lunedì 23 luglio 2012

Rapsodia gitana # 7


61.

«Dove è finito quel gran figlio di puttana?», si domandò Teschio.
Pensò che fosse sparito oltre l'unica porta che contraddistingueva il locale, quella sormontata dal misterioso scalpo che sembrava osservare i presenti pronti a scagliarsi su di essi con piglio assatanato. Non poteva esserci altra spiegazione, visto che non c’erano altri varchi altrettanto appetibili. Ne ebbe, dunque, conferma nel momento in cui ordinarono alla donna con gli abiti succinti di prepararsi per entrare in scena. Era arrivato il suo turno. Teschio seguì sgomento l'avvicendarsi dei fatti, con il cuore in gola, timoroso di dover assistere a qualche scena splatter, o cose del genere, con cui non aveva alcuna familiarità.
Due donne che prima non aveva notato, si affiancarono alla prescelta obbligandola a indossare una specie di saio, bianco e trasparente, dal quale fu perfettamente leggibile l’anatomia sottostante, esaltata da un seno da maggiorata, di cui anche l’occhio di Teschio godette.  
La malcapitata obbedì senza remore, dando l'impressione di essere già stata preparata da tempo alla serata e a tutto ciò che di infelice avrebbe potuto comportare. Con l'ingombrante vestito raggiunse la porta dalla quale il santone era sprofondato chissà dove, e varcò l’uscio, sparendo nei meandri di un mondo misterioso.  
Gli adepti zittirono completamente, lasciando Teschio a bocca aperta:
«Che succede?», chiese Benzina.
Teschio non seppe che dire.
«Non ne ho idea», sussurrò. «Sono tutti immobili... come statue di cera».
Arretrò di qualche metro per raggiungere gli altri della banda, che lo fissarono con aria stravolta.
«Non so cosa stia accadendo. Il santone è sparito con una donna al di là di una porta... gli altri si sono acquietati; non parla più nessuno».
«Fa vedere anche a me», disse all'improvviso Radu.
Il piccolo si avvicinò all'entrata del covo e, con affanno, prese a sbirciare con spirito indagatore.
«Stai indietro!», gli ordinò Giacinta, temendo che il piccolo potesse sporgersi oltremisura, mostrandosi al pubblico di malavitosi.
Radu osservò i vari seguaci della setta, come assorti in un sonno profondo e pervasi dalla sensazione di non fare più parte di questo universo: gran parte di essi teneva gli occhi chiusi, apparentemente catapultati in un'altra dimensione. L'unico che dette l’impressione di mantenere un atteggiamento normale e vigile, fu il presunto braccio destro del santone, che di tanto in tanto ruotava la testa per sincerarsi che tutto andasse secondo programma.
Trascorsero dieci minuti di silenzio, finché il mingherlino in forza del grande capo, non si alzò per dirigersi verso un mobile basso, contenente un sfilza di bicchieri già riempiti con un liquido giallognolo, simile al limoncello. Radu strabuzzò gli occhi, chiedendo l'intervento di Teschio.  Capendolo al volo, quest’ultimo, lo sostituì precipitosamente, facendo appena in tempo a scorgere il braccio destro del santone posare ai piedi di ogni adepto un singolo bicchierino colmo dell'enigmatico liquido. Teschio pensò all'assenzio, benché non sapesse minimamente cosa fosse: semplicemente aveva visto da poco tempo su un giornale la foto di un poeta, tal Paul Verlaine, accomodato a un tavolo parigino con davanti il prodigioso distillato; che da quel che diceva la didascalia, era in grado di regalare i prati del paradiso a ogni provvidenziale sorso.
Terminata l’operazione, il seguace dei Dionisio schioccò le dita, ridando vita all’assemblea.  
«E’ giunta l’ora».
I primi a rispondere furono i tre giganti, che quasi buffamente agguantarono il proprio calice, bevendo come bufali disorientati da una lunga arsura. Fecero lo stesso, nel giro di pochi istanti, tutti gli altri, che bevvero alla goccia, senza alcuna esitazione, evidentemente abituati a un simile passaggio iniziatico.
Teschio seguitò a fissarli allibito, pervaso da un proverbiale dubbio: si stavano drogando? Ritornò a quel che gli aveva raccontato Nadia e, dunque, all'ipotesi che quell'intruglio potesse contenere qualcosa di ben più potente di una normale lemonsoda. Il suo pensiero si dimostrò fondato. Non passò molto, infatti, dal momento in cui gli adepti cominciarono a ridere come pazzi, dandosi pacche sulle spalle e arrivando perfino a schiaffeggiarsi. Si domandò dove sarebbero arrivati, avanti di questo passo...
La riunione si trasformò in un putiferio di grida e schiamazzi.

62.

Anche gli altri della banda furono sopraffatti dal clamore, disponendosi uno sopra all'altro per vedere cosa stava succedendo. Benzina rimase sconcertato.
«Sembrano tutti ubriachi».
«Hanno bevuto una specie di liquore...», spiegò Teschio.
«Potessi assaggiarne un po' anch'io...», disse Benzina.
Giacinta gli tirò uno scappellotto sulla nuca, con fare bonario.
«Il solito coglione...».
Benzina trovò il coraggio di sorridere. E per un attimo si sentirono tutti un po' più rilassati. Ma la quiete non durò a lungo. All'improvviso, Teschio sentì qualcosa di freddo premere sulla fronte, dandogli l’idea di un attrezzo medico pronto a testare la sua precaria salute. Niente di tutto ciò: erano le canne di una pistola. L’uomo non volle crederci e in un istante si sentì cadavere.
Impugnava l'arma un barbuto con i capelli bianchi, unti e puzzolenti, la faccia rossiccia, con tanti capillari che ricamavano sul naso una specie di cartina geografica e due canini sproporzionati. Nessuno fiatò, impietriti dalla paura. Giacinta pensò che fosse stato troppo bello essersela cavata fin lì. Ora, quella pistola, era il chiaro segno che erano stati beccati, che le cose non erano andate secondo i piani, e che la missione era già al tramonto. Fu sopraffatta dall’idea di tirare un calcione sull'avambraccio al nuovo venuto, ma dalla posizione in cui si trovava, mezzo incancrenita, intuì facilmente che non avrebbe avuto molte chance di ottenere ciò che voleva. Si rassegnò al silenzio, aspettando che qualcuno compisse la prima mossa.
«Non muovetevi e non fiatate».
Fu lapidario, lasciando intendere che non fosse uno sprovveduto, ma uno avvezzo a certi retaggi della malavita. Teschio si irrigidì al punto di rischiare di farsi venire un crampo alle gambe; percepì  i muscoli del polpaccio destro divenire duri come l'acciaio, incapaci di reggere il suo peso e l'angoscia di un incontro che avrebbe potuto segnare la fine della sua compassata esistenza. Ma non ci rimase male più di tanto, riflettendo sul fatto che, tutto sommato, sarebbe stato contento di morire per una buona causa. L’aveva già messo in conto... la vita, in fondo, non aveva più granché da dirgli, e l’idea di andarsene come un eroe gli rese d'un tratto quasi piacevole quell'assurda incombenza.
Chissà perché gli venne in mente la madre, e le tante volte che, da piccino, andavano a fare il bagno a Varazze. Era stato il periodo più bello della sua vita; da quel momento, infatti, le cose sarebbero andate sempre peggio. La mamma avrebbe desiderato mandarlo all'università, ma era già tanto che avesse conseguito la terza media. Solo ora, in quel frangente disperato, si rese conto di quanto tempo avesse buttato alle ortiche, percependo la stupidità di non avere voluto dar retta al genitore. Erano state le cosiddette cattive compagnie a traviarlo, facendogli credere in un futuro fittizio, governato dall'idea del soldo facile.
Tentò di riacquistare la postura eretta, ma venne bloccato dall’aggressore, che spinse con ulteriore foga la pistola sulla fronte del capobanda.
«Non ti muovere. Sennò salti all'aria tu... e io».
Si riferì al fatto che una baruffa avrebbe di certo attirato l'attenzione dei Dionisio, mandando in crisi qualunque tentativo di passare inosservati e poter seguire le vicende dei membri della setta. Questa inaspettata uscita indusse Teschio e Benzina a pensare che, evidentemente, l'uomo armato non fosse della stessa parrocchia dei delinquenti che avevano a pochi metri di distanza e che, quindi, c’era ancora qualche speranza di cavarsela. Ma allora chi era? E perché li teneva sotto tiro?
Si fecero queste domande, mentre l'assalitore allentava la presa, alleggerendo il pungiglione d'acciaio sulla fronte della vittima.

63.

Lo chiamavano il Cinghiale e finalmente anche Teschio poté capire il perché: aveva due canini giganteschi, che venivano messi in grande evidenza ogni volta che l'uomo divaricava le labbra. Non ci fu, dunque, la necessità di una presentazione ufficiale: la persona che stava puntando la pistola alla testa di Teschio era il marito di Nadia Schilef. Era uscito dai Dionisio da tempo e da tempo s'era ripromesso di accumulare prove per poter incastrare una volta per tutte colui che credeva il più grande farabutto della Terra: il santone. Con le sue parole e i suoi raggiri era di fatto riuscito a devastare la mente di centinaia di persone e sul suo collo pendevano decine di omicidi. Assassini in piena regola, eseguiti solo per poter incrementare il suo potere e il peso del suo portafoglio. Il carcere a vita non gliel'avrebbe tolto nessuno. Era lì che voleva arrivare il Cinghiale, conoscendo ormai tutte le mosse del grande capo e l'odio profondo provato per un personaggio privo di qualunque scrupolo, che, peraltro, anche a lui, aveva spillato un bel po' di quattrini. Ma non era stato facile far perdere le tracce di sé. Chi entrava nella setta, infatti, difficilmente riusciva a uscirne... se non in una bara.
Ma Cinghiale non era uno stupido e per un po' di mesi era riuscito a sparire completamente dalla circolazione, abitando in un appartamentino anonimo nel cuore di Bologna, e vivacchiando di espedienti, compresa la professione di tutto fare in un alberghetto della città. Aveva ereditato il bilocale da un vecchio zio rimasto senza parenti diretti, poco tempo prima di abbandonare i Dionisio. Non ne sapeva nulla nemmeno la moglie. Voleva tutelarla: se le avesse rivelato qualcosa, infatti, qualcuno avrebbe potuto prenderla di mira. C'era finito da solo in quel giro di scapestrati, dando retta alla sottana di una donna che s'era venuta per caso a trovare sul suo cammino. Era una donna misteriosa e affascinante, di cui non aveva mai saputo il vero nome, né le origini. Benché la fisionomia del volto tradisse lineamenti che in qualche modo rimandavano al Medio Oriente. Faceva parte dei Figli di Dionisio da diversi anni, ed era una delle predilette dal santone: era forse la beniamina di cui si serviva per raccogliere nuovi adepti. Cinghiale non aveva saputo resisterle.
S'incontravano di nascosto e insieme si dedicavano ai divertimenti più assurdi, come due adolescenti. Avevano perfino trascorso una serata intera al Luna Park che sorge nei pressi di Linate. E negli stessi paraggi avevano fatto l'amore per la prima volta. Con la nuova conoscente gli sembrava di vivere in un perenne stato di euforia. Il marito di Nadia si trasformava, divenendo un'altra persona, e perdendo qualunque senso di responsabilità nei confronti di se stesso e della moglie. Qualcosa aveva raccontato a Rafael, nei momenti in cui i fumi dell'alcol prendevano il sopravvento, ma senza entrare troppo nei dettagli: i movimenti della setta dovevano rimanere segreti. Dopo poco tempo era comparsa la droga. E fu proprio in occasione di una sera davvero al di sopra delle righe che il Cinghiale finì per la prima volta al cospetto dei Dionisio. Assistette a una specie di orgia, in un'atmosfera da girone infernale. Non aveva saputo se ridere o piangere. Uomini e donne sembravano dei robot, addestrati per compiere operazioni che da sani di mente non avrebbero mai preso in considerazione. Non riusciva a togliersi dalla mente il tipo che s'era fatto tagliuzzare mezzo corpo in nome di chissà quale arcana creatura degli inferi, dando l'impressione di non patire alcun dolore. Sicché gli era bastato poco per capire che non era quello il mondo che aveva sempre sognato.
La donna misteriosa che l'aveva introdotto nel circolo del male, sparì all'improvviso senza fargli più sapere nulla e lasciandolo nella desolazione più cupa. Trovò la forza di dire basta una sera che s'era ritrovato a dieci centimetri di distanza dalla moglie che dormiva, con un coltello in mano, convinto che dovesse scotennarla perché altrimenti avrebbe rivelato alla BBC la sua tresca con la paladina del santone. Era troppo, era davvero troppo. Da quel momento dichiarò guerra ai Figli di Dionisio.

64.

Teschio e Cinghiale si guardarono negli occhi raccontandosi un avvenire diverso da quello sospettato trovandosi per la prima volta a tu per tu. Fu, infatti, evidente a entrambi che fossero più o meno lì per lo stesso motivo: contrastare le cattive intenzioni dei Figli di Dionisio. Cinghiale mosse la testa indicando alla sua vittima di seguirlo. Lo fece con uno scatto nervoso e tremebondo, come in preda a una convulsione epilettica. Stessa cosa fece Teschio con il resto della banda. Cinghiale si mise a capo del gruppo e nel silenzio più assoluto riguadagnò i colori sbiaditi dell'uscita.
Ripercorsero le scale pericolanti, e la prima rampa direttamente collegata all'uscio principale, godendo di una felice atmosfera, ben diversa da quella angustiante patita all'andata. Ora conoscevano la loro meta, benché fossero guidati da un tipo che ancora non avevano capito chi fosse. L'uomo si muoveva scaltramente, dando l'impressione di conoscere perfettamente l'ambiente, girando di tanto in tanto il capo per sincerarsi che i nuovi amici lo stessero seguendo.
Muovendosi verso l'alto fu, per tutti, più facile respirare: all'unanimità supposero felicemente di poter disporre di una quantità maggiore di ossigeno, come se fino a quel momento avessero respirato catrame. Benzina fu rapito da un pensiero rocambolesco, inerente la possibilità che in quel maledetto antro, si fossero appositamente disperse tossine velenose in grado di anestetizzare cuori e cervelli. Era un'ulteriore spiegazione al delirio collettivo che pareva contraddistinguere tutti coloro che si inchinavano agli sguardi funerei del santone. Ogni passo era un tassello in più verso la libertà; anche la luce dette l'impressione di essere meno recalcitrante nei confronti del quintetto. All'esterno Teschio e Cinghiale si consultarono con un rapido su e giù delle ciglia: dovevano levarsi di torno al più presto, avendo già rischiato abbastanza.
Finirono per strada, sì e no nel punto in cui il camionista aveva chiesto indicazioni a Benzina, per ritrovare il cammino maestro. Si disposero in cerchio, colmi di curiosità.
«Adesso ci vuole dire chi è?», domandò Giacinta, bruciapelo.
Cinghiale la guardò con distacco.  
«Sono un fuoriuscito… un ex dei Dionisio».
La banda ammutolì.
«Sto dando la caccia a quei bastardi che hanno rovinato me e moltissime altre persone...».
«Ci spieghi meglio», disse Teschio.
«Non sto a elencarvi i presupposti che mi hanno portato fin qui, ma ormai ho deciso di andare fino in fondo, a costo di rimetterci le penne. Cerco delle prove per poterli definitivamente incastrare...».
«Wow», blaterò Radu entusiasta.
«So tutto di voi, ma non preoccupatevi, non ho nessuna intenzione di compromettere le vostre ricerche, anzi… voglio, però, dirvi che stasera avete corso un grossissimo pericolo: se vi avessero scoperto non sareste andati lontani…».  
«Addirittura», disse Benzina, con un sorriso sardonico.  
«Hanno compiuto decine e decine di omicidi, senza mai essere scoperti. Sono protetti da qualche pezzo grosso del governo o da qualche servizio segreto. Con loro nessuno l'ha mai passata liscia…».
«Tu però te la stai cavando egregiamente…», gli disse Benzina.
«Mi sa che sono l'unico... ma solo perché ho avuto la possibilità di sparire per un po’. E in ogni caso bisognerà vedere come andrà a finire».
A Giacinta venne un'illuminazione, intuita dall'amico di sempre, che fissava Cinghiale con gli occhi sgranati. Ora tutto tornava. E anche l’autore del biglietto trovato all’ingresso del camper aveva finalmente un nome.
«Lei… lei è il marito di Nadia?».
L'uomo tacque per qualche istante, inarcando le sopracciglia e riflettendo sul fatto che ormai tanto valeva svuotare completamente il sacco.
«Sì, sono io».
«E' stata sua moglie a darci le indicazioni per arrivare fin qui», disse Teschio, preceduto di un soffio dalla perspicacia di Giacinta.
«Lo so. Come sta?».
«Credo che la stia aspettando».
«Lo sto facendo per lei…».
«Mi rendo conto», chiuse Teschio. «Non deve essere facile».

65.

Allontanandosi ulteriormente dal covo dei Dionisio, si inoltrarono nel cuore della città. Sostarono di fronte a una tabaccheria con le saracinesche abbassate, illuminata, all'interno, da una debole luce al neon. Cinghiale si guardò intorno con fare circospetto, dando l'impressione di temere di essere spiato: viveva con questa angoscia da mesi. Passarono diverse macchine, ma la situazione sembrava tranquilla. Fu allora che prese di nuovo la parola.
«So perché siete arrivati ai Dionisio», disse corrugando la fronte. «E, forse, potrei esservi d'aiuto...».
Ai quattro si rizzarono le antenne, come se avessero appena saputo di aver vinto alla lotteria. Radu, col petto all’infuori, si interpose fra Cinghiale e Teschio, marcando la sua presenza e sottintendendo  che le spiegazioni spettassero soprattutto a lui. Il marito di Nadia lo guardò con avidità, non capendo quale storia avesse alle spalle, quel che gli pareva poco più di uno scricciolo indifeso.   
«Cosa può dirci?», incalzò Teschio, con garbo e quell’atteggiamento mansueto, quasi di sottomissione, riservato solo a chi, davvero, è in grado di offrire valide opportunità per tirarsi fuori da qualche impiccio.
«Non so come siano andate le cose di preciso, dopo la mia dipartita dal gruppo, ma c'ero ancora quando il santone ordinò a una donna rom di esaudire l'ennesimo sacrificio. E immagino che voi siate qui proprio per questo...».
«Esattamente», disse Benzina, concitato, con le guance fiammeggianti.
«Posso, dunque, sospettare che l'assassinio sia già avvenuto....».
«Qualcuno ha pugnalato a morte la mamma di Radu», disse Teschio, indicando con un cenno del mento il piccolo che aveva sotto gli occhi.
A Cinghiale fu tutto più chiaro. Osservò Radu e gli regalò un'espressione solidale, contorcendo le labbra e socchiudendo le palpebre.  
«Vogliamo risalire all'assassino. I Dionisio non avranno vita facile finché non avremo raggiunto il nostro scopo», sentenziò Benzina, con caparbietà.
«È in grado di darci qualche informazione in più?», domandò Teschio. «Non ha qualche nome?».
«Purtroppo no», disse Cinghiale. «Ma suppongo che la comunità rom locale sia più volte stata coinvolta dai Dionisio. Non so se hanno un debole per gli zingari o se il modo di vivere dei nomadi sposi, per qualche strana dinamica, le esigenze della setta...».
«Di fatto anche stasera abbiamo visto alcuni rom partecipare alla seduta».
«Li conoscevate?».
«No», rispose Giacinta. «Ma ne passano così tanti da Sesto che i responsabili potrebbero esserci sfuggiti. Peraltro la mia famiglia e quella di Radu, di origine sinti, non hanno mai fatto parte attivamente della comunità locale».
«Potrebbe essere un buon elemento da cui partire per le vostre indagini», dichiarò Cinghiale. «Se i Dionisio hanno commissionato a una donna rom un assassinio, è facile supporre che la donna sia andata a pescare nel suo paniere...».
Giacinta e Radu si guardarono conturbati, non avendo quasi capito nulla dell'ultima enigmatica affermazione di Cinghiale. Ma l'avevano compresa bene i due adulti, che mettendo insieme un po’ tutti gli elementi raccolti fino a quel momento, si sentirono, in qualche modo, un po' più vicini alla soluzione del caso.
«Ritiene, quindi, che l’assassino possa essere una rom di Sesto?».
«Che dirvi... se è morta una donna rom per mano di un'altra donna rom... è altamente probabile che le due si conoscessero. O... si odiassero».
Giacinta e Radu si fissarono sgomenti, messaggiandosi telepaticamente che c'erano dei validi presupposti per pensare che qualcuno potesse odiare Slagena.
Teschio e Benzina notarono questo loro scambio di intenti, intuendo a loro volta che, forse, non erano del tutto al corrente delle vicissitudini dei vari clan familiari che rappresentavano la realtà nomade sestese. E fecero centro.

66.

«C'è qualcosa che non ci avete detto?», gli domandò Teschio.
«Non so...», rivelò Giacinta, titubante.
«Lo sai tu, Radu?».
Benzina scorse il ragazzo in difficoltà e gli pose una mano sulla spalla in segno di affetto.
«Puoi parlarne apertamente, non c'è nulla di cui ti devi preoccupare… ormai... siamo una sola famiglia…».
«Me l'hai già detto mille volte che siamo una sola famiglia. Non serve che me li ricordi in ogni istante!».
Radu, sopraffatto dalla rabbia, allontanò sgarbatamente la mano di Benzina e si rifugiò in un piccolo anfratto di muro del palazzone che li sovrastava, con le mani conserte e lo sguardo muto. Teschio e Benzina si interrogarono affranti, non comprendendo questo suo attacco improvviso. Forse gli era sfuggito qualcosa? Non erano stati sufficientemente accorti? Giacinta nicchiò.
«Cosa c'è sotto?», domandò Teschio.
Giacinta tirò un bel respiro e rivelò che le cose fra i nomadi del circondario erano molto più difficili di quanto avevano lasciato trapelare dai loro racconti iniziali. In particolare, le famiglie di Giacinta e Radu, erano vivamente tenute a debita distanza da tutte le altre, perché giudicate più fortunate degli altri clan: essendosi dedicate per anni alle giostre, molti pensavano che conservassero da qualche parte gruzzoli di denaro che al più presto avrebbero utilizzato per cambiare aria e soprattutto vita. E c'era anche il problema religioso. Molti rom locali seguivano, infatti, una specie di rito cristiano ortodosso, ereditato da un vecchio capo tribù, che proprio a Sesto aveva fatto la storia, ma che non era apprezzato e condiviso dai sinti. Più volte erano sorte incomprensioni proprio per questo motivo, spingendo alcuni nomadi a emarginare pubblicamente le due famiglie cugine. Una volta Slagena era corsa via in lacrime da un gruppo rom che l’aveva schernita per la catenella che portava al collo, raffigurante una vergine sconosciuta alla tradizionale iconografia dell'est.
«Tutti i nodi vengono al pettine», disse Cinghiale. «Come vedete c'è più di un valido motivo per credere che la mamma del piccolo possa essere stata fatta fuori da qualcuno… qualcuna che la odiava».
Teschio e Benzina annuirono simultaneamente.  
«Pensateci bene», proseguì Cinghiale, con fare fraterno, sollecitato da una folata di vento ristoratore. «Potreste non essere lontani dalla soluzione…».
L'uomo si acquietò, scoprendosi sazio di atteggiamenti altruistici, che nel vivere quotidiano raramente lo contraddistinguevano. Rifletté altresì sul fatto che era da ben tre giorni che rincorreva come un cane segugio le mosse perfide e sadiche dei Dionisio: era evidentemente arrivato il momento di fare nuovamente perdere le proprie tracce.
«Ora vi devo salutare», disse con aria avvilita. «Credo di essermi fermato abbastanza. Ma almeno possiedo numerosi dettagli in più sui quali ragionare, per stanare una volta per tutti quei cani bastardi… tornerò per il colpo di grazia».
Teschio e Benzina lo ringraziarono di cuore.
«Il suo intervento è stato provvidenziale», disse il capobanda.
«Non ho fatto nulla».
«Ha fatto molto», continuò teschio. «Senza di lei staremmo ancora brancolando nel buio. E invece, finalmente, sappiamo come andare avanti…».
«Spero riusciate a risolvere il caso...».
«Ce la faremo», disse Benzina, pervaso da una ventata di ottimismo. 
Cinghiale esibì una faccia strana, tipica di chi sta per dire qualcosa, ma non trova le parole giuste per farlo. Si limitò, pertanto, a intimarli di tacere con chiunque, benché fosse chiaro a tutti che si riferisse soprattutto alla moglie.
«Stai tranquillo, non le diremo niente...», blaterò Benzina.
Teschio lo salutò con un cenno della mano, sopraffatto da un sentimento malinconico, e dall’ipotesi che questa sorta di amicizia in divenire, avrebbe potuto non avere seguito.   
Cinghiale, in pochi secondi, scomparve dai loro orizzonti come un fantasma, nel momento in cui Radu, guarito dall'improvvisato broncio, riprese la marcia verso casa.

67.

Al camper si raccolsero in un cerchio silenzioso, nel punto in cui avevano individuato la medaglietta dei Dionisio. Avevano le facce devastate dalla stanchezza ed erano privi della forza necessaria a intavolare un nuovo discorso. Non badarono neanche al frastuono provocato dal passaggio di un treno merci, diretto chissà dove, che in un'altra circostanza li avrebbe portati a imprecare malamente. Decisero così di rimandare ogni decisione all'indomani, prevedendo di avere menti più fresche e scattanti.
Radu dette l’impressione di essere il più esausto della compagnia, raccolto in un’espressione dura e arcigna. Il suo rammarico era dovuto al fatto che si sarebbe aspettato qualcosa di più dal raid di perlustrazione presso il covo nemico. S'era infatti convinto che avrebbe finalmente potuto mettere le mani addosso all'assassino di sua madre, per fargli patire le pene dell’inferno; mentre non erano andati oltre un semplice e banale appostamento, tipo quelli che aveva visto fare dai cowboy o dall’esercito nordista in qualche film western. Gli altri lo guardarono con l'aria assonnata, comprendendo la sua scontentezza e la sua incapacità a valutare l'importanza dell'operazione da poco conclusasi, ma anche rendendosi conto che non avrebbero saputo dove andare a pescare nuove rassicurazioni.
«Che facciamo adesso?», domandò Giacinta.
Teschio la osservò pensoso.
«Direi di rivederci qui domani mattina per organizzare le prossime mosse. Adesso siamo troppo stanchi per ogni cosa. Magari potremmo telefonare a Nadia, per avere qualche consiglio utile...».
Benzina non metabolizzò al volo, era troppo devastato. Nelle condizioni in cui si trovava non avrebbe desiderato altro che sdraiarsi per riposare una decina di ore di fila. Sarebbe andato bene di tutto, anche un giaciglio improvvisato nell'androne della stazione di Sesto, dove molti suoi amici, da tempo, campeggiavano più o meno indisturbati. Non gli sfuggì, in ogni caso, il riferimento a Nadia, il cui intervento non gli pareva così indispensabile per il prosieguo delle indagini. Suppose, pertanto, che l’amico fraterno potesse davvero essersi invaghito della moglie di Cinghiale e stesse, dunque, cercando ogni buon motivo per poterla contattare; lo aveva, in fondo, già sospettato il giorno in cui l’avevano conosciuta, dopo la sortita di Rafael. Sicché finì per stuzzicarlo con garbo, anche se a malapena riusciva a tenere aperte le palpebre.
«Da quando in qua ti affidi al parere di una donna per decidere cosa fare?».
Anche Giacinta osservò con stupore e ironia il grande capo, comunque rallegrandosi del fatto che perfino un duro come lui potesse provare dei sentimenti. Ma Teschio non soccombette al tiro mancino del duo. Stette al gioco, fece finta di niente, dribblando magistralmente la situazione.
«Volete insinuare che Nadia non ci sia stata di aiuto fino a questo momento?».
«Nessuno dice questo», blaterò Giacinta.
«Ha saputo indicarci la sede dei Dionisio... senza di lei, probabilmente, staremmo ancora girando intorno al camper».
«Ne sei così sicuro?», domandò Benzina, ridacchiando.
Teschio non gli diede alcuna soddisfazione.
«Ogni sua dritta potrebbe essere utile. Mi sembra che in questa faccenda ci siano di mezzo un bel po’ di donne... dunque, una donna in più, non potrà fare che bene...».
Giacinta e Benzina risero sotto i baffi, auspicando un sensazionale futuro per la coppia, in barba al sentimentalismo di Cinghiale, apparentemente più innamorato di Bologna che non della donna con cui aveva diviso il letto per molti anni.
«Va beh, con questa direi che è arrivato anche per noi il momento di andare a dormire... che dite?».
La proposta della ragazza venne accolta con gioia dai due adulti, visibilmente tramortiti dall'ansia patita nelle ultime ore.
«Tu ti fermi ancora qui?», le chiese Benzina, con un tiro impercettibilmente malizioso.
Giacinta fece una smorfia per sottolineare che la sua domanda era alquanto fuori luogo: ormai era evidente che il camper di Radu fosse diventato anche il suo. Si sentì offesa e non lo degnò di alcuna risposta. Sorrise a Teschio e riguadagnò l'ingresso della roulotte. Trovò Radu rannicchiato su se stesso, in posizione fetale, come un ghiro in letargo. Si mosse con cautela per non svegliarlo, trovandolo ancora più piccolo e indifeso del solito.

68.

Radu si svegliò con le tenebre in pompa magna e il cuore in gola: aveva appena sognato la mamma che camminava per la roulotte grondante di sangue, con un coltello in mano e una sigaretta marcia fra le labbra. Riaprendo gli occhi se la vide davanti e fu travolto dal terrore. Rimase per qualche istante immobile, accecato dall'angoscia, cercando di nascondersi con un lembo di lenzuolo, incredulo dinanzi alla possibilità che lo zombie di Slagena potesse fargli del male. Nemmeno le lacrime riuscirono a dargli sollievo. Si alzò per coccolarsi con un bicchiere d'acqua e si calmò solo quando, osservando la strada dal piccolo oblò sopra al lavandino, illuminata dai puntini gialli dei lampioni della ferrovia, si rese conto che era stato semplicemente un brutto sogno e che non c'era nulla di cui preoccuparsi. Giacinta non si accorse di nulla.
Al risveglio, la ragazza, allungò il braccio destro per stirarsi e senza accorgersi finì col tirare una specie di schiaffo all’amico. Radu non fece una piega: con le prime luci dell'alba e i primi via vai forsennati dei pendolari era sprofondato in un sonno profondo, catartico, dimentico dei patemi subiti durante la terrificante veglia notturna. Giacinta non lo volle disturbare. Si arrangiò in silenzio, mangiucchiando un paio di grissini scaduti e lavandosi ben bene la faccia.
Scese dalla roulotte e prese a pitturarsi le unghie, con uno smalto recuperato dal cassetto personale di Slagena. Andò avanti per pochi minuti, finché un'ombra non le oscurò volutamente la visuale. Era Benzina, in perfetto orario.
«Non c'è Teschio?».
«Arriva anche lui…».
Giacinta rimase sulle sue, stufa degli occhi languidi e viscidi dell’adulto.  
«Radu?».
«Dorme ancora».
«E tu? Dormito bene?».
Benzina non ricevette risposta e percependo l'insofferenza dell'amica, girò al largo, andando a fare due passi nel parco Gramsci, dove spesso si rintanava per godersi un po’ di frescura. La ragazza apprezzò. Non aveva nessuna voglia di dargli retta e anche se sapeva che non le avrebbe mai fatto del male, era piuttosto infastidita dalle sue attenzioni vagamente morbose: lo sguardo di Benzina troppe volte le ricordava quello bavoso di qualche vecchio incontrato sul metrò, ipnotizzato dalle sue forme. Di lì a poco arrivò anche Teschio.
«Buongiorno signorina».
Con Teschio fu tutto un altro mondo, trovandolo, ormai, una specie di secondo padre.
«Bene arrivato. Ti piacciono le mie unghie?».
«Non potevi farle di un altro colore?».
«Il nero è il mio colore preferito».
Fece capolino anche Radu, con gli occhi ancora imburrati di sonno.
«Buongiorno».
«Buongiorno a voi».
Vedendo che mancava all’appello ancora Benzina, Teschio impugnò il telefonino e chiamò Nadia. Lo fece allontanandosi di qualche passo dalla roulotte, lasciando che Giacinta e Radu lo seguissero con i loro sguardi civettuoli.  
«Sono Teschio, ciao Nadia…».
La moglie di Cinghiale rispose con garbo, felice di poter scambiare due chiacchiere con un uomo che trovava simpatico e intelligente, nonostante il precario status sociale che lo contraddistingueva. Teschio le spiegò l'accaduto e se aveva qualche suggerimento da dargli su come affrontare le prossime tappe della missione.
Giacinta e Radu si scambiarono un sorriso ironico, vedendo Teschio allontanarsi ulteriormente, dando l’impressione di voler affrontare un discorso troppo personale per essere condiviso anche con degli amici fidati, finendo per mimetizzarsi con il muro di cinta che divideva la strada dalla ferrovia. Tornò dopo dieci minuti.
«Allora? Che ti ha raccontato di bello?», domandò Giacinta, con sarcasmo.   
Teschio ebbe un attimo di esitazione: non divenne rosso, ma poco ci mancò. Di fatto, con le varie considerazioni fatte, relative all’uccisione di Slagena, aveva anche colto l’occasione per proporsi  a Nadia per un'uscita intima; e la donna gli aveva risposto affermativamente, non appena le cose si fossero sistemate.
Teschio era su di giri, e non sapendo come contenere la sua gioia, redarguì senza motivo Benzina, ricomparso all'orizzonte.
«Sei in ritardo».
«In realtà sono arrivato prima di te».
«Io sono qui da dieci minuti».
«Io da venti…».
«Se vogliamo risolvere il caso dobbiamo essere puntuali…».
La finirono lì, consci del fatto che fosse una conversazione priva di ogni senso, intavolata solo per sedare un momentaneo imbarazzo. Se ne accorsero anche i due giovani che dondolarono la testa, convincendosi del fatto che, in fondo, fra adulti e ragazzi non ci fosse una così grande differenza: un adulto era solo un bimbo un po’ cresciuto.

69.

«Che si fa, allora?», domandò Giacinta, rimirandosi le unghie come una modella.
«Radu, abbiamo bisogno di te», disse Teschio.
Il piccolo si avvicinò al gruppo, ancora visibilmente assonnato e con la mente annebbiata dalle immagini non ancora del tutto tramontate di Slagena che camminava come uno zombie. Fissò Teschio con aria di sfida.
«Cosa volete sapere?».
«Chi odiava tua madre», disse Teschio, con grande autorevolezza. «Adesso è arrivato il momento di sapere come stavano davvero le cose fra tua madre e le altre rom del circondario... adesso è arrivato il momento di agire veramente».
Giacinta guardò Radu con compassione, sapendo quanto fosse doloroso dover rispolverare un passato infingardo e meschino. Anche lei, di fatto, aveva passato le stesse angherie della famiglia di del piccolo, vicissitudini dovute all'ostracismo dei rom locali. Ma ci teneva che fosse per primo lui a dare qualche ragguaglio in più agli amici. 
«Fatima e Aicha», sibilò Radu. «Le hanno fatto il malocchio...».
Si illuminarono gli occhi di Teschio e Benzina; e i due uomini si resero conto che la matassa di un caso apparentemente irrisolvibile stava srotolandosi definitivamente.  
«Sono due donne rom che abitano lungo la via Gramsci», precisò Giacinta.
«Praticamente a due passi da qui», disse Benzina.
«Esattamente», disse la ragazza.
Teschio si fece meditabondo. Era necessario un piano.
«Come sono organizzate?», chiese.
«In che senso?», domandò Giacinta.
«Vivono insieme?», chiese Benzina.
«No», sentenziò Radu. «Vivono ognuna nella propria roulotte».
«Coi rispettivi mariti», sottolineò Giacinta.
«Ma i mariti durante la mattinata sono sempre in giro...», disse Benzina.
«Di solito è così...», disse Radu. «Suonano entrambi la fisarmonica».
«Quindi?», incalzò Giacinta.
«Dobbiamo dividerci», replicò Teschio. «La miglior cosa da fare è questa: due vanno da una parte e due dall'altra. Proviamo a stargli addosso, studiando le loro mosse, ma senza farci beccare. Se avessimo dei cannocchiali...».
«E dove li troviamo, adesso, dei cannocchiali?», domandò Benzina, sorridendo.
Il capobanda crucciò la fronte, dinanzi al fatto che, obiettivamente, non ci fossero molte possibilità di trovare al volo oggetti così particolari: nessuno di essi, del resto, ne aveva mai posseduto uno. Dovettero rinunciare per fare unicamente affidamento sulle proprie retine, spoglie di ogni accessorio.
«Per ora possiamo farne a meno», disse Teschio. «Accontentiamoci di sondare la situazione. In un secondo momento potremmo intervenire con un'attrezzatura più adatta...».
«Più che altro... noi due rischiamo di essere riconosciuti», disse Giacinta. «Se ci vedono nei dintorni delle loro roulotte di sicuro si insospettiscono... sanno bene che preferiamo stargli alla larga...».
«Hai ragione», disse Teschio. «Avete qualcosa per camuffarvi?».
«Camu che?», disse Radu, ridendo.
«Mascherarvi, truccarvi, con un cappello, una sciarpa, un...».
«Una sciarpa in pieno luglio... mi sembra un'ottima idea», lo ridicolizzò Giacinta.
«Su, era tanto per dire...», si difese Benzina. «Radu, c'è qualcosa sul vostro camper che possa aiutarvi a passare inosservati?».
Radu non aspettò un minuto a salire a bordo della sua casa ambulante per verificare che c'era tutto l'occorrente per travestirsi al meglio: c'erano altresì degli indumenti assurdi che aveva provato a indossare per qualche show in piazza Duomo, potenzialmente in grado di mimetizzare anche un rinoceronte. Giacinta lo seguì. Sparirono per una decina di minuti. E quando si ripresentarono al cospetto dei due adulti non erano più loro: Radu vestiva un cappello da giocatore di baseball, un paio di occhiali da metalmeccanico, e una specie di mantello nero che gli copriva tutto il corpo; Giacinta una parrucca nera, un fondotinta così scuro da farla sembrare un’abissina, e una camicia bianca di una taglia esageratamente voluminosa per le sue forme comunque contenute. Teschio e Benzina gioirono come bimbi in gita con l'oratorio.
«Siete fantastici», disse Benzina.
«A dir poco fantastici».
Teschio mosse su e giù la testa approvando con enfasi la trovata dei ragazzi: conciati in quella maniera non li avrebbero riconosciuti nemmeno i parenti più stretti.

70.

«Come ci dividiamo?», domandò Giacinta.
Teschio rifletté per una frazione di secondi.
«Io vado con Radu, tu con Benzina».
Giacinta non ne fu felice, ma non ribatté: comprese che non ci fossero molte alternative. In fondo, era giusto che il più piccolo andasse con il più grande, potendo in qualche modo beneficiare di una maggiore protezione.
«Bene, allora… mettiamoci al lavoro», disse Benzina, tutto allegro, convinto che non gli avrebbe potuto fare che bene, trascorrere qualche ora da solo con Giacinta, per la quale provava un desiderio sempre più spiccato, benché fosse conscio del fatto che se solo l'avesse sfiorata con un dito gli avrebbero fatto saltare le budella; Teschio per primo.
La roulotte di Aicha e del marito si trovava a circa mezzo chilometro dalla stazione dei treni di Sesto, lungo via Gramsci, in direzione Milano. Fra tutti i rom della zona, erano quelli che abitavano più vicini all'ingresso principale della ferrovia, a pochissimi passi dal parcheggio a pagamento e dall'ingresso del Palasesto. Vivevano in un camper trasandato, ancora più sporco e maltenuto di quello di Slagena. Vi dormivano in quattro: madre, padre e i due figli piccini. Al suo interno si respirava un odore pungente e asfissiante.
La casa ambulante di Fatima si trovava, invece, dall'altra parte della strada, e volgeva il suo sguardo al monzese, verso nord, forse il motivo per cui, in inverno, pareva fare più fredda di tutte le altre roulotte. Anch'essa non era in buone condizioni, ma l'innato buon gusto di Fatima per l'arredamento, e la mancanza di bimbi che lasciassero in giro ogni cosa, riusciva sempre a fornirle un appeal particolare.
Le operazioni dei singoli gruppi si svolsero quasi in contemporanea: Radu e Teschio si sistemarono dietro un cespuglio rigoglioso, di fronte al camper di Aicha; Benzina e Giacinta si appollaiarono alle spalle di un arbusto nel parchetto, dove venivano portati a spasso i cani.
"Porca puttana, iniziamo bene".
Fu l'esclamazione di Benzina, quando si accorse di avere calpestato la poltiglia intestinale di qualche quattrozampe che se avesse avuto fra le mani, avrebbe come minimo stritolato. Giacinta rise di gusto, strofinandosi il naso per vincere l'improvviso effluvio molesto.
«Che schifo!», blaterò.
Nello stesso momento, i mariti di Aicha e Fatima imbracciarono la fisarmonica e lasciarono le rispettive roulotte per correre a prendere il metro e iniziare la quotidiana attività di musicisti erranti: lo facevano da anni, raccattando quasi ogni giorno monete a sufficienza per sfamarsi e pure concedersi qualche vizio. Incontrandosi a pochi metri di distanza dall'occhio indiscreto delle due vedette, parlottarono con vigore, esprimendosi con ampi gesti delle braccia e dando l'impressione di avere qualche affare in corso o di non vedersi da decenni.
Dopo pochi minuti fu la volta di Aicha e dei suoi due piccoli: la donna sistemò il più giovane in un passeggino divorato dall'incuria, lasciando che l'altro le camminasse al fianco e guidasse la carovana verso la pompa dell'acqua nei pressi del mercatone dell'usato, oltre i confini della Smeg.
Teschio e Radu drizzarono le orecchie: non avrebbero mai immaginato di trovare la strada spianata dopo appena una decina di minuti dal loro arrivo. 
Sull'altro fronte, invece, le cose non andarono altrettanto bene. Fatima sembrò, infatti, non avere alcuna intenzione di muoversi, asserragliata nel camper, presa dall'idea di cucinare un piatto di bolapé, tipico della sua gente, a base di pollo, peperoni e datteri. Ai due non rimase che trovare la sistemazione migliore, cercando di non cancrenarsi le gambe. Benzina raccolse un legnetto più robusto degli altri e iniziò a ripulirsi la cacca delle scarpe. 

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