11.
Benzina guardò stranito Teschio,
per la prima volta convinto e fiducioso di poter presto risolvere il caso; ma lui
non era così ottimista. Gli pesava come un macigno sullo stomaco lo
standard forsennato di persona-tipo che
componeva la setta dei Figli di Dionisio; individui privi di ogni creanza, senza
scrupoli, vigliacchi, despoti, infami, crudeli fino all’ossesso, disposti a
tutto pur di soddisfare i propri interessi, e portare a compimento i propri
fini malati di onnipotenza e boria. Gliene aveva parlato più volte Rafael, soffermandosi
su aspetti alquanto macabri e decisamente poco belli da narrare; erano soliti
ritrovarsi una volta alla settimana in qualche antro sperduto della città, dove
potevano agire indisturbati.
Dai racconti dell’amico, i capi
avevano un potere assoluto. Imitavano le gesta di un santone americano, di base
a Cincinnati, un ex hippie, già condannato per prostituzione, pornografia e
riciclaggio di denaro sporco... e chi più ne ha, più ne metta. Arrivavano a
stregare gli adepti, fino a far loro compiere ogni cosa, compresa qualunque
azione di stampo criminale, dagli stupri agli omicidi; per non soffermarsi su moventi
ancor più terrificanti.
Sapevano bene dove andare a
battere cassa; mica si rivolgevano al primo che passava per strada: studiavano
bene le loro vittime. Sincerandosi che potessero finire nella tela del ragno
senza essere più in grado di divincolarsi. Puntavano, di solito, a figure
emarginate, sole, talvolta con problemi mentali, bisognose di aiuto e speranza,
riducendo la loro dignità in briciole e impossessandosi alfine dei loro corpi e
delle loro anime. Il marcio della società era l’ambiente ideale nel quale amavano
di più sguazzare, esattamente come topi di fogna.
«Non so se sia la strada giusta
da percorrere», blaterò Benzina.
Teschio lo fissò malamente,
incapace di comprendere cosa intendesse dire l’amico.
«Cosa ti frena?».
Benzina scosse la testa.
«Potremmo finire in un mare di
guai. I Figli di Dionisio sono delle bestie».
«Addirittura», fece Giacinta.
Benzina la guardò con aria mesta,
consapevole del fatto che nessuno potesse avere idea di cosa si stesse
parlando, visto che nessuno – a parte lui - sapeva chi fossero i membri della
setta.
«Insomma, cosa sappiamo di questa
setta?», incalzò Teschio, con tono rabbioso.
«Ragazzi, io non ne so molto, ve
l’ho già detto. Se vogliamo saperne di più dobbiamo rivolgerci a Rafael, lui sì
che ne sa di cose... Io l’ho solo sentito qualche volta parlare di... faccende
poco simpatiche... ma non potrei essere in grado di offrirvi una panoramica
dettagliata delle loro attività, di ciò che hanno fatto ieri e che faranno
domani. Non so chi siano, ma...».
Teschio fece cenno di capire, ma
l'euforia di pochi istanti prima lo abbandonò.
«Dacci almeno un’idea...».
«Rafael ha provato a parlarmi di
riti misteriosi, in cui non si sa bene che fine facciano alcuni seguaci
dell’ordine, da dove arrivino e dove finiscano... Mi diceva di pratiche che in
America vengono assolte abitualmente e che ogni anno portano all'uccisione di migliaia
e migliaia di persone. Forse addirittura cinquantamila. Spesso sono coinvolti
anche i bambini».
Teschio fulminò con lo sguardo il
suo interlocutore, facendogli intendere che non fosse il caso di entrare in
certi particolari in presenza di Radu e Giacinta.
«Che cazzo stai dicendo?».
Però la cosa aveva sconvolto
anche lui. Non immaginava che a poche centinaia di metri da dove viveva,
potessero sussistere retroscena tanto cruenti. Perplesso riprese la parola,
cercando di deviare l'argomento su particolari meno sconvolgenti.
«In tal caso, come farebbero
simili organizzazioni a passarla sempre liscia? A non essere scoperte e
indagate?», domandò Teschio.
«Perché... bella domanda...
secondo Serrano, perché sono coinvolti poteri forti che hanno i mezzi e le
capacità per mettere tutto a tacere. Entrerebbero in scena anche medici,
avvocati, imprenditori, gente con un sacco di grana che può fare quello che
vuole e che, in pratica, gestisce le sorti di mezzo mondo, divertendosi ogni
tanto alle spalle di qualche povero cristo. Rafael sostiene che perfino l'ex
presidente degli Stati Uniti ha fatto parte, da giovane, di una setta del
genere».
«Dio mio».
«E con lui un ex concorrente alla
Casa Bianca, di cui non ricordo più il nome... Sono cose su cui, peraltro,
senza menzionare la setta locale, Rafael è tornato pochi giorni fa. Stando alle
sue descrizioni, infatti, esisterebbero, a livello mondiale, dei poteri occulti
che giostrerebbero a nostra insaputa la politica, l'economia e attività
illegali come quelle, appunto, legate al mondo delle sette pseudo-religiose».
«Andiamo bene», mormorò,
affranto, Teschio.
Radu e Giacinta, che avevano
seguito allibiti la conversazione fra i due grandi, capendo la metà di ciò che
stavano dicendo, si sedettero sul ciglio della strada, lasciandosi accarezzare
da un alito di vento profumato d'estate. La ragazza tentò di afferrare la mano
di Radu, ma il piccolo preferì divincolarsi e tornare al suo isolamento cronico.
Teschio e Benzina li affiancarono
meditabondi.
Per qualche minuto nessuno dei
quattro ebbe altro da aggiungere.
12.
Passò anche mezzogiorno, ma la
fame, per tutti, andò a farsi benedire. L'immagine della mamma di Radu stesa
sul pavimento del camper, senza vita, aveva spento qualunque appetito e nemmeno
il profumo del piatto più prelibato avrebbe potuto ridare vigore all’acquolina dei
quattro.
Transitò un treno merci, con un
numero considerevole di vagoni, tutti colorati dallo stesso marrone, che fischiò
per tutto il tempo del tragitto di fronte alla casa ambulante di Radu,
provocando nel quartetto appollaiato sul marciapiede di via Monte Santo, un
fastidioso capogiro. Radu, in verità, vi era abituato, ma continuava a odiare lo
sferragliare dei treni, soprattutto quando era stravolto da qualche
preoccupazione. Sorrise, però, nel ricordare che, al momento di scegliere un
posto dove parcheggiare definitivamente il camper, la mamma non aveva saputo
selezionare di meglio. Sembrava un bel posto riparato, nascosto, tranquillo, dove
le intemperie erano scongiurate dall'enorme cappello di calcestruzzo e cemento
armato e dove il traffico non era mai eccessivo, certo non come quello che
caratterizzava la battutissima via Gramsci. A pochi passi c’era il verde del
parco e l’idea che sarebbero bastati due passi per respirare un po’ di aria
buona e dedicarsi alla siesta su un prato che non aveva padroni.
Sopra i loro sogni scorreva il cavalcavia
Buonarroti, che consentiva l’incontro fra via Gracchi e via Trento e il
superamento della ferrovia. D'estate si moriva dal caldo, d'inverno dal freddo.
Ma di volta in volta mamma e figlio riuscivano a trovare lo stratagemma adatto
per tirare avanti con mezzi di fortuna raccattati in qualche mercatino, tipo
fornelletti da cucina, ventilatori, stufette d’anteguerra...
Il primo a riprendere la parola
fu Teschio, sopraffatto da un improvviso colpo di sonno.
«Dobbiamo, comunque, pensare che
non possiamo andare in giro con un cadavere come fosse un amico di vecchia
data. È necessario studiare un piano per muoverci al momento propizio e
raggiungere senza pericolo il sito descritto da Benzina».
«Viene buio tardi... di sicuro dobbiamo
attendere le tenebre prima di agire», disse l'amico.
«Anche l’ora di cena potrebbe
essere ok».
«E se ci vede qualcuno?».
«Non hai detto che si tratta di
un posto isolato?».
Benzina attraversò i capelli con
la mano sudicia, palesando un nervosismo che lo contraddistingueva di rado; in
un certo senso si sentiva il principale responsabile del destino del corpo
della mamma di Radu; non voleva che fosse deposta in un posto malsano e poco
idoneo a un sereno transito nell’aldilà.
«Sì, sì, è isolato, ma... ci
passa di fianco una strada».
«Cambi le carte in tavola?»,
disse Giacinta.
«Non è una strada
frequentatissima, ma è pur sempre...».
«Tranquillo. A luglio, le strade,
sono più battute durante la notte che all’ora di cena. Alle otto, fra Cologno e
Brugherio, sono tutti a tavola. Potete scommetterci: i brianzoli sono ligi agli
orari».
Giacinta squadrò Radu per capire
se fosse intenzionato a esprimere un'opinione, ma realizzò che fosse ancora
troppo scosso dall'accaduto per contribuire efficacemente alla disanima. Lo
sollecitò, dunque, più per strapparlo dalla sua solitudine morbosa, che non per
sapere veramente quale fosse il suo pensiero.
«Radu».
«Che c'è?».
«Cosa ne pensi?».
«Di cosa?».
«Se ci muovessimo all'ora di
cena, dove dice Benzina...».
Radu raccolse l’invito verbale di
Giacinta con un sorriso appena abbozzato, come se la vedesse per la prima
volta, trovandola immensamente bella e... grande; la sua vicinanza e l’amorevolezza
con cui gli parlò, gli procurarono un brivido di imbarazzo.
«Per me va bene tutto quello che
decidete», disse con un filo di voce.
Teschio e Benzina si consultarono
con un rapido ed eloquente movimento degli occhi, trovandosi perfettamente
d’accordo sul da farsi: toccava a loro, in fin dei conti, decidere. Benzina
assunse l’espressione di un reduce della guerra in trincea, rimasto senza cibo
per mesi, che a Teschio ricordò la faccia di un bradipo morente appena visto in
un documentario sulla fauna del centro America. Capivano l'angoscia del piccolo
e il suo desiderio di essere lasciato in pace il più possibile, ma in questo
momento percepivano che fosse anche necessario lavorare in perfetta sintonia,
per poter dare una degna sepoltura a Slagena.
C'era in più da considerare che,
subito dopo la tumulazione del cadavere, sarebbe stato necessario affiancare Radu nelle operazioni di pulizia
della roulotte, per togliere le tracce di quella poderosa ondata assassina. Il
mezzo, di fatto, era completamente inagibile, impiastrato di sangue raggrumato
e contaminato da un tanfo pestilenziale che s'era ormai amalgamato alle pareti
e ai tessuti e che chissà in quanto tempo si sarebbe dissolto negli atomi dell’aere.
La proposta di Teschio, alla
fine, trovò tutti concordi: si sarebbero mossi intorno alle diciannove e trenta,
le sette e mezza, per poi raggiungere la fabbrica indicata da Benzina entro le otto.
13.
Il primo ad abbandonare il
marciapiede fu Radu, desideroso di andare a sdraiarsi ai piedi di qualche
albero nel parco Gramsci, per rilassarsi un po’, lontano da tutto e tutti. Da
tempo ne aveva individuato uno che raggiungeva spesso anche con mamma, quando
non erano in giro a mendicare. Era un abete rosso cresciuto un po' sbilenco,
alla base del quale s'era creata un’ampia insenatura fra le fronde, che formava
una specie di capanna naturale, la
capanna dello zio Tom che mamma aveva provato a menzionare.
A destinazione fu colto da un
dolore acuto, violento, spaventosamente vitale. Per terra notò ancora la carta
della brioche che la madre gli aveva scartato il giorno prima; la raccolse e se
la mise in tasca, promettendosi di tenerla sempre con sé, come un cimelio raro.
Giacinta si alzò subito dopo,
intenzionata a fargli compagnia; ma Benzina la trattenne con forza per un
braccio.
«Che cazzo fai Benzina? Tieni giù
le mani», gridò la ragazza.
Benzina dondolò la testa.
Teschio lo sostenne:
«Lasciamolo in pace per un po'»,
disse. «Capisco che tu voglia stargli vicino, ma forse, in questo momento, credimi...
è meglio lasciarlo nel suo brodo...».
Benzina allentò la presa.
Giacinta tornò a sedersi al suo
fianco con la faccia scura.
«Non facevo nulla di male».
«Lo so, ma dammi retta...».
I tre rimasero per un quarto
d'ora a fantasticare su un futuro inesistente, sconfortati da una situazione
che non avrebbero mai supposto di vivere. Il paesaggio nei dintorni era il
solito squallore di sempre, quello della periferia più cupa, e non gli fu certo
d’aiuto; con il suo parossistico grigiore servì solo ad acuire il loro
patimento.
Volavano disordinatamente alcuni
piccioni e passeri dai mille colori, molti dei quali avevano scelto proprio quella
macchia di verde suburbana per trovare sostentamento e condurre la loro
esistenza. Sembravano consci del fatto che ci passassero molte persone, esseri
umani che dietro a ogni banchetto si lasciavano pigne di avanzi di cibo, che
trovano gustosissime e preziosissime per il loro divenire.
Osservarono passivamente la
strada, a quell’ora del giorno, così silente e noiosa, lungo la quale si
alternavano a cadenze irregolari un’automobile, un camioncino, una motoretta; rarissimi,
invece, i pedoni e i ciclisti, scoraggiati forse anche dalle alte temperature.
Il cielo era lindo e sereno, intramezzato
da innocenti nubi bianche, filamentose, quasi identiche alle scie degli aerei ormai prossime alla
dissoluzione; da giorni il tempo volgeva al bello e così, secondo le
previsioni, sarebbe rimasto fino a metà agosto.
Il silenzio dominava anche i
viali del parco dove era andato a rintanarsi Radu. Molti sestesi erano già
partiti per le vacanze, e chi era ancora in città, era al lavoro. I giochi dei
bimbi e l'area bocce, di solito presi d'assalto da chi era non aveva impegni
scolastici o professionali, s'erano trasformati in luoghi fantasma, in campi
coperti dal vocio delle anime dei defunti.
Anche Giacinta se ne andò.
«Non ho intenzione di passare qui
tutto il pomeriggio».
Teschio le sorrise.
«Torno a casa per un po'».
Teschio e Benzina approvarono l’insofferenza
della ragazza con un cenno del capo, capendo che non dovesse essere facile
nemmeno per lei. Da sempre la vedevano insieme a Radu, come due pecorelle
smarrite in cerca di un pascolo tranquillo, dove albergare con i propri sogni
giovanili. E da sempre comprendevano la sua difficoltà a farsi strada in un
mondo che dava malauguratamente l’impressione di non avere previsto l’esistenza
dei rom e dei sinti. Percepivano altresì il bene che doveva volere a Radu e,
dunque, il caos che stesse patendo nel gestire con maturità la situazione, non
sapendo spesso che pesci pigliare.
Ormai, a differenza di Radu, non
era più una bambina. Avevano provato a osservarla con piglio malizioso, e si
erano ben accorti del suo conturbante fisico. La conoscevano, praticamente, da
quando era nata; ma adesso era quasi una donna, e quel Dio al quale, nonostante
le avversità dell’esistenza, non smettevano di credere, ritenevano che avesse
compiuto una meravigliosa opera d'arte.
«Va bene, a più tardi», disse
Teschio.
«Torna, però, per le sette, che
poi si parte», sottolineò Benzina.
Giacinta annuì con un sorriso
triste, prima di imboccare la strada di casa.
«E noi che facciamo?», chiese
Benzina, con aria stanca e rassegnata.
Teschio crucciò la fronte.
«Ci beviamo qualcosa da Rafael?».
«E Radu?».
«Se avesse bisogno di noi, saprà
dove trovarci».
14.
All’ora dell’appuntamento, Radu conquistò
il camper per primo, dopo aver trascorso uno dei pomeriggi più solitari e
bucolici della sua vita; all’inizio, fra i muri di clorofilla della capanna
dello zio Tom; poi muovendosi su e giù come un ebete sull'altalena del parco. Gli
aveva fatto bene lasciarsi cullare dalla forza del vento: l’aria, benché calda,
gli aveva accarezzato il viso conferendogli una piacevole sensazione di
rinascita, volando lontano col pensiero dai grigiori di Sesto San Giovanni e
trovando le risorse per soffocare una pena sconfinata. Trovò che avessero fatto
bene gli amici a lasciarlo tranquillo per un po’, dovendo individuare un modo per
riflettere, o forse, per imparare a riflettere per la prima volta in vita sua.
«Ciao Radu».
Benzina comparve davanti ai suoi
occhi come un ectoplasma, pezzato di sudore, dando l’impressione di essersi
appena fatto una doccia vestito. Teschio si era, invece, riempito di
macchioline rosse sul collo, fenomeno che, per un misterioso meccanismo
fisiologico, si verificava ogni volta che si trovava ad affrontare un compito
gravoso.
S'erano scolati un paio di birre
a testa da Rafael, con lo scopo di vincere l'arsura, ma anche rimbambirsi quel
tanto che basta per annullare qualunque sofferenza. Un paio di bottiglie di
orzo fermentato per uno, erano state più che sufficienti per raggiungere
l’estasi e superare il terribile caldo che, in quel frangente, avrebbe steso
anche un elefante.
L'ultima ad arrivare fu Giacinta
che aveva trascorso il pomeriggio a raccogliere fiorellini in un campetto
vicino al Vulcano, intenzionata a omaggiare il feretro di Slagena.
«Siamo al completo», mugugnò
Teschio.
«Molto bene», disse Radu.
«Possiamo metterci in marcia».
Benzina dette un’occhiata al
camper.
«Davanti ci sono tre posti. Come
ci organizziamo?».
«Se ci stringiamo un po', ci
stiamo tutti e quattro», disse Giacinta.
Benzina la guardò male.
«Non è una buona idea. Potremmo
dare nell’occhio».
«È vero», disse Teschio.
«Ci manca solo che ci fermino la
polizia o i vigili...».
«Dobbiamo cercare di muoverci
senza farci notare. Se scoprono il cadavere è finita».
«Starò io con mamma», disse Radu,
offrendo l’unica valida soluzione al dilemma.
La compagnia zittì, commossa
dall’amorevolezza del piccolo nei riguardi del genitore scomparso; tutti
pensarono che fosse orribile l’idea di dover viaggiare con un cadavere a pochi
millimetri, in un locale appestato di
microbi e tossine, ma nessuno ebbe il coraggio di ribattere. Teschio e Benzina si
limitarono a guardarlo rassegnati.
«Vengo anch'io con te», disse
Giacinta, smontando qualunque tentativo di far cambiare idea a Radu, anche se
sentiva già lo stomaco reclamare pietà.
I due adulti non seppero che
dire, ma furono in qualche modo persuasi che in tandem si sarebbero perlomeno
potuti fare compagnia, mettendosi uno a disposizione dell'altro in caso di
bisogno. Nella peggiore delle ipotesi, surclassati dalla necessità di una
consistente boccata d’aria, avrebbero potuto bussare al posto di guida; fra il
vano del guidatore e la parte abitativa c'era una sottile parete in legno, che
sarebbe potuta essere vinta con un solo fischio o un colpetto. Non c'erano del
resto molte alternative, se non affidarsi ad altri mezzi. Ma quali? Né Teschio,
né Benzina possedevano un’automobile e l’unica bicicletta disponibile era
quella Radu, così conciata, però, da rendere impensabile qualunque spostamento
superiore ai due o tre chilometri.
«Forza», disse la ragazza, con un
sorriso smagliante.
I due giovani divaricarono la
serratura e guadagnarono il vano abitativo come se si stessero tuffando in una
piscina. Lo fecero per auto convincersi che sarebbero potuti resistere a ogni cataclisma.
Il piccolo fissò la madre,
razionalizzando per la prima volta la sua scomparsa e che quella era l’ultima
volta che vedeva le sue braccia, le sue gambe, il suo collo, i suoi occhi, la
sua bocca... Notò che il sangue era diventato ancora più scuro e che in alcuni
punti era raggrumato divenendo quasi nero. Si accomodò a peso morto sul solito
divano letto, sotto lo sguardo vigile di Sara la Nera, seguito da Giacinta con i
villi in agonia. E per la prima volta si sciolse in un pianto liberatorio.
15.
Prima di deviare per Brugherio e
raggiungere la fabbrica indicata da Benzina, i due al posto di guida si
consultarono sulla reale fattibilità dell'operazione. L'impresa, per quanto
avventata, pareva l'unica veramente possibile, considerato che non sarebbe
mancato molto al momento in cui il corpo avrebbe iniziato a sgretolarsi.
Il cielo era ancora relativamente
chiaro e sereno, benché le ombre si fossero allungate, preannunciando
l'incombere della notte. Via Valtellina era la solita e incasinatissima via.
L’estate brillava nel pieno della sua grassa beatitudine, ma non per questo
c’erano in giro meno interdetti al volante, pronti a interrompere il normale
flusso del traffico.
«Che Dio ce la mandi buona», mormorò
Teschio.
«Andrà tutto bene», ribatté
Benzina.
«Uno di noi due fa il palo, l'altro
scava».
«Perfetto».
«Io faccio il palo».
Benzina squadrò con disappunto il
compagno di avventure.
«Porca puttana!», fece
all'improvviso.
«Che c'è?».
«Con cosa diamine scaviamo la
buca?».
Teschio sogghignò.
«Non ti preoccupare. Nel cercare
indizi dell’assassino, ho visto in fondo al camper un grosso baule contenente
vari attrezzi, fra cui una pala abbastanza grande».
Furono redarguiti dal frastuono
di un clacson: un camioncino s'era intrufolato fra il camper e una Opel bianca
targata Venezia, che non sapeva che destinazione prendere; la governava un
signore in là con gli anni, con la testa totalmente imbiancata, varie macchie
scure sulla pelle e un porro di enormi dimensioni sulla guancia destra; la moglie,
una plafoniera bucherellata destinata a un mercatino di oggetti vintage, era in
preda a un attacco isterico: agitava le braccia e le gambe come se fosse stata
colpita da una scarica elettrica.
Teschio bestemmiò.
Benzina sporse la testa dal
finestrino urlando all'autista di darsi una mossa.
«Stai buono! Cazzo!», reclamò
Teschio.
Benzina ci rimase male.
«Se ti metti a gridare così, attiri
l'attenzione e rischi di mandare tutto a puttane».
«A certa gente non dovrebbero mai
dare la patente».
«Alla sua età magari sarai peggio
di lui».
Teschio frenò di colpo,
catapultando, Radu fra le braccia di Giacinta. La ragazza ne fu felice. Avrebbe
voluto cogliere l’occasione per regalargli un bacio, ma evitò, vinta da un
certo imbarazzo. In verità sapeva che non l'avrebbe gradito.
Dopo pochi secondi dall’improvviso
stop, Radu era già al suo posto, con la schiena dritta e i soliti occhi
impallati dal delirio di una giornata inconcepibile.
Il tanfo nella roulotte, intanto,
s’era fatto insopportabile e così la temperatura. Fortunatamente, però, dal
finestrino posizionato sopra al provvidenziale giaciglio, filtravano ondate di
aria fresca che riuscivano, in qualche modo, a ridare ossigeno ai due giovani; accadeva
a ogni curva, tagliando il cielo diagonalmente.
Nessuno dei due giovani aveva
ancora pronunciato parola dalla partenza avvenuta una decina di minuti prima; ma
entrambi avevano udito le imprecazioni dei compari che li guidavano.
Rifletterono sul fatto che, in un'altra occasione, sarebbe stato motivo di
divertimento; ma non ora, con il cadavere della mamma a pochi centimetri di
distanza dai loro affannati respiri; e con l'impellente necessità di farlo
sparire al più presto.
«Come ti senti?», domandò
Giacinta all'amico.
Radu temporeggiò, essendo ancora
troppo confuso per tradurre con efficacia le emozioni in parole sensate. Le
rispose solo quando il camper riprese la sua marcia regolare.
«Mi sento fuori dal mondo. Fuori
dalla mia vita».
Giacinta sbigottì innanzi a tanta
profondità.
«Non riesco a esprimere quello
che provo, se non un sentimento vicino al... niente».
Giacinta accavallò le gambe e inspirò
profondamente, incurante del veleno diffuso per l’aere. Avrebbe fatto di tutto
per lui, se solo avesse trovato un modo per farsi strada nel suo cuore, in
quell'istante chiuso come un forziere.
«Posso sforzarmi di immaginare
quello che provi, ma forse non sono in grado di capire... vorrei dirti, però,
che non dovrai mai sentirti solo: se lo vorrai, da oggi, sarò io la tua
famiglia».
16.
Fino ai cieli di San Rocco fu
arduo farsi strada nel traffico, ma dopo aver abbandonato la contrada per
Monza, tutto divenne più semplice e scorrevole. Teschio voltò a destra per due
volte di fila, fino a trovarsi in una zona isolata, campestre, decisamente
periferica, a metà strada fra il comune di Brugherio e quello di Cologno
Monzese, la classica terra di frontiera, la terra di nessuno.
Assunse le redini del viaggio
Benzina, che indicò con precisione il cammino da seguire per raggiungere la
fabbrica abbandonata.
«Rallenta, ci siamo quasi», disse
l’uomo in seconda.
Teschio obbedì, concentratissimo.
«In fondo, là, c'è una stradina
che consente di arrivare alla fabbrica da una via secondaria, ancora meno
battuta di quella che avevo in mente...».
Benzina puntò l’indice su una
leggera rientranza lungo il tragitto principale, che deviava verso destra,
inoltrandosi in una zona non visibile dallo stradario, quasi totalmente ricoperta
da rovi e altri arbusti; il punto ideale per portare a compimento l'azione che
s'erano prefissi.
«Ci siamo», disse Teschio,
eccitato come un bambino durante la prima comunione.
«Se ti infili lì... puoi stare
certo che potremo agire completamente indisturbati».
Benzina indicò una specie di
riparo naturale, sotto le fronde di un grosso gelso della carta.
Teschio seguì il consiglio
dell'amico e sistemò il camper proprio in quel punto, più simile a una foresta pluviale
che non a un angolo della periferia milanese.
A un paio di metri c'era un cancello
arrugginito sigillato da un grosso lucchetto; di fianco, ben in evidenza, uno
squarcio nella rete metallica, tanto grande da poter far tranquillamente
passare una scrofa in stato interessante.
«C'è già stato qualcuno», mugugnò
Teschio.
«Solo qualche drogato», ribatté
Benzina.
«Sicuro?».
«Non c'è pericolo, fidati».
«Quel buco mi lascia perplesso».
«Macchè. Qui la mamma di Radu
potrà dormire sonni tranquilli».
Teschio grondava di sudore e
terrore; ma si risollevò osservando l’amico che, dal nulla, parve essere in
grado di vincere ogni difficoltà.
Scesero ad aprire ai due ragazzi,
trovandoli esausti e privi di qualunque guizzo vitale: giacevano vicini, ma a
malapena si sfioravano, come se avessero appena assolto la tratta Milano-Galati,
pigiati come sardine in un furgoncino dell’anteguerra.
Radu aveva ancora lo sguardo
perso nel vuoto, e cercava un modo per continuare a placare ogni sussulto
emozionale. Giacinta andava avanti come una geisha a mostrargli tutta la sua
compassione, scrutandolo in silenzio, sottecchi e rispettando ogni sua bizza.
«È arrivato il momento di
rimboccarci le maniche», disse Benzina. «Siete pronti?».
I due giovani abbandonarono il
camper con un balzo felino, del tutto disinteressati alla mano tesa di Benzina,
cordialmente intenzionato a rendergli meno ardua la discesa.
«Che facciamo?», chiese Giacinta.
Teschio e Benzina dondolarono la
testa, sottintendendo che non ci fosse nulla di programmato, e che ogni cosa
fosse, in pratica, ancora da decidere; ma la mente di Teschio si liberò in
fretta, pronta a stilare un formidabile piano d’azione. Partì da Benzina.
«Io e te saliamo a prendere la
mamma di Radu...».
«Bene», disse l’amico.
«Radu, tu ti piazzi laggiù, e
controlli che nessuno ci osservi».
«Ok», disse il piccolo.
«E io?», domandò Giacinta,
impaziente di conoscere il suo ruolo.
«Tu ci aiuti a far passare il
corpo dal buco nella rete. Se il varco dovesse essere troppo piccolo, farai
forza con la pala».
Sopraffatti dalla risolutezza di
Teschio, nessuno degli interlocutori replicò.
«Tutto chiaro?», riprese il
capobanda.
«Agli ordini», disse Giacinta,
con un sorriso gioioso.
«Io non ho capito dove devo
andare...», fece Radu, con aria sconsolata.
Benzina puntò l'indice nel punto
in cui spuntava un grosso pezzo di lamiera, completamente arrugginito, forse i
resti del cofano di una vecchia automobile.
«Raggiungi la curva, stai basso, e
ci corri incontro se vedi qualcuno che si aggira nei paraggi».
Radu non se lo fece ripetere due
volte e corse a destinazione, fiero di assolvere il suo compito di vedetta.
17.
Fecero passare il corpo della
mamma di Radu dal buco nella rete, giocando con un varco sufficientemente ampio
per consentire a Teschio e Benzina di procedere agilmente con l'operazione,
senza chiedere l’intervento di Giacinta con la pala.
Radu rimase nella sua postazione
per una decina di minuti, dopodichè, sollecitato dalla ragazza, accorse anch’egli
nel punto in cui il gruppo intendeva avviare la tumulazione.
Era il posto più disgraziato e
fatiscente dell'area industriale, posto alle spalle di un caseggiato che un
tempo dovette presumibilmente servire come magazzino o rimessa. Al di là della
struttura sorgeva un boschetto di carpini con molte foglie rinsecchite; il terreno
era coperto da un ampio strato di humus e vegetali in putrefazione, suggerendo che,
se anche si fosse intervenuto con uno scavo, non si sarebbe accorto di niente
nessuno.
«Parto io», disse Teschio,
impugnando la pala come un cacciatore di taglie del vecchio West. «Affonda più
che puoi... non corriamo il rischio che qualche animale possa annusare qualcosa
e... iniziare a scavare».
«Mettiamo qualcuno all'ingresso
della fabbrica, per essere sicuri che non entri anima viva», blaterò Benzina.
«Ci pensiamo noi», disse
Giacinta, sottintendendo l’intervento suo e di Radu.
Teschio iniziò a scavare,
servendosi dell'attrezzo in dote alla roulotte di Radu, e introdotto nella
vecchia fabbrica da Giacinta. La pala affondava nel terreno con grande
facilità, come un coltello nel burro.
Non fu difficile rimuovere in
pochi minuti grandi quantità di terra, e approntare un giaciglio degno di una
principessa.
I due ragazzi, all'ingresso della
fabbrica, tenevano sotto controllo eventuali movimenti sospetti; ma se si
esclude il rumore di un riccio in amore che cercava di farsi strada fra le fronde
di un arbusto di vitalba e il fracasso di un aeroplano appena decollato da
Linate, tutto filò liscio come l'olio.
Teschio passò la pala a Benzina,
per spingersi oltre il metro di profondità, e raggiunse i due giovani per comunicargli
che il lavoro volgeva al termine e che era giunta l’ora del congedo definitivo.
«Tutto ok?», domandò Teschio.
«A posto», disse Giacinta, «non
abbiamo visto e sentito nessuno».
«Bene», disse il grande capo,
guardandosi intorno con apprensione, «torniamo da Benzina... la buca è pronta».
I due uomini sollevarono il corpo
della mamma di Radu e con delicatezza lo fecero scivolare all'interno della
buca. Il primo si calò nell'improvvisato sepolcro, per adagiare comodamente il
cadavere nella fossa. Si vide che la profondità e la larghezza erano state
calcolate con grande perizia, ma non altrettanto la lunghezza; il corpo aveva i
piedi e le gambe leggermente sollevati rispetto al busto.
I quattro si ritrovarono uno di
fianco all'altro, sudati e provati, pronti a regalare l'estremo saluto alla
mamma di Radu.
«Credo che qualcuno debba dire
qualcosa», fece Teschio, tentennando. «Benzina, te ne occupi tu?».
Benzina lo guardò spiritato. Non
sapeva neanche il Padre Nostro e l'Ave Maria, figuriamoci una preghiera che
potesse accompagnare degnamente un funerale; ma l'amico era messo peggio di lui
e dovette, pertanto, trovare al volo una soluzione attingendo a una dote che
non gli mancava, la fantasia.
«Prendiamoci per mano», disse,
fingendosi il miglior reverendo rom in circolazione, «e preghiamo per nostra
sorella...».
Cercò di pronunciare il nome
della mamma di Radu, ma non lo ricordava più. Si fermò, quindi, a “sorella”,
correggendo il tiro e coinvolgendo la patrona zigana per antonomasia.
«Sara la Nera... siamo qui
riuniti per dare l'ultimo e triste saluto alla mamma di Radu. Abbi pietà di noi
e della povera anima che consegniamo nelle tue mani. Consentile di viaggiare
serena nelle immense radure del cielo, permettendole di incontrare le persone
che le hanno voluto bene e... abbi pietà di noi e dei nostri egoismi e... volgi
il tuo sguardo al nostro incedere precario e zoppicante e... Amen ».
Teschio guardò l'amico con grande
stima, convinto che lui non avrebbe saputo, potuto fare di meglio. Giacinta
recuperò dalla tasca il mazzetto di fiori raccolto durante il tardo pomeriggio
e lo fece volare nel bizzarro mausoleo.
Radu non aprì bocca, ma si
raccolse fra sé e sé, recitando la preghiera che ogni tanto proferiva con la
mamma prima di dormire: “Noi ti invochiamo Signor, che dai cieli odi dei figli
il supplice pregar. Accendi nella notte, ai tuoi fedeli, nei tuoi pianeti, il
vigile brillar. Noi ti invochiamo sul margin della strada... E quando l'ora del
risveglio suona, tu dacci lena al lungo camminar. Fino alla morte, liberi e
padroni, dacci la gioia di un perenne errar”.
18.
Silenti e stravolti, ognuno
raccolto nei suoi pensieri scombuiati, i quattro fecero ritorno al camper, patrocinati
da una bella sera d'estate, calda e profumata che pareva un paradosso. La
colonna sonora di sottofondo era un mix musicale fra i canti dei grilli, delle
cicale e degli uccelli dal fraseggio sconosciuto, con uno che, addirittura,
ricordava il baccano di una percussione elettronica. Il cielo, complice la
mancanza della luna, s’era ormai del tutto oscurato, benché brillassero qua e
là sporadiche stelle.
Lasciandosi alle spalle la
fabbrica diroccata, Radu fissò per qualche istante Venere, credendolo un astro,
e supponendo che quel bagliore così acceso fosse la sua mamma che lo salutava
dal regno dei morti. Per un attimo si sentì come a casa, incredibilmente
sollevato: anche se lontana, la mamma era ancora lì a seguire le sue mosse e a
dargli sostegno.
Vinsero il camper uno dopo
l'altro, in fila indiana, con Radu e Giacinta che presero di nuovo possesso del
vano abitativo.
I due adulti riconquistarono,
invece, il posto di guida: Teschio strizzò l’occhio all’amico, soddisfatto
dell’opera appena conclusa.
«Ci avevi visto giusto».
«Te l’avevo detto...».
«Il parco Increa sarebbe stata
una sciagura...».
Benzina sorrise.
«Ci avrebbero già presi».
Per circa metà del viaggio di
rientro nessuno se la sentì di chiacchierare; ma al semaforo di San Rocco, il piccolo
della comitiva sollevò un problema che a Giacinta parve del tutto
comprensibile:
«Dobbiamo lavare il pavimento».
«È il minimo...».
«È uno schifo».
«Ti aiuto io, non ti
preoccupare».
Radu guardò l’amica con dolcezza.
«Grazie».
«C'è anche un odore immondo...».
Radu si grattò la testa
costernato.
«Lasciamo aperte le finestre e...
sfreghiamo ben bene il pavimento».
«Se ti va possiamo iniziare anche
adesso...».
«Con tutto quello che abbiamo da
fare...».
Radu e Giacinta recuperarono due
stracci da un cassetto del cucinino; li inumidirono e gli versarono sopra una
specie di detersivo senza etichetta.
«Non vorrei fosse quello dei
piatti...», mugugnò Radu, con un sorriso appena abbozzato.
«Se anche fosse, andrà benissimo,
non c'è altro...», tagliò corto Giacinta.
I due iniziarono a fregare il
pavimento e le pareti macchiate di sangue con foga belluina. Riuscirono a
vincere con facilità il liquido ematico, benché un grumo consolidatesi alla
base del letto risultò più ostico degli altri. Giacinta dovette passare più
volte lo straccio per vincerlo definitivamente, spingendo e grattando come una
lottatrice di sumo.
Fecero diverse volte avanti e
indietro dal lavandino, per sciacquare le pezze di tessuto inzuppate di sangue,
ma ormai prossimi al cavalcavia, il lavoro poté dirsi pressoché ultimato.
«Ce l’abbiamo fatta», cantò
Giacinta. «Siamo grandi».
La roulotte di Radu era tornata come
nuova, addirittura più pulita e cangiante di prima. Anche l'odore di marcio era
sbiadito, lasciando il posto a un profumo di violette. I due ragazzi si
sedettero soddisfatti sul bordo del letto, nell'istante in cui Teschio
parcheggiò, con una brusca frenata, in via Monte Nero.
Sentirono i due adulti blaterare
qualcosa riguardo alla possibilità che la polizia potesse venire a sapere
qualcosa. Percepirono una locuzione che non avevano mai udito: “occultamento di
cadavere”. Teschio bestemmiò, imitato immediatamente dall'amico.
Radu e Giacinta risero
compiaciuti, mentre lo stomaco del piccolo si propose con un grugnito particolarmente
insidioso. Giacinta lo guardò perplesso:
«Mi sa che è arrivato il momento
di mettere qualcosa sotto i denti».
«Mi sa anche a me».
«Abbiamo qualcosa da mangiare?».
«Dovrebbe esserci qualcosa nel
frigo».
Teschio e Benzina spalancarono
accorati la porta della roulotte, trovandosi di fronte a un ambiente tornato
incredibilmente lindo e profumato. Benzina ne fu entusiasta.
«Wow, che succede qui?».
«Ti piace?», domandò Giacinta.
«Grandi ragazzi, questo sì che è
un bel lavoro!».
Teschio li osservò compiaciuto.
«Sono fiero di voi».
«E noi di te», disse Giacinta.
«Di voi», corresse il tiro Radu, mosso
da un sentimento di sincero affetto, verso quella che, per la prima volta, gli
parve a tutti gli effetti la sua nuova famiglia.
Giacinta ruppe la tensione dovuta
alla dolce e inaspettata uscita di Radu, invitando i due uomini a unirsi alla
loro parca mensa.
«C'è poco, ma possiamo dividerlo
senza problemi...».
Allestirono un tavolino sbilenco
sotto il tendone di cemento armato del cavalcavia, sul quale si misero ad
affettare un salamino e a masticare alcune confezioni ci cracker scadute da una
settimana.
19.
Cercando un buon pretesto per congedarsi
dal dolore e dalla sofferenza delle ultime ore, Teschio tentò la prima battuta.
«Una cena da ristorante. Con
tutta questa roba starò a posto per una settimana».
«C’è da scommetterci», controbatté
Benzina. «A me sta letteralmente scoppiando la pancia».
Radu e Giacinta si regalarono un
sorriso muto, ma sufficiente a ridare speranza al quartetto.
«Radu, lei desidera qualcos’altro?
Un salmone affumicato, una sogliola alla griglia...».
Radu rise sguaiatamente,
mostrando senza remore parte dell’impasto cerealicolo, derivante dalla
masticazione affannosa di due cracker. Sembrava che avesse fra i denti l’aggeggio
utilizzato dai boxer per ripararsi dai colpi dell’avversario.
«Magari gradirei anche un bel
pollo arrosto...».
Giacinta gli diede man forte,
osservando stupefatta la gioia ritrovata del piccolo della compagnia.
«Anch’io avrei proprio voglia di
un bel pollo arrosto. Da tempo non ne mangio e il mio stomaco lo gradirebbe moltissimo.
Qualcun altro vorrebbe un bel pollo arrosto?».
«Io vorrei anche una Coca Cola
con le bollicine!», disse Radu.
«Le bollicine! Le bollicine! Un
po’ di bollicine anche per me!», reclamò Benzina.
Sogghignarono in coro, mentre un
camion gli sfilava davanti, strombazzando il clacson, divertito dalla
folcloristica tavolata; lo pilotava un tipo massiccio, con una lunga coda dei
capelli e gli avambracci completamente tatuati, uno di quei tipi che visti di
sfuggita in un autogrill finiscono per essere scambiati per malavitosi di prima
categoria.
«Forse vuole unirsi alla nostra
mensa», dichiarò Teschio, suscitando nuova ilarità.
«Ma vaffancuulo!», disse Giacinta
ridendo.
«Non si dicono le parolacce», comandò
Benzina, ironico.
«Io non ho detto parolacce».
«Ah no?».
Radu rideva come un matto, consapevole
dello scherzo tramato dall’amica del cuore.
«Lei ha detto vaffancuulo, non
vaffanculo», blaterò ansimando.
«E che differenza fa?», chiese
Benzina.
«Vaffanculo con due u non è una parolaccia...».
«Ma un buon augurio», disse
Teschio, facendo piegare tutti dalle risate.
Faceva ancora caldo: la
temperatura dell’aria doveva essere piuttosto alta, presumibilmente vicina ai
trenta gradi, benché la sera fosse sopraggiunta da un pezzo e con essa un po’
di umidità. Le nubi s’erano completamente dileguate; rimaneva solo la scia di
un aeroplano, che percorreva quasi tutto l’aere coperto dal loro potenziale
visivo.
Un paio di farfalle s’erano messe
a saltellare intorno al tavolo, con le ali macchiate di azzurro, catturando
l’attenzione di Radu che, all’improvviso, si era alzato per combinare un numero
dei suoi. Prese una piccola rincorsa e compì due salti mortali. Seguì un
vibrante applauso.
«Il più grande saltimbanco!»,
esultò Benzina.
Radu fece un inchino. Era il suo
modo per dire grazie a coloro che l’avevano affiancato con tanto affetto e
calore per risolvere un dramma che da solo non avrebbe mai potuto affrontare;
ma Teschio e Benzina, rabbuiarono di nuovo, valutando che, in realtà, si era
solo all’inizio, e che la vicenda era ancora tutta da giocarsi.
«Ok, ragazzi, ci siamo divertiti
abbastanza», disse il leader della banda, smorzando il buonumore dei presenti. «Adesso
è arrivato davvero il momento di concentrarci e tirare i remi in barca. In
fondo, non abbiamo fatto altro che dare una degna sepoltura alla mamma di
Radu... il vero lavoro parte ora».
Benzina lo seguì assorto; così
Radu e Giacinta, benché sui loro visi fosse ancora ricamata un’espressione
gaudente.
«Abbiamo delle valide tracce da
cui partire», disse Benzina. «Con il ciondolo e la catenina siamo in una botte
di ferro...».
«Forza ragazzi. Animo e coraggio!».
Radu li osservò con aria perplessa,
tornando a riflettere sul fatto che, in effetti, mancava ancora tutta la parte
più importante della missione: quella legata alla scoperta del colpevole
dell’omicidio della mamma. Teschio notò la sua apprensione e cingendogli le
spalle con l’avambraccio, cercò di rassicurarlo.
«Ragazzo mio», esordì, «fosse
anche l’ultima cosa che facciamo a questo mondo... ti posso assicurare che
l’assassino di Slagena ha i giorni contati».
20.
Al termine della cena frugale, rimasero
a parlare come vecchi amici sulla punta del marciapiede, com’era già successo
durante il pomeriggio, affrontando temi diversi e apparentemente banali, tipo
l’ormai prossima inaugurazione delle olimpiadi di Londra e l’ennesima
scaramuccia avvenuta qualche giorno prima al bar di Rafael, fra un sudamericano
ubriaco e un cinese che lo accusava di avergli rubato un cartone pieno di
telefonini taroccati.
«Il muso giallo le ha prese di
brutto. Non so se tornerà a farsi vedere ancora da Rafael», disse Benzina.
«Tantomeno dal sudamericano che
gli ha fottuto i telefonini...», ribatté Teschio, esibendosi con un ghigno
perverso.
«Credi sia stato davvero lui?».
«L’ho già visto in giro quel
tipo...».
«Con ciò?».
«È un gran figlio di puttana. Fa
parte di uno dei peggiori clan criminali di Milano...».
Radu e Giacinta drizzarono le
orecchie, ritenendo particolarmente interessante l’argomento; amavano i
discorsi incentrati sulle realtà criminali locali, con cui non erano mai venuti
a diretto contatto, ma nelle quali in qualche modo finivano per riflettersi, accarezzando
retroscena di natura sociale. Il punto è che, da quando erano nati, gli avevano
raccontato che esisteva una sola classe di malavitosi e buoni a nulla: gli
zingari, ossia, loro stessi. E, dunque, ogni volta che sentivano parlare di
nuovi mostri da tenere a bada, si sentivano in qualche modo riabilitati e
speranzosi di poter ambire a un ruolo un po’ più rispettabile.
«Bazzica in una banda che ogni
tre per due massacra qualcuno per puro divertimento», andò avanti a raccontare,
Benzina.
«Bella gente», rise Giacinta.
«L’altro giorno, tanto per dire,
hanno pestato a sangue una mammetta colombiana che camminava tranquilla per la
sua strada. Il responsabile dell’agguato diceva di avere obbedito al proprio
karma...».
«Che?!», aveva domandato Radu.
«Lascia stare. Sono tutte
stronzate».
Andarono avanti a disquisire del
più e del meno per allentare la tensione che, anche dopo la sepoltura di
Slagena e la felice parentesi del pasto, evidentemente, continuava a serpeggiare
nei loro animi; era stato proprio alla fine della serena atmosfera goduta
durante la cena, che era parsa mostrarsi in tutta la sua drammatica lucidità. I
due adulti se ne avvinsero presto, valutando che fosse ancora decisamente
prematuro cantare vittoria.
Benzina e Teschio tornarono a
pensare ai Figli di Dionisio e ai rischi che avrebbero potuto correre mettendogli
il bastone fra le ruote: c’era gente che ci aveva rimesso le penne e loro alle
rispettive pelli – benché fossero consapevoli che non valessero granché – ci
tenevano. Gli vennero in mente episodi che, nel corso dell’analisi iniziale,
non avevano ponderato... e non fu bello riportarli in vita.
I due adulti se ne andarono
quando le ombre della notte erano calate da un bel po’ e le automobili avevano
smesso di vorticare per le strade sestesi come demoni impazziti, in attesa di
poter presto sfrecciare lungo qualche agognato lungomare.
«Buonanotte ragazzi, a domani».
Rimasti soli, Radu e Giacinta, si
accomodarono sulla prima panchina del parco Gramsci, quella subito dopo
l’ingresso di via Monte Santo, chiusi in un mutismo assoluto.
Giacinta desiderò dirgli mille
cose, ma non osò, comprendendo che la spensieratezza di qualche istante prima
era completamente scemata, sopraffatta da un’agonia pungente e dal fatto che ogni
suo intervento, sarebbe stato pusillanime e fuori luogo. Si venne a creare la
stessa atmosfera del primo pomeriggio, quando Teschio e Benzina le avevano
suggerito di lasciare in pace il piccolo, consentendogli di metabolizzare
l’accaduto, rimanendo un po’ solo con se stesso.
Riprese la parola Radu, curioso
di sapere come avrebbe trascorso la sua prima notte senza la mamma.
«Io vado a letto».
«Se ti va resto con te».
Il piccolo non lo dette a vedere,
ma ne fu molto felice.
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