61.
«Dove è finito quel gran figlio
di puttana?», si domandò Teschio.
Pensò che fosse sparito oltre
l'unica porta che contraddistingueva il locale, quella sormontata dal misterioso
scalpo che sembrava osservare i presenti pronti a scagliarsi su di essi con
piglio assatanato. Non poteva esserci altra spiegazione, visto che non c’erano
altri varchi altrettanto appetibili. Ne ebbe, dunque, conferma nel momento in
cui ordinarono alla donna con gli abiti succinti di prepararsi per entrare in
scena. Era arrivato il suo turno. Teschio seguì sgomento l'avvicendarsi dei
fatti, con il cuore in gola, timoroso di dover assistere a qualche scena
splatter, o cose del genere, con cui non aveva alcuna familiarità.
Due donne che prima non aveva
notato, si affiancarono alla prescelta obbligandola a indossare una specie di
saio, bianco e trasparente, dal quale fu perfettamente leggibile l’anatomia
sottostante, esaltata da un seno da maggiorata, di cui anche l’occhio di
Teschio godette.
La malcapitata obbedì senza
remore, dando l'impressione di essere già stata preparata da tempo alla serata
e a tutto ciò che di infelice avrebbe potuto comportare. Con l'ingombrante
vestito raggiunse la porta dalla quale il santone era sprofondato chissà dove,
e varcò l’uscio, sparendo nei meandri di un mondo misterioso.
Gli adepti zittirono completamente,
lasciando Teschio a bocca aperta:
«Che succede?», chiese Benzina.
Teschio non seppe che dire.
«Non ne ho idea», sussurrò. «Sono
tutti immobili... come statue di cera».
Arretrò di qualche metro per
raggiungere gli altri della banda, che lo fissarono con aria stravolta.
«Non so cosa stia accadendo. Il
santone è sparito con una donna al di là di una porta... gli altri si sono
acquietati; non parla più nessuno».
«Fa vedere anche a me», disse
all'improvviso Radu.
Il piccolo si avvicinò
all'entrata del covo e, con affanno, prese a sbirciare con spirito indagatore.
«Stai indietro!», gli ordinò
Giacinta, temendo che il piccolo potesse sporgersi oltremisura, mostrandosi al
pubblico di malavitosi.
Radu osservò i vari seguaci della
setta, come assorti in un sonno profondo e pervasi dalla sensazione di non fare
più parte di questo universo: gran parte di essi teneva gli occhi chiusi,
apparentemente catapultati in un'altra dimensione. L'unico che dette
l’impressione di mantenere un atteggiamento normale e vigile, fu il presunto
braccio destro del santone, che di tanto in tanto ruotava la testa per sincerarsi
che tutto andasse secondo programma.
Trascorsero dieci minuti di
silenzio, finché il mingherlino in forza del grande capo, non si alzò per
dirigersi verso un mobile basso, contenente un sfilza di bicchieri già riempiti
con un liquido giallognolo, simile al limoncello. Radu strabuzzò gli occhi,
chiedendo l'intervento di Teschio. Capendolo al volo, quest’ultimo, lo sostituì
precipitosamente, facendo appena in tempo a scorgere il braccio destro del
santone posare ai piedi di ogni adepto un singolo bicchierino colmo dell'enigmatico
liquido. Teschio pensò all'assenzio, benché non sapesse minimamente cosa fosse:
semplicemente aveva visto da poco tempo su un giornale la foto di un poeta, tal
Paul Verlaine, accomodato a un tavolo parigino con davanti il prodigioso
distillato; che da quel che diceva la didascalia, era in grado di regalare i
prati del paradiso a ogni provvidenziale sorso.
Terminata l’operazione, il
seguace dei Dionisio schioccò le dita, ridando vita all’assemblea.
«E’ giunta l’ora».
I primi a rispondere furono i tre
giganti, che quasi buffamente agguantarono il proprio calice, bevendo come
bufali disorientati da una lunga arsura. Fecero lo stesso, nel giro di pochi
istanti, tutti gli altri, che bevvero alla goccia, senza alcuna esitazione, evidentemente
abituati a un simile passaggio iniziatico.
Teschio seguitò a fissarli
allibito, pervaso da un proverbiale dubbio: si stavano drogando? Ritornò a quel
che gli aveva raccontato Nadia e, dunque, all'ipotesi che quell'intruglio
potesse contenere qualcosa di ben più potente di una normale lemonsoda. Il suo
pensiero si dimostrò fondato. Non passò molto, infatti, dal momento in cui gli
adepti cominciarono a ridere come pazzi, dandosi pacche sulle spalle e
arrivando perfino a schiaffeggiarsi. Si domandò dove sarebbero arrivati, avanti
di questo passo...
La riunione si trasformò in un
putiferio di grida e schiamazzi.
62.
Anche gli altri della banda
furono sopraffatti dal clamore, disponendosi uno sopra all'altro per vedere
cosa stava succedendo. Benzina rimase sconcertato.
«Sembrano tutti ubriachi».
«Hanno bevuto una specie di
liquore...», spiegò Teschio.
«Potessi assaggiarne un po'
anch'io...», disse Benzina.
Giacinta gli tirò uno
scappellotto sulla nuca, con fare bonario.
«Il solito coglione...».
Benzina trovò il coraggio di
sorridere. E per un attimo si sentirono tutti un po' più rilassati. Ma la
quiete non durò a lungo. All'improvviso, Teschio sentì qualcosa di freddo
premere sulla fronte, dandogli l’idea di un attrezzo medico pronto a testare la
sua precaria salute. Niente di tutto ciò: erano le canne di una pistola. L’uomo
non volle crederci e in un istante si sentì cadavere.
Impugnava l'arma un barbuto con i
capelli bianchi, unti e puzzolenti, la faccia rossiccia, con tanti capillari
che ricamavano sul naso una specie di cartina geografica e due canini
sproporzionati. Nessuno fiatò, impietriti dalla paura. Giacinta pensò che fosse
stato troppo bello essersela cavata fin lì. Ora, quella pistola, era il chiaro
segno che erano stati beccati, che le cose non erano andate secondo i piani, e che
la missione era già al tramonto. Fu sopraffatta dall’idea di tirare un calcione
sull'avambraccio al nuovo venuto, ma dalla posizione in cui si trovava, mezzo
incancrenita, intuì facilmente che non avrebbe avuto molte chance di ottenere
ciò che voleva. Si rassegnò al silenzio, aspettando che qualcuno compisse la
prima mossa.
«Non muovetevi e non fiatate».
Fu lapidario, lasciando intendere
che non fosse uno sprovveduto, ma uno avvezzo a certi retaggi della malavita.
Teschio si irrigidì al punto di rischiare di farsi venire un crampo alle gambe;
percepì i muscoli del polpaccio destro
divenire duri come l'acciaio, incapaci di reggere il suo peso e l'angoscia di
un incontro che avrebbe potuto segnare la fine della sua compassata esistenza.
Ma non ci rimase male più di tanto, riflettendo sul fatto che, tutto sommato,
sarebbe stato contento di morire per una buona causa. L’aveva già messo in
conto... la vita, in fondo, non aveva più granché da dirgli, e l’idea di andarsene
come un eroe gli rese d'un tratto quasi piacevole quell'assurda incombenza.
Chissà perché gli venne in mente
la madre, e le tante volte che, da piccino, andavano a fare il bagno a Varazze.
Era stato il periodo più bello della sua vita; da quel momento, infatti, le
cose sarebbero andate sempre peggio. La mamma avrebbe desiderato mandarlo
all'università, ma era già tanto che avesse conseguito la terza media. Solo
ora, in quel frangente disperato, si rese conto di quanto tempo avesse buttato
alle ortiche, percependo la stupidità di non avere voluto dar retta al
genitore. Erano state le cosiddette cattive compagnie a traviarlo, facendogli
credere in un futuro fittizio, governato dall'idea del soldo facile.
Tentò di riacquistare la postura
eretta, ma venne bloccato dall’aggressore, che spinse con ulteriore foga la
pistola sulla fronte del capobanda.
«Non ti muovere. Sennò salti
all'aria tu... e io».
Si riferì al fatto che una
baruffa avrebbe di certo attirato l'attenzione dei Dionisio, mandando in crisi
qualunque tentativo di passare inosservati e poter seguire le vicende dei
membri della setta. Questa inaspettata uscita indusse Teschio e Benzina a
pensare che, evidentemente, l'uomo armato non fosse della stessa parrocchia dei
delinquenti che avevano a pochi metri di distanza e che, quindi, c’era ancora
qualche speranza di cavarsela. Ma allora chi era? E perché li teneva sotto
tiro?
Si fecero queste domande, mentre
l'assalitore allentava la presa, alleggerendo il pungiglione d'acciaio sulla
fronte della vittima.
63.
Lo chiamavano il Cinghiale e
finalmente anche Teschio poté capire il perché: aveva due canini giganteschi,
che venivano messi in grande evidenza ogni volta che l'uomo divaricava le
labbra. Non ci fu, dunque, la necessità di una presentazione ufficiale: la
persona che stava puntando la pistola alla testa di Teschio era il marito di
Nadia Schilef. Era uscito dai Dionisio da tempo e da tempo s'era ripromesso di
accumulare prove per poter incastrare una volta per tutte colui che credeva il
più grande farabutto della Terra: il santone. Con le sue parole e i suoi
raggiri era di fatto riuscito a devastare la mente di centinaia di persone e
sul suo collo pendevano decine di omicidi. Assassini in piena regola, eseguiti
solo per poter incrementare il suo potere e il peso del suo portafoglio. Il
carcere a vita non gliel'avrebbe tolto nessuno. Era lì che voleva arrivare il
Cinghiale, conoscendo ormai tutte le mosse del grande capo e l'odio profondo
provato per un personaggio privo di qualunque scrupolo, che, peraltro, anche a
lui, aveva spillato un bel po' di quattrini. Ma non era stato facile far
perdere le tracce di sé. Chi entrava nella setta, infatti, difficilmente
riusciva a uscirne... se non in una bara.
Ma Cinghiale non era uno stupido
e per un po' di mesi era riuscito a sparire completamente dalla circolazione,
abitando in un appartamentino anonimo nel cuore di Bologna, e vivacchiando di
espedienti, compresa la professione di tutto fare in un alberghetto della
città. Aveva ereditato il bilocale da un vecchio zio rimasto senza parenti
diretti, poco tempo prima di abbandonare i Dionisio. Non ne sapeva nulla
nemmeno la moglie. Voleva tutelarla: se le avesse rivelato qualcosa, infatti,
qualcuno avrebbe potuto prenderla di mira. C'era finito da solo in quel giro di
scapestrati, dando retta alla sottana di una donna che s'era venuta per caso a
trovare sul suo cammino. Era una donna misteriosa e affascinante, di cui non
aveva mai saputo il vero nome, né le origini. Benché la fisionomia del volto
tradisse lineamenti che in qualche modo rimandavano al Medio Oriente. Faceva
parte dei Figli di Dionisio da diversi anni, ed era una delle predilette dal
santone: era forse la beniamina di cui si serviva per raccogliere nuovi adepti.
Cinghiale non aveva saputo resisterle.
S'incontravano di nascosto e
insieme si dedicavano ai divertimenti più assurdi, come due adolescenti.
Avevano perfino trascorso una serata intera al Luna Park che sorge nei pressi
di Linate. E negli stessi paraggi avevano fatto l'amore per la prima volta. Con
la nuova conoscente gli sembrava di vivere in un perenne stato di euforia. Il
marito di Nadia si trasformava, divenendo un'altra persona, e perdendo
qualunque senso di responsabilità nei confronti di se stesso e della moglie.
Qualcosa aveva raccontato a Rafael, nei momenti in cui i fumi dell'alcol
prendevano il sopravvento, ma senza entrare troppo nei dettagli: i movimenti
della setta dovevano rimanere segreti. Dopo poco tempo era comparsa la droga. E
fu proprio in occasione di una sera davvero al di sopra delle righe che il
Cinghiale finì per la prima volta al cospetto dei Dionisio. Assistette a una
specie di orgia, in un'atmosfera da girone infernale. Non aveva saputo se
ridere o piangere. Uomini e donne sembravano dei robot, addestrati per compiere
operazioni che da sani di mente non avrebbero mai preso in considerazione. Non
riusciva a togliersi dalla mente il tipo che s'era fatto tagliuzzare mezzo
corpo in nome di chissà quale arcana creatura degli inferi, dando l'impressione
di non patire alcun dolore. Sicché gli era bastato poco per capire che non era
quello il mondo che aveva sempre sognato.
La donna misteriosa che l'aveva
introdotto nel circolo del male, sparì all'improvviso senza fargli più sapere
nulla e lasciandolo nella desolazione più cupa. Trovò la forza di dire basta
una sera che s'era ritrovato a dieci centimetri di distanza dalla moglie che
dormiva, con un coltello in mano, convinto che dovesse scotennarla perché
altrimenti avrebbe rivelato alla BBC la sua tresca con la paladina del santone.
Era troppo, era davvero troppo. Da quel momento dichiarò guerra ai Figli di
Dionisio.
64.
Teschio e Cinghiale si guardarono
negli occhi raccontandosi un avvenire diverso da quello sospettato trovandosi
per la prima volta a tu per tu. Fu, infatti, evidente a entrambi che fossero
più o meno lì per lo stesso motivo: contrastare le cattive intenzioni dei Figli
di Dionisio. Cinghiale mosse la testa indicando alla sua vittima di seguirlo.
Lo fece con uno scatto nervoso e tremebondo, come in preda a una convulsione epilettica.
Stessa cosa fece Teschio con il resto della banda. Cinghiale si mise a capo del
gruppo e nel silenzio più assoluto riguadagnò i colori sbiaditi dell'uscita.
Ripercorsero le scale
pericolanti, e la prima rampa direttamente collegata all'uscio principale,
godendo di una felice atmosfera, ben diversa da quella angustiante patita
all'andata. Ora conoscevano la loro meta, benché fossero guidati da un tipo che
ancora non avevano capito chi fosse. L'uomo si muoveva scaltramente, dando
l'impressione di conoscere perfettamente l'ambiente, girando di tanto in tanto
il capo per sincerarsi che i nuovi amici lo stessero seguendo.
Muovendosi verso l'alto fu, per
tutti, più facile respirare: all'unanimità supposero felicemente di poter disporre
di una quantità maggiore di ossigeno, come se fino a quel momento avessero
respirato catrame. Benzina fu rapito da un pensiero rocambolesco, inerente la
possibilità che in quel maledetto antro, si fossero appositamente disperse
tossine velenose in grado di anestetizzare cuori e cervelli. Era un'ulteriore
spiegazione al delirio collettivo che pareva contraddistinguere tutti coloro
che si inchinavano agli sguardi funerei del santone. Ogni passo era un tassello
in più verso la libertà; anche la luce dette l'impressione di essere meno recalcitrante
nei confronti del quintetto. All'esterno Teschio e Cinghiale si consultarono
con un rapido su e giù delle ciglia: dovevano levarsi di torno al più presto,
avendo già rischiato abbastanza.
Finirono per strada, sì e no nel
punto in cui il camionista aveva chiesto indicazioni a Benzina, per ritrovare
il cammino maestro. Si disposero in cerchio, colmi di curiosità.
«Adesso ci vuole dire chi è?»,
domandò Giacinta, bruciapelo.
Cinghiale la guardò con distacco.
«Sono un fuoriuscito… un ex dei
Dionisio».
La banda ammutolì.
«Sto dando la caccia a quei
bastardi che hanno rovinato me e moltissime altre persone...».
«Ci spieghi meglio», disse
Teschio.
«Non sto a elencarvi i
presupposti che mi hanno portato fin qui, ma ormai ho deciso di andare fino in
fondo, a costo di rimetterci le penne. Cerco delle prove per poterli
definitivamente incastrare...».
«Wow», blaterò Radu entusiasta.
«So tutto di voi, ma non
preoccupatevi, non ho nessuna intenzione di compromettere le vostre ricerche,
anzi… voglio, però, dirvi che stasera avete corso un grossissimo pericolo: se vi
avessero scoperto non sareste andati lontani…».
«Addirittura», disse Benzina, con
un sorriso sardonico.
«Hanno compiuto decine e decine
di omicidi, senza mai essere scoperti. Sono protetti da qualche pezzo grosso
del governo o da qualche servizio segreto. Con loro nessuno l'ha mai passata
liscia…».
«Tu però te la stai cavando
egregiamente…», gli disse Benzina.
«Mi sa che sono l'unico... ma
solo perché ho avuto la possibilità di sparire per un po’. E in ogni caso
bisognerà vedere come andrà a finire».
A Giacinta venne
un'illuminazione, intuita dall'amico di sempre, che fissava Cinghiale con gli
occhi sgranati. Ora tutto tornava. E anche l’autore del biglietto trovato
all’ingresso del camper aveva finalmente un nome.
«Lei… lei è il marito di Nadia?».
L'uomo tacque per qualche
istante, inarcando le sopracciglia e riflettendo sul fatto che ormai tanto
valeva svuotare completamente il sacco.
«Sì, sono io».
«E' stata sua moglie a darci le
indicazioni per arrivare fin qui», disse Teschio, preceduto di un soffio dalla
perspicacia di Giacinta.
«Lo so. Come sta?».
«Credo che la stia aspettando».
«Lo sto facendo per lei…».
«Mi rendo conto», chiuse Teschio.
«Non deve essere facile».
65.
Allontanandosi ulteriormente dal covo
dei Dionisio, si inoltrarono nel cuore della città. Sostarono di fronte a una
tabaccheria con le saracinesche abbassate, illuminata, all'interno, da una
debole luce al neon. Cinghiale si guardò intorno con fare circospetto, dando
l'impressione di temere di essere spiato: viveva con questa angoscia da mesi.
Passarono diverse macchine, ma la situazione sembrava tranquilla. Fu allora che
prese di nuovo la parola.
«So perché siete arrivati ai
Dionisio», disse corrugando la fronte. «E, forse, potrei esservi d'aiuto...».
Ai quattro si rizzarono le
antenne, come se avessero appena saputo di aver vinto alla lotteria. Radu, col
petto all’infuori, si interpose fra Cinghiale e Teschio, marcando la sua
presenza e sottintendendo che le spiegazioni
spettassero soprattutto a lui. Il marito di Nadia lo guardò con avidità, non
capendo quale storia avesse alle spalle, quel che gli pareva poco più di uno
scricciolo indifeso.
«Cosa può dirci?», incalzò
Teschio, con garbo e quell’atteggiamento mansueto, quasi di sottomissione,
riservato solo a chi, davvero, è in grado di offrire valide opportunità per
tirarsi fuori da qualche impiccio.
«Non so come siano andate le cose
di preciso, dopo la mia dipartita dal gruppo, ma c'ero ancora quando il santone
ordinò a una donna rom di esaudire l'ennesimo sacrificio. E immagino che voi siate
qui proprio per questo...».
«Esattamente», disse Benzina,
concitato, con le guance fiammeggianti.
«Posso, dunque, sospettare che
l'assassinio sia già avvenuto....».
«Qualcuno ha pugnalato a morte la
mamma di Radu», disse Teschio, indicando con un cenno del mento il piccolo che
aveva sotto gli occhi.
A Cinghiale fu tutto più chiaro.
Osservò Radu e gli regalò un'espressione solidale, contorcendo le labbra e
socchiudendo le palpebre.
«Vogliamo risalire all'assassino.
I Dionisio non avranno vita facile finché non avremo raggiunto il nostro
scopo», sentenziò Benzina, con caparbietà.
«È in grado di darci qualche
informazione in più?», domandò Teschio. «Non ha qualche nome?».
«Purtroppo no», disse Cinghiale.
«Ma suppongo che la comunità rom locale sia più volte stata coinvolta dai
Dionisio. Non so se hanno un debole per gli zingari o se il modo di vivere dei
nomadi sposi, per qualche strana dinamica, le esigenze della setta...».
«Di fatto anche stasera abbiamo
visto alcuni rom partecipare alla seduta».
«Li conoscevate?».
«No», rispose Giacinta. «Ma ne
passano così tanti da Sesto che i responsabili potrebbero esserci sfuggiti.
Peraltro la mia famiglia e quella di Radu, di origine sinti, non hanno mai
fatto parte attivamente della comunità locale».
«Potrebbe essere un buon elemento
da cui partire per le vostre indagini», dichiarò Cinghiale. «Se i Dionisio
hanno commissionato a una donna rom un assassinio, è facile supporre che la
donna sia andata a pescare nel suo paniere...».
Giacinta e Radu si guardarono conturbati,
non avendo quasi capito nulla dell'ultima enigmatica affermazione di Cinghiale.
Ma l'avevano compresa bene i due adulti, che mettendo insieme un po’ tutti gli
elementi raccolti fino a quel momento, si sentirono, in qualche modo, un po'
più vicini alla soluzione del caso.
«Ritiene, quindi, che l’assassino
possa essere una rom di Sesto?».
«Che dirvi... se è morta una
donna rom per mano di un'altra donna rom... è altamente probabile che le due si
conoscessero. O... si odiassero».
Giacinta e Radu si fissarono
sgomenti, messaggiandosi telepaticamente che c'erano dei validi presupposti per
pensare che qualcuno potesse odiare Slagena.
Teschio e Benzina notarono questo
loro scambio di intenti, intuendo a loro volta che, forse, non erano del tutto
al corrente delle vicissitudini dei vari clan familiari che rappresentavano la
realtà nomade sestese. E fecero centro.
66.
«C'è qualcosa che non ci avete
detto?», gli domandò Teschio.
«Non so...», rivelò Giacinta, titubante.
«Lo sai tu, Radu?».
Benzina scorse il ragazzo in
difficoltà e gli pose una mano sulla spalla in segno di affetto.
«Puoi parlarne apertamente, non
c'è nulla di cui ti devi preoccupare… ormai... siamo una sola famiglia…».
«Me l'hai già detto mille volte
che siamo una sola famiglia. Non serve che me li ricordi in ogni istante!».
Radu, sopraffatto dalla rabbia, allontanò
sgarbatamente la mano di Benzina e si rifugiò in un piccolo anfratto di muro
del palazzone che li sovrastava, con le mani conserte e lo sguardo muto.
Teschio e Benzina si interrogarono affranti, non comprendendo questo suo
attacco improvviso. Forse gli era sfuggito qualcosa? Non erano stati
sufficientemente accorti? Giacinta nicchiò.
«Cosa c'è sotto?», domandò
Teschio.
Giacinta tirò un bel respiro e
rivelò che le cose fra i nomadi del circondario erano molto più difficili di
quanto avevano lasciato trapelare dai loro racconti iniziali. In particolare,
le famiglie di Giacinta e Radu, erano vivamente tenute a debita distanza da
tutte le altre, perché giudicate più fortunate degli altri clan: essendosi
dedicate per anni alle giostre, molti pensavano che conservassero da qualche
parte gruzzoli di denaro che al più presto avrebbero utilizzato per cambiare
aria e soprattutto vita. E c'era anche il problema religioso. Molti rom locali
seguivano, infatti, una specie di rito cristiano ortodosso, ereditato da un
vecchio capo tribù, che proprio a Sesto aveva fatto la storia, ma che non era
apprezzato e condiviso dai sinti. Più volte erano sorte incomprensioni proprio
per questo motivo, spingendo alcuni nomadi a emarginare pubblicamente le due
famiglie cugine. Una volta Slagena era corsa via in lacrime da un gruppo rom
che l’aveva schernita per la catenella che portava al collo, raffigurante una
vergine sconosciuta alla tradizionale iconografia dell'est.
«Tutti i nodi vengono al
pettine», disse Cinghiale. «Come vedete c'è più di un valido motivo per credere
che la mamma del piccolo possa essere stata fatta fuori da qualcuno… qualcuna
che la odiava».
Teschio e Benzina annuirono simultaneamente.
«Pensateci bene», proseguì
Cinghiale, con fare fraterno, sollecitato da una folata di vento ristoratore.
«Potreste non essere lontani dalla soluzione…».
L'uomo si acquietò, scoprendosi
sazio di atteggiamenti altruistici, che nel vivere quotidiano raramente lo
contraddistinguevano. Rifletté altresì sul fatto che era da ben tre giorni che rincorreva
come un cane segugio le mosse perfide e sadiche dei Dionisio: era evidentemente
arrivato il momento di fare nuovamente perdere le proprie tracce.
«Ora vi devo salutare», disse con
aria avvilita. «Credo di essermi fermato abbastanza. Ma almeno possiedo
numerosi dettagli in più sui quali ragionare, per stanare una volta per tutti
quei cani bastardi… tornerò per il colpo di grazia».
Teschio e Benzina lo
ringraziarono di cuore.
«Il suo intervento è stato
provvidenziale», disse il capobanda.
«Non ho fatto nulla».
«Ha fatto molto», continuò
teschio. «Senza di lei staremmo ancora brancolando nel buio. E invece,
finalmente, sappiamo come andare avanti…».
«Spero riusciate a risolvere il
caso...».
«Ce la faremo», disse Benzina,
pervaso da una ventata di ottimismo.
Cinghiale esibì una faccia
strana, tipica di chi sta per dire qualcosa, ma non trova le parole giuste per
farlo. Si limitò, pertanto, a intimarli di tacere con chiunque, benché fosse chiaro
a tutti che si riferisse soprattutto alla moglie.
«Stai tranquillo, non le diremo
niente...», blaterò Benzina.
Teschio lo salutò con un cenno
della mano, sopraffatto da un sentimento malinconico, e dall’ipotesi che questa
sorta di amicizia in divenire, avrebbe potuto non avere seguito.
Cinghiale, in pochi secondi,
scomparve dai loro orizzonti come un fantasma, nel momento in cui Radu, guarito
dall'improvvisato broncio, riprese la marcia verso casa.
67.
Al camper si raccolsero in un
cerchio silenzioso, nel punto in cui avevano individuato la medaglietta dei
Dionisio. Avevano le facce devastate dalla stanchezza ed erano privi della
forza necessaria a intavolare un nuovo discorso. Non badarono neanche al
frastuono provocato dal passaggio di un treno merci, diretto chissà dove, che
in un'altra circostanza li avrebbe portati a imprecare malamente. Decisero così
di rimandare ogni decisione all'indomani, prevedendo di avere menti più fresche
e scattanti.
Radu dette l’impressione di
essere il più esausto della compagnia, raccolto in un’espressione dura e arcigna.
Il suo rammarico era dovuto al fatto che si sarebbe aspettato qualcosa di più
dal raid di perlustrazione presso il covo nemico. S'era infatti convinto che
avrebbe finalmente potuto mettere le mani addosso all'assassino di sua madre, per
fargli patire le pene dell’inferno; mentre non erano andati oltre un semplice e
banale appostamento, tipo quelli che aveva visto fare dai cowboy o
dall’esercito nordista in qualche film western. Gli altri lo guardarono con
l'aria assonnata, comprendendo la sua scontentezza e la sua incapacità a
valutare l'importanza dell'operazione da poco conclusasi, ma anche rendendosi
conto che non avrebbero saputo dove andare a pescare nuove rassicurazioni.
«Che facciamo adesso?», domandò
Giacinta.
Teschio la osservò pensoso.
«Direi di rivederci qui domani
mattina per organizzare le prossime mosse. Adesso siamo troppo stanchi per ogni
cosa. Magari potremmo telefonare a Nadia, per avere qualche consiglio utile...».
Benzina non metabolizzò al volo,
era troppo devastato. Nelle condizioni in cui si trovava non avrebbe desiderato
altro che sdraiarsi per riposare una decina di ore di fila. Sarebbe andato bene
di tutto, anche un giaciglio improvvisato nell'androne della stazione di Sesto,
dove molti suoi amici, da tempo, campeggiavano più o meno indisturbati. Non gli
sfuggì, in ogni caso, il riferimento a Nadia, il cui intervento non gli pareva
così indispensabile per il prosieguo delle indagini. Suppose, pertanto, che l’amico
fraterno potesse davvero essersi invaghito della moglie di Cinghiale e stesse,
dunque, cercando ogni buon motivo per poterla contattare; lo aveva, in fondo,
già sospettato il giorno in cui l’avevano conosciuta, dopo la sortita di
Rafael. Sicché finì per stuzzicarlo con garbo, anche se a malapena riusciva a
tenere aperte le palpebre.
«Da quando in qua ti affidi al
parere di una donna per decidere cosa fare?».
Anche Giacinta osservò con
stupore e ironia il grande capo, comunque rallegrandosi del fatto che perfino
un duro come lui potesse provare dei sentimenti. Ma Teschio non soccombette al
tiro mancino del duo. Stette al gioco, fece finta di niente, dribblando
magistralmente la situazione.
«Volete insinuare che Nadia non
ci sia stata di aiuto fino a questo momento?».
«Nessuno dice questo», blaterò
Giacinta.
«Ha saputo indicarci la sede dei
Dionisio... senza di lei, probabilmente, staremmo ancora girando intorno al
camper».
«Ne sei così sicuro?», domandò
Benzina, ridacchiando.
Teschio non gli diede alcuna
soddisfazione.
«Ogni sua dritta potrebbe essere
utile. Mi sembra che in questa faccenda ci siano di mezzo un bel po’ di
donne... dunque, una donna in più, non potrà fare che bene...».
Giacinta e Benzina risero sotto i
baffi, auspicando un sensazionale futuro per la coppia, in barba al
sentimentalismo di Cinghiale, apparentemente più innamorato di Bologna che non
della donna con cui aveva diviso il letto per molti anni.
«Va beh, con questa direi che è
arrivato anche per noi il momento di andare a dormire... che dite?».
La proposta della ragazza venne
accolta con gioia dai due adulti, visibilmente tramortiti dall'ansia patita
nelle ultime ore.
«Tu ti fermi ancora qui?», le
chiese Benzina, con un tiro impercettibilmente malizioso.
Giacinta fece una smorfia per
sottolineare che la sua domanda era alquanto fuori luogo: ormai era evidente
che il camper di Radu fosse diventato anche il suo. Si sentì offesa e non lo
degnò di alcuna risposta. Sorrise a Teschio e riguadagnò l'ingresso della
roulotte. Trovò Radu rannicchiato su se stesso, in posizione fetale, come un
ghiro in letargo. Si mosse con cautela per non svegliarlo, trovandolo ancora
più piccolo e indifeso del solito.
68.
Radu si svegliò con le tenebre in
pompa magna e il cuore in gola: aveva appena sognato la mamma che camminava per
la roulotte grondante di sangue, con un coltello in mano e una sigaretta marcia
fra le labbra. Riaprendo gli occhi se la vide davanti e fu travolto dal
terrore. Rimase per qualche istante immobile, accecato dall'angoscia, cercando
di nascondersi con un lembo di lenzuolo, incredulo dinanzi alla possibilità che
lo zombie di Slagena potesse fargli del male. Nemmeno le lacrime riuscirono a
dargli sollievo. Si alzò per coccolarsi con un bicchiere d'acqua e si calmò
solo quando, osservando la strada dal piccolo oblò sopra al lavandino,
illuminata dai puntini gialli dei lampioni della ferrovia, si rese conto che
era stato semplicemente un brutto sogno e che non c'era nulla di cui
preoccuparsi. Giacinta non si accorse di nulla.
Al risveglio, la ragazza, allungò
il braccio destro per stirarsi e senza accorgersi finì col tirare una specie di
schiaffo all’amico. Radu non fece una piega: con le prime luci dell'alba e i
primi via vai forsennati dei pendolari era sprofondato in un sonno profondo, catartico,
dimentico dei patemi subiti durante la terrificante veglia notturna. Giacinta
non lo volle disturbare. Si arrangiò in silenzio, mangiucchiando un paio di
grissini scaduti e lavandosi ben bene la faccia.
Scese dalla roulotte e prese a
pitturarsi le unghie, con uno smalto recuperato dal cassetto personale di
Slagena. Andò avanti per pochi minuti, finché un'ombra non le oscurò
volutamente la visuale. Era Benzina, in perfetto orario.
«Non c'è Teschio?».
«Arriva anche lui…».
Giacinta rimase sulle sue, stufa degli
occhi languidi e viscidi dell’adulto.
«Radu?».
«Dorme ancora».
«E tu? Dormito bene?».
Benzina non ricevette risposta e percependo
l'insofferenza dell'amica, girò al largo, andando a fare due passi nel parco
Gramsci, dove spesso si rintanava per godersi un po’ di frescura. La ragazza
apprezzò. Non aveva nessuna voglia di dargli retta e anche se sapeva che non le
avrebbe mai fatto del male, era piuttosto infastidita dalle sue attenzioni
vagamente morbose: lo sguardo di Benzina troppe volte le ricordava quello
bavoso di qualche vecchio incontrato sul metrò, ipnotizzato dalle sue forme. Di
lì a poco arrivò anche Teschio.
«Buongiorno signorina».
Con Teschio fu tutto un altro
mondo, trovandolo, ormai, una specie di secondo padre.
«Bene arrivato. Ti piacciono le
mie unghie?».
«Non potevi farle di un altro
colore?».
«Il nero è il mio colore preferito».
Fece capolino anche Radu, con gli
occhi ancora imburrati di sonno.
«Buongiorno».
«Buongiorno a voi».
Vedendo che mancava all’appello
ancora Benzina, Teschio impugnò il telefonino e chiamò Nadia. Lo fece
allontanandosi di qualche passo dalla roulotte, lasciando che Giacinta e Radu
lo seguissero con i loro sguardi civettuoli.
«Sono Teschio, ciao Nadia…».
La moglie di Cinghiale rispose
con garbo, felice di poter scambiare due chiacchiere con un uomo che trovava
simpatico e intelligente, nonostante il precario status sociale che lo
contraddistingueva. Teschio le spiegò l'accaduto e se aveva qualche suggerimento
da dargli su come affrontare le prossime tappe della missione.
Giacinta e Radu si scambiarono un
sorriso ironico, vedendo Teschio allontanarsi ulteriormente, dando
l’impressione di voler affrontare un discorso troppo personale per essere
condiviso anche con degli amici fidati, finendo per mimetizzarsi con il muro di
cinta che divideva la strada dalla ferrovia. Tornò dopo dieci minuti.
«Allora? Che ti ha raccontato di
bello?», domandò Giacinta, con sarcasmo.
Teschio ebbe un attimo di esitazione:
non divenne rosso, ma poco ci mancò. Di fatto, con le varie considerazioni fatte,
relative all’uccisione di Slagena, aveva anche colto l’occasione per proporsi a Nadia per un'uscita intima; e la donna gli
aveva risposto affermativamente, non appena le cose si fossero sistemate.
Teschio era su di giri, e non
sapendo come contenere la sua gioia, redarguì senza motivo Benzina, ricomparso
all'orizzonte.
«Sei in ritardo».
«In realtà sono arrivato prima di
te».
«Io sono qui da dieci minuti».
«Io da venti…».
«Se vogliamo risolvere il caso
dobbiamo essere puntuali…».
La finirono lì, consci del fatto
che fosse una conversazione priva di ogni senso, intavolata solo per sedare un
momentaneo imbarazzo. Se ne accorsero anche i due giovani che dondolarono la
testa, convincendosi del fatto che, in fondo, fra adulti e ragazzi non ci fosse
una così grande differenza: un adulto era solo un bimbo un po’ cresciuto.
69.
«Che si fa, allora?», domandò
Giacinta, rimirandosi le unghie come una modella.
«Radu, abbiamo bisogno di te»,
disse Teschio.
Il piccolo si avvicinò al gruppo,
ancora visibilmente assonnato e con la mente annebbiata dalle immagini non
ancora del tutto tramontate di Slagena che camminava come uno zombie. Fissò
Teschio con aria di sfida.
«Cosa volete sapere?».
«Chi odiava tua madre», disse
Teschio, con grande autorevolezza. «Adesso è arrivato il momento di sapere come
stavano davvero le cose fra tua madre e le altre rom del circondario... adesso
è arrivato il momento di agire veramente».
Giacinta guardò Radu con
compassione, sapendo quanto fosse doloroso dover rispolverare un passato infingardo
e meschino. Anche lei, di fatto, aveva passato le stesse angherie della
famiglia di del piccolo, vicissitudini dovute all'ostracismo dei rom locali. Ma
ci teneva che fosse per primo lui a dare qualche ragguaglio in più agli
amici.
«Fatima e Aicha», sibilò Radu.
«Le hanno fatto il malocchio...».
Si illuminarono gli occhi di
Teschio e Benzina; e i due uomini si resero conto che la matassa di un caso
apparentemente irrisolvibile stava srotolandosi definitivamente.
«Sono due donne rom che abitano
lungo la via Gramsci», precisò Giacinta.
«Praticamente a due passi da
qui», disse Benzina.
«Esattamente», disse la ragazza.
Teschio si fece meditabondo. Era
necessario un piano.
«Come sono organizzate?», chiese.
«In che senso?», domandò
Giacinta.
«Vivono insieme?», chiese
Benzina.
«No», sentenziò Radu. «Vivono
ognuna nella propria roulotte».
«Coi rispettivi mariti»,
sottolineò Giacinta.
«Ma i mariti durante la mattinata
sono sempre in giro...», disse Benzina.
«Di solito è così...», disse
Radu. «Suonano entrambi la fisarmonica».
«Quindi?», incalzò Giacinta.
«Dobbiamo dividerci», replicò
Teschio. «La miglior cosa da fare è questa: due vanno da una parte e due
dall'altra. Proviamo a stargli addosso, studiando le loro mosse, ma senza farci
beccare. Se avessimo dei cannocchiali...».
«E dove li troviamo, adesso, dei
cannocchiali?», domandò Benzina, sorridendo.
Il capobanda crucciò la fronte,
dinanzi al fatto che, obiettivamente, non ci fossero molte possibilità di
trovare al volo oggetti così particolari: nessuno di essi, del resto, ne aveva
mai posseduto uno. Dovettero rinunciare per fare unicamente affidamento sulle
proprie retine, spoglie di ogni accessorio.
«Per ora possiamo farne a meno»,
disse Teschio. «Accontentiamoci di sondare la situazione. In un secondo momento
potremmo intervenire con un'attrezzatura più adatta...».
«Più che altro... noi due
rischiamo di essere riconosciuti», disse Giacinta. «Se ci vedono nei dintorni
delle loro roulotte di sicuro si insospettiscono... sanno bene che preferiamo
stargli alla larga...».
«Hai ragione», disse Teschio. «Avete
qualcosa per camuffarvi?».
«Camu che?», disse Radu, ridendo.
«Mascherarvi, truccarvi, con un
cappello, una sciarpa, un...».
«Una sciarpa in pieno luglio...
mi sembra un'ottima idea», lo ridicolizzò Giacinta.
«Su, era tanto per dire...», si
difese Benzina. «Radu, c'è qualcosa sul vostro camper che possa aiutarvi a
passare inosservati?».
Radu non aspettò un minuto a
salire a bordo della sua casa ambulante per verificare che c'era tutto
l'occorrente per travestirsi al meglio: c'erano altresì degli indumenti assurdi
che aveva provato a indossare per qualche show in piazza Duomo, potenzialmente
in grado di mimetizzare anche un rinoceronte. Giacinta lo seguì. Sparirono per
una decina di minuti. E quando si ripresentarono al cospetto dei due adulti non
erano più loro: Radu vestiva un cappello da giocatore di baseball, un paio di
occhiali da metalmeccanico, e una specie di mantello nero che gli copriva tutto
il corpo; Giacinta una parrucca nera, un fondotinta così scuro da farla
sembrare un’abissina, e una camicia bianca di una taglia esageratamente
voluminosa per le sue forme comunque contenute. Teschio e Benzina gioirono come
bimbi in gita con l'oratorio.
«Siete fantastici», disse
Benzina.
«A dir poco fantastici».
Teschio mosse su e giù la testa
approvando con enfasi la trovata dei ragazzi: conciati in quella maniera non li
avrebbero riconosciuti nemmeno i parenti più stretti.
70.
«Come ci dividiamo?», domandò
Giacinta.
Teschio rifletté per una frazione
di secondi.
«Io vado con Radu, tu con Benzina».
Giacinta non ne fu felice, ma non
ribatté: comprese che non ci fossero molte alternative. In fondo, era giusto
che il più piccolo andasse con il più grande, potendo in qualche modo
beneficiare di una maggiore protezione.
«Bene, allora… mettiamoci al lavoro»,
disse Benzina, tutto allegro, convinto che non gli avrebbe potuto fare che
bene, trascorrere qualche ora da solo con Giacinta, per la quale provava un
desiderio sempre più spiccato, benché fosse conscio del fatto che se solo
l'avesse sfiorata con un dito gli avrebbero fatto saltare le budella; Teschio
per primo.
La roulotte di Aicha e del marito
si trovava a circa mezzo chilometro dalla stazione dei treni di Sesto, lungo
via Gramsci, in direzione Milano. Fra tutti i rom della zona, erano quelli che
abitavano più vicini all'ingresso principale della ferrovia, a pochissimi passi
dal parcheggio a pagamento e dall'ingresso del Palasesto. Vivevano in un camper
trasandato, ancora più sporco e maltenuto di quello di Slagena. Vi dormivano in
quattro: madre, padre e i due figli piccini. Al suo interno si respirava un
odore pungente e asfissiante.
La casa ambulante di Fatima si
trovava, invece, dall'altra parte della strada, e volgeva il suo sguardo al
monzese, verso nord, forse il motivo per cui, in inverno, pareva fare più
fredda di tutte le altre roulotte. Anch'essa non era in buone condizioni, ma
l'innato buon gusto di Fatima per l'arredamento, e la mancanza di bimbi che
lasciassero in giro ogni cosa, riusciva sempre a fornirle un appeal
particolare.
Le operazioni dei singoli gruppi
si svolsero quasi in contemporanea: Radu e Teschio si sistemarono dietro un
cespuglio rigoglioso, di fronte al camper di Aicha; Benzina e Giacinta si
appollaiarono alle spalle di un arbusto nel parchetto, dove venivano portati a
spasso i cani.
"Porca puttana, iniziamo
bene".
Fu l'esclamazione di Benzina,
quando si accorse di avere calpestato la poltiglia intestinale di qualche
quattrozampe che se avesse avuto fra le mani, avrebbe come minimo stritolato.
Giacinta rise di gusto, strofinandosi il naso per vincere l'improvviso effluvio
molesto.
«Che schifo!», blaterò.
Nello stesso momento, i mariti di
Aicha e Fatima imbracciarono la fisarmonica e lasciarono le rispettive roulotte
per correre a prendere il metro e iniziare la quotidiana attività di musicisti erranti:
lo facevano da anni, raccattando quasi ogni giorno monete a sufficienza per
sfamarsi e pure concedersi qualche vizio. Incontrandosi a pochi metri di
distanza dall'occhio indiscreto delle due vedette, parlottarono con vigore,
esprimendosi con ampi gesti delle braccia e dando l'impressione di avere
qualche affare in corso o di non vedersi da decenni.
Dopo pochi minuti fu la volta di
Aicha e dei suoi due piccoli: la donna sistemò il più giovane in un passeggino
divorato dall'incuria, lasciando che l'altro le camminasse al fianco e guidasse
la carovana verso la pompa dell'acqua nei pressi del mercatone dell'usato,
oltre i confini della Smeg.
Teschio e Radu drizzarono le
orecchie: non avrebbero mai immaginato di trovare la strada spianata dopo
appena una decina di minuti dal loro arrivo.
Sull'altro fronte, invece, le
cose non andarono altrettanto bene. Fatima sembrò, infatti, non avere alcuna
intenzione di muoversi, asserragliata nel camper, presa dall'idea di cucinare
un piatto di bolapé, tipico della sua gente, a base di pollo, peperoni e
datteri. Ai due non rimase che trovare la sistemazione migliore, cercando di
non cancrenarsi le gambe. Benzina raccolse un legnetto più robusto degli altri
e iniziò a ripulirsi la cacca delle scarpe.
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