venerdì 20 luglio 2012

Rapsodia gitana # 6


51.

Per un quarto d'ora non si vide anima viva; poi iniziò una lunga carrellata di arrivi. Giunse una macchina con a bordo quattro persone di colore. I tre passeggeri, di grossa stazza, erano vestiti in modo simile, con una giacca rossa, appariscente, i pantaloni neri e un paio di scarpe lucide. Uno dei tre era particolarmente riconoscibile per via dei baffi che gli coprivano mezza bocca, facendolo assomigliare a un fachiro turco. L'autista li scaricò di fronte all'ingresso della ditta, senza accennare ad alcun saluto. Compì una retromarcia maldestra, scappando via a gran velocità, come se avesse paura di soffermarsi troppo in quel posto dimenticato da dio e dagli uomini.
Teschio li osservò con grande curiosità, sussurrando agli amici quel che stava accadendo e dei brutti ceffi con i quali era appena venuto a conoscenza.
«Sono tre giganti», blaterò.  
«In che senso?», domandò Benzina.
«Saranno cento chili uno».
«Che cazzo stai dicendo? Fammi vedere».
Benzina si fece spazio con un movimento brusco degli avambracci e prese il posto di Teschio. Li guardò con aria stupefatta, come se avesse davanti a sé dei marziani.  
«Che ci fanno lì quei bestioni?».
«Non ne ho la più pallida idea», disse Teschio. «E non lo voglio nemmeno sapere. Ma non saranno lì certo per vedersi un film in compagnia o farsi una partitina a poker».
«Magari li hanno ingaggiati come guardie del corpo», sentenziò Giacinta.
«Di chi?», la ridicolizzò Teschio.
«Non so. Magari c'è qualche pezzo grosso da proteggere...il santone».
«Interessante congettura», fece Benzina.
Teschio riprese il suo posto, spintonando Benzina; il socio lo guardò malamente, ritagliandosi un nuovo buco fra Giacinta e Radu.
«Noi stiamo qui tranquilli, che ci pensa lui...».
Ci fu un po' di ironia nelle parole di Benzina, che non sfuggirono a Giacinta.
«Il grande capo...», disse sottovoce, ridacchiando nervosamente.
«Muti, che ne stanno arrivando degli altri», blaterò Teschio.
«Fa vedere anche a me», disse Radu, all'improvviso.
Teschio lo raccolse ai suoi piedi, arretrando di qualche centimetro. Il ragazzo poté così scrutare per la prima volta ciò che accadeva al di là del provvidenziale cespuglio. Vide sopraggiungere una Fiat Panda, ben più sconquassata degli altri mezzi visti fino a quel momento. Era ricoperta di fango rinsecchito, sparso lungo l'intera carrozzeria. La guidavano due persone, ancora una volta, un uomo e una donna. Ma parevano di estrazione decisamente meno altolocata rispetto alla coppia che li aveva preceduti. Compirono un gesto che insospettì Teschio. Estrassero, infatti, un documento presente nella busta posizionata dai primi arrivati sul davanzale di fianco all'ingresso, e lessero il suo contenuto ad alta voce.
Rimisero tutto al loro posto; digitarono il campanello e varcarono la soglia. Teschio si domandò se fosse successa la stessa cosa con i tre neri. Probabilmente gli era sfuggito, ma dovevano essersi comportati allo stesso modo.
«Leggono qualcosa al citofono, poi entrano...».
«Cosa significa?», domandò Benzina.
«Non so».
«Lo so io», disse Giacinta.
Benzina e Teschio la fissarono attoniti.
«Non ci arrivate?».
Stettero in silenzio, come in attesa di una rivelazione divina.
«Recitano la parola d'ordine...».
Era una scena che aveva appena visto in un film di spionaggio, ambientato nella Germania del Terzo Reich. Per entrare in un bunker bisognava pronunciare una specie di formula segreta, una breve frase seguita da vari numeri. Se lo ricordava perfettamente perché l'aveva appena visto, con la madre. Le sembrò di vivere il riepilogo del film.
«Cazzo, sei un genio. Anzi, una genia!», disse Benzina, esultante.
«Potresti avere ragione», disse Teschio, con maggiore controllo.
Ne ebbero la prova quasi subito, con l'arrivo di un nuovo mezzo carico di tre persone: due uomini e una donna. I primi due, di aspetto normale, vestiti con comuni abiti da sera; la signora, con un abito nero elegante e un cappello con una esuberante visiera.
Anch'essi recuperano la misteriosa busta e blaterarono qualcosa al citofono, consentendo l'apertura istantanea della porta dell'inferno.

52. 

Arrivarono nuove automobili e nuovi visitatori. E tutti seguirono la stessa prassi: suonavano il citofono, recitavano la formula magica, e penetravano nei meandri del fantomatico covo.
«Ma quanti sono?», reclamò Teschio.
Si formò una lunga fila di macchine, parcheggiate una dietro l'altra, in fila indiana, di fronte all'ingresso principale della ditta.
«Si può sapere quando entriamo in azione?», chiese Radu, spazientito.
Giacinta appoggiò la sua insofferenza.
«Non se ne può più di stare qui come topi».
«Come topi?», chiese Teschio.
«Voleva dire... come cimici», disse Radu, ridendo.
«Ma finiscila».
Si lasciarono dall'abbraccio fraterno che li aveva tenuti uniti fino a quel momento. Radu sbuffò. Giacinta allungò le gambe, per sgranchirsi un po'.
«Potessi fare una bella corsa...».
«Alt! Muti. Ne arrivano ancora».
Erano due macchine, piuttosto conciate, con la carrozzeria in delirio e i tergicristalli devastati dalle intemperie e dall’usura. Dalla prima scesero dei rom.
«Porca puttana! Ci sono...», disse Teschio.
«Ci sono?», incalzò Benzina.
«Ci sono... dei rom».
«Come?», domandò Giacinta. «Fammi vedere».
La ragazza prese il posto di Teschio con una gomitata che l'uomo incassò senza lamentele. I due uomini che conquistarono il marciapiedi della ditta, erano nomadi che Giacinta non aveva mai visto, ma capì che si trattava di individui economicamente ben messi. Entrambi risplendevano di gioielli: due grosse collane d'oro pendevano dai loro colli da bufali delle praterie, e vari braccialetti pieni di gingilli abbellivano i loro polsi. Indossavano vestiti eleganti, con la cravatta e le scarpe laccate, con piccoli fiocchi frastagliati che andavano assai di moda negli anni Ottanta.
Non si filarono di striscio quelli della macchina che avevano alle spalle; agguantarono la busta e in un istante furono al di là del portone magico.
«Li conosci?», domandò Benzina.
«Mai visti».
«Fammi vedere anche a me», disse Radu.
«Troppo tardi».
«Ma sei sicura di non averli mai visti?», chiese Teschio.
«Non li ho mai visti, cazzo! Metti in dubbio le mie parole? Quelli non sono di Sesto. Forse vengono da Rubattino».
«Che roba è?», domandò Benzina.
«È il campo rom di Milano dove bazzicano vari pezzi grossi...».
Dalla macchina successiva sbarcarono altre tre persone. Una donna sembrava estranea alla coppia che guidava. Veniva tenuta a debita distanza e trattata con indifferenza. Aveva qualche problema di deambulazione. Si sentì uno dei due sollecitarla sgarbatamente. A Teschio parve trattarsi di una parola ben esplicita: puttana. Non era del tutto fuori luogo: la donna vestiva abiti succinti e aveva un seno esageratamente voluminoso che rimbalzava a ogni minimo sussulto della gamba anchilosata. Di fronte all'ingresso del covo fecero entrare prima lei, con una vigorosa pacca sulle spalle. Si abbandonarono a una fragorosa risata prima di calarsi nel ventre del caseggiato derelitto.
Per dieci minuti non fiatò una mosca. Teschio abbandonò la postazione e si sedette al fianco di Benzina.
«Tutto bene?», gli chiese l'amico.
«Sei in vena di romanticherie?».
«Non si vede più arrivare nessuno».
«Mi sa che ne sono già arrivati abbastanza».
«Ma conviene aspettare ancora un po'».
«Entriamo in azione mezz'ora dopo l'ultimo arrivo, vada come vada».
«Siamo proprio sicuri di...».
La frase di Benzina venne interrotta dallo sguardo velenoso di Teschio, ormai perfettamente calato nella parte di un novello James Bond.
«Siamo sicuri. Ormai siamo in ballo...».
«E balliamo», concluse Giacinta.
Passò un quarto d’ora, dopodichè la banda decise di entrare in azione:
«C'è una bella luna stasera», disse Benzina.
«Ma vaffanculo, va», disse Radu.

53.

«Giacinta, ci sei?», domandò Teschio.
«Ci sono».
«Allora si parte».
«Oddio», sibilò Benzina.
«L'ora x è scattata».
Si avvicinarono lentamente al cancello principale della ditta, ansanti come mamme in cerca del proprio bimbo al termine del suo primo giorno di scuola. Si guardarono intorno con fare circospetto, senza osservare altro che il grigiore della zona, qualche pianta avvizzita e la lunga fila di macchine posteggiate di fronte al parallelepipedo fantasma. Avevano il cuore in tachicardia. Benzina era quello che pareva reggeva meno lo stress.  
«Credo di non stare tanto bene», mugugnò, come se gli fosse appena passato sopra la testa un tir.
Nessuno lo rincuorò.
«... di stomaco»,
«Benzina, non rompere i coglioni», disse Giacinta, senza tanti convenevoli.
«Cazzo, smettetela di blaterare», la appoggiò Teschio.
Guidava la comitiva, seguito a pochi centimetri di distanza da Radu che scrutava il circondario come la piccola vedetta lombarda, memore dell’esperienza vissuta con stoicismo durante il seppellimento della madre.
Le luci dei lampioni illuminavano la strada e l'ingresso del covo. C’era in più una plafoniera rettangolare - posta in cima all’uscio dal quale i vari Figli di Dionisio avevano calcato le profondità degli inferi - che da sola sarebbe bastata a far luce sul destino dei nuovi arrivati.
Giunsero di fronte alla porta maledetta, agitati come formiche vittime di qualche mano incendiaria. Si consolarono nel comprendere il deserto che li circondava. Teschio si rischiarò la gola; Radu e Giacinta si presero per mano; Benzina si accarezzò il ventre sempre più costernato.
«Ragazzi, non ce la faccio più».
Giacinta e Radu lo guardarono come si guarda un clochard steso a terra privo di forze in attesa che giunga la sua ora.  Teschio lo redarguì con forza.
«Puttana troia, si può sapere cos'hai?».
Benzina stava malissimo, era devastato dai crampi addominali e da un sapore in bocca che gli procurava un senso di nausea continuo. Non ebbe, pertanto, il tempo di rispondere al suo interlocutore. Scivolò come un monopattino sbilenco dietro a un angolo della ditta dove si calò le braghe e dette respiro al suo disastrato apparato intestinale. Non ci mise più di trenta secondi a liberarsi del fardello che lo costringeva a raccapriccianti mutamenti del viso, tuttavia non aveva valutato l'aspetto meno encomiabile della vicenda: non aveva niente con cui pulirsi. Ancora con i pantaloni calati, cercò sottovoce un aiuto.
«Ragazzi, scusate», sibilò. «Qualcuno di voi ha dei fazzoletti di carta?».
Teschio si sarebbe mangiato il fegato. Radu e Giacinta strinsero i denti increduli. La ragazza, tuttavia, scoprì di avere in tasca una confezione appena aperta di Tempo. Glieli diede a Radu che nicchiò.
«Perché devo portarli io al merdone?».
Per la prima volta il capobanda fu sgarbato anche con Radu.
«Piccolo, datti una mossa, sennò qui ci stampano in pieno».
Obbedì senza fare tante storie. Raggiunse Benzina e tappandosi occhi e naso, consegnò i fazzoletti al moribondo.
«Tieni cagone».
Dopodichè si ritrovarono a tu per tu con l’accesso segreto: di fianco, sul davanzale della finestra, c'era la busta contenente la presumibile parola d’ordine da pronunciare per essere ammessi alla corte dei Dionisio. Teschio fu percorso da un brivido, mentre un'automobile, a gran velocità, gli sfrecciava a pochi metri, rompendo il lungo e parco silenzio della sera.
Si fece avanti Benzina: non è da escludere che volesse riscattare la sua condotta fin lì assai poco lodevole, facendo suo il documento.
«Vuoi conservarlo per l'eternità?».
«Figurati».
«Aprilo, sbrigati», gli intimò Teschio.
Benzina lo guardò con occhi languidi, temendo di poter saltare all'aria da un momento all'altro per via di una carica esplosiva nascosta nell’inchiostro di un accento o una virgola. Si ritrovò in mano un semplice foglietto con incisa la frase luz de la esperanza ardiente”. Capitolò, sbiancando in volto.
«Non è in italiano».
«Cosa stai dicendo?».
«Credo che sia...».
Teschio gli strappò il biglietto dalle mani e lo lesse a voce alta.
«È spagnolo».

54.

Ci rimasero di sasso.
«Chi parla?», chiese Benzina.
«La voce deve essere credibile...», disse Teschio.
«Non vedo fra noi molte voci credibili», replicò Benzina.
Teschio zittì.
«Mi sa che la più attendibile è la tua».
Il leader della banda lo squadrò con piglio assatanato, rendendosi conto che, in effetti, non c'erano molte alternative: far cantare uno dei due ragazzi sarebbe stato come tirarsi una scopa in testa, pensò, e Benzina... Però lui lo spagnolo non lo sapeva, non l’aveva mai parlato e dover parlare per la prima volta in una lingua sconosciuta non era uno scherzo. Dubitò che potessero insospettirsi del suo traballante linguaggio, mandando all’aria tutti i loro piani e il buon proponimento di risalire all’assassino di Slagena.
«Volete far fare a me?», disse Giacinta, spiazzando i due adulti.
«Scherzi?».
«Ho provato a parlare spagnolo con un amico di papà che veniva da una città chiamata Girona».
Si riferì all’ex sinti che aveva suggerito alla famiglia sestese di emigrare in Spagna, dove le condizioni di vita per i nomadi parevano più benevole. In territorio catalano c’era una ricca tradizione circense, che avrebbe potuto regalare al padre della piccola buone chance lavorative. Le cose, però, alla fine, erano saltate per via della madre di Giacinta, che s’era imposta di rimanere in Italia, dove ormai aveva il suo giro e le giuste conoscenze per poter condurre una vita in qualche modo decorosa. Il padre era stato tentato di prendere con sé la figlia, i suoi quattro stracci e fuggire di nascosto; ma poi l’amico con cui s’era messo in affari per recuperare il rame da vendere, l’aveva convinto a rimanere a Sesto San Giovanni e a tentare altre strade.
«Non lo so più tanto bene, ma quel tanto che basta per farmi capire... o perlomeno, a rendermi credibile».
Teschio e Benzina si guardarono stupiti. Le risorse della giovane parevano infinite. Radu fissò Giacinta incredulo davanti a tanta spavalderia: sapeva di avere un’amica in gamba, ma non fino a questo punto.
«Sai parlare spagnolo?», le chiese.
«Non ho detto che lo so parlare... ho detto che ho provato a parlarlo».
«Sentiamo», disse Teschio, consegnandole il foglietto lasciapassare.
Giacinta lo prese fra le mani e lo lesse con gran disinvoltura, lasciando ammutoliti i suoi interlocutori.
«Devo ripetervelo?».
I due uomini sorrisero di soddisfazione, gioendo di tanta destrezza. Il secondo arrivò addirittura a fantasticare sentimentalmente, tergiversando sul fatto che s’era creato un bel affiatamento fra i membri dell’improvvisata banda, come rare volte gli era capitato di vivere perfino con i coetanei.
«Forza, diamoci dentro», disse Teschio.
Il capobanda si avvicinò al citofono e pigiò con forza sull’unico bottone presente, privo di qualunque indicazione nominale. Aspettarono in silenzio. Dopo pochi secondi si udì un essere misterioso benedire la linea, ma senza pronunciare parola. Teschio, apostrofando il mento, indicò a Giacinta di dimostrare quanto valesse.   
«Luz de la esperanza ardiente...».
La serratura scattò istantanemanete. Benzina diede a Giacinta una pacca sulle spalle.
«Si parte», disse Teschio.
Si trovarono di fronte a una lunga scala che penetrava gli abissi del caseggiato, illuminata da deboli lampadine che si rincorrevano malamente appiccicate a un filo spelacchiato. Ai bordi dei gradini s’era accumulata tanta di quella polvere e frammenti di calcinacci, precipitati dalle umide pareti o dal soffitto, che avrebbe potuto provocare un attacco di allergia a chiunque. Si vedeva che da tempo nessuno si preoccupava di fare le pulizie e rendere in qualche modo accolgiente l’antro. A metà del tracciato si intuiva la presenza di una rientranza: era una specie di finestra, un incavo, dove presumbilmente potevano essere sistemati attrezzi come gli estintori. In realtà, era vuoto. In fondo la luce sbiadiva, suggerendo una curva, e un nuova pendenza.  
«Sto davanti io. Poi i due ragazzi... Benzina chiude la fila. Ok?».
Annuirono, con l’ansia alle stelle.

55.

Teschio infilò le mani nella tasca dei pantaloni ed estrasse una calibro 38, lasciando a bocca aperta tutti i suoi soci.
«Non sapevo che avessi la pistola», blaterò Giacinta.
«Muta. Ho detto che non bisogna fiatare. La pistola servirà solo in caso di grave pericolo».
«Agli ordini, capo».
La pistola non era sua, ma l’aveva trafugata in un locale di Varese. Era, in realtà, una soffitta dove mensilmente alcuni brutti ceffi si ritrovavano per giocare a poker. Sotto c’era un bar gestito da un calabrese consapevole del fatto che, periodicamente, al piano di sopra, la clandestinità locale dava il meglio di sè. Conveniva anche a lui, che riceveva sempre qualche gruzzoletto per aver dato asilo a questo o a quell’altro ciminale. I partecipanti puntavano cifre cospicue, arrivando addirittura a ipotecare dei beni materiali, dopo aver scialacquato tutti i contanti. Erano perlopiù disperati, convinti che solo una grossa vincita a poker o alle macchinette avrebbe potuto davvero dare un senso alle loro vite, strappandoli dall’indigenza cronica. Per il resto, sarebbero anche potuti morire dall’oggi al domani: non gli sarebbe rincresciuto più di tanto riposarsi per l’eternità, senza l’assillo di dover ogni giorno lottare con l’impossibilità di possedere quel minimo indispensabile a conferire loro una vita degna di chiamarsi tale. A volte, però, gli animi si accendevano con particolare enfasi, arrivando a generare scazzottate, anche per delle scemenze.
Come la sera in cui Piero Narducci - un tipo che si presentava quasi sempre sbronzo alle serate e che alla fine se ne andava con il portafoglio sgonfio e il desiderio di sterminare l’umanità con la sua calibro 38 – prese a fare il diavolo a quattro. Teschio stava vincendo un bel gruzzoletto, mentre gli altri puntatori erano pressoché a secco. In uno scatto d’ira, apparentemente senza motivo, Narducci s’era alzato dal tavolo puntando la sua arma alla tempia di Vinicio Baresi. Era calato il gelo, anche perché nessuno aveva mai visto Narducci così alterato: gli uscivano gli occhi dalle orbite e digrignava i denti come un cocainomane in astinenza. Avevano cercato di calmarlo con le buone. Ma Narducci pareva davvero avere perso il controllo e nemmeno un dio sarebbe stato in grado di sedare i suoi bollenti spiriti.
Baresi era sbiancato e tremava di paura. Era stato, dunque, provvidenziale l’intervento del barista, che si era presentato alla porta dove era in corso la bisca, per sollecitare i suoi ospiti a scendere dabbasso per una bevuta collettiva offerta dalla casa, in occasione di un affare andato a buon fine. Teschio, con uno scatto felino, era riuscito a immobilizzare l’arto omicida di Narducci, stritolandoglielo al punto da far cadere a terra l’arma. In pochi secondi la situazione era degenerata. Narducci e Baresi avevano cominciato a darsele di santa ragione, davanti agli occhi allibiti del barista che, dimentico del motivo per cui era finito fin lì, aveva cercato di sedare la rissa impedendo a Baresi di affondare l’ennesimo destro. Lo aveva fatto spostando di peso Narducci, inconsapevole del fatto che dietro a lui ci fosse Massimo Caputo, che si era ritrovato col setto nasale fracassato.
Caputo, completamente rimbambito dal colpo e dell’assurdità del momento, s’era scagliato con furia cieca sul barista, generando un putiferio, dal quale Teschio era stato ben lieto di levarsi dalle scatole. Nel marasma più totale - mentre altri clienti del bar salivano a vedere ciò che stava accadendo, per via delle urla e del baccano – aveva raccolto la pistola, se l’era infilata nei jeans, e con grande disinvoltura era sgattaiolato oltre i confini del solaio varesino, con un oggetto che, un giorno, aveva pensato profeticamente, gli sarebbe potuto tornare utile.

56.

Trovandosi a tu per tu con la finestra notata prima di iniziare la discesa, Teschio scrutò al suo interno, fotografando dei frammenti di muro scrostati e una specie di aggeggio per appendere alimenti ai soffitti: aveva visto qualcosa del genere visitando di recente un negozio di Castorama. Osservò i suoi bordi approssimativi, portandolo a intendere che il piccolo vano dovesse avere una bella età, forse addirittura antecedente la data di costruzione della scala che, nonostante l’incuria, sembrava non avere più  di una quarantina d’anni.
Radu e Giacinta lo seguivano con aria frastornata tenendosi per mano. Le mani del piccolo erano un lago di sudore.
«Hai paura?», chiese sottovoce Giacinta.
Radu mentì:
«No. E tu?».
«Un po’».
Benzina si proteggeva la pancia da nuovi stimoli intestinali, attanagliato da fitte lancinanti, il chiaro segno che se la stava facendo sotto dalla paura. Teschio, inconsapevole dei borbottii fisiologici dell’amico, si girò per sincerarsi della sua autonomia. Benzina lo salutò alzando il pollice, mostrandosi in perfetta forma fisica e psichica. Teschio ne uscì soddisfatto, confortato dalla consapevolezza che, nei momenti di vero bisogno, Benzina non l’avrebbe mai abbandonato.
Proseguirono nella corsa, verificando, nell’ultimo tratto della rampa di scale, una serie di scritte sui muri. Su una era riportata una frase virgolettata che procurò nei quattro visitatori un gravoso malessere. Diceva: “Lui ti guida e vede tutto ciò che fai”. Non sapevano a chi potesse riferirsi, ma fu sufficiente a provocare all’unanimità un forte senso di disagio.
«Avete qualche idea?», domandò Teschio.
«Si riferirà a Dionisio», disse Giacinta.
«Ben detto», fece Benzina. «Potrebbe essere un suo monito...».
Non finì la frase, perché si udì un urlo lancinante provenire da lontano. Pareva quello di una donna, evidentemente non felice del momento che stava attraversando. Aveva tutta l’aria di essere un grido di dolore, analogo a quello sprigionato da una partoriente o da chi viene violentato da qualche assurdo oggetto contundente. I quattro si irrigidirono come pilastri di cemento armato. Giacinta prese a tremare.
«Mio Dio, cos’è stato?».
Teschio reclamò il silenzio per capire se si potesse percepire qualcos’altro e avere un quadro un po’ più nitido della situazione. Interrogò nuovamente il muro che aveva di fronte, scoprendo, questa volta, dei simboli che non avrebbe mai saputo interpretare. Su uno risaltava un garofano trafitto da un coltello, con tante goccioline di sangue che sgorgavano come gli zampilli di un fontanile; su un altro, una svastica contornata da una specie di ferro spinato, dalla quale emergeva una scritta incomprensibile.
«Non vorrei essere stato io al posto di quella donna», disse Benzina, rimettendosi in marcia.
«Nemmeno io», ribatté Giacinta.
«Chissà cosa le hanno fatto...», disse l’uomo.
«Magari ha fatto la stessa fine di mia mamma», disse Radu, raggelando gli animi dei presenti.
Teschio lo guardò perplesso.  
«Non ci pensare adesso».
Non si udirono altre grida, ma solo rumori legati a misteriosi sferragliamenti: come se dei metalli arrugginiti sfregassero fra loro per creare melodie diaboliche e sinistre.
Teschio raggiunse il fondo della scala, trovandosi di fronte a un ampio vano, raggiungibile attraverso una scala pericolante, sul quale si aprivano tre porte.

57.

«Oddio».
Gli altri non avevano ancora visto nulla.
«Che c’è?», chiese Giacinta.
«Guardate un po’ voi...».
I tre che aveva alle spalle voltarono l’angolo trovandosi di fronte lo stesso panorama dell’amico, a capo della combriccola, una distesa grigia di cemento e ferraglia di scarto, intrisa di umidità e desolazione.
«Sembra una pista di atterraggio degli elicotteri», sibilò Radu.
«Ne hai di fantasia», gli disse Giacinta, con piglio denigratorio. 
«Laggiù si vede una luce», sussurrò Benzina, indicando una delle tre porte, quella più scialba e dimessa, dalla quale un luccichio tentennante pareva spuntare come il respiro di un fuoco fatuo.
«Potrebbero essere lì», disse Teschio.
«Il problema è che se esce qualcuno ci becca in pieno».
«In effetti questa via di ingresso non è l’ideale per un appostamento».
Teschio deglutì amaramente, vedendosi così allo scoperto.
«Potremmo sempre tornare indietro», azzardò Benzina.
Teschio lo silurò con uno sguardo malato.
«Ormai siamo qui e ci giochiamo la partita», disse Radu, con verve autoritaria. «Mia mamma aspetta ancora di essere vendicata».
Teschio accolse con piacere la determinazione del giovane, ma la paura cominciò a invaghirsi anche del suo cuore, provocandogli strani sussulti e borbottii fuori dall’ordinario. Giacinta notò la titubanza del leader e gli picchiettò amichevolmente la schiena.
«Tutto bene, grande capo?».
Lui la guardò ansimante.
«Bene, tranquilla...».
Lo disse con aria da duro, proprio nel momento in cui la tachicardia gli giocò il peggior scherzo, facendolo addirittura vacillare.
«Dobbiamo proseguire, forza ragazzi», disse Teschio, appellandosi alle ultime forze rimaste.  
Intrapresero la nuova discesa, lungo l’orrenda scala di ferro, ben più vertiginosa della prima, mantenendo le posizioni stabilite in partenza: Teschio, davanti, con la pistola spianata, poi i due piccoli, e Benzina. L’unico tranquillo e felice di trovarsi in quella imbarazzante situazione fu Radu che, vinti i tremori dell’attesa, si convinse di poter finalmente mettere le mani sull’assassino di sua madre, indipendentemente dal fatto che nel covo potessero esserci una quarantina di persone in grado di polverizzarli in un nanosecondo. Ormai gli interessava solo quello: saldare i conti con chi aveva osato uccidergli l’unica persona che gli stava davvero a cuore.
Si fece forza convincendosi che la fortuna sarebbe stata dalla loro parte; che lo spirito del nonno fosse nell’aria, per guidare i loro passi e ad assicurargli il buon esito della missione. Sul suo volto si dipinse un sorriso di sfida, pieno di coraggio e orgoglio.
«Ce la faremo», disse a Teschio.
L’uomo gli sorrise dolcemente, in qualche modo rasserenato dalla convinzione del ragazzo.
«Puoi scommetterci».
Scesero cercando di evitare ogni rumore, con grande calma e attenzione. La stanza non era molto illuminata: ciò che si vedeva, di fatto, era solo il magro frutto di un neon orizzontale posto in cima allo stanzone. Chissà chi lo aveva fissato fin lassù, rifletté fra sé Benzina, colui che ebbe più difficoltà di tutti a vincere i brevi e impervi gradini della nuova scala. S’immaginò qualche Figlio di Dionisio obbligato a pericolare su qualche pertica improvvisata per fissare al cielo quel lumino insignificante, con l’aguzzino che l’aspettava a terra con un tizzone ardente, pronto a usarlo se le cose non fossero andate come previsto. Fu un pensiero che rabbuiò ulteriormente i suoi già lugubri presagi.
Furono a destinazione in pochi minuti. La mano di Teschio cominciò visibilmente a tremare mentre si avvicinava alla porta sconosciuta. Fissò la calibro 38, come se avesse in pugno un mitra. Guardò per una frazione di secondo Benzina, che annuì: il grande momento era arrivato.

58.

Abbassò l'arma e puntò l'occhio oltre la minuscola apertura. Dietro di lui trepidavano, con Radu che per poco non inciampò nel piedone di Benzina, rischiando di mandare tutto all'aria. Teschio rimase immobile per vari secondi, senza respirare, riuscendo a fotografare con dovizia di particolari il marasma che aveva di fronte. Era un ampio locale, raggiungibile attraverso una manciata di gradini derelitti. Le pareti erano pitturate di rosso e il soffitto di nero, in alcuni punti di blu scuro; Teschio non riuscì a mettere a fuoco con spregiudicatezza le diverse tinte cromatiche. Erano pareti scialbe, senza decori, né quadri. Su una, però, c'era disegnata una strana creatura, mezza bestia e mezzo uomo, che impugnava una specie di torcia. Di fianco, con gli occhi erosi dalla rabbia o dall'invidia, c'era un'altra caricatura, raffigurante una donna con un lungo corno che le spuntava dalla fronte, come un trampolino di lancio devastato dalle termiti. Il locale era pieno di sedie e nel centro troneggiava una sorta di ara. Teschio, interrogando il suo puerile immaginario, osò pensare che potesse servire a qualche sacrificio umano e fu per questo percorso da un brivido. Ne aveva visti di film con scene del genere; l'intero ambiente, del resto, era molto cinematografico, poteva sembrare l'ideale scenografia di un film horror.
C'era una sola porta che lasciava intendere la presenza di un ulteriore vano, al di là dell'ampio locale dove l'incontro dei Figli di Dionisio si stava consumando. Sopra era stato fissato un lugubre scalpo, di un mammifero che Teschio non seppe classificare: poteva essere un cervo, ma anche un alce o un alpaca... per lui non avrebbe fatto grande differenza. Le facce dei presenti erano illuminate da deboli lumicini di cera, come puntine fotoniche in un grande cimitero. Una quarantina di persone, sì e no, tutte quelle che aveva visto entrare dal momento in cui s'erano appostati dietro al cespuglio. Riconobbe agilmente i rom e la signora svampita, vestita da prostituta, e i tre bulldozer, fra i primi arrivati. I tre giganti dominavano il mondo in francescano silenzio, con i loro sguardi duri e spietati. Stavano tutti in cerchio, alcuni si tenevano per mano. In mezzo al cerchio risaltava un figuro come un giudice pronto a emanare la sentenza, che Teschio non aveva visto arrivare con gli altri; alto e ben messo, con una vestaglia bianca che gli copriva i piedi e una maschera nera che gli falsava il volto. In testa aveva una specie di corona, dorata, con due bracci di metallo che formavano una lettera elle al contrario. L'uomo si agitava come un tarantolato, blaterando, di tanto in tanto, qualche frase pressoché incomprensibile. Sembrava essere sotto l'effetto di una droga. Dopo qualche minuto di sconcerto si calmò, andandosi ad accomodare su un trono improvvisato, che risiedeva su un lato del locale leggermente rialzato.
A tal punto, molti dei presenti, fra cui la donna di costume, abbandonarono le sedie per dirigersi verso un rudimentale tabernacolo, che alla prima occhiata era sfuggita a Teschio. Al suo interno brillava una luce rossastra. Il santone lo raggiunse ed estrasse dal suo cuore un'ampolla riempita di un liquido nerastro. La porse ai vari adepti che, nel frattempo, s'erano inginocchiati di fronte al luogo di culto con atteggiamento ossequioso. Uno a uno la baciarono, come se al suo interno fosse  conservata una preziosa reliquia. Solo una donna si rifiutò di farlo. Ma l'uomo mascherato la costrinse con la forza, obbligandola a piegare il capo con le sue robuste braccia da camionista, aiutato dai tre giganti.
I seguaci, intanto, abituati a scene del genere, e quindi per nulla impressionati dalla cattiveria del leader, riguadagnarono le loro postazioni originarie.

59.
                                                     
Il santone abbandonò il tabernacolo per raggiungere il centro del cerchio e iniziare a comporre strane forme col corpo, dando l'impressione di muoversi inseguendo le note di una musica inesistente. Con gli occhi chiusi e la bocca spalancata, assunse le sembianze di un tonno appena pescato. A Teschio venne in mente l’immagine di uno spettro.
«Che succede?», domandò Benzina, impaziente.
Teschio si voltò per redarguirlo.
«Silenzio».
«Cazzo, dicci qualcosa», lo implorò Giacinta.
«Non ora», sibilò Teschio.
«Quando sennò?».
«Statevene zitti».
«Ma si può sapere cosa stai vedendo?», domandò Radu.
Teschio finse di non sentirlo e continuò a osservare ciò che accadeva in quello stanzone malefico. La donna piegata su se stessa, obbligata ad adorare l'ampolla contro la sua volontà, venne lasciata libera dai tre bulldozer. Si levò da quell'impiccio con la faccia devastata dal sudore e dalla paura. Gli altri due colossi la fulminarono con lo sguardo. La donna tremava come una foglia.
Il santone smise di roteare su se stesso, cominciando a pronunciare frasi incomprensibili, in una lingua sconosciuta.
«Aghar tumiane regola sorte atimano, resto ai kurgan kurgan kurgan...».
Teschio sbalordì: la voce dell'uomo si trasformò in un rumore sovrano, profondo, orrendo, come se nel suo corpo avessero innestato un microfono, direttamente dagli inferi.
Il santone proseguì con la sua abominevole arringa:
«Invero dicere udito prece cade mura intrico intrico intrico...».
Aprì gli occhi e indicò l’ipotesi di un fantasma che veleggiava sopra il suo capo. Unanimi, i presenti, seguirono l'indicazione della sua falange, il dito di dio; anche Teschio, ma non vide nulla. Il capo dei Dionisio intraprese una mezza corsa, ponendosi a una decina di passi dal gruppo raccolto in religioso silenzio. Riprese, quindi, a dondolarsi, come un uomo in trance, rapito da un mondo parallelo, affascinante prerogativa di una dimensione lontana e sconosciuta, appannaggio di sentitivi e angeli.
Teschio indagò con apprensione: non aveva mai assistito a un comportamento del genere. Chi era quel pazzo? E cosa stava combinando? Deglutì, come involontariamente si regala all’esofago un insetto appena finito in gola per un alito di vento più potente degli altri, e dondolò la testa affranto. La situazione era così assurda e rocambolesca che perfino l'ansia sbiadì, in favore dell'incredulità più nuda e cruda. Lo riportò alla realtà un calcio sul malleolo da parte di Giacinta, che lo affiancò per sbirciare.
«Che diavolo fai?».
«Fa vedere un po' anche a me».
Giacinta puntò gli occhi oltre il pertugio, percependo un mondo inverosimile, impossibile. Le venne un attacco di nausea, che soffocò stringendo forte i denti. Sentì altresì un dolore alla coscia destra, che reggeva il corpo sostenendo una posizione inadeguata alla fisiologia dello scheletro. Non ci fece caso e continuò a fissare la scena con curiosità morbosa. A lei si affiancò Radu, obbligando Teschio a retrocedere.
«Dionisio è qui fra noi, come sempre, lo sentite? Lo sentite?», urlò, all’improvviso, il santone, riguadagnando il centro del cerchio. «E come sempre, per fortuna, noi siamo qui per venerarlo e adorarlo, come il padre di tutti noi... Dionisio, il dio della liberazione dei sensi, dell'oblio, della frenesia della vita, del lato selvaggio dell'uomo, della sua parte più istintiva... lo sentite? Che le nostre menti continuino a servire la sua causa...».
Pronunciando le ultime parole, gli adepti si alzarono in piedi e presero a recitare una filastrocca monotona, che i visitatori non riuscirono a comprendere. Pochi minuti di penoso raccoglimento e il santone interruppe la cantilena introducendo un argomento che fece letteralmente rizzare la punta dei capelli ai quattro detective ancorati come sanguisughe alla porta di ingresso: la necessità del prossimo sacrificio umano.

60.

«Ho sentito bene?», domandò Giacinta.
«Hai sentito benissimo», la spalleggiò Radu.
«Fatemi spazio», disse Teschio.
Li spinse indietro, ritrovando la posizione originale e potendo ascoltare comodamente le nuove farneticazioni del santone.
«La fame di Dionisio, come sapete, va alleviata... e noi abbiamo bisogno di ritrovare la purezza. Per questo motivo è indispensabile regalare al nostro dio il più bel sacrificio possibile, la gioia più immensa per le nostre anime... un sacrificio che sappia di sangue e verità... un sacrificio che ancora una volta mostri all'umanità il cammino da seguire; perché, ricordiamo, noi non dobbiamo lasciarci condizionare da ciò che ci viene raccontato, dalle storie meschine che ci circondano, da quello che blaterano i giornali, i media... Solo noi con la nostra forza e temerarietà sappiamo, infatti, dove sta la verità, e in che modo è possibile risalire la china. Solo con il sangue del sacrificio possiamo salvare il mondo dall'immondizia sociale, dai capricci del clima, dall’ineluttabilità del tempo e dello spazio. Solo così potremo guadagnarci l'immortalità, nel nome del dio Dionisio».
«Cosa comandi, dunque, principe della notte e dei sospiri eterni?», chiese un adepto, rimasto fino a quel momento in disparte, come assorto in pensieri tutti suoi.
«Dobbiamo individuare un nuovo bersaglio, colui che avrà l'onore di essere glorificato a Dionisio... Questa volta, però, dovrà essere un uomo, un maschio, un xy, per dare continuità al progetto, e fornire le energie più appropriate al conseguimento della Grande Opera... Un uomo che possa regalarci il suo sangue, il suo spirito sudicio...».
Teschio non poté credere alle sue orecchie: aveva gli occhi impallati e le pupille dilatate. Fissò il tipo che aveva appena interloquito con il grande capo, supponendo che potesse essere il suo braccio destro. Trovò conferma nel fatto che, rispetto agli altri, la sua sedia era più arretrata, dandogli modo di poter veder in faccia tutti gli altri seguaci della setta, senza dare nell’occhio.
«Allora?», disse Benzina, «si può sapere che cazzo sta succedendo?».
Teschio si ritrasse dal pertugio e completamente sbiancato rivelò agli amici quanto si stava realizzando in quell'antro dimenticato da Dio.
«Un sacrificio umano?», mormorò Benzina.
«Non urlare!», lo bloccò Giacinta. «Vuoi che ci becchino proprio ora?».
«Così tutto torna. Slagena è stata vittima di questi bastardi...», disse Benzina.
«A questo punto possiamo esserne certi», disse Teschio.
«Ma non abbiamo ancora prove valide per incastrarli».
«No, ma le avremo... se non ci fanno fuori tutti».
Il capobanda riprese la sua postazione, accompagnato da un brivido stonato, notando varie gocce di sudore che grondavano dal suo capo, macchiandogli la camicia. Si sentì mortificato da ciò che aveva appena sentito e non riuscì a capacitarsi del fatto che qualche essere umano potesse essere così rimbambito da far credere a se stesso e agli altri che solo con periodici sacrifici umani fosse possibile salvare l'umanità. O, almeno, questo è ciò che gli pareva potesse trapelare da quelle parole insensate. Pensò anche che, in un altro contento, avrebbe potuto affrontarlo a viso aperto per dargliele di santa ragione, ma che ora non fosse proprio  il caso di dare in escandescenza: qualunque mossa azzardata gli sarebbe costata la vita.
Intanto il santone riprese a blaterare, sconnesso dai comuni mortali.
«Domattina daremo il via alla caccia e settimana prossima ci confronteremo sulle varie proposte... Non dobbiamo avere paura di donarci a Dionisio, perché Dionisio non è il male, ma il bene. Il vero bene trionfa sempre e chi oggi morirà nel suo nome, domani avrà tutto ciò che desidera...».
«Il principe della notte e dei sospiri eterni s'è, dunque, pronunciato», disse il mingherlino, che poco prima aveva chiesto delucidazioni sulle prossime mosse da compiere. «Ora spetta a noi benedire il nuovo sacrificio, che servirà a far luce sul nostro avvenire...».
Gli adepti urlarono in coro una frase che Teschio non capì, provocando il panico nei tre amici che lo guardavano alle spalle. Teschio si voltò immediatamente per tranquillizzarli e quando si riaffacciò alla corte dei Dionisio, il santone era scomparso. 

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