciapiede, come si fissa cogitabondi il titolo di un articolo di giornale.
«In ogni caso, non è del tutto vero che non abbia nascosto le tracce», disse Giacinta. «Il fatto che abbia sommerso i vestiti sotto una pila di indumenti sporchi, indica la sua intenzione di volersi proteggere. Teniamo, inoltre, presente che nessuno di noi ha trovato l'arma del delitto. Sicuramente il coltello che ha usato per uccidere Slagena l’ha fatto sparire velocemente».
«Parli come un detective», disse Benzina, stupefatto.
«Non hai tutti i torti. Certo, se avessimo individuato il coltello dell'assassino...», puntualizzò Teschio.
«Magari con ancora le tracce del sangue di Slagena... dai, non esageriamo», disse Benzina.
Trovarono Rafael alle prese con la macchina del caffé, che faceva le bizze dal giorno prima; aveva un problema con il filtro dell'acqua. A un signore aveva praticamente servito un caffé vomitevole che il cliente s'era rifiutato di pagare.
Rafael aveva le mani ricoperte di grasso e i capelli arruffati, ma fu ben disposto a servire i bisogni degli amici. Li vide e mollò al volo il trabiccolo della Faema per accoglierli gentilmente.  
«Allora?», disse.
Il volto di Teschio si irrigidì.
«Ho capito», disse Rafael. «Andiamo sul retro».
Li guidò oltre la porticina che sorgeva alle spalle del bancone, allontanandosi da orecchie indiscrete, lasciando all'inserviente il compito di soddisfare la clientela.  
«Sputa il rospo», disse Rafael.
Teschio gli raccontò tutto per filo e per segno, dal momento in cui avevano lasciato Nadia, all’epilogo della mattinata. Gli disse della visita ai Dionisio, della terribile atmosfera patita in quell’androne infernale, dell'incontro con Cinghiale, della perlustrazione delle case ambulanti di Aicha e Fatima...
Rafael li guardò incredulo. Non avrebbe mai immaginato tanta efficienza da parte di un gruppo così improvvisato; benché provasse per loro rispetto e in un certo senso anche affetto, li riteneva sostanzialmente una masnada di poveri cristi, che non sarebbero nemmeno stati in grado di scovare i bagni della stazione di Sesto, figuriamoci un assassino. Per qualche secondo non fiatò, dopodichè  si fece avanti con l'unica cosa che gli pareva davvero sensata, anche se sapeva che i due giovani sinti avrebbero potuto passare qualche guaio, soprattutto Radu che era ormai orfano.
«Dobbiamo avvertire la polizia».
Giacinta tracollò.
«Scordatelo».
Benzina e Teschio la guardarono allibiti.
Lei li affrontò con altrettanta risolutezza.  
«Toglietevelo dalla testa. Avevamo detto di no agli sbirri».
«È vero», disse Teschio, «ma non sapevamo che piega avrebbero preso le cose».
«Teschio non mi deludere», disse Radu.
«Ragazzi... guardiamo in faccia la realtà... la situazione è troppo grande per le nostre umili capacità investigative. È un giro troppo grande per noi. Credo che Rafael abbia ragione. Arrivati a questo punto solo le forze dell'ordine sarebbero in grado di chiudere definitivamente il caso, dando un degno epilogo alla vicenda».
Giacinta lo guardò affranta.
«Non ci voglio credere».  
«Non ti preoccupare... vedrai che saranno clementi anche con te e Radu...».
«In effetti, dovessimo pensare di eliminare noi Aicha... poi finiremmo dalla parte dei colpevoli», disse Benzina.
Radu lo fissò stranito, consapevole che il suo sogno di poter vendicare la mamma con le sue stesse mani fosse ormai del tutto tramontato.   
«Io finirò in un orfanotrofio», disse sconsolato.


77.

Arrivarono alla caserma dei carabinieri con la faccia stravolta dalla spossatezza e con l’ansia disegnata fra le pieghe delle bocche contratte. Con loro c'era anche Rafael che, ormai totalmente rapito dalla vicenda, aveva preferito disertare il lavoro: qualche ora di assenza non gli avrebbe stravolto gli incassi, pensò.
Li accolse il comandante Saverio Nazaro, un burbero membro delle forze dell'ordine, con un gigantesco naso a patata e due orecchie da Dumbo.
«Venite».
Li indirizzò a una stanza privata, dove furono fatti accomodare. Radu rimase colpito dall'austerità dell'ambiente e provò una specie di attacco di claustrofobia: gli sudarono le mani e sentì il cuore battere strani colpi.
Giacinta lo rassicurò con un sorriso dolce.
«Stai tranquillo».
«Sono tranquillo».
Al comandante si affiancò un subalterno smilzo, con il labbro inferiore mangiucchiato dalla furia di un herpes tignoso, che chiese al gruppo le generalità. Risposero in coro all'appello, ma il brigadiere fece intendere che la questione rom, l'avrebbero dovuta affrontare in separata sede.
«Dite, dunque, che è stato commesso un omicidio e che la vittima è la mamma del ragazzino», riattaccò il comandante.
«Esattamente», disse Teschio. «Non c'è tempo da perdere se vogliamo incastrare l'assassino…».
Il comandante s'infastidì.
«Signor?».
«Sanvito Franco, detto Teschio».
«Signor Sanvito», disse il comandante, «la prego di contenersi».
Teschio strabuzzò gli occhi. Per un attimo aveva pensato che il comandante si volesse complementare con lui per la sua sagacia.  
«Siamo noi a dirigere le operazioni. Lei ci deve solo dire quello che sa…». 
Teschio non replicò e si diede una calmata.
«Vada avanti».
Il capobanda chiarì nei dettagli ciò che era accaduto. Parlò meticolosamente della setta dei Figli di Dionisio e di quelle che si presumeva dovessero essere state nel tempo le loro principali malefatte. Gli riferì di Radu e della scoperta del corpo della madre, riverso su se stesso, in una pozza di sangue; della tumulazione del cadavere; del giro nelle roulotte dei presunti colpevoli e della finale e inevitabile decisione di rivolgersi ai carabinieri, con il coinvolgimento di Rafael.
Lo smilzo prese nota di tutte le sue dichiarazioni, alzando di tanto in tanto gli occhi per guardare in faccia il curioso interlocutore.
«Perché non ci avete avvertiti subito?», domandò Nazaro.
Cadde il silenzio.
«Volevamo dare una mano a Radu e… ci siamo trovati in mezzo a una vicenda che non avremmo mai potuto immaginare, molto più grande di quella che avevamo prospettato», disse Benzina, temendo di poter essere accusati di occultamento di cadavere e chissà che altro.
«Anche la vostra posizione non è delle migliori…», sospirò il comandante, «ma con voi la vediamo dopo. Chi vi ha indirizzato ai Figli di Dionisio?».
«Un'amica», disse Teschio, guardando Rafael, col timore di dire qualcosa di inopportuno.
«Quale amica?».
«Si chiama Nadia Schilef, intervenne Rafael. Per la precisione è una mia amica. Frequenta il mio locale…».
«Come mai conosce la setta?».
Ci fu un altro attimo di silenzio.
«Non me l'ha mai detto. Me ne parlava senza spiegarmi da dove derivassero le sue informazioni».
Il comandante non abboccò.
«Torneremo ad affrontare questi punti che non mi sembrano per nulla chiari…».
Teschio e Benzina deglutirono amaramente.
«Adesso è necessario andare in cerca di questa…».
«Aicha», intervenne Giacinta.
«Bene», disse il comandante.
Si alzarono simultaneamente dalle rispettive comode, pronti a guadagnare l'uscita, ma l'estemporanea banda fu immediatamente redarguita da Nazaro. 
«I ragazzini rimangono qui».
Radu, per poco, non scoppiò in lacrime.
«Non possono venire con noi?», chiese Teschio.
«Direi proprio di no», affermò con veemenza il comandante. «Temo che, per colpa vostra, abbiano già visto fin troppo».
«Loro non c'entrano», disse Giacinta. «Siamo stati noi a coinvolgerli. Ci lasci venire».
Il comandante dondolò il mento, indicando al brigadiere di prendersi cura dei due giovani, e di trattenerli in caserma fino al loro rientro. Nazaro, con Teschio, Benzina e Rafael, partirono alla ricerca di Aicha.

78.

La trovarono sdraiata sul prato, intenta a mangiucchiare un legnetto di liquirizia, con gote alla Battisti e le sopracciglia pitturate di fresco.
«Eccola», disse Teschio.
Sembrava la donna più felice del mondo, come se aver ammazzato un essere umano non avesse minimamente scalfito la sua coscienza, regalandole una sorta di gioia metafisica. Davanti a tanto menefreghismo, Teschio fu colto da un attacco di rabbia: se pensava al dolore che aveva passato e a quello che stava passando Radu… a dir poco gli prudevano le mani. Ora più che mai intuiva il peso delle parole del piccolo, quando reclamava di non desiderare altro che uccidere personalmente l'assassino di sua madre; se si passano certi limiti, diventa davvero difficile domare le pulsioni, pensò, anche se il riferimento è a un giovincello con un’intera vita davanti.
Il comandante si accorse del momento critico dell'uomo e lo rassicurò con parola bonarie.
«Stia calmo, ormai ce l'abbiamo in pugno...».
Era in compagnia dei due figli e di altre donne rom che né Teschio né Benzina avevano mai visto. C'era una donna anziana, con una folta chioma grigia, che faceva giocare i piccoli con il copertone di un'automobile mezzo sfasciato, recuperato ai piedi della muraglia che dava sulla ferrovia. I bimbi ridevano come matti, come se avessero fra le mani il più bel gioco della loro vita.
«Dividiamoci», disse il comandante.
Nazaro e Teschio entrarono dal cancello di via Gramsci; il brigadiere, Benzina e Rafael, da quello di via Monte Santo. Tutti si mossero con cautela, per non dare nell'occhio e sollevare un inutile putiferio che, senz’altro, avrebbe reso più difficili le operazioni di cattura. Per il parco, ignari di ogni cosa, bighellonavano sereni e tranquilli alcuni corridori, e gruppetti di anziani con il cagnolino al guinzaglio.  
I primi a raggiungere Aicha furono il comandante e Teschio.
La donna li vide e li riconobbe all’istante, come individui che non erano certamente lì per caso: glielo si leggeva in faccia che la stavano cercando. Non ci mise molto, pertanto, a capire che doveva darsela a gambe. Si alzò di scatto e si mise a correre senza criterio, verso lo spazio riservato alle bocce; la sua condanna a morte.
«Non ci sarà molto tempo da sprecare con gli interrogatori», cincischiò il comandante, sottintendendo che il comportamento dell’assassina fosse stato fin troppo eloquente.
Aicha, cercando di fuggire alle grinfie di Nazaro e Teschio, finì dritta fra le braccia del brigadiere, di Benzina e di Rafael. Oppose resistenza con delle grandi manate, cominciando a urlare frasi sconnesse come una posseduta. Il comandante seguì la prassi e la costrinse alle manette, attirando l'attenzione dei giocatori di bocce che allibiti, si chiedevano che diamine stesse succedendo in quel caldo e anonimo pomeriggio sestese.
«Io non c'entro niente!», prese a gridare.
«Adesso lo vedremo», disse il membro delle forze dell’ordine.
«La figlia del destino non c'entra niente!».
«Sicuramente».
«Lasciatemi tornare dai miei figli! Non possono stare senza di me!».
Il comandante non le dette retta, ansimando come un cane da corsa.
La donna controbatté, sempre più disperata:   
«Allora vi colpirò con la maledizione di Dionisio!».
«Forza signora. Collabori che sennò peggiora le cose».
«Il santone vi ucciderà tutti quanti!».
«Signora, non dica scemenze».
«Voi non sapete con chi avete a che fare!».
Comandante e brigadiere la sollevarono di forza e la trasportarono sulla camionetta parcheggiata in via Gramsci, pronta a ingabbiare sedicenti assassini e truffatori di ogni sorta.
Le donne rom seguirono la scena sbigottite, come se tutto ciò che stesse accadendo fosse privo di qualunque logica. Osservandole, Teschio pensò che forse nemmeno loro erano al corrente dell'omicidio di Slagena; e per un istante provò pena per quei piccoli che, inconsapevoli del trambusto generale, continuavano imperterriti a correre dietro al pneumatico marcescente, convinti che la madre si fosse messa a giocare a guardie e ladri.
Di ritorno in caserma, il comandante dispose all’unanimità di non muoversi fino a nuovo ordine.
Giacinta e Radu non stettero più nella pelle e vedendo passare in manette l'assassina di Slagena, dimentichi di ogni preoccupazione, si abbandonarono a un abbraccio fraterno.
«Hai visto?», disse Giacinta.
«Voglio vederla marcire all'inferno», fece Radu.
Aicha sparì con il comandante e per due ore gli improvvisati detective furono presi in ostaggio dal  brigadiere, interrogandosi stupiti su tutta una serie di passaggi poco chiari, desiderosi di capire il momento in cui l'incredibile avventura avrebbe finalmente avuto il suo epilogo.  
Benzina chiese di potersi recare in bagno, per risolvere un generico, ma impellente bisogno: ancora una volta fu vinto da una violenta colica addominale, che a questo punto, fu evidente a tutti, dovesse sopraggiungere tutte le volte che si trovava a dover affrontare compiti particolarmente ardui. Giacinta e Radu risero di gusto.
Compilarono numerosi documenti per mettere regolarmente a verbale tutto ciò che era successo e per assicurare alle forze dell'ordine il loro ritorno in caserma per il lunedì successivo, necessario a risolvere le posizioni dei due sinti e a chiudere la pendenza legale relativa all'occultamento del cadavere. Rafael cercò di spiegare che lui non c'entrava niente, che si era unito alla combriccola solo per la far visita ai carabinieri e che doveva tornare al più presto al suo bar; ma ogni suo lamento fu vano.
«Finché non ricevo l'ordine del comandante, dovrò trattenervi. Compreso lei, signore».
Il brigadiere li lasciò liberi nel primo pomeriggio, comunicandogli che, se non avessero rispettato gli impegni presi, avrebbero passato un mare di guai.
Appena fuori tirarono un grosso respiro di sollievo: nessuno poté credere a quel che era accaduto; a parte Radu, forse, al quale brillarono gli occhi gioia.

79.

Il giorno successivo, un caldo e afoso sabato di luglio, si ritrovarono al bar di Rafael per festeggiare: alle ventuno il padrone di casa serrò le saracinesche e stappò le tre bottiglie di vino più pregiate che aveva, che conservava in cantina per le occasioni più importanti, deciso, con i suoi ospiti, a isolarsi dal mondo.
«Ci voleva!», esultò Benzina.
Rifocillò i ragazzi con due panini super farciti e chiamò al telefono Nadia per proporle di unirsi alla combriccola.  
«Il caso è finalmente risolto», le disse.
Nadia arrivò dopo un quarto d'ora, ansiosa di sapere come erano andate nei dettagli le cose, in che modo avevano catturato Aicha, ma anche per poter guardare ancora negli occhi Teschio, quell’uomo che aveva appena conosciuto, ma che aveva già avuto così tanto da darle.
Sopraggiungendo, il capobanda, non riuscì a domare l’imbarazzo e arrossì come un peperone stagionato, mettendo a nudo tutta la sua sensibilità, troppe volte tenuta nascosta da atteggiamenti da superman.
«Benvenuta», fu l'unica cosa che riuscì a dirle, dando a Nadia l'impressione di trovarsi di fronte a un uomo diverso da quello con cui aveva avuto a che fare fino a quel momento e che, addirittura, l'aveva chiamata per un'uscita intima.
«Non siamo qui a festeggiare?», gli domandò, percependo il disagio dell’uomo e cercando di metterlo, cinicamente, ancor più in difficoltà.
«Infatti», blaterò Teschio.
«Dalla tua faccia non si direbbe».
Teschio cercò di ricomporsi, riacquisendo la sua solita statura, sollecitato dalla volontà di poter presto buttarsi a capofitto in quella che si prospettava una storia d'amore coi fiocchi, come non ne viveva da tempo immemore. Fece accomodare la donna vicino a sé e le spiegò precisamente come s’erano snodati i fatti, com'era avvenuta la cattura della donna rom e delle rocambolesche ore trascorse in caserma.
«E i ragazzi?», domandò la moglie di Cinghiale. 
«Lunedì abbiamo un altro incontro con i carabinieri. Dobbiamo risolvere il problema dei documenti, non sono nemmeno registrati all’anagrafe...».
«Dio».
«Ma non escludo l'ipotesi di poter prendermi cura di Radu in prima persona…».
Nadia si mostrò sorpresa.
«Lo faresti davvero?».
«Già».
«E' una bellissima notizia».
Teschio le sorrise dolcemente.
«Lui lo sa?».
«Non ancora. Anche perché, per il momento, nulla è deciso… non vorrei offrirgli false speranze».
«Sei un uomo di cuore, Teschio…».
Teschio arrossì di nuovo.
«Considerando che ha paura di finire in orfanotrofio…», tagliò corto.
Radu e Giacinta non dettero retta a nessuno e presero a stuzzicarsi come il giorno della gita in riva al Villoresi. Giacinta gli morsicò il braccio come una piccola cannibale.
«Brutta stronza».
Radu rideva concitato, provando un sentimento sempre più vivo e percependo una vaga eccitazione che poco aveva a che vedere con il semplice e innocuo gusto di divertirsi fanciullescamente. Era la prima volta che gli capitava e non gli dispiaceva affatto. Per un istante avrebbe voluto baciare sulla bocca Giacinta, assaporare il gusto delle sue labbra, il miele del suo corpo, per poi impossessarsi del suo respiro. Ma tremava all'idea di arrivare a tanto, benché si rendesse conto di averne già avuto occasione, quando avevano dormito insieme e lui s'era ritratto da qualunque smaliziata azione dell'amica. Il piccolo non sapeva nulla del suo destino, e della seria possibilità che, d'ora innanzi, gli avrebbe potuto fare da padre l'amato Teschio. Era talmente felice di avere vendicato la mamma che non pativa più alcun dolore e anche il presentimento di finire in un orfanotrofio s'era fatto piccolo e impalpabile. 
«Alla salute di Radu!», gridò Benzina, alzando al cielo il suo quarto calice.
Risposero in coro tutti gli altri. 
«E adesso musica!», vociò Rafael.
Il proprietario del locale si avvicinò alla radio che partì con un vecchio brano di Cat Stevens cantato da Rod Stewart. Giacinta si avvicinò a Radu per invitarlo a ballare e così fece Nadia con Teschio. Tutti e due, rimbambiti dall'euforica atmosfera, accettarono di buon grado.
Benzina guardò Rafael con aria tremebonda: restavano solo loro due, ma fu chiaro a entrambi che non fosse il caso di unirsi alle danze.

80.

Al termine dei festeggiamenti, ben oltre la mezzanotte, Benzina era completamente ubriaco; anche Rafael non era in condizioni ottimali e continuava a saltare per aria come un bambino al gioco della corda.
I primi ad andarsene furono Teschio e Nadia, desiderosi di aprire una nuova parentesi sul loro divenire. Fuori dal locale si guardarono con aria tesa, anche se i fumi dell'alcol avevano ormai sciolto ogni inibizione.
«Ti va di fare due passi?», si fece avanti Teschio.
«È tardi, ma non ho nessuna voglia di rincasare».
Si incamminarono lungo via Gramsci, entrambi fiduciosi di poter presto imboccare la strada per la casa di Nadia.
Radu e Giacinta si divertivano, intanto, a tenere sveglio Benzina che barcollava, prendendolo apertamente per i fondelli.
«Hai sonno Benzina? Non ti va di fare un partitina a carte?».
«Che giorno è oggi?», domandò l'uomo, mostrando tutta la sua alienazione.
«Oggi? Oggi è domenica... sei scemo, per caso?».
Giacinta fu la più perfida.
Radu rise compiaciuto, tirandogli in testa delle briciole di pane.
«Ragazzi, non avete sonno?», chiese Rafael, auspicando l'imminente congedo dei più giovani.
«Sonno? Cos'è il sonno? Il nome di un nuovo panino?», chiese Giacinta, facendosi beffa anche del proprietario dell’esercizio che li ospitava.  
Rafael la guardò disgustato, incapace di organizzare una replica. Si limitò a grattarsi i baffi.
«Dai andiamo, la festa è durata abbastanza», mugugnò Radu, fattosi serio all'improvviso. «C'è una cosa che vorrei fare adesso...».
Giacinta lo fissò stupita, chiedendosi il senso di tutta quella foga: in pochi secondi aveva cambiato totalmente espressione. Radu le fece intendere che aveva una certa premura, e che avrebbe contato su di lei per poter risolvere l'impellenza scaturita così frettolosamente fra i suoi neuroni.
Rafael li congedò con un sorriso sincero.
«Arrivederci ragazzi».
Inquadrò Benzina, curvo sul tavolo, privo di sensi.
«Questo lo tengo qui con me a dormire. Non mi sembra nelle condizioni di tornare a casa da solo».
«Auguri», disse Giacinta.
«Ciao Rafael, ci vediamo», disse Radu.
All’esterno, Radu si mise a correre all'impazzata, come se stesse fuggendo da un calabrone infervorato.  
«Dove scappi? Sei ubriaco anche tu?».
Radu non rispose e proseguì nella sua danza forsennata.
Giacinta lo inseguì e, forte di una falcata più potente della sua, con il cuore che batteva come un tamburo, in pochi istanti lo raggiunse.
«Sei impazzito?».
Si fermarono contro un muro, dove c'era scritto una frase con lo spray, che nessuno dei due si preoccupò di leggere: “Tu mi rubi l'amore”.
«Vieni con me?».
«Dove?».
«Voglio andare alla fabbrica a salutare la mamma».
Giacinta tracollò.
«A piedi fino a là?».
«Io vado, tu fai come vuoi».
Si rimisero in marcia silenziosamente, uno di fianco all'altro, come scolaretti in gita; rivolgendosi la parola, solo quando i silenzi e le angosce della notte erano calati su tutto il sestese e furono, ormai, in procinto di attraversare il confine con Brugherio. Scorsero il cartello che indicava l'inizio del nuovo paese e finalmente si sentirono più tranquilli. Dopo una decina di minuti intrapresero la strada che dava sulla fabbrica abbandonata.
Individuarono il buco dal quale s'erano introdotti con Teschio e Benzina, trovandolo ancora più sconquassato della volta prima, come se, nel frattempo, l’avessero vinto altri disperati. A Radu venne il magone, ripensando a quella sera maledetta. Quante cose erano cambiate, però...
«Prima tu», disse Giacinta.
Il piccolo varcò la soglia agilmente e si diresse come una scheggia verso il punto in cui avevano seppellito Slagena; ricordando bene ogni angolo, ogni piega, ogni sasso, di quel brullo e insignificante appezzamento di terreno, compreso l’attrezzo arrugginito che spuntava come un dente avvelenato dall'aia antistante l'ingresso principale della fabbrica.
Si fermarono in religioso silenzio dinanzi al giaciglio di Slagena, un tutt'uno con l'ambiente circostante, pregando ognuno per conto proprio. La luna brillava alta nel cielo e nell’aria trionfava l'odore penetrante e tonificante del sambuco. 

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