51.
Per un quarto d'ora non si vide anima
viva; poi iniziò una lunga carrellata di arrivi. Giunse una macchina con a
bordo quattro persone di colore. I tre passeggeri, di grossa stazza, erano
vestiti in modo simile, con una giacca rossa, appariscente, i pantaloni neri e
un paio di scarpe lucide. Uno dei tre era particolarmente riconoscibile per via
dei baffi che gli coprivano mezza bocca, facendolo assomigliare a un fachiro
turco. L'autista li scaricò di fronte all'ingresso della ditta, senza accennare
ad alcun saluto. Compì una retromarcia maldestra, scappando via a gran
velocità, come se avesse paura di soffermarsi troppo in quel posto dimenticato
da dio e dagli uomini.
Teschio li osservò con grande
curiosità, sussurrando agli amici quel che stava accadendo e dei brutti ceffi
con i quali era appena venuto a conoscenza.
«Sono tre giganti», blaterò.
«In che senso?», domandò Benzina.
«Saranno cento chili uno».
«Che cazzo stai dicendo? Fammi
vedere».
Benzina si fece spazio con un
movimento brusco degli avambracci e prese il posto di Teschio. Li guardò con
aria stupefatta, come se avesse davanti a sé dei marziani.
«Che ci fanno lì quei bestioni?».
«Non ne ho la più pallida idea»,
disse Teschio. «E non lo voglio nemmeno sapere. Ma non saranno lì certo per
vedersi un film in compagnia o farsi una partitina a poker».
«Magari li hanno ingaggiati come
guardie del corpo», sentenziò Giacinta.
«Di chi?», la ridicolizzò
Teschio.
«Non so. Magari c'è qualche pezzo
grosso da proteggere...il santone».
«Interessante congettura», fece
Benzina.
Teschio riprese il suo posto,
spintonando Benzina; il socio lo guardò malamente, ritagliandosi un nuovo buco
fra Giacinta e Radu.
«Noi stiamo qui tranquilli, che
ci pensa lui...».
Ci fu un po' di ironia nelle
parole di Benzina, che non sfuggirono a Giacinta.
«Il grande capo...», disse
sottovoce, ridacchiando nervosamente.
«Muti, che ne stanno arrivando
degli altri», blaterò Teschio.
«Fa vedere anche a me», disse
Radu, all'improvviso.
Teschio lo raccolse ai suoi
piedi, arretrando di qualche centimetro. Il ragazzo poté così scrutare per la
prima volta ciò che accadeva al di là del provvidenziale cespuglio. Vide
sopraggiungere una Fiat Panda, ben più sconquassata degli altri mezzi visti
fino a quel momento. Era ricoperta di fango rinsecchito, sparso lungo l'intera
carrozzeria. La guidavano due persone, ancora una volta, un uomo e una donna.
Ma parevano di estrazione decisamente meno altolocata rispetto alla coppia che
li aveva preceduti. Compirono un gesto che insospettì Teschio. Estrassero,
infatti, un documento presente nella busta posizionata dai primi arrivati sul
davanzale di fianco all'ingresso, e lessero il suo contenuto ad alta voce.
Rimisero tutto al loro posto; digitarono
il campanello e varcarono la soglia. Teschio si domandò se fosse successa la
stessa cosa con i tre neri. Probabilmente gli era sfuggito, ma dovevano essersi
comportati allo stesso modo.
«Leggono qualcosa al citofono,
poi entrano...».
«Cosa significa?», domandò
Benzina.
«Non so».
«Lo so io», disse Giacinta.
Benzina e Teschio la fissarono
attoniti.
«Non ci arrivate?».
Stettero in silenzio, come in
attesa di una rivelazione divina.
«Recitano la parola d'ordine...».
Era una scena che aveva appena
visto in un film di spionaggio, ambientato nella Germania del Terzo Reich. Per
entrare in un bunker bisognava pronunciare una specie di formula segreta, una
breve frase seguita da vari numeri. Se lo ricordava perfettamente perché l'aveva
appena visto, con la madre. Le sembrò di vivere il riepilogo del film.
«Cazzo, sei un genio. Anzi, una
genia!», disse Benzina, esultante.
«Potresti avere ragione», disse
Teschio, con maggiore controllo.
Ne ebbero la prova quasi subito,
con l'arrivo di un nuovo mezzo carico di tre persone: due uomini e una donna. I
primi due, di aspetto normale, vestiti con comuni abiti da sera; la signora, con
un abito nero elegante e un cappello con una esuberante visiera.
Anch'essi recuperano la
misteriosa busta e blaterarono qualcosa al citofono, consentendo l'apertura
istantanea della porta dell'inferno.
52.
Arrivarono nuove automobili e
nuovi visitatori. E tutti seguirono la stessa prassi: suonavano il citofono,
recitavano la formula magica, e penetravano nei meandri del fantomatico covo.
«Ma quanti sono?», reclamò
Teschio.
Si formò una lunga fila di
macchine, parcheggiate una dietro l'altra, in fila indiana, di fronte
all'ingresso principale della ditta.
«Si può sapere quando entriamo in
azione?», chiese Radu, spazientito.
Giacinta appoggiò la sua
insofferenza.
«Non se ne può più di stare qui
come topi».
«Come topi?», chiese Teschio.
«Voleva dire... come cimici»,
disse Radu, ridendo.
«Ma finiscila».
Si lasciarono dall'abbraccio
fraterno che li aveva tenuti uniti fino a quel momento. Radu sbuffò. Giacinta
allungò le gambe, per sgranchirsi un po'.
«Potessi fare una bella
corsa...».
«Alt! Muti. Ne arrivano ancora».
Erano due macchine, piuttosto
conciate, con la carrozzeria in delirio e i tergicristalli devastati dalle
intemperie e dall’usura. Dalla prima scesero dei rom.
«Porca puttana! Ci sono...»,
disse Teschio.
«Ci sono?», incalzò Benzina.
«Ci sono... dei rom».
«Come?», domandò Giacinta. «Fammi
vedere».
La ragazza prese il posto di
Teschio con una gomitata che l'uomo incassò senza lamentele. I due uomini che
conquistarono il marciapiedi della ditta, erano nomadi che Giacinta non aveva
mai visto, ma capì che si trattava di individui economicamente ben messi.
Entrambi risplendevano di gioielli: due grosse collane d'oro pendevano dai loro
colli da bufali delle praterie, e vari braccialetti pieni di gingilli abbellivano
i loro polsi. Indossavano vestiti eleganti, con la cravatta e le scarpe laccate,
con piccoli fiocchi frastagliati che andavano assai di moda negli anni Ottanta.
Non si filarono di striscio
quelli della macchina che avevano alle spalle; agguantarono la busta e in un
istante furono al di là del portone magico.
«Li conosci?», domandò Benzina.
«Mai visti».
«Fammi vedere anche a me», disse
Radu.
«Troppo tardi».
«Ma sei sicura di non averli mai
visti?», chiese Teschio.
«Non li ho mai visti, cazzo!
Metti in dubbio le mie parole? Quelli non sono di Sesto. Forse vengono da
Rubattino».
«Che roba è?», domandò Benzina.
«È il campo rom di Milano dove
bazzicano vari pezzi grossi...».
Dalla macchina successiva sbarcarono
altre tre persone. Una donna sembrava estranea alla coppia che guidava. Veniva
tenuta a debita distanza e trattata con indifferenza. Aveva qualche problema di
deambulazione. Si sentì uno dei due sollecitarla sgarbatamente. A Teschio parve
trattarsi di una parola ben esplicita: puttana. Non era del tutto fuori luogo:
la donna vestiva abiti succinti e aveva un seno esageratamente voluminoso che
rimbalzava a ogni minimo sussulto della gamba anchilosata. Di fronte
all'ingresso del covo fecero entrare prima lei, con una vigorosa pacca sulle
spalle. Si abbandonarono a una fragorosa risata prima di calarsi nel ventre del
caseggiato derelitto.
Per dieci minuti non fiatò una
mosca. Teschio abbandonò la postazione e si sedette al fianco di Benzina.
«Tutto bene?», gli chiese
l'amico.
«Sei in vena di romanticherie?».
«Non si vede più arrivare
nessuno».
«Mi sa che ne sono già arrivati
abbastanza».
«Ma conviene aspettare ancora un
po'».
«Entriamo in azione mezz'ora dopo
l'ultimo arrivo, vada come vada».
«Siamo proprio sicuri di...».
La frase di Benzina venne
interrotta dallo sguardo velenoso di Teschio, ormai perfettamente calato nella
parte di un novello James Bond.
«Siamo sicuri. Ormai siamo in
ballo...».
«E balliamo», concluse Giacinta.
Passò un quarto d’ora, dopodichè
la banda decise di entrare in azione:
«C'è una bella luna stasera»,
disse Benzina.
«Ma vaffanculo, va», disse Radu.
53.
«Giacinta, ci sei?», domandò
Teschio.
«Ci sono».
«Allora si parte».
«Oddio», sibilò Benzina.
«L'ora x è scattata».
Si avvicinarono lentamente al cancello
principale della ditta, ansanti come mamme in cerca del proprio bimbo al
termine del suo primo giorno di scuola. Si guardarono intorno con fare
circospetto, senza osservare altro che il grigiore della zona, qualche pianta
avvizzita e la lunga fila di macchine posteggiate di fronte al parallelepipedo
fantasma. Avevano il cuore in tachicardia. Benzina era quello che pareva
reggeva meno lo stress.
«Credo di non stare tanto bene», mugugnò,
come se gli fosse appena passato sopra la testa un tir.
Nessuno lo rincuorò.
«... di stomaco»,
«Benzina, non rompere i
coglioni», disse Giacinta, senza tanti convenevoli.
«Cazzo, smettetela di blaterare»,
la appoggiò Teschio.
Guidava la comitiva, seguito a
pochi centimetri di distanza da Radu che scrutava il circondario come la
piccola vedetta lombarda, memore dell’esperienza vissuta con stoicismo durante
il seppellimento della madre.
Le luci dei lampioni illuminavano
la strada e l'ingresso del covo. C’era in più una plafoniera rettangolare -
posta in cima all’uscio dal quale i vari Figli di Dionisio avevano calcato le
profondità degli inferi - che da sola sarebbe bastata a far luce sul destino
dei nuovi arrivati.
Giunsero di fronte alla porta maledetta,
agitati come formiche vittime di qualche mano incendiaria. Si consolarono nel comprendere
il deserto che li circondava. Teschio si rischiarò la gola; Radu e Giacinta si
presero per mano; Benzina si accarezzò il ventre sempre più costernato.
«Ragazzi, non ce la faccio più».
Giacinta e Radu lo guardarono
come si guarda un clochard steso a terra privo di forze in attesa che giunga la
sua ora. Teschio lo redarguì con forza.
«Puttana troia, si può sapere cos'hai?».
Benzina stava malissimo, era
devastato dai crampi addominali e da un sapore in bocca che gli procurava un
senso di nausea continuo. Non ebbe, pertanto, il tempo di rispondere al suo
interlocutore. Scivolò come un monopattino sbilenco dietro a un angolo della
ditta dove si calò le braghe e dette respiro al suo disastrato apparato
intestinale. Non ci mise più di trenta secondi a liberarsi del fardello che lo
costringeva a raccapriccianti mutamenti del viso, tuttavia non aveva valutato l'aspetto
meno encomiabile della vicenda: non aveva niente con cui pulirsi. Ancora con i
pantaloni calati, cercò sottovoce un aiuto.
«Ragazzi, scusate», sibilò.
«Qualcuno di voi ha dei fazzoletti di carta?».
Teschio si sarebbe mangiato il
fegato. Radu e Giacinta strinsero i denti increduli. La ragazza, tuttavia, scoprì
di avere in tasca una confezione appena aperta di Tempo. Glieli diede a Radu
che nicchiò.
«Perché devo portarli io al
merdone?».
Per la prima volta il capobanda
fu sgarbato anche con Radu.
«Piccolo, datti una mossa, sennò
qui ci stampano in pieno».
Obbedì senza fare tante storie.
Raggiunse Benzina e tappandosi occhi e naso, consegnò i fazzoletti al
moribondo.
«Tieni cagone».
Dopodichè si ritrovarono a tu per
tu con l’accesso segreto: di fianco, sul davanzale della finestra, c'era la
busta contenente la presumibile parola d’ordine da pronunciare per essere
ammessi alla corte dei Dionisio. Teschio fu percorso da un brivido, mentre
un'automobile, a gran velocità, gli sfrecciava a pochi metri, rompendo il lungo
e parco silenzio della sera.
Si fece avanti Benzina: non è da
escludere che volesse riscattare la sua condotta fin lì assai poco lodevole,
facendo suo il documento.
«Vuoi conservarlo per
l'eternità?».
«Figurati».
«Aprilo, sbrigati», gli intimò
Teschio.
Benzina lo guardò con occhi
languidi, temendo di poter saltare all'aria da un momento all'altro per via di
una carica esplosiva nascosta nell’inchiostro di un accento o una virgola. Si
ritrovò in mano un semplice foglietto con incisa la frase “luz de la esperanza ardiente”. Capitolò,
sbiancando in volto.
«Non è in italiano».
«Cosa stai dicendo?».
«Credo che sia...».
Teschio gli strappò il biglietto dalle mani e lo lesse a voce alta.
«È spagnolo».
54.
Ci rimasero di sasso.
«Chi parla?», chiese Benzina.
«La voce deve essere credibile...»,
disse Teschio.
«Non vedo fra noi molte voci credibili»,
replicò Benzina.
Teschio zittì.
«Mi sa che la più attendibile è
la tua».
Il leader della banda lo squadrò
con piglio assatanato, rendendosi conto che, in effetti, non c'erano molte
alternative: far cantare uno dei due ragazzi sarebbe stato come tirarsi una
scopa in testa, pensò, e Benzina... Però lui lo spagnolo non lo sapeva, non
l’aveva mai parlato e dover parlare per la prima volta in una lingua
sconosciuta non era uno scherzo. Dubitò che potessero insospettirsi del suo
traballante linguaggio, mandando all’aria tutti i loro piani e il buon
proponimento di risalire all’assassino di Slagena.
«Volete far fare a me?», disse
Giacinta, spiazzando i due adulti.
«Scherzi?».
«Ho provato a parlare spagnolo
con un amico di papà che veniva da una città chiamata Girona».
Si riferì all’ex sinti che aveva
suggerito alla famiglia sestese di emigrare in Spagna, dove le condizioni di
vita per i nomadi parevano più benevole. In territorio catalano c’era una ricca
tradizione circense, che avrebbe potuto regalare al padre della piccola buone
chance lavorative. Le cose, però, alla fine, erano saltate per via della madre
di Giacinta, che s’era imposta di rimanere in Italia, dove ormai aveva il suo
giro e le giuste conoscenze per poter condurre una vita in qualche modo
decorosa. Il padre era stato tentato di prendere con sé la figlia, i suoi
quattro stracci e fuggire di nascosto; ma poi l’amico con cui s’era messo in affari
per recuperare il rame da vendere, l’aveva convinto a rimanere a Sesto San
Giovanni e a tentare altre strade.
«Non lo so più tanto bene, ma
quel tanto che basta per farmi capire... o perlomeno, a rendermi credibile».
Teschio e Benzina si guardarono
stupiti. Le risorse della giovane parevano infinite. Radu fissò Giacinta
incredulo davanti a tanta spavalderia: sapeva di avere un’amica in gamba, ma
non fino a questo punto.
«Sai parlare spagnolo?», le
chiese.
«Non ho detto che lo so
parlare... ho detto che ho provato a parlarlo».
«Sentiamo», disse Teschio,
consegnandole il foglietto lasciapassare.
Giacinta lo prese fra le mani e
lo lesse con gran disinvoltura, lasciando ammutoliti i suoi interlocutori.
«Devo ripetervelo?».
I due uomini sorrisero di
soddisfazione, gioendo di tanta destrezza. Il secondo arrivò addirittura a
fantasticare sentimentalmente, tergiversando sul fatto che s’era creato un bel
affiatamento fra i membri dell’improvvisata banda, come rare volte gli era
capitato di vivere perfino con i coetanei.
«Forza, diamoci dentro», disse
Teschio.
Il capobanda si avvicinò al
citofono e pigiò con forza sull’unico bottone presente, privo di qualunque
indicazione nominale. Aspettarono in silenzio. Dopo pochi secondi si udì un
essere misterioso benedire la linea, ma senza pronunciare parola. Teschio, apostrofando
il mento, indicò a Giacinta di dimostrare quanto valesse.
«Luz de la esperanza ardiente...».
La serratura scattò istantanemanete. Benzina diede a Giacinta una pacca
sulle spalle.
«Si parte», disse Teschio.
Si trovarono di fronte a una lunga scala che penetrava gli abissi del
caseggiato, illuminata da deboli lampadine che si rincorrevano malamente
appiccicate a un filo spelacchiato. Ai bordi dei gradini s’era accumulata tanta
di quella polvere e frammenti di calcinacci, precipitati dalle umide pareti o
dal soffitto, che avrebbe potuto provocare un attacco di allergia a chiunque. Si
vedeva che da tempo nessuno si preoccupava di fare le pulizie e rendere in
qualche modo accolgiente l’antro. A metà del tracciato si intuiva la presenza
di una rientranza: era una specie di finestra, un incavo, dove presumbilmente potevano
essere sistemati attrezzi come gli estintori. In realtà, era vuoto. In fondo la
luce sbiadiva, suggerendo una curva, e un nuova pendenza.
«Sto davanti io. Poi i due ragazzi... Benzina chiude la fila. Ok?».
Annuirono, con l’ansia alle stelle.
55.
Teschio infilò le mani nella tasca dei pantaloni ed estrasse una calibro
38, lasciando a bocca aperta tutti i suoi soci.
«Non sapevo che avessi la pistola», blaterò Giacinta.
«Muta. Ho detto che non bisogna fiatare. La pistola servirà solo in caso di
grave pericolo».
«Agli ordini, capo».
La pistola non era sua, ma l’aveva trafugata in un locale di Varese. Era,
in realtà, una soffitta dove mensilmente alcuni brutti ceffi si ritrovavano per
giocare a poker. Sotto c’era un bar gestito da un calabrese consapevole del
fatto che, periodicamente, al piano di sopra, la clandestinità locale dava il
meglio di sè. Conveniva anche a lui, che riceveva sempre qualche gruzzoletto
per aver dato asilo a questo o a quell’altro ciminale. I partecipanti puntavano
cifre cospicue, arrivando addirittura a ipotecare dei beni materiali, dopo aver
scialacquato tutti i contanti. Erano perlopiù disperati, convinti che solo una
grossa vincita a poker o alle macchinette avrebbe potuto davvero dare un senso
alle loro vite, strappandoli dall’indigenza cronica. Per il resto, sarebbero
anche potuti morire dall’oggi al domani: non gli sarebbe rincresciuto più di
tanto riposarsi per l’eternità, senza l’assillo di dover ogni giorno lottare
con l’impossibilità di possedere quel minimo indispensabile a conferire loro
una vita degna di chiamarsi tale. A volte, però, gli animi si accendevano con
particolare enfasi, arrivando a generare scazzottate, anche per delle scemenze.
Come la sera in cui Piero Narducci - un tipo che si presentava quasi sempre
sbronzo alle serate e che alla fine se ne andava con il portafoglio sgonfio e
il desiderio di sterminare l’umanità con la sua calibro 38 – prese a fare il
diavolo a quattro. Teschio stava vincendo un bel gruzzoletto, mentre gli altri
puntatori erano pressoché a secco. In uno scatto d’ira, apparentemente
senza motivo, Narducci s’era alzato dal tavolo puntando la sua arma alla tempia
di Vinicio Baresi. Era calato il gelo, anche perché nessuno aveva mai visto
Narducci così alterato: gli uscivano gli occhi dalle orbite e digrignava i
denti come un cocainomane in astinenza. Avevano cercato di calmarlo con le
buone. Ma Narducci pareva davvero avere perso il controllo e nemmeno un dio
sarebbe stato in grado di sedare i suoi bollenti spiriti.
Baresi era sbiancato e tremava di
paura. Era stato, dunque, provvidenziale l’intervento del barista, che si era
presentato alla porta dove era in corso la bisca, per sollecitare i suoi ospiti
a scendere dabbasso per una bevuta collettiva offerta dalla casa, in occasione
di un affare andato a buon fine. Teschio, con uno scatto felino, era riuscito a
immobilizzare l’arto omicida di Narducci, stritolandoglielo al punto da far
cadere a terra l’arma. In pochi secondi la situazione era degenerata. Narducci
e Baresi avevano cominciato a darsele di santa ragione, davanti agli occhi
allibiti del barista che, dimentico del motivo per cui era finito fin lì, aveva
cercato di sedare la rissa impedendo a Baresi di affondare l’ennesimo destro.
Lo aveva fatto spostando di peso Narducci, inconsapevole del fatto che dietro a
lui ci fosse Massimo Caputo, che si era ritrovato col setto nasale fracassato.
Caputo, completamente rimbambito
dal colpo e dell’assurdità del momento, s’era scagliato con furia cieca sul
barista, generando un putiferio, dal quale Teschio era stato ben lieto di
levarsi dalle scatole. Nel marasma più totale - mentre altri clienti del bar
salivano a vedere ciò che stava accadendo, per via delle urla e del baccano –
aveva raccolto la pistola, se l’era infilata nei jeans, e con grande disinvoltura
era sgattaiolato oltre i confini del solaio varesino, con un oggetto che, un
giorno, aveva pensato profeticamente, gli sarebbe potuto tornare utile.
56.
Trovandosi a tu per tu con la
finestra notata prima di iniziare la discesa, Teschio scrutò al suo interno,
fotografando dei frammenti di muro scrostati e una specie di aggeggio per
appendere alimenti ai soffitti: aveva visto qualcosa del genere visitando di
recente un negozio di Castorama. Osservò i suoi bordi approssimativi,
portandolo a intendere che il piccolo vano dovesse avere una bella età, forse
addirittura antecedente la data di costruzione della scala che, nonostante
l’incuria, sembrava non avere più di una
quarantina d’anni.
Radu e Giacinta lo seguivano con
aria frastornata tenendosi per mano. Le mani del piccolo erano un lago di
sudore.
«Hai paura?», chiese sottovoce
Giacinta.
Radu mentì:
«No. E tu?».
«Un po’».
Benzina si proteggeva la pancia
da nuovi stimoli intestinali, attanagliato da fitte lancinanti, il chiaro segno
che se la stava facendo sotto dalla paura. Teschio, inconsapevole dei borbottii
fisiologici dell’amico, si girò per sincerarsi della sua autonomia. Benzina lo
salutò alzando il pollice, mostrandosi in perfetta forma fisica e psichica.
Teschio ne uscì soddisfatto, confortato dalla consapevolezza che, nei momenti
di vero bisogno, Benzina non l’avrebbe mai abbandonato.
Proseguirono nella corsa,
verificando, nell’ultimo tratto della rampa di scale, una serie di scritte sui
muri. Su una era riportata una frase virgolettata che procurò nei quattro
visitatori un gravoso malessere. Diceva: “Lui ti guida e vede tutto ciò che
fai”. Non sapevano a chi potesse riferirsi, ma fu sufficiente a provocare
all’unanimità un forte senso di disagio.
«Avete qualche idea?», domandò
Teschio.
«Si riferirà a Dionisio», disse
Giacinta.
«Ben detto», fece Benzina.
«Potrebbe essere un suo monito...».
Non finì la frase, perché si udì
un urlo lancinante provenire da lontano. Pareva quello di una donna,
evidentemente non felice del momento che stava attraversando. Aveva tutta
l’aria di essere un grido di dolore, analogo a quello sprigionato da una
partoriente o da chi viene violentato da qualche assurdo oggetto contundente. I
quattro si irrigidirono come pilastri di cemento armato. Giacinta prese a
tremare.
«Mio Dio, cos’è stato?».
Teschio reclamò il silenzio per
capire se si potesse percepire qualcos’altro e avere un quadro un po’ più
nitido della situazione. Interrogò nuovamente il muro che aveva di fronte,
scoprendo, questa volta, dei simboli che non avrebbe mai saputo interpretare. Su
uno risaltava un garofano trafitto da un coltello, con tante goccioline di
sangue che sgorgavano come gli zampilli di un fontanile; su un altro, una
svastica contornata da una specie di ferro spinato, dalla quale emergeva una
scritta incomprensibile.
«Non vorrei essere stato io al
posto di quella donna», disse Benzina, rimettendosi in marcia.
«Nemmeno io», ribatté Giacinta.
«Chissà cosa le hanno fatto...»,
disse l’uomo.
«Magari ha fatto la stessa fine
di mia mamma», disse Radu, raggelando gli animi dei presenti.
Teschio lo guardò perplesso.
«Non ci pensare adesso».
Non si udirono altre grida, ma
solo rumori legati a misteriosi sferragliamenti: come se dei metalli
arrugginiti sfregassero fra loro per creare melodie diaboliche e sinistre.
Teschio raggiunse il fondo della
scala, trovandosi di fronte a un ampio vano, raggiungibile attraverso una scala
pericolante, sul quale si aprivano tre porte.
57.
«Oddio».
Gli altri non avevano ancora
visto nulla.
«Che c’è?», chiese Giacinta.
«Guardate un po’ voi...».
I tre che aveva alle spalle
voltarono l’angolo trovandosi di fronte lo stesso panorama dell’amico, a capo
della combriccola, una distesa grigia di cemento e ferraglia di scarto, intrisa
di umidità e desolazione.
«Sembra una pista di atterraggio
degli elicotteri», sibilò Radu.
«Ne hai di fantasia», gli disse
Giacinta, con piglio denigratorio.
«Laggiù si vede una luce»,
sussurrò Benzina, indicando una delle tre porte, quella più scialba e dimessa,
dalla quale un luccichio tentennante pareva spuntare come il respiro di un
fuoco fatuo.
«Potrebbero essere lì», disse
Teschio.
«Il problema è che se esce
qualcuno ci becca in pieno».
«In effetti questa via di
ingresso non è l’ideale per un appostamento».
Teschio deglutì amaramente,
vedendosi così allo scoperto.
«Potremmo sempre tornare
indietro», azzardò Benzina.
Teschio lo silurò con uno sguardo
malato.
«Ormai siamo qui e ci giochiamo
la partita», disse Radu, con verve autoritaria. «Mia mamma aspetta ancora di
essere vendicata».
Teschio accolse con piacere la
determinazione del giovane, ma la paura cominciò a invaghirsi anche del suo
cuore, provocandogli strani sussulti e borbottii fuori dall’ordinario. Giacinta
notò la titubanza del leader e gli picchiettò amichevolmente la schiena.
«Tutto bene, grande capo?».
Lui la guardò ansimante.
«Bene, tranquilla...».
Lo disse con aria da duro,
proprio nel momento in cui la tachicardia gli giocò il peggior scherzo, facendolo
addirittura vacillare.
«Dobbiamo proseguire, forza
ragazzi», disse Teschio, appellandosi alle ultime forze rimaste.
Intrapresero la nuova discesa, lungo
l’orrenda scala di ferro, ben più vertiginosa della prima, mantenendo le
posizioni stabilite in partenza: Teschio, davanti, con la pistola spianata, poi
i due piccoli, e Benzina. L’unico tranquillo e felice di trovarsi in quella
imbarazzante situazione fu Radu che, vinti i tremori dell’attesa, si convinse
di poter finalmente mettere le mani sull’assassino di sua madre,
indipendentemente dal fatto che nel covo potessero esserci una quarantina di
persone in grado di polverizzarli in un nanosecondo. Ormai gli interessava solo
quello: saldare i conti con chi aveva osato uccidergli l’unica persona che gli
stava davvero a cuore.
Si fece forza convincendosi che
la fortuna sarebbe stata dalla loro parte; che lo spirito del nonno fosse
nell’aria, per guidare i loro passi e ad assicurargli il buon esito della
missione. Sul suo volto si dipinse un sorriso di sfida, pieno di coraggio e
orgoglio.
«Ce la faremo», disse a Teschio.
L’uomo gli sorrise dolcemente, in
qualche modo rasserenato dalla convinzione del ragazzo.
«Puoi scommetterci».
Scesero cercando di evitare ogni
rumore, con grande calma e attenzione. La stanza non era molto illuminata: ciò
che si vedeva, di fatto, era solo il magro frutto di un neon orizzontale posto
in cima allo stanzone. Chissà chi lo aveva fissato fin lassù, rifletté fra sé
Benzina, colui che ebbe più difficoltà di tutti a vincere i brevi e impervi
gradini della nuova scala. S’immaginò qualche Figlio di Dionisio obbligato a
pericolare su qualche pertica improvvisata per fissare al cielo quel lumino
insignificante, con l’aguzzino che l’aspettava a terra con un tizzone ardente,
pronto a usarlo se le cose non fossero andate come previsto. Fu un pensiero che
rabbuiò ulteriormente i suoi già lugubri presagi.
Furono a destinazione in pochi minuti.
La mano di Teschio cominciò visibilmente a tremare mentre si avvicinava alla
porta sconosciuta. Fissò la calibro 38, come se avesse in pugno un mitra.
Guardò per una frazione di secondo Benzina, che annuì: il grande momento era
arrivato.
58.
Abbassò l'arma e puntò l'occhio
oltre la minuscola apertura. Dietro di lui trepidavano, con Radu che per poco
non inciampò nel piedone di Benzina, rischiando di mandare tutto all'aria.
Teschio rimase immobile per vari secondi, senza respirare, riuscendo a fotografare
con dovizia di particolari il marasma che aveva di fronte. Era un ampio locale,
raggiungibile attraverso una manciata di gradini derelitti. Le pareti erano
pitturate di rosso e il soffitto di nero, in alcuni punti di blu scuro; Teschio
non riuscì a mettere a fuoco con spregiudicatezza le diverse tinte cromatiche. Erano
pareti scialbe, senza decori, né quadri. Su una, però, c'era disegnata una
strana creatura, mezza bestia e mezzo uomo, che impugnava una specie di torcia.
Di fianco, con gli occhi erosi dalla rabbia o dall'invidia, c'era un'altra
caricatura, raffigurante una donna con un lungo corno che le spuntava dalla
fronte, come un trampolino di lancio devastato dalle termiti. Il locale era
pieno di sedie e nel centro troneggiava una sorta di ara. Teschio, interrogando
il suo puerile immaginario, osò pensare che potesse servire a qualche
sacrificio umano e fu per questo percorso da un brivido. Ne aveva visti di film
con scene del genere; l'intero ambiente, del resto, era molto cinematografico,
poteva sembrare l'ideale scenografia di un film horror.
C'era una sola porta che lasciava
intendere la presenza di un ulteriore vano, al di là dell'ampio locale dove
l'incontro dei Figli di Dionisio si stava consumando. Sopra era stato fissato
un lugubre scalpo, di un mammifero che Teschio non seppe classificare: poteva
essere un cervo, ma anche un alce o un alpaca... per lui non avrebbe fatto
grande differenza. Le facce dei presenti erano illuminate da deboli lumicini di
cera, come puntine fotoniche in un grande cimitero. Una quarantina di persone,
sì e no, tutte quelle che aveva visto entrare dal momento in cui s'erano
appostati dietro al cespuglio. Riconobbe agilmente i rom e la signora svampita,
vestita da prostituta, e i tre bulldozer, fra i primi arrivati. I tre giganti
dominavano il mondo in francescano silenzio, con i loro sguardi duri e
spietati. Stavano tutti in cerchio, alcuni si tenevano per mano. In mezzo al
cerchio risaltava un figuro come un giudice pronto a emanare la sentenza, che
Teschio non aveva visto arrivare con gli altri; alto e ben messo, con una
vestaglia bianca che gli copriva i piedi e una maschera nera che gli falsava il
volto. In testa aveva una specie di corona, dorata, con due bracci di metallo
che formavano una lettera elle al contrario. L'uomo si agitava come un
tarantolato, blaterando, di tanto in tanto, qualche frase pressoché
incomprensibile. Sembrava essere sotto l'effetto di una droga. Dopo qualche
minuto di sconcerto si calmò, andandosi ad accomodare su un trono improvvisato,
che risiedeva su un lato del locale leggermente rialzato.
A tal punto, molti dei presenti,
fra cui la donna di costume, abbandonarono le sedie per dirigersi verso un rudimentale
tabernacolo, che alla prima occhiata era sfuggita a Teschio. Al suo interno
brillava una luce rossastra. Il santone lo raggiunse ed estrasse dal suo cuore
un'ampolla riempita di un liquido nerastro. La porse ai vari adepti che, nel
frattempo, s'erano inginocchiati di fronte al luogo di culto con atteggiamento
ossequioso. Uno a uno la baciarono, come se al suo interno fosse conservata una preziosa reliquia. Solo una
donna si rifiutò di farlo. Ma l'uomo mascherato la costrinse con la forza,
obbligandola a piegare il capo con le sue robuste braccia da camionista,
aiutato dai tre giganti.
I seguaci, intanto, abituati a
scene del genere, e quindi per nulla impressionati dalla cattiveria del leader,
riguadagnarono le loro postazioni originarie.
59.
Il santone abbandonò il
tabernacolo per raggiungere il centro del cerchio e iniziare a comporre strane
forme col corpo, dando l'impressione di muoversi inseguendo le note di una
musica inesistente. Con gli occhi chiusi e la bocca spalancata, assunse le
sembianze di un tonno appena pescato. A Teschio venne in mente l’immagine di
uno spettro.
«Che succede?», domandò Benzina,
impaziente.
Teschio si voltò per redarguirlo.
«Silenzio».
«Cazzo, dicci qualcosa», lo
implorò Giacinta.
«Non ora», sibilò Teschio.
«Quando sennò?».
«Statevene zitti».
«Ma si può sapere cosa stai
vedendo?», domandò Radu.
Teschio finse di non sentirlo e
continuò a osservare ciò che accadeva in quello stanzone malefico. La donna
piegata su se stessa, obbligata ad adorare l'ampolla contro la sua volontà,
venne lasciata libera dai tre bulldozer. Si levò da quell'impiccio con la
faccia devastata dal sudore e dalla paura. Gli altri due colossi la fulminarono
con lo sguardo. La donna tremava come una foglia.
Il santone smise di roteare su se
stesso, cominciando a pronunciare frasi incomprensibili, in una lingua sconosciuta.
«Aghar tumiane regola sorte
atimano, resto ai kurgan kurgan kurgan...».
Teschio sbalordì: la voce
dell'uomo si trasformò in un rumore sovrano, profondo, orrendo, come se nel suo
corpo avessero innestato un microfono, direttamente dagli inferi.
Il santone proseguì con la sua
abominevole arringa:
«Invero dicere udito prece cade
mura intrico intrico intrico...».
Aprì gli occhi e indicò l’ipotesi
di un fantasma che veleggiava sopra il suo capo. Unanimi, i presenti, seguirono
l'indicazione della sua falange, il dito di dio; anche Teschio, ma non vide
nulla. Il capo dei Dionisio intraprese una mezza corsa, ponendosi a una decina
di passi dal gruppo raccolto in religioso silenzio. Riprese, quindi, a
dondolarsi, come un uomo in trance, rapito da un mondo parallelo, affascinante
prerogativa di una dimensione lontana e sconosciuta, appannaggio di sentitivi e
angeli.
Teschio indagò con apprensione:
non aveva mai assistito a un comportamento del genere. Chi era quel pazzo? E
cosa stava combinando? Deglutì, come involontariamente si regala all’esofago un
insetto appena finito in gola per un alito di vento più potente degli altri, e
dondolò la testa affranto. La situazione era così assurda e rocambolesca che
perfino l'ansia sbiadì, in favore dell'incredulità più nuda e cruda. Lo riportò
alla realtà un calcio sul malleolo da parte di Giacinta, che lo affiancò per
sbirciare.
«Che diavolo fai?».
«Fa vedere un po' anche a me».
Giacinta puntò gli occhi oltre il
pertugio, percependo un mondo inverosimile, impossibile. Le venne un attacco di
nausea, che soffocò stringendo forte i denti. Sentì altresì un dolore alla
coscia destra, che reggeva il corpo sostenendo una posizione inadeguata alla
fisiologia dello scheletro. Non ci fece caso e continuò a fissare la scena con
curiosità morbosa. A lei si affiancò Radu, obbligando Teschio a retrocedere.
«Dionisio è qui fra noi, come
sempre, lo sentite? Lo sentite?», urlò, all’improvviso, il santone, riguadagnando
il centro del cerchio. «E come sempre, per fortuna, noi siamo qui per venerarlo
e adorarlo, come il padre di tutti noi... Dionisio, il dio della liberazione
dei sensi, dell'oblio, della frenesia della vita, del lato selvaggio dell'uomo,
della sua parte più istintiva... lo sentite? Che le nostre menti continuino a
servire la sua causa...».
Pronunciando le ultime parole,
gli adepti si alzarono in piedi e presero a recitare una filastrocca monotona,
che i visitatori non riuscirono a comprendere. Pochi minuti di penoso
raccoglimento e il santone interruppe la cantilena introducendo un argomento
che fece letteralmente rizzare la punta dei capelli ai quattro detective
ancorati come sanguisughe alla porta di ingresso: la necessità del prossimo
sacrificio umano.
60.
«Ho sentito bene?», domandò
Giacinta.
«Hai sentito benissimo», la
spalleggiò Radu.
«Fatemi spazio», disse Teschio.
Li spinse indietro, ritrovando la
posizione originale e potendo ascoltare comodamente le nuove farneticazioni del
santone.
«La fame di Dionisio, come
sapete, va alleviata... e noi abbiamo bisogno di ritrovare la purezza. Per
questo motivo è indispensabile regalare al nostro dio il più bel sacrificio
possibile, la gioia più immensa per le nostre anime... un sacrificio che sappia
di sangue e verità... un sacrificio che ancora una volta mostri all'umanità il
cammino da seguire; perché, ricordiamo, noi non dobbiamo lasciarci condizionare
da ciò che ci viene raccontato, dalle storie meschine che ci circondano, da
quello che blaterano i giornali, i media... Solo noi con la nostra forza e
temerarietà sappiamo, infatti, dove sta la verità, e in che modo è possibile
risalire la china. Solo con il sangue del sacrificio possiamo salvare il mondo
dall'immondizia sociale, dai capricci del clima, dall’ineluttabilità del tempo
e dello spazio. Solo così potremo guadagnarci l'immortalità, nel nome del dio
Dionisio».
«Cosa comandi, dunque, principe
della notte e dei sospiri eterni?», chiese un adepto, rimasto fino a quel
momento in disparte, come assorto in pensieri tutti suoi.
«Dobbiamo individuare un nuovo
bersaglio, colui che avrà l'onore di essere glorificato a Dionisio... Questa
volta, però, dovrà essere un uomo, un maschio, un xy, per dare continuità al
progetto, e fornire le energie più appropriate al conseguimento della Grande
Opera... Un uomo che possa regalarci il suo sangue, il suo spirito sudicio...».
Teschio non poté credere alle sue
orecchie: aveva gli occhi impallati e le pupille dilatate. Fissò il tipo che
aveva appena interloquito con il grande capo, supponendo che potesse essere il
suo braccio destro. Trovò conferma nel fatto che, rispetto agli altri, la sua
sedia era più arretrata, dandogli modo di poter veder in faccia tutti gli altri
seguaci della setta, senza dare nell’occhio.
«Allora?», disse Benzina, «si può
sapere che cazzo sta succedendo?».
Teschio si ritrasse dal pertugio
e completamente sbiancato rivelò agli amici quanto si stava realizzando in
quell'antro dimenticato da Dio.
«Un sacrificio umano?», mormorò
Benzina.
«Non urlare!», lo bloccò
Giacinta. «Vuoi che ci becchino proprio ora?».
«Così tutto torna. Slagena è
stata vittima di questi bastardi...», disse Benzina.
«A questo punto possiamo esserne
certi», disse Teschio.
«Ma non abbiamo ancora prove
valide per incastrarli».
«No, ma le avremo... se non ci
fanno fuori tutti».
Il capobanda riprese la sua
postazione, accompagnato da un brivido stonato, notando varie gocce di sudore che
grondavano dal suo capo, macchiandogli la camicia. Si sentì mortificato da ciò
che aveva appena sentito e non riuscì a capacitarsi del fatto che qualche essere
umano potesse essere così rimbambito da far credere a se stesso e agli altri
che solo con periodici sacrifici umani fosse possibile salvare l'umanità. O,
almeno, questo è ciò che gli pareva potesse trapelare da quelle parole
insensate. Pensò anche che, in un altro contento, avrebbe potuto affrontarlo a
viso aperto per dargliele di santa ragione, ma che ora non fosse proprio il caso di dare in escandescenza: qualunque mossa
azzardata gli sarebbe costata la vita.
Intanto il santone riprese a
blaterare, sconnesso dai comuni mortali.
«Domattina daremo il via alla
caccia e settimana prossima ci confronteremo sulle varie proposte... Non
dobbiamo avere paura di donarci a Dionisio, perché Dionisio non è il male, ma
il bene. Il vero bene trionfa sempre e chi oggi morirà nel suo nome, domani
avrà tutto ciò che desidera...».
«Il principe della notte e dei
sospiri eterni s'è, dunque, pronunciato», disse il mingherlino, che poco prima
aveva chiesto delucidazioni sulle prossime mosse da compiere. «Ora spetta a noi
benedire il nuovo sacrificio, che servirà a far luce sul nostro avvenire...».
Gli adepti urlarono in coro una
frase che Teschio non capì, provocando il panico nei tre amici che lo
guardavano alle spalle. Teschio si voltò immediatamente per tranquillizzarli e quando
si riaffacciò alla corte dei Dionisio, il santone era scomparso.
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