giovedì 12 luglio 2012

Rapsodia gitana # 2


11.

Benzina guardò stranito Teschio, per la prima volta convinto e fiducioso di poter presto risolvere il caso; ma lui non era così ottimista. Gli pesava come un macigno sullo stomaco lo standard  forsennato di persona-tipo che componeva la setta dei Figli di Dionisio; individui privi di ogni creanza, senza scrupoli, vigliacchi, despoti, infami, crudeli fino all’ossesso, disposti a tutto pur di soddisfare i propri interessi, e portare a compimento i propri fini malati di onnipotenza e boria. Gliene aveva parlato più volte Rafael, soffermandosi su aspetti alquanto macabri e decisamente poco belli da narrare; erano soliti ritrovarsi una volta alla settimana in qualche antro sperduto della città, dove potevano agire indisturbati.
Dai racconti dell’amico, i capi avevano un potere assoluto. Imitavano le gesta di un santone americano, di base a Cincinnati, un ex hippie, già condannato per prostituzione, pornografia e riciclaggio di denaro sporco... e chi più ne ha, più ne metta. Arrivavano a stregare gli adepti, fino a far loro compiere ogni cosa, compresa qualunque azione di stampo criminale, dagli stupri agli omicidi; per non soffermarsi su moventi ancor più terrificanti.
Sapevano bene dove andare a battere cassa; mica si rivolgevano al primo che passava per strada: studiavano bene le loro vittime. Sincerandosi che potessero finire nella tela del ragno senza essere più in grado di divincolarsi. Puntavano, di solito, a figure emarginate, sole, talvolta con problemi mentali, bisognose di aiuto e speranza, riducendo la loro dignità in briciole e impossessandosi alfine dei loro corpi e delle loro anime. Il marcio della società era l’ambiente ideale nel quale amavano di più sguazzare, esattamente come topi di fogna.  
«Non so se sia la strada giusta da percorrere», blaterò Benzina.
Teschio lo fissò malamente, incapace di comprendere cosa intendesse dire l’amico.
«Cosa ti frena?».
Benzina scosse la testa.
«Potremmo finire in un mare di guai. I Figli di Dionisio sono delle bestie».
«Addirittura», fece Giacinta.
Benzina la guardò con aria mesta, consapevole del fatto che nessuno potesse avere idea di cosa si stesse parlando, visto che nessuno – a parte lui - sapeva chi fossero i membri della setta.  
«Insomma, cosa sappiamo di questa setta?», incalzò Teschio, con tono rabbioso.
«Ragazzi, io non ne so molto, ve l’ho già detto. Se vogliamo saperne di più dobbiamo rivolgerci a Rafael, lui sì che ne sa di cose... Io l’ho solo sentito qualche volta parlare di... faccende poco simpatiche... ma non potrei essere in grado di offrirvi una panoramica dettagliata delle loro attività, di ciò che hanno fatto ieri e che faranno domani. Non so chi siano, ma...».
Teschio fece cenno di capire, ma l'euforia di pochi istanti prima lo abbandonò.
«Dacci almeno un’idea...».
«Rafael ha provato a parlarmi di riti misteriosi, in cui non si sa bene che fine facciano alcuni seguaci dell’ordine, da dove arrivino e dove finiscano... Mi diceva di pratiche che in America vengono assolte abitualmente e che ogni anno portano all'uccisione di migliaia e migliaia di persone. Forse addirittura cinquantamila. Spesso sono coinvolti anche i bambini».
Teschio fulminò con lo sguardo il suo interlocutore, facendogli intendere che non fosse il caso di entrare in certi particolari in presenza di Radu e Giacinta.
«Che cazzo stai dicendo?».
Però la cosa aveva sconvolto anche lui. Non immaginava che a poche centinaia di metri da dove viveva, potessero sussistere retroscena tanto cruenti. Perplesso riprese la parola, cercando di deviare l'argomento su particolari meno sconvolgenti.
«In tal caso, come farebbero simili organizzazioni a passarla sempre liscia? A non essere scoperte e indagate?», domandò Teschio.
«Perché... bella domanda... secondo Serrano, perché sono coinvolti poteri forti che hanno i mezzi e le capacità per mettere tutto a tacere. Entrerebbero in scena anche medici, avvocati, imprenditori, gente con un sacco di grana che può fare quello che vuole e che, in pratica, gestisce le sorti di mezzo mondo, divertendosi ogni tanto alle spalle di qualche povero cristo. Rafael sostiene che perfino l'ex presidente degli Stati Uniti ha fatto parte, da giovane, di una setta del genere».
«Dio mio».  
«E con lui un ex concorrente alla Casa Bianca, di cui non ricordo più il nome... Sono cose su cui, peraltro, senza menzionare la setta locale, Rafael è tornato pochi giorni fa. Stando alle sue descrizioni, infatti, esisterebbero, a livello mondiale, dei poteri occulti che giostrerebbero a nostra insaputa la politica, l'economia e attività illegali come quelle, appunto, legate al mondo delle sette pseudo-religiose».
«Andiamo bene», mormorò, affranto, Teschio.
Radu e Giacinta, che avevano seguito allibiti la conversazione fra i due grandi, capendo la metà di ciò che stavano dicendo, si sedettero sul ciglio della strada, lasciandosi accarezzare da un alito di vento profumato d'estate. La ragazza tentò di afferrare la mano di Radu, ma il piccolo preferì divincolarsi e tornare al suo isolamento cronico.
Teschio e Benzina li affiancarono meditabondi.
Per qualche minuto nessuno dei quattro ebbe altro da aggiungere.

12.

Passò anche mezzogiorno, ma la fame, per tutti, andò a farsi benedire. L'immagine della mamma di Radu stesa sul pavimento del camper, senza vita, aveva spento qualunque appetito e nemmeno il profumo del piatto più prelibato avrebbe potuto ridare vigore all’acquolina dei quattro.
Transitò un treno merci, con un numero considerevole di vagoni, tutti colorati dallo stesso marrone, che fischiò per tutto il tempo del tragitto di fronte alla casa ambulante di Radu, provocando nel quartetto appollaiato sul marciapiede di via Monte Santo, un fastidioso capogiro. Radu, in verità, vi era abituato, ma continuava a odiare lo sferragliare dei treni, soprattutto quando era stravolto da qualche preoccupazione. Sorrise, però, nel ricordare che, al momento di scegliere un posto dove parcheggiare definitivamente il camper, la mamma non aveva saputo selezionare di meglio. Sembrava un bel posto riparato, nascosto, tranquillo, dove le intemperie erano scongiurate dall'enorme cappello di calcestruzzo e cemento armato e dove il traffico non era mai eccessivo, certo non come quello che caratterizzava la battutissima via Gramsci. A pochi passi c’era il verde del parco e l’idea che sarebbero bastati due passi per respirare un po’ di aria buona e dedicarsi alla siesta su un prato che non aveva padroni.
Sopra i loro sogni scorreva il cavalcavia Buonarroti, che consentiva l’incontro fra via Gracchi e via Trento e il superamento della ferrovia. D'estate si moriva dal caldo, d'inverno dal freddo. Ma di volta in volta mamma e figlio riuscivano a trovare lo stratagemma adatto per tirare avanti con mezzi di fortuna raccattati in qualche mercatino, tipo fornelletti da cucina, ventilatori, stufette d’anteguerra...
Il primo a riprendere la parola fu Teschio, sopraffatto da un improvviso colpo di sonno.
«Dobbiamo, comunque, pensare che non possiamo andare in giro con un cadavere come fosse un amico di vecchia data. È necessario studiare un piano per muoverci al momento propizio e raggiungere senza pericolo il sito descritto da Benzina».
«Viene buio tardi... di sicuro dobbiamo attendere le tenebre prima di agire», disse l'amico.
«Anche l’ora di cena potrebbe essere ok».
«E se ci vede qualcuno?».
«Non hai detto che si tratta di un posto isolato?».
Benzina attraversò i capelli con la mano sudicia, palesando un nervosismo che lo contraddistingueva di rado; in un certo senso si sentiva il principale responsabile del destino del corpo della mamma di Radu; non voleva che fosse deposta in un posto malsano e poco idoneo a un sereno transito nell’aldilà.
«Sì, sì, è isolato, ma... ci passa di fianco una strada».
«Cambi le carte in tavola?», disse Giacinta.
«Non è una strada frequentatissima, ma è pur sempre...».
«Tranquillo. A luglio, le strade, sono più battute durante la notte che all’ora di cena. Alle otto, fra Cologno e Brugherio, sono tutti a tavola. Potete scommetterci: i brianzoli sono ligi agli orari».
Giacinta squadrò Radu per capire se fosse intenzionato a esprimere un'opinione, ma realizzò che fosse ancora troppo scosso dall'accaduto per contribuire efficacemente alla disanima. Lo sollecitò, dunque, più per strapparlo dalla sua solitudine morbosa, che non per sapere veramente quale fosse il suo pensiero.
«Radu».
«Che c'è?».
«Cosa ne pensi?».
«Di cosa?».
«Se ci muovessimo all'ora di cena, dove dice Benzina...».
Radu raccolse l’invito verbale di Giacinta con un sorriso appena abbozzato, come se la vedesse per la prima volta, trovandola immensamente bella e... grande; la sua vicinanza e l’amorevolezza con cui gli parlò, gli procurarono un brivido di imbarazzo.
«Per me va bene tutto quello che decidete», disse con un filo di voce.
Teschio e Benzina si consultarono con un rapido ed eloquente movimento degli occhi, trovandosi perfettamente d’accordo sul da farsi: toccava a loro, in fin dei conti, decidere. Benzina assunse l’espressione di un reduce della guerra in trincea, rimasto senza cibo per mesi, che a Teschio ricordò la faccia di un bradipo morente appena visto in un documentario sulla fauna del centro America. Capivano l'angoscia del piccolo e il suo desiderio di essere lasciato in pace il più possibile, ma in questo momento percepivano che fosse anche necessario lavorare in perfetta sintonia, per poter dare una degna sepoltura a Slagena.
C'era in più da considerare che, subito dopo la tumulazione del cadavere, sarebbe stato necessario  affiancare Radu nelle operazioni di pulizia della roulotte, per togliere le tracce di quella poderosa ondata assassina. Il mezzo, di fatto, era completamente inagibile, impiastrato di sangue raggrumato e contaminato da un tanfo pestilenziale che s'era ormai amalgamato alle pareti e ai tessuti e che chissà in quanto tempo si sarebbe dissolto negli atomi dell’aere.  
La proposta di Teschio, alla fine, trovò tutti concordi: si sarebbero mossi intorno alle diciannove e trenta, le sette e mezza, per poi raggiungere la fabbrica indicata da Benzina entro le otto.   

13.

Il primo ad abbandonare il marciapiede fu Radu, desideroso di andare a sdraiarsi ai piedi di qualche albero nel parco Gramsci, per rilassarsi un po’, lontano da tutto e tutti. Da tempo ne aveva individuato uno che raggiungeva spesso anche con mamma, quando non erano in giro a mendicare. Era un abete rosso cresciuto un po' sbilenco, alla base del quale s'era creata un’ampia insenatura fra le fronde, che formava  una specie di capanna naturale, la capanna dello zio Tom che mamma aveva provato a menzionare.
A destinazione fu colto da un dolore acuto, violento, spaventosamente vitale. Per terra notò ancora la carta della brioche che la madre gli aveva scartato il giorno prima; la raccolse e se la mise in tasca, promettendosi di tenerla sempre con sé, come un cimelio raro.
Giacinta si alzò subito dopo, intenzionata a fargli compagnia; ma Benzina la trattenne con forza per un braccio.
«Che cazzo fai Benzina? Tieni giù le mani», gridò la ragazza.
Benzina dondolò la testa.
Teschio lo sostenne:
«Lasciamolo in pace per un po'», disse. «Capisco che tu voglia stargli vicino, ma forse, in questo momento, credimi... è meglio lasciarlo nel suo brodo...».
Benzina allentò la presa.
Giacinta tornò a sedersi al suo fianco con la faccia scura.
«Non facevo nulla di male».
«Lo so, ma dammi retta...».
I tre rimasero per un quarto d'ora a fantasticare su un futuro inesistente, sconfortati da una situazione che non avrebbero mai supposto di vivere. Il paesaggio nei dintorni era il solito squallore di sempre, quello della periferia più cupa, e non gli fu certo d’aiuto; con il suo parossistico grigiore servì solo ad acuire il loro patimento.
Volavano disordinatamente alcuni piccioni e passeri dai mille colori, molti dei quali avevano scelto proprio quella macchia di verde suburbana per trovare sostentamento e condurre la loro esistenza. Sembravano consci del fatto che ci passassero molte persone, esseri umani che dietro a ogni banchetto si lasciavano pigne di avanzi di cibo, che trovano gustosissime e preziosissime per il loro divenire.
Osservarono passivamente la strada, a quell’ora del giorno, così silente e noiosa, lungo la quale si alternavano a cadenze irregolari un’automobile, un camioncino, una motoretta; rarissimi, invece, i pedoni e i ciclisti, scoraggiati forse anche dalle alte temperature.
Il cielo era lindo e sereno, intramezzato da innocenti nubi bianche, filamentose, quasi identiche alle  scie degli aerei ormai prossime alla dissoluzione; da giorni il tempo volgeva al bello e così, secondo le previsioni, sarebbe rimasto fino a metà agosto.
Il silenzio dominava anche i viali del parco dove era andato a rintanarsi Radu. Molti sestesi erano già partiti per le vacanze, e chi era ancora in città, era al lavoro. I giochi dei bimbi e l'area bocce, di solito presi d'assalto da chi era non aveva impegni scolastici o professionali, s'erano trasformati in luoghi fantasma, in campi coperti dal vocio delle anime dei defunti.
Anche Giacinta se ne andò.   
«Non ho intenzione di passare qui tutto il pomeriggio».
Teschio le sorrise.
«Torno a casa per un po'».
Teschio e Benzina approvarono l’insofferenza della ragazza con un cenno del capo, capendo che non dovesse essere facile nemmeno per lei. Da sempre la vedevano insieme a Radu, come due pecorelle smarrite in cerca di un pascolo tranquillo, dove albergare con i propri sogni giovanili. E da sempre comprendevano la sua difficoltà a farsi strada in un mondo che dava malauguratamente l’impressione di non avere previsto l’esistenza dei rom e dei sinti. Percepivano altresì il bene che doveva volere a Radu e, dunque, il caos che stesse patendo nel gestire con maturità la situazione, non sapendo spesso che pesci pigliare.
Ormai, a differenza di Radu, non era più una bambina. Avevano provato a osservarla con piglio malizioso, e si erano ben accorti del suo conturbante fisico. La conoscevano, praticamente, da quando era nata; ma adesso era quasi una donna, e quel Dio al quale, nonostante le avversità dell’esistenza, non smettevano di credere, ritenevano che avesse compiuto una meravigliosa opera d'arte.
«Va bene, a più tardi», disse Teschio.
«Torna, però, per le sette, che poi si parte», sottolineò Benzina.
Giacinta annuì con un sorriso triste, prima di imboccare la strada di casa.
«E noi che facciamo?», chiese Benzina, con aria stanca e rassegnata.
Teschio crucciò la fronte.
«Ci beviamo qualcosa da Rafael?».
«E Radu?».
«Se avesse bisogno di noi, saprà dove trovarci».

14.

All’ora dell’appuntamento, Radu conquistò il camper per primo, dopo aver trascorso uno dei pomeriggi più solitari e bucolici della sua vita; all’inizio, fra i muri di clorofilla della capanna dello zio Tom; poi muovendosi su e giù come un ebete sull'altalena del parco. Gli aveva fatto bene lasciarsi cullare dalla forza del vento: l’aria, benché calda, gli aveva accarezzato il viso conferendogli una piacevole sensazione di rinascita, volando lontano col pensiero dai grigiori di Sesto San Giovanni e trovando le risorse per soffocare una pena sconfinata. Trovò che avessero fatto bene gli amici a lasciarlo tranquillo per un po’, dovendo individuare un modo per riflettere, o forse, per imparare a riflettere per la prima volta in vita sua.
«Ciao Radu».
Benzina comparve davanti ai suoi occhi come un ectoplasma, pezzato di sudore, dando l’impressione di essersi appena fatto una doccia vestito. Teschio si era, invece, riempito di macchioline rosse sul collo, fenomeno che, per un misterioso meccanismo fisiologico, si verificava ogni volta che si trovava ad affrontare un compito gravoso.
S'erano scolati un paio di birre a testa da Rafael, con lo scopo di vincere l'arsura, ma anche rimbambirsi quel tanto che basta per annullare qualunque sofferenza. Un paio di bottiglie di orzo fermentato per uno, erano state più che sufficienti per raggiungere l’estasi e superare il terribile caldo che, in quel frangente, avrebbe steso anche un elefante. 
L'ultima ad arrivare fu Giacinta che aveva trascorso il pomeriggio a raccogliere fiorellini in un campetto vicino al Vulcano, intenzionata a omaggiare il feretro di Slagena.  
«Siamo al completo», mugugnò Teschio.
«Molto bene», disse Radu.
«Possiamo metterci in marcia».
Benzina dette un’occhiata al camper.
«Davanti ci sono tre posti. Come ci organizziamo?».
«Se ci stringiamo un po', ci stiamo tutti e quattro», disse Giacinta.
Benzina la guardò male.
«Non è una buona idea. Potremmo dare nell’occhio».
«È vero», disse Teschio.
«Ci manca solo che ci fermino la polizia o i vigili...».
«Dobbiamo cercare di muoverci senza farci notare. Se scoprono il cadavere è finita».
«Starò io con mamma», disse Radu, offrendo l’unica valida soluzione al dilemma.  
La compagnia zittì, commossa dall’amorevolezza del piccolo nei riguardi del genitore scomparso; tutti pensarono che fosse orribile l’idea di dover viaggiare con un cadavere a pochi millimetri,  in un locale appestato di microbi e tossine, ma nessuno ebbe il coraggio di ribattere. Teschio e Benzina si limitarono a guardarlo rassegnati.
«Vengo anch'io con te», disse Giacinta, smontando qualunque tentativo di far cambiare idea a Radu, anche se sentiva già lo stomaco reclamare pietà.    
I due adulti non seppero che dire, ma furono in qualche modo persuasi che in tandem si sarebbero perlomeno potuti fare compagnia, mettendosi uno a disposizione dell'altro in caso di bisogno. Nella peggiore delle ipotesi, surclassati dalla necessità di una consistente boccata d’aria, avrebbero potuto bussare al posto di guida; fra il vano del guidatore e la parte abitativa c'era una sottile parete in legno, che sarebbe potuta essere vinta con un solo fischio o un colpetto. Non c'erano del resto molte alternative, se non affidarsi ad altri mezzi. Ma quali? Né Teschio, né Benzina possedevano un’automobile e l’unica bicicletta disponibile era quella Radu, così conciata, però, da rendere impensabile qualunque spostamento superiore ai due o tre chilometri.  
«Forza», disse la ragazza, con un sorriso smagliante.
I due giovani divaricarono la serratura e guadagnarono il vano abitativo come se si stessero tuffando in una piscina. Lo fecero per auto convincersi che sarebbero potuti resistere a ogni cataclisma.
Il piccolo fissò la madre, razionalizzando per la prima volta la sua scomparsa e che quella era l’ultima volta che vedeva le sue braccia, le sue gambe, il suo collo, i suoi occhi, la sua bocca... Notò che il sangue era diventato ancora più scuro e che in alcuni punti era raggrumato divenendo quasi nero. Si accomodò a peso morto sul solito divano letto, sotto lo sguardo vigile di Sara la Nera, seguito da Giacinta con i villi in agonia. E per la prima volta si sciolse in un pianto liberatorio.

15.

Prima di deviare per Brugherio e raggiungere la fabbrica indicata da Benzina, i due al posto di guida si consultarono sulla reale fattibilità dell'operazione. L'impresa, per quanto avventata, pareva l'unica veramente possibile, considerato che non sarebbe mancato molto al momento in cui il corpo avrebbe iniziato a sgretolarsi.
Il cielo era ancora relativamente chiaro e sereno, benché le ombre si fossero allungate, preannunciando l'incombere della notte. Via Valtellina era la solita e incasinatissima via. L’estate brillava nel pieno della sua grassa beatitudine, ma non per questo c’erano in giro meno interdetti al volante, pronti a interrompere il normale flusso del traffico.
«Che Dio ce la mandi buona», mormorò Teschio.
«Andrà tutto bene», ribatté Benzina.
«Uno di noi due fa il palo, l'altro scava».
«Perfetto».
«Io faccio il palo».
Benzina squadrò con disappunto il compagno di avventure.
«Porca puttana!», fece all'improvviso.
«Che c'è?».
«Con cosa diamine scaviamo la buca?».
Teschio sogghignò.   
«Non ti preoccupare. Nel cercare indizi dell’assassino, ho visto in fondo al camper un grosso baule contenente vari attrezzi, fra cui una pala abbastanza grande».
Furono redarguiti dal frastuono di un clacson: un camioncino s'era intrufolato fra il camper e una Opel bianca targata Venezia, che non sapeva che destinazione prendere; la governava un signore in là con gli anni, con la testa totalmente imbiancata, varie macchie scure sulla pelle e un porro di enormi dimensioni sulla guancia destra; la moglie, una plafoniera bucherellata destinata a un mercatino di oggetti vintage, era in preda a un attacco isterico: agitava le braccia e le gambe come se fosse stata colpita da una scarica elettrica.
Teschio bestemmiò.
Benzina sporse la testa dal finestrino urlando all'autista di darsi una mossa.
«Stai buono! Cazzo!», reclamò Teschio.
Benzina ci rimase male.
«Se ti metti a gridare così, attiri l'attenzione e rischi di mandare tutto a puttane».
«A certa gente non dovrebbero mai dare la patente».
«Alla sua età magari sarai peggio di lui».
Teschio frenò di colpo, catapultando, Radu fra le braccia di Giacinta. La ragazza ne fu felice. Avrebbe voluto cogliere l’occasione per regalargli un bacio, ma evitò, vinta da un certo imbarazzo. In verità sapeva che non l'avrebbe gradito.
Dopo pochi secondi dall’improvviso stop, Radu era già al suo posto, con la schiena dritta e i soliti occhi impallati dal delirio di una giornata inconcepibile.
Il tanfo nella roulotte, intanto, s’era fatto insopportabile e così la temperatura. Fortunatamente, però, dal finestrino posizionato sopra al provvidenziale giaciglio, filtravano ondate di aria fresca che riuscivano, in qualche modo, a ridare ossigeno ai due giovani; accadeva a ogni curva, tagliando il cielo diagonalmente.
Nessuno dei due giovani aveva ancora pronunciato parola dalla partenza avvenuta una decina di minuti prima; ma entrambi avevano udito le imprecazioni dei compari che li guidavano. Rifletterono sul fatto che, in un'altra occasione, sarebbe stato motivo di divertimento; ma non ora, con il cadavere della mamma a pochi centimetri di distanza dai loro affannati respiri; e con l'impellente necessità di farlo sparire al più presto. 
«Come ti senti?», domandò Giacinta all'amico.
Radu temporeggiò, essendo ancora troppo confuso per tradurre con efficacia le emozioni in parole sensate. Le rispose solo quando il camper riprese la sua marcia regolare.
«Mi sento fuori dal mondo. Fuori dalla mia vita».
Giacinta sbigottì innanzi a tanta profondità.
«Non riesco a esprimere quello che provo, se non un sentimento vicino al... niente».
Giacinta accavallò le gambe e inspirò profondamente, incurante del veleno diffuso per l’aere. Avrebbe fatto di tutto per lui, se solo avesse trovato un modo per farsi strada nel suo cuore, in quell'istante chiuso come un forziere.
«Posso sforzarmi di immaginare quello che provi, ma forse non sono in grado di capire... vorrei dirti, però, che non dovrai mai sentirti solo: se lo vorrai, da oggi, sarò io la tua famiglia».

16.

Fino ai cieli di San Rocco fu arduo farsi strada nel traffico, ma dopo aver abbandonato la contrada per Monza, tutto divenne più semplice e scorrevole. Teschio voltò a destra per due volte di fila, fino a trovarsi in una zona isolata, campestre, decisamente periferica, a metà strada fra il comune di Brugherio e quello di Cologno Monzese, la classica terra di frontiera, la terra di nessuno.  
Assunse le redini del viaggio Benzina, che indicò con precisione il cammino da seguire per raggiungere la fabbrica abbandonata.
«Rallenta, ci siamo quasi», disse l’uomo in seconda.
Teschio obbedì, concentratissimo.
«In fondo, là, c'è una stradina che consente di arrivare alla fabbrica da una via secondaria, ancora meno battuta di quella che avevo in mente...».
Benzina puntò l’indice su una leggera rientranza lungo il tragitto principale, che deviava verso destra, inoltrandosi in una zona non visibile dallo stradario, quasi totalmente ricoperta da rovi e altri arbusti; il punto ideale per portare a compimento l'azione che s'erano prefissi.
«Ci siamo», disse Teschio, eccitato come un bambino durante la prima comunione.
«Se ti infili lì... puoi stare certo che potremo agire completamente indisturbati».
Benzina indicò una specie di riparo naturale, sotto le fronde di un grosso gelso della carta.
Teschio seguì il consiglio dell'amico e sistemò il camper proprio in quel punto, più simile a una foresta pluviale che non a un angolo della periferia milanese.
A un paio di metri c'era un cancello arrugginito sigillato da un grosso lucchetto; di fianco, ben in evidenza, uno squarcio nella rete metallica, tanto grande da poter far tranquillamente passare una scrofa in stato interessante.
«C'è già stato qualcuno», mugugnò Teschio.
«Solo qualche drogato», ribatté Benzina.
«Sicuro?».  
«Non c'è pericolo, fidati».
«Quel buco mi lascia perplesso».
«Macchè. Qui la mamma di Radu potrà dormire sonni tranquilli».
Teschio grondava di sudore e terrore; ma si risollevò osservando l’amico che, dal nulla, parve essere in grado di vincere ogni difficoltà. 
Scesero ad aprire ai due ragazzi, trovandoli esausti e privi di qualunque guizzo vitale: giacevano vicini, ma a malapena si sfioravano, come se avessero appena assolto la tratta Milano-Galati, pigiati come sardine in un furgoncino dell’anteguerra.
Radu aveva ancora lo sguardo perso nel vuoto, e cercava un modo per continuare a placare ogni sussulto emozionale. Giacinta andava avanti come una geisha a mostrargli tutta la sua compassione, scrutandolo in silenzio, sottecchi e rispettando ogni sua bizza.
«È arrivato il momento di rimboccarci le maniche», disse Benzina. «Siete pronti?».
I due giovani abbandonarono il camper con un balzo felino, del tutto disinteressati alla mano tesa di Benzina, cordialmente intenzionato a rendergli meno ardua la discesa. 
«Che facciamo?», chiese Giacinta.
Teschio e Benzina dondolarono la testa, sottintendendo che non ci fosse nulla di programmato, e che ogni cosa fosse, in pratica, ancora da decidere; ma la mente di Teschio si liberò in fretta, pronta a stilare un formidabile piano d’azione. Partì da Benzina.
«Io e te saliamo a prendere la mamma di Radu...».
«Bene», disse l’amico.  
«Radu, tu ti piazzi laggiù, e controlli che nessuno ci osservi».
«Ok», disse il piccolo.
«E io?», domandò Giacinta, impaziente di conoscere il suo ruolo.
«Tu ci aiuti a far passare il corpo dal buco nella rete. Se il varco dovesse essere troppo piccolo, farai forza con la pala».
Sopraffatti dalla risolutezza di Teschio, nessuno degli interlocutori replicò.
«Tutto chiaro?», riprese il capobanda.
«Agli ordini», disse Giacinta, con un sorriso gioioso.  
«Io non ho capito dove devo andare...», fece Radu, con aria sconsolata.
Benzina puntò l'indice nel punto in cui spuntava un grosso pezzo di lamiera, completamente arrugginito, forse i resti del cofano di una vecchia automobile.
«Raggiungi la curva, stai basso, e ci corri incontro se vedi qualcuno che si aggira nei paraggi».
Radu non se lo fece ripetere due volte e corse a destinazione, fiero di assolvere il suo compito di vedetta.

17.

Fecero passare il corpo della mamma di Radu dal buco nella rete, giocando con un varco sufficientemente ampio per consentire a Teschio e Benzina di procedere agilmente con l'operazione, senza chiedere l’intervento di Giacinta con la pala.
Radu rimase nella sua postazione per una decina di minuti, dopodichè, sollecitato dalla ragazza, accorse anch’egli nel punto in cui il gruppo intendeva avviare la tumulazione.
Era il posto più disgraziato e fatiscente dell'area industriale, posto alle spalle di un caseggiato che un tempo dovette presumibilmente servire come magazzino o rimessa. Al di là della struttura sorgeva un boschetto di carpini con molte foglie rinsecchite; il terreno era coperto da un ampio strato di humus e vegetali in putrefazione, suggerendo che, se anche si fosse intervenuto con uno scavo, non si sarebbe accorto di niente nessuno.
«Parto io», disse Teschio, impugnando la pala come un cacciatore di taglie del vecchio West. «Affonda più che puoi... non corriamo il rischio che qualche animale possa annusare qualcosa e... iniziare a scavare».
«Mettiamo qualcuno all'ingresso della fabbrica, per essere sicuri che non entri anima viva», blaterò Benzina.
«Ci pensiamo noi», disse Giacinta, sottintendendo l’intervento suo e di Radu.
Teschio iniziò a scavare, servendosi dell'attrezzo in dote alla roulotte di Radu, e introdotto nella vecchia fabbrica da Giacinta. La pala affondava nel terreno con grande facilità, come un coltello nel burro.
Non fu difficile rimuovere in pochi minuti grandi quantità di terra, e approntare un giaciglio degno di una principessa.
I due ragazzi, all'ingresso della fabbrica, tenevano sotto controllo eventuali movimenti sospetti; ma se si esclude il rumore di un riccio in amore che cercava di farsi strada fra le fronde di un arbusto di vitalba e il fracasso di un aeroplano appena decollato da Linate, tutto filò liscio come l'olio.
Teschio passò la pala a Benzina, per spingersi oltre il metro di profondità, e raggiunse i due giovani per comunicargli che il lavoro volgeva al termine e che era giunta l’ora del congedo definitivo.  
«Tutto ok?», domandò Teschio.
«A posto», disse Giacinta, «non abbiamo visto e sentito nessuno».
«Bene», disse il grande capo, guardandosi intorno con apprensione, «torniamo da Benzina... la buca è pronta».
I due uomini sollevarono il corpo della mamma di Radu e con delicatezza lo fecero scivolare all'interno della buca. Il primo si calò nell'improvvisato sepolcro, per adagiare comodamente il cadavere nella fossa. Si vide che la profondità e la larghezza erano state calcolate con grande perizia, ma non altrettanto la lunghezza; il corpo aveva i piedi e le gambe leggermente sollevati rispetto al busto.
I quattro si ritrovarono uno di fianco all'altro, sudati e provati, pronti a regalare l'estremo saluto alla mamma di Radu.
«Credo che qualcuno debba dire qualcosa», fece Teschio, tentennando. «Benzina, te ne occupi tu?».
Benzina lo guardò spiritato. Non sapeva neanche il Padre Nostro e l'Ave Maria, figuriamoci una preghiera che potesse accompagnare degnamente un funerale; ma l'amico era messo peggio di lui e dovette, pertanto, trovare al volo una soluzione attingendo a una dote che non gli mancava, la fantasia.
«Prendiamoci per mano», disse, fingendosi il miglior reverendo rom in circolazione, «e preghiamo per nostra sorella...».
Cercò di pronunciare il nome della mamma di Radu, ma non lo ricordava più. Si fermò, quindi, a “sorella”, correggendo il tiro e coinvolgendo la patrona zigana per antonomasia.
«Sara la Nera... siamo qui riuniti per dare l'ultimo e triste saluto alla mamma di Radu. Abbi pietà di noi e della povera anima che consegniamo nelle tue mani. Consentile di viaggiare serena nelle immense radure del cielo, permettendole di incontrare le persone che le hanno voluto bene e... abbi pietà di noi e dei nostri egoismi e... volgi il tuo sguardo al nostro incedere precario e zoppicante e... Amen ».
Teschio guardò l'amico con grande stima, convinto che lui non avrebbe saputo, potuto fare di meglio. Giacinta recuperò dalla tasca il mazzetto di fiori raccolto durante il tardo pomeriggio e lo fece volare nel bizzarro mausoleo.
Radu non aprì bocca, ma si raccolse fra sé e sé, recitando la preghiera che ogni tanto proferiva con la mamma prima di dormire: “Noi ti invochiamo Signor, che dai cieli odi dei figli il supplice pregar. Accendi nella notte, ai tuoi fedeli, nei tuoi pianeti, il vigile brillar. Noi ti invochiamo sul margin della strada... E quando l'ora del risveglio suona, tu dacci lena al lungo camminar. Fino alla morte, liberi e padroni, dacci la gioia di un perenne errar”.

18.

Silenti e stravolti, ognuno raccolto nei suoi pensieri scombuiati, i quattro fecero ritorno al camper, patrocinati da una bella sera d'estate, calda e profumata che pareva un paradosso. La colonna sonora di sottofondo era un mix musicale fra i canti dei grilli, delle cicale e degli uccelli dal fraseggio sconosciuto, con uno che, addirittura, ricordava il baccano di una percussione elettronica. Il cielo, complice la mancanza della luna, s’era ormai del tutto oscurato, benché brillassero qua e là sporadiche stelle.
Lasciandosi alle spalle la fabbrica diroccata, Radu fissò per qualche istante Venere, credendolo un astro, e supponendo che quel bagliore così acceso fosse la sua mamma che lo salutava dal regno dei morti. Per un attimo si sentì come a casa, incredibilmente sollevato: anche se lontana, la mamma era ancora lì a seguire le sue mosse e a dargli sostegno.  
Vinsero il camper uno dopo l'altro, in fila indiana, con Radu e Giacinta che presero di nuovo possesso del vano abitativo.
I due adulti riconquistarono, invece, il posto di guida: Teschio strizzò l’occhio all’amico, soddisfatto dell’opera appena conclusa.
«Ci avevi visto giusto».
«Te l’avevo detto...».
«Il parco Increa sarebbe stata una sciagura...».
Benzina sorrise.
«Ci avrebbero già presi».
Per circa metà del viaggio di rientro nessuno se la sentì di chiacchierare; ma al semaforo di San Rocco, il piccolo della comitiva sollevò un problema che a Giacinta parve del tutto comprensibile:
«Dobbiamo lavare il pavimento».
«È il minimo...».
«È uno schifo».
«Ti aiuto io, non ti preoccupare».
Radu guardò l’amica con dolcezza.
«Grazie».
«C'è anche un odore immondo...».
Radu si grattò la testa costernato.
«Lasciamo aperte le finestre e... sfreghiamo ben bene il pavimento».
«Se ti va possiamo iniziare anche adesso...».
«Con tutto quello che abbiamo da fare...».
Radu e Giacinta recuperarono due stracci da un cassetto del cucinino; li inumidirono e gli versarono sopra una specie di detersivo senza etichetta.
«Non vorrei fosse quello dei piatti...», mugugnò Radu, con un sorriso appena abbozzato.
«Se anche fosse, andrà benissimo, non c'è altro...», tagliò corto Giacinta.
I due iniziarono a fregare il pavimento e le pareti macchiate di sangue con foga belluina. Riuscirono a vincere con facilità il liquido ematico, benché un grumo consolidatesi alla base del letto risultò più ostico degli altri. Giacinta dovette passare più volte lo straccio per vincerlo definitivamente, spingendo e grattando come una lottatrice di sumo.
Fecero diverse volte avanti e indietro dal lavandino, per sciacquare le pezze di tessuto inzuppate di sangue, ma ormai prossimi al cavalcavia, il lavoro poté dirsi pressoché ultimato.
«Ce l’abbiamo fatta», cantò Giacinta. «Siamo grandi».
La roulotte di Radu era tornata come nuova, addirittura più pulita e cangiante di prima. Anche l'odore di marcio era sbiadito, lasciando il posto a un profumo di violette. I due ragazzi si sedettero soddisfatti sul bordo del letto, nell'istante in cui Teschio parcheggiò, con una brusca frenata, in via Monte Nero.
Sentirono i due adulti blaterare qualcosa riguardo alla possibilità che la polizia potesse venire a sapere qualcosa. Percepirono una locuzione che non avevano mai udito: “occultamento di cadavere”. Teschio bestemmiò, imitato immediatamente dall'amico.
Radu e Giacinta risero compiaciuti, mentre lo stomaco del piccolo si propose con un grugnito particolarmente insidioso. Giacinta lo guardò perplesso:
«Mi sa che è arrivato il momento di mettere qualcosa sotto i denti».
«Mi sa anche a me».
«Abbiamo qualcosa da mangiare?».
«Dovrebbe esserci qualcosa nel frigo».
Teschio e Benzina spalancarono accorati la porta della roulotte, trovandosi di fronte a un ambiente tornato incredibilmente lindo e profumato. Benzina ne fu entusiasta.
«Wow, che succede qui?».
«Ti piace?», domandò Giacinta.
«Grandi ragazzi, questo sì che è un bel lavoro!».
Teschio li osservò compiaciuto.
«Sono fiero di voi».
«E noi di te», disse Giacinta.
«Di voi», corresse il tiro Radu, mosso da un sentimento di sincero affetto, verso quella che, per la prima volta, gli parve a tutti gli effetti la sua nuova famiglia.
Giacinta ruppe la tensione dovuta alla dolce e inaspettata uscita di Radu, invitando i due uomini a unirsi alla loro parca mensa.
«C'è poco, ma possiamo dividerlo senza problemi...».
Allestirono un tavolino sbilenco sotto il tendone di cemento armato del cavalcavia, sul quale si misero ad affettare un salamino e a masticare alcune confezioni ci cracker scadute da una settimana.

19.

Cercando un buon pretesto per congedarsi dal dolore e dalla sofferenza delle ultime ore, Teschio tentò la prima battuta.
«Una cena da ristorante. Con tutta questa roba starò a posto per una settimana».
«C’è da scommetterci», controbatté Benzina. «A me sta letteralmente scoppiando la pancia».
Radu e Giacinta si regalarono un sorriso muto, ma sufficiente a ridare speranza al quartetto.
«Radu, lei desidera qualcos’altro? Un salmone affumicato, una sogliola alla griglia...».
Radu rise sguaiatamente, mostrando senza remore parte dell’impasto cerealicolo, derivante dalla masticazione affannosa di due cracker. Sembrava che avesse fra i denti l’aggeggio utilizzato dai boxer per ripararsi dai colpi dell’avversario.
«Magari gradirei anche un bel pollo arrosto...».
Giacinta gli diede man forte, osservando stupefatta la gioia ritrovata del piccolo della compagnia.
«Anch’io avrei proprio voglia di un bel pollo arrosto. Da tempo non ne mangio e il mio stomaco lo gradirebbe moltissimo. Qualcun altro vorrebbe un bel pollo arrosto?».
«Io vorrei anche una Coca Cola con le bollicine!», disse Radu.
«Le bollicine! Le bollicine! Un po’ di bollicine anche per me!», reclamò Benzina.
Sogghignarono in coro, mentre un camion gli sfilava davanti, strombazzando il clacson, divertito dalla folcloristica tavolata; lo pilotava un tipo massiccio, con una lunga coda dei capelli e gli avambracci completamente tatuati, uno di quei tipi che visti di sfuggita in un autogrill finiscono per essere scambiati per malavitosi di prima categoria. 
«Forse vuole unirsi alla nostra mensa», dichiarò Teschio, suscitando nuova ilarità.
«Ma vaffancuulo!», disse Giacinta ridendo.
«Non si dicono le parolacce», comandò Benzina, ironico.
«Io non ho detto parolacce».
«Ah no?».
Radu rideva come un matto, consapevole dello scherzo tramato dall’amica del cuore.
«Lei ha detto vaffancuulo, non vaffanculo», blaterò ansimando.
«E che differenza fa?», chiese Benzina.
«Vaffanculo con due u non è una parolaccia...».
«Ma un buon augurio», disse Teschio, facendo piegare tutti dalle risate.
Faceva ancora caldo: la temperatura dell’aria doveva essere piuttosto alta, presumibilmente vicina ai trenta gradi, benché la sera fosse sopraggiunta da un pezzo e con essa un po’ di umidità. Le nubi s’erano completamente dileguate; rimaneva solo la scia di un aeroplano, che percorreva quasi tutto l’aere coperto dal loro potenziale visivo.
Un paio di farfalle s’erano messe a saltellare intorno al tavolo, con le ali macchiate di azzurro, catturando l’attenzione di Radu che, all’improvviso, si era alzato per combinare un numero dei suoi. Prese una piccola rincorsa e compì due salti mortali. Seguì un vibrante applauso.
«Il più grande saltimbanco!», esultò Benzina.
Radu fece un inchino. Era il suo modo per dire grazie a coloro che l’avevano affiancato con tanto affetto e calore per risolvere un dramma che da solo non avrebbe mai potuto affrontare; ma Teschio e Benzina, rabbuiarono di nuovo, valutando che, in realtà, si era solo all’inizio, e che la vicenda era ancora tutta da giocarsi.
«Ok, ragazzi, ci siamo divertiti abbastanza», disse il leader della banda, smorzando il buonumore dei presenti. «Adesso è arrivato davvero il momento di concentrarci e tirare i remi in barca. In fondo, non abbiamo fatto altro che dare una degna sepoltura alla mamma di Radu... il vero lavoro parte ora».
Benzina lo seguì assorto; così Radu e Giacinta, benché sui loro visi fosse ancora ricamata un’espressione gaudente.
«Abbiamo delle valide tracce da cui partire», disse Benzina. «Con il ciondolo e la catenina siamo in una botte di ferro...».
«Forza ragazzi. Animo e coraggio!».
Radu li osservò con aria perplessa, tornando a riflettere sul fatto che, in effetti, mancava ancora tutta la parte più importante della missione: quella legata alla scoperta del colpevole dell’omicidio della mamma. Teschio notò la sua apprensione e cingendogli le spalle con l’avambraccio, cercò di rassicurarlo.
«Ragazzo mio», esordì, «fosse anche l’ultima cosa che facciamo a questo mondo... ti posso assicurare che l’assassino di Slagena ha i giorni contati».

20.

Al termine della cena frugale, rimasero a parlare come vecchi amici sulla punta del marciapiede, com’era già successo durante il pomeriggio, affrontando temi diversi e apparentemente banali, tipo l’ormai prossima inaugurazione delle olimpiadi di Londra e l’ennesima scaramuccia avvenuta qualche giorno prima al bar di Rafael, fra un sudamericano ubriaco e un cinese che lo accusava di avergli rubato un cartone pieno di telefonini taroccati.
«Il muso giallo le ha prese di brutto. Non so se tornerà a farsi vedere ancora da Rafael», disse Benzina.
«Tantomeno dal sudamericano che gli ha fottuto i telefonini...», ribatté Teschio, esibendosi con un ghigno perverso. 
«Credi sia stato davvero lui?».
«L’ho già visto in giro quel tipo...».
«Con ciò?».
«È un gran figlio di puttana. Fa parte di uno dei peggiori clan criminali di Milano...».
Radu e Giacinta drizzarono le orecchie, ritenendo particolarmente interessante l’argomento; amavano i discorsi incentrati sulle realtà criminali locali, con cui non erano mai venuti a diretto contatto, ma nelle quali in qualche modo finivano per riflettersi, accarezzando retroscena di natura sociale. Il punto è che, da quando erano nati, gli avevano raccontato che esisteva una sola classe di malavitosi e buoni a nulla: gli zingari, ossia, loro stessi. E, dunque, ogni volta che sentivano parlare di nuovi mostri da tenere a bada, si sentivano in qualche modo riabilitati e speranzosi di poter ambire a un ruolo un po’ più rispettabile.
«Bazzica in una banda che ogni tre per due massacra qualcuno per puro divertimento», andò avanti a raccontare, Benzina.
«Bella gente», rise Giacinta.
«L’altro giorno, tanto per dire, hanno pestato a sangue una mammetta colombiana che camminava tranquilla per la sua strada. Il responsabile dell’agguato diceva di avere obbedito al proprio karma...».
«Che?!», aveva domandato Radu.
«Lascia stare. Sono tutte stronzate». 
Andarono avanti a disquisire del più e del meno per allentare la tensione che, anche dopo la sepoltura di Slagena e la felice parentesi del pasto, evidentemente, continuava a serpeggiare nei loro animi; era stato proprio alla fine della serena atmosfera goduta durante la cena, che era parsa mostrarsi in tutta la sua drammatica lucidità. I due adulti se ne avvinsero presto, valutando che fosse ancora decisamente prematuro cantare vittoria.
Benzina e Teschio tornarono a pensare ai Figli di Dionisio e ai rischi che avrebbero potuto correre mettendogli il bastone fra le ruote: c’era gente che ci aveva rimesso le penne e loro alle rispettive pelli – benché fossero consapevoli che non valessero granché – ci tenevano. Gli vennero in mente episodi che, nel corso dell’analisi iniziale, non avevano ponderato... e non fu bello riportarli in vita.
I due adulti se ne andarono quando le ombre della notte erano calate da un bel po’ e le automobili avevano smesso di vorticare per le strade sestesi come demoni impazziti, in attesa di poter presto sfrecciare lungo qualche agognato lungomare.
«Buonanotte ragazzi, a domani».
Rimasti soli, Radu e Giacinta, si accomodarono sulla prima panchina del parco Gramsci, quella subito dopo l’ingresso di via Monte Santo, chiusi in un mutismo assoluto.
Giacinta desiderò dirgli mille cose, ma non osò, comprendendo che la spensieratezza di qualche istante prima era completamente scemata, sopraffatta da un’agonia pungente e dal fatto che ogni suo intervento, sarebbe stato pusillanime e fuori luogo. Si venne a creare la stessa atmosfera del primo pomeriggio, quando Teschio e Benzina le avevano suggerito di lasciare in pace il piccolo, consentendogli di metabolizzare l’accaduto, rimanendo un po’ solo con se stesso.
Riprese la parola Radu, curioso di sapere come avrebbe trascorso la sua prima notte senza la mamma.
«Io vado a letto».
«Se ti va resto con te».
Il piccolo non lo dette a vedere, ma ne fu molto felice. 

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