41.
Si svegliarono tardi, con le
giugulari sestesi già intasate dal traffico e lo sferragliare dei treni potente
come l’esplosione di una gigantesca acciaieria. Radu, raggomitolato su se
stesso a mo’ di un cincillà dormiente, per poco precipitò dal letto. Il timore
che Giacinta potesse giocargli qualche brutto scherzo l'aveva impensierito a
tal punto da spingerlo fino all’estremità del giaciglio, a un centimetro dal
vuoto. Giacinta nemmeno se ne accorse. Fu la seconda dei due ad aprire gli
occhi, impiastrati dall'umidità delle ciglia. Notò Radu in bagno, di spalle, al
termine della minzione.
«Ciao», gli disse.
«Ciao», rispose Radu.
«Dormito bene?».
«Così, così».
Pareva imbronciato, ingrugnito,
come qualche manciata di ore prima, col fantasma di Slagena impossibile da fare
volare via. Giacinta lo lasciò al suo destino, prendendo il suo posto sul trono
del massimo disimpegno. Spalancò la finestra, insofferente all'idea di
respirare l'aria stantia del bugigattolo intriso di particelle azotate, figlie
dell’attività glomerulare dell’amico. Si sentì, per un attimo, una specie di
madre; si ritrovò per la prima volta adulta e in dovere di assumersi le sue
responsabilità.
Radu non se la filò di striscio e
tornò a riflettere sul mistero del bigliettino ritrovato che giaceva
abbandonato di fianco al lavandino della cucina. Lo riprese in mano cercando di
capire qualcosa di più di quella scritta e di quel tratto calligrafico. Non gli
venne in mente nulla. Buio. Sapeva, però, che nelle mani di Teschio e Benzina
avrebbe potuto assumere un significato diverso. Pensò ai due amici sperando di
rivederli presto.
«Non si mangia?», chiese Giacinta
uscendo dal bagno.
«Mi sa che abbiamo esaurito le
scorte».
«Brutta notizia».
«Terribile».
Si guardarono affranti.
«Io ho una fame...», disse
Giacinta.
«Tua madre?».
«Avrà già notato che ieri è
sparita della roba... potrebbe insospettirsi».
Bussarono alla porticina del
camper.
«Chi cazzo è?», disse Radu,
spaventato.
«Non di certo Teschio e Radu»,
disse Giacinta. «Con loro siamo d'accordo per stasera. A quest’ora...».
«Appunto».
Era l'amico con cui Radu andava
spesso a cercare rame da vendere e col quale amava trascorrere i pomeriggi
esplorando gli angoli più disperati della stazione di Sesto San Giovanni:
Pollice. Il soprannome gli era stato affibbiato da alcuni amici convinti che la
sua compagnia fosse assimilabile a quella del primo dito della mano infilato
nel deretano. Non era una bella nomea, ma ormai nemmeno lui ci faceva più caso.
Era anche lui un sinti, ma, a
differenza degli altri, era ben introdotto nella società. Sapeva leggere e
scrivere e da un po' di tempo aveva anche un lavoro: prestava servizio, in
nero, naturalmente, presso una specie di contadino di Brugherio che
mercanteggiava i suoi cimeli fotosintetizzanti lungo il viale delle Industrie.
Lo pagava, pochi euro, per fargli allestire il banco vendita, pulire l'interno
del camioncino con cui si spostava e gridare ai quattro venti “fiori di zucca!,
fiori di zucca!”.
I suoi genitori erano fra i più
benestanti della zona e non gli mancavano mai gli spiccioli con cui concedersi
qualche vizio, in primis le sigarette che divorava come un tabagista consumato.
Ribussò con maggiore vigore.
«Che facciamo?», chiese Giacinta.
«Gli apriamo».
«E poi?».
«Niente. Dai apri».
Pollice li salutò con l'aria
allibita.
«Che ci fa qui, questa?»,
domandò, senza tanti peli sulla lingua.
Giacinta si sentì offesa.
«Che cazzo vuoi Pollice? Cosa ci
fai tu, qui?».
Pollice non le diede alcuna
importanza e seguitò a discorrere con l'amico.
«Dov'è tua madre?».
Radu fu vago.
«Non so. Deve essere andata a
prendere l'acqua...».
Pollice scrutò all’interno del camper,
convinto che i due non gliela stessero raccontando giusta. Non lo insospettiva
tanto l'assenza di Slagena, quanto il fatto che si trovassero lì, da soli. In
mutande. In mutande? Tagliò corto e arrivò al sodo.
«Ho due brioche appena sfornate».
A Radu si illuminarono gli occhi
di contentezza, sentendo lo stomaco brontolare, benché non fosse la prima volta
che Pollice lo andava a trovare con qualcosa di buono da mettere sotto i denti.
In questo caso se ne rallegrò con particolare enfasi, poiché i morsi della fame
avevano cominciato a essere davvero difficili da sopportare; quando comparivano
i crampi, lo sapeva bene, significava che non c’era più tanto margine di
autonomia e che se non si mangiava al più presto qualcosa si rischiava di non
avere più nemmeno la forza di alzare un cucchiaio. Nonostante ciò guardò Giacinta
con fare fraterno:
«Se ti va, la nostra, possiamo
dividercela».
42.
Radu e Giacinta si avventarono sui
chicchi di zucchero come gatti a digiuno da una settimana di fronte a un bel
salame stagionato. Pollice li osservò stupefatto.
«Siete sicuri di stare bene?».
Giacinta lo guardò con
risentimento.
«Perché ce lo chiedi?», domandò.
«Così. Mi sembrate strani e non
vi ho mai visti così affamati...».
Radu e Giacinta si guardarono
offesi dalla consapevolezza; ponderarono il loro famelico comportamento,
cercando di domare l’acquolina: non volevano far intuire all'amico che qualcosa
non andava per il verso giusto. Comunque sia, in pochi morsi il dolce era già
finito e il loro stomaco neanche vagamente impensierito dalla sazietà.
«Mi sa che avete ancora fame».
«Puoi dirlo forte», disse
Giacinta.
Pollice li invitò a seguirlo in
un negozio dove vendevano animali domestici. Lo avevano appena aperto sulla
strada per la Bicocca. A Giacinta piacevano gli animali e accettò di buon
grado. Radu era un po' più perplesso, anche perché si rendeva conto che quella
non sarebbe stata una giornata come tutte le altre. Più tardi sarebbero
arrivati Teschio e Benzina e sarebbe scattata l'ora x. Era necessario mantenere
un certo contegno, una certa concentrazione. Sapeva quanto fosse importante
stare concentrati, anche quando faceva i suoi esercizi funambolici.
Giacinta notò la sua titubanza e
gli diede un calcio nel sedere. Radu la fulminò con uno sguardo al cianuro. Il
sole era già caldo, benché durante la prima mattinata, una spessa coltre di
nubi a occidente, avesse lasciato presagire una giornata più fresca delle
altre.
«Si crepa», disse Pollice.
Gli altri due non proferirono
parola.
«Mi sembrate due zombie».
«Abbiamo dormito da cani».
«Avete dormito insieme?».
Radu tracollò.
«Sei scemo? Mica siamo
fidanzati».
«Da me c'erano due zanzare che mi
hanno perseguitato tutta notte. Ho cotole da tutte le parti», risolse Giacinta.
Dopo un paio di chilometri di
cammino, giunsero febbricitanti al negozio suggerito da Pollice. Giacinta e
Radu si sforzarono di apparire il più normale possibile, elucubrando sul fatto che
non avessero assecondato l’amico per puro piacere, o per spirito di solidarietà;
ma solo perché, dalla grossolana magnanimità di Pollice, speravano potesse saltare
fuori il pranzo. Diversamente non avrebbero mai abbandonato la loro tana per
dargli retta.
La ragazza fu entusiasta di
scorgere in vetrina due cagnolini che si rincorrevano e due cavie che
sonnecchiavano nell'angolo di un cubo di vetro colmo di segatura puzzolente. Per
un attimo dimenticò i patemi legati all'imminente missione.
«Sarebbe il mio sogno tenerne
uno».
«Il proprietario è un mio amico.
Se vuoi me lo posso lavorare per fartelo avere per pochi spiccioli...».
«Figurati. Mia madre non ne vorrà
sapere».
«Io sì, però...», disse Radu,
sorridendo.
Compirono un giro all'interno
dell'esercizio, come se stessero passeggiando per le stradine di Gardaland, con
gli occhi sbarrati e la bava alla bocca. Si divertirono a stuzzicare uno
scoiattolo che s'arrampicava lungo una pertica di plastica, triste e smunta,
addobbata di foglie artificiali. C'era anche un animale strano che non avevano
mai visto, pieno di puntini colorati, e sul quale si soffermarono con particolare
interesse.
«Che animale è?», chiese Pollice
al proprietario.
«Una salamandra tigre. Se le metti
lì un dito te lo fa saltare con un morso».
«Ma vaffanculo», mormorò Radu,
sottovoce.
Quando uscirono dal negozio era
ormai mezzogiorno e la fame era tornata a farsi sentire. Come previsto dai due
fidanzatini, Pollice si fece avanti per offrirgli il pranzo. Sapeva essere
incredibilmente generoso, quando voleva; ma era anche l’unico modo che aveva di
dimostrare agli amici che lui era il più danaroso di tutti e che presto avrebbe
abbandonato la vita da nomade - una vita che odiava con tutte le sue forze -
per poter godere di ogni privilegio e benessere, come i tanti ragazzi della sua
età che vedeva circolare per Sesto, agghindati come damerini.
Finirono in un negozietto a
ridosso dell'università che vendeva tranci di pizza e focacce. Vedendo tutto
quel ben di dio sistemato con tanta benevolenza, lungo un bancone lindo e
luccicante, Giacinta e Radu si leccarono i baffi. Pollice ci mise poco a capire
che i due avevano una fame da leoni e ordinò tre pizze abbondanti, con
altrettante maxi Coca Cola. Un pranzo così lo avrebbero sognato per settimane.
43.
Tornarono al camper nel primo
pomeriggio, zigzagando fra gli studenti universitari che andavano e venivano
dalle aule dell'ateneo. Si muovevano come fantasmi. Come se non esistessero. Le
loro arie trasandate non facevano una buona impressione. Solo una ragazza si
soffermò sul dolce viso di Giacinta, indicando la sua bellezza a un compagno
universitario che si era abbandonato a una smorfia contratta.
Radu e Giacinta cercarono di fare
capire a Pollice che la sua presenza era stata provvidenziale e che, come
sempre, s'era dimostrato un amico insostituibile, ma che ora sarebbe stato
necessario dividersi. Non volevano, di fatto, correre il pericolo di averlo
ancora fra i piedi quando sarebbero sopraggiunti Teschio e Benzina, pronti per
andare a fare visita ai Figli di Dionisio. Adottarono, pertanto, lo stratagemma
del Vulcano.
«Penso di andare con mamma al
centro commerciale», disse Giacinta.
«Quando?», domandò Radu.
«Oggi pomeriggio».
«Wow, anch’io».
«Anch’io cosa?».
«Posso aggregarmi?».
«Se ti va...».
«Da tempo ho voglia di andare a
fare un bel giro al Vulcano».
Pollice rabbuiò. Sapeva di non
poter più mettere piede nel principale centro commerciale di Sesto, per via di
un furto che aveva commesso un anno prima, con un amico venuto dalla Campania
con cui aveva messo a soqquadro mezza Brianza. I due erano stati beccati con un
carrello pieno di refurtiva, sfuggito alle casse per via della disattenzione di
un lavoratore con la testa perennemente tra le nuvole, che conoscevano e
tenevano d'occhio per fargliela sotto i baffi. Dopo un lungo interrogatorio li
avevano rilasciati, ma ammonendoli di non farsi più vedere da quelle parti,
pena la seria possibilità di finire dietro le sbarre. Pollice, inconsapevole
della messinscena del duo, non avrebbe rischiato e programmò di togliere quanto
prima il disturbo.
«Se voi andate al Vulcano... io
andrò a farmi un giretto dagli Umiza di Vimodrone».
Era una famiglia di zingari
particolarmente rinomata, per le sue agiate condizioni economiche e per
l’eccezionale numero di traffici che gestiva, consentendo a molti rom di
costruirsi un degno avvenire. Per Pollice fu, dunque, il pretesto ideale per
comunicare agli amici che volevano scaricarlo, che la sua destinazione era
molto più intrigante di una banale ricognizione al Vulcano. Dagli Umiza,
peraltro, era sempre festa: c'era chi suonava, cantava e ballava. In realtà fu
proprio Pollice a cadere nel tranello senza rendersene minimamente conto, del
tutto ignaro dei casini che stavano passando i due sinti.
Si intravedevano già le punte
degli alberi del Parco Gramsci, quando il congedo fu definitivo.
«Ci lasciamo qui», disse Pollice.
«Sei stato molto generoso», disse
Giacinta, con un vago senso di colpa.
«Già...», blaterò Radu.
«Con un amico come te, tutto
sarebbe più facile», precisò Giacinta. «Si vede che hai una marcia in più degli
altri».
Pollice gonfiò il petto, fiero di
essere considerato così importante e di avere un’ulteriore prova che non fosse troppo
lontano il giorno della sua totale emancipazione.
«Grazie», chiuse Radu.
Dopo i saluti, il piccolo si fece
di nuovo pensieroso, rivivendo il disgusto di non avere più la mamma, e di
dover compiere un'azione che avrebbe tranquillamente evitato. Pensò che,
proprio a quell’ora del pomeriggio, sarebbe dovuto essere con lei fra i prati
del parco, dove avrebbe compiuto qualche esercizio per preparare un nuovo
numero da equilibrista, in attesa di vedersi servire qualcosa per merenda,
magari delle fette biscottate ricoperte di Nutella.
Gli parve di essere orfano da
secoli e invece erano passati solo due giorni dalla fine della sua vita
spensierata. Si mise in cammino senza tenere conto di Giacinta che gli marciava
accanto avvolgendolo come un mantello di lana.
«Qualcosa non va?».
«Niente».
«Sei diventato mogio tutto d'un
colpo».
«Mi manca mamma».
«Mi dispiace».
«Cosa ne sai tu? Tu una mamma ce
l'hai».
44.
A destinazione si accomodarono sul
ciglio del marciapiede, in attesa di decidere come ammazzare il tempo,
aspettando Teschio e Benzina; ma non arrivarono da nessuna parte, attanagliati
dalla noia e dalla rassegnazione. Radu preferì proseguire nel suo mutismo
assoluto, lasciando a Giacinta ben poche chance di risolvere la situazione. La
ragazza non trovò, dunque, di meglio da fare che fissare le bracciate di una
vecchietta del palazzo di fronte che indagava rabbiosa lo svolazzare nervoso
dei piccioni: alla fine, la donna, prese una scopa e l'agitò nell'aria,
compiendo un'azione del tutto inutile, poiché i volatili erano molto più agili
e svegli di lei. Giacinta sorrise osservando l’incredibile goffaggine
dell'anziana che, in qualche modo, le consentì di vincere la monotonia di un
pomeriggio senza futuro. Dopo mezz’ora di silenzi, ritornò a Radu, perso nella
sua malinconia e cercò di rincuorarlo.
«Vedrai che dopo stasera
comincerai a stare meglio. Con Teschio e Benzina risolveremo il caso e...».
«Qualunque cosa accadrà non servirà
a riportarmi la mamma».
Giacinta trovò a fatica nuove
parole per sollevarlo.
«Lo so. Ma potrebbe aiutarti a
vivere con meno angoscia la sua assenza».
Radu si fece meditabondo.
«Non capisco tante cose. Non
capisco perché questa brutta storia sia successa proprio a me».
«Sono cose che sanno gli spiriti.
Solo Del comprende i nostri destini».
«Del...».
«Siamo nelle sue mani. E nelle
mani di Sara la Nera. Se tua mamma è stata uccisa... è terribile dirlo, ma ci
sarà un perché».
«Non mi interessa alcun perché.
Non mi interessa niente».
Radu si alzò di scatto e iniziò a
prendere a calci il camper. Un colpo più deciso degli altri fece saltare il fanalino
anteriore. Giacinta lo guardò allibita. Non l'aveva mai visto così furente.
Pensando al giorno prima e alla sua spensieratezza in riva al Villoresi, non le
sembrava vero che potesse essere cambiato in così poco tempo.
«Radu, smettila!», gridò.
Ma il piccolo non ne volle sapere
e continuò nella sua rocambolesca e sconsiderata azione.
«Voglio distruggere tutto ciò che
mi ricorda mamma. Non voglio più avere a che fare con lei. È anche colpa sua se
ora sono solo».
Radu, fu chiaro, blaterava. Non
sapeva più quello che diceva; era accecato dall'ira e dal risentimento.
«Radu, Radu... cerca di stare
calmo!».
Radu la guardò con furia omicida.
«Stammi lontana».
«La vuoi capire che non serve a
niente comportarsi così?».
Giacinta non si lasciò intimidire
e continuò nel suo tentativo di ammansirlo dicendogli che Slagena non sarebbe
stata felice di vedere suo figlio comportarsi in quel modo. Sapeva che,
nonostante la scarsa scolarizzazione e le umili origini, era sempre stata una
donna desiderosa di impartire una buona educazione al figlio, convinta che un
gentiluomo, benché rom o sinti, avrebbe avuto più chance di farsi strada nella
vita: il che è tutto un dire, visto che non erano state rare le volte che
insieme avevano rubacchiato qualcosa qua e là, adottando un comportamento non
esattamente in linea con il rispetto verso il prossimo. Ma in troppi casi non avevano
avuto alternativa, se non morire di fame.
Anche lei, come Pollice, aveva
puntato all’ipotesi di potersi un giorno lasciare alle spalle la vita
deplorevole vissuta fino a quel momento, per poter garantire a Radu il futuro
più roseo, strappandolo da un destino segnato. Ma le cose, per un motivo o per
l'altro, erano sempre andate male. Imputava la colpa alle difficoltà legate
all'integrazione e all'ostracismo degli autoctoni. Diceva, infatti, che gli
italiani erano razzisti e che al di là di tanti bei discorsi sentiti in tv o
letti sui manifesti relativi a qualche manifestazione di solidarietà, covavano
nei confronti degli zingari un odio profondo. Questa situazione le aveva
impedito di ottenere qualunque tipo di vantaggio per sé e per la propria famiglia.
E le cose erano peggiorate con la morte del marito: abbandonata a se stessa e
con un figlio a carico, era stata costretta a riparare in angoli della vita
sociale sempre più ristretti, fino a sprofondare nell'isolamento più totale.
Poteva contare sulla famiglia di Giacinta, ma era un’amara consolazione: la
vera vita era altrove e, forse, non le sarebbe mai appartenuta.
45.
Radu si acquietò tirando un
ultimo pugno sul parabrezza, ammettendo che quello che stava facendo era forse
più una dimostrazione di forza nei confronti di Giacinta, che non la reale
necessità di sfogarsi fisicamente su qualcosa per marginare il dolore.
Giacinta respirò profondamente,
constatando che la scenata dell'amico fosse giunta al termine e che le sue
parole non erano state vane. Tornarono a sedersi sul gradino del marciapiedi
con la vecchietta della casa di fianco che riprese a dare la caccia ai
piccioni. Fu una scena che portò i due piccoli a rilassarsi e a ridere come
avevano fatto fino a poche ore prima. Radu, però, non si lasciò andare a troppi
complimenti e senza proferire parola guadagnò l'entrata del camper.
Riprese in mano il foglietto
trovato il giorno prima, redatto da qualche misteriosa mano che, evidentemente,
li stava tenendo d'occhio. Il pensiero gli suscitò un senso di piacere e
soddisfazione. Si sdraiò sul letto, fissò Santa la Nera. Il mondo non era del
tutto terribile.
Giacinta, vagamente offesa dal
suo umore altalenante, gli comunicò che sarebbe tornata alla propria roulotte,
per sincerarsi che tutto stesse proseguendo senza intoppi e che i suoi genitori
non le stessero dando la caccia.
«Ok, ci vediamo dopo», disse
Radu, privo di qualunque entusiasmo.
Giacinta corse come un fulmine,
come se avesse il bisogno, con l’esercizio fisico, di scaricare la tensione
accumulata. Al cavalcavia che precede la ditta che le dava ospitalità, si fermò
in preda alla tachicardia. Si accovacciò, appoggiandosi con una mano al muro
per non rischiare di finire per terra. Con la coda dell’occhio osservò la
sfilza di murales che tinteggiavano il tunnel, ma non ebbe la forza di contemplarli
com'era solita fare, indagando curiosa la maestria dei writer. Si spaventò
accorgendosi di non riuscire a riempire i polmoni come avrebbe voluto e come le
era sempre capitato dopo una zampettata. Passarono almeno cinque minuti, prima
che potesse raggiungere le propaggini della roulotte.
Scorse per prima cosa il padre,
appena rientrato dal raid svizzero. Trafficava all'esterno del mezzo con una
serie di attrezzi da lavoro che non aveva mai visto. Maneggiava un aggeggio del
quale si serviva per deflagrare il metallo. L'uomo indossava una specie di
mascherina che lo proteggeva dal fumo e dalle schegge. Vide la figlia, ma non
si scompose minimamente, nemmeno quando le fu accanto. Si fece, in compenso,
avanti la madre per sapere cosa avesse fatto tutto il tempo in cui era sparita
dalla circolazione.
«Dove sei stata?».
«Da Radu».
«Cosa?».
Il rumore del flessibile impedì
una degna corrispondenza fra le due donne.
«Sono stata da Radu!».
La più anziana tornò alle sue
faccende, indifferente alla risposta della figlia. Sporse dal davanzale delle
finestrella della cucina un tappeto unto e ricoperto di sporcizia. Lo sbatté,
senza curarsi del fatto che il vento muovesse tutto quel catrame domestico
dalla tettoia al capo spelucchiato del marito, piegato su se stesso come una
spirale galattica. Giacinta non seppe se ridere o piangere.
Da una parte fu lieta di rivedere
i suoi, ma dall'altra si rese conto che, per l'ennesima volta, la sua presenza
nelle dinamiche familiari era del tutto irrilevante. Non le sarebbe davvero
dispiaciuto trascorrere il resto dei suoi giorni con Radu, ma il pensiero che
mamma e papà fossero del tutto disinteressati al suo avvenire, la tormentarono
non poco.
«Vado ad abitare con lui!», gridò
Giacinta per attirare l'attenzione.
Il padre smise di far baccano e
salutò la figlia.
«Hai capito cosa ho detto?».
«Cosa?».
«Sto pensando di andare a vivere
con Radu».
«E la mamma di Radu è
d'accordo?».
«La mamma di Radu è partita per
la Romania».
«Non dire sciocchezze».
«Se n'è andata mentre tu eri a
Lugano».
Il padre di Giacinta interpellò
la moglie che, dopo aver ritirato il tappeto, stava cominciando a scopare gli
interni della roulotte.
«Esma, lo senti quel che dice tua
figlia?».
La donna aveva sentito tutto, ma
non le interessava nulla.
«Sì, sì, lascia che vada dove
vuole. Tanto dopo due giorni ce l'abbiamo ancora qui a rompere le scatole».
46.
«Mi riposo», disse Giacinta,
rassegnata all'idea che qualunque altra spiegazione sarebbe stata inutile.
«Ti riposi?», domandò il padre.
«Sarà meglio che tu vada con tua madre fuori dalla chiesa...».
«Neanche per sogno».
«Non ci provare a contraddire tuo
padre».
«Non andiamo mai il pomeriggio...».
«Adesso serve anche il
pomeriggio... se vuoi mangiare».
«Che palle».
Il padre la rimproverò con uno
sguardo inverecondo. Ma vedendo la figlia non battere ciglio, rincarò la dose,
inseguendola per menarla: non era particolarmente manesco, ma qualche volta non
disdegnava suonargliele di santa ragione, quasi sempre con l’unico scopo di poter
sfogare le proprie frustrazioni. Volavano sberle e in alcune occasioni era
arrivato a utilizzare perfino la cinghia, come suo padre l’aveva usata con lui,
quand’era piccino.
«Lasciami in pace».
Giacinta fu più lesta del
genitore e - guizzando abilmente come una gazzella al suo primo viaggio oltre
la radura natia - corse alle spalle della roulotte, nascondendosi alla base di
un grosso bidone della ditta, mezzo pieno di cartacce e acqua marcescente. Si
accovacciò, sparendo dalla vista del capofamiglia, con il cuore che riprese a
battere come un tamburo.
«Vieni fuori che ti ammazzo».
«Neanche per sogno».
«Vieni fuori che ti uccido».
«Vaffanculo».
La madre rise, come rideva tutte
le volte che si accendevano gli animi di qualche membro della comunità, purché
non fosse lei stessa tirata in ballo in prima persona. In questo caso,
evidentemente, lo era solo di striscio. Il suo coinvolgimento era dovuto al
fatto che si recava spesso con la figlia fuori dalla chiesa di San Babila, a
Milano - quella ricoperta di mattoni rossi, dove venne battezzato Alessandro
Manzoni - a chiedere l'elemosina. Si disponevano come guardie pontificie
azzoppate dalla rogna, agli angoli della porta principale, stendevano la mano
con lo sguardo mogio o posizionavano di fronte alle ginocchia un’implorante scatoletta
di tonno o di Simmenthal, e attendevano l’arrivo di qualche benefattore.
La presenza di Giacinta era
davvero confortante e provvidenziale, perciò il padre insisteva tanto. Quando
c'era lei gli incassi erano decisamente più alti. I fedeli che si recavano in
chiesa la guardavano incantati da quella bellezza, increduli di fronte
all’ipotesi che tanta grazia potesse andare sprecata. Qualche milanese si
fermava a parlarle, mostrando tutta la sua boria, viscido e bavoso come il muco
di una limaccia indigesta.
«Lasciala perdere quella
sgualdrinella».
«Puttana, non ti ci mettere anche
tu...».
«Mi ci metto, eccome. Oggi non va
neanche a me di andare a caritare...».
«Sparisci, donna! Non ti voglio
vedere, strega!».
La verità è che lo lasciavano
parlare, lo lasciavano sfogare; sapendo che le sue sfuriate non duravano mai a
lungo. Diventava particolarmente molesto quando alzava il gomito – amando più
di ogni cosa bere e fumare - ma poi si acquietava come un agnellino e diveniva
del tutto innocuo. La sua rabbia era sovente dovuta al fatto che nessuno lo
prendeva veramente in considerazione, se non Radu.
Fra il padre di Giacinta e il
figlio di Slagena era sempre corso buon sangue. Più di una volta aveva addirittura
rinfacciato alla piccola di casa che avrebbe preferito un maschio come Radu, e
non una femminuccia come lei, capace solo di spendere il suo tempo davanti allo
specchio per farsi bella. Da giovane era stato un grande professionista
nell'arte circense, ma poi le cose erano andate a rotoli, e aveva cominciato a
vivere di espedienti. Rubacchiava materiali qua e là che rivendeva per pochi
euro.
Girava per le strade malfamate
della zona con un carretto sbilenco, talvolta aiutato da un mentecatto che
abitava in una tenda nei pressi della stazione, perennemente in bilico fra la
vita e la morte. I rischi non erano legati solo al timore di finire al fresco,
ma anche alle vivide difficoltà concernenti questa poco remunerativa attività.
Una volta per recuperare del rame da una grondaia di un asilo di Cinisello, aveva
fatto un volo di tre metri. Gli andò bene, anche perché dopo anni di cadute
funamboliche, aveva imparato ad atterrare con estrema malizia. Il resto,
necessario al sostentamento del trio, lo procuravano le due donne, per certi
aspetti molto più sveglie e preparate di lui.
47.
Giacinta si liberò del bidone che
la teneva incastrata fra il muro e la roulotte quando sentì il padre andarsene.
Lo capì dallo sferragliare della catena della bicicletta arrugginita del
genitore, e per l'imprecazione che l'uomo dedicò alla moglie, a mo’ di una
serenata improvvisa. Aveva le mani pregne di muschio e la bocca impastata di
paura, come quando, anni prima, si era trovata imprigionata in un recinto pieno
di tacchini che la puntavano come una porchetta prelibata e aveva cercato in
tutti i modi di vincere un muro tappezzato di briofite per scappare dai loro
becchi appuntiti e minacciosi. Si sentì terribilmente spossata, con quintali di
pensieri e dispiaceri da portare sul gobbo. Capì più che mai il dolore che dovesse
patire Radu, ritrovatosi orfano dalla mattina alla sera, senza più un appiglio
al quale aggrapparsi per ricevere, se non altro, una banale smorfia di approvazione.
Percepì che qualcosa della sua giovinezza, fosse passata per sempre. Sentì che
gli ultimi giorni vissuti erano stati così intensi da averla strappata dal suo
passato divenire. La sua piccola vita era diventata una grande vita. Ma paradossalmente
si sentì vecchia e inutile. Tornò alla roulotte e, del tutto indifferente alla
presenza della madre, si tolse le scarpe e si sdraiò sul divano, prevedendo un
sonnellino di qualche minuto. S'addormentò di colpo, risvegliandosi solo dopo
le diciassette, con l'impressione di non avere mai riposato e un terribile mal
di testa.
La roulotte parve deserta. Uno
strano silenzio l’avvolse. Mamma e papà sembrarono spariti nel nulla. E con
loro l’umanità. Ebbe l’impressione che tutto si fosse acquietato, come se una
voragine avesse ingurgitato il mondo intero; una sensazione dovuta, forse, ai
riflessi nervosi ancora sopiti. Se ne rese conto udendo, pochi istanti dopo il travaglio
del risveglio, la brusca e rumorosa frenata di un mezzo pesante che transitava
di fianco alla ditta che dava ospitalità ai sinti. Mancava poco all'ora x. Aprì
la porticina della roulotte e interrogò il cielo. Era lo stesso degli ultimi
giorni, grigio e opaco. E c'era la solita afa. Le condizioni climatiche
ottimali per mettere in atto il piano organizzato con la banda dei quattro? È
la domanda che si pose, grattandosi con insistenza una crosta sul ginocchio.
Cercò una pasticca per calmare i
dolori alla testa, ma non trovò nulla se non la carta disfatta di una
confezione di Aspirina. Si rinfrescò con una manciata di acqua recuperata da
una bottiglia alla base del lavandino della cucina. Rinvigorì. Si cambiò i
vestiti che indossava da una settimana, incalzata dall’idea di agghindarsi con
cura. Indossò una camicetta che mamma aveva trovato in un cassonetto della
Caritas, ancora molto bella, con le righe rosa e rosse. Si guardò allo specchio
trovandosi incredibilmente graziosa e non vedendo l'ora di potersi mostrare a
Radu. Pensò di raggiungerlo per cena, tirandosi i capelli con una spazzola
malandata, ma ancora funzionale e indossando un paio di orecchini baldanzosi.
Terminò le operazioni di cura
personale, mettendosi a cercare qualcosa da mangiare. Trovò, meravigliandosi,
la dispensa rifornita di leccornie, dalle quali selezionò un po' di pasta,
delle fette di prosciutto e un barattolo di olive. Mise tutto in un sacchetto
di plastica che appoggiò sul letto, prima di infilarsi le scarpe. Finalmente
poté partire alla volta del cavalcavia e del suo amato.
«Dove vai?».
Era la madre con la solita faccia
scura.
«Da Radu».
«Stai sempre con quello là. Se
almeno ci guadagnassi qualcosa».
Giacinta la guardò con biasimo
prendere il suo posto nella roulotte, chiudere la porta e dimenticarsi di lei. Storse
le labbra. Ma si convinse che fosse comunque meglio avere una madre menefreghista
che non averne; come Radu. L'avrebbe d'ora innanzi vissuta con più sentimento,
anche se non sempre i rapporti fra loro erano idilliaci. Probabilmente... ne
valeva la pena.
48.
«Hai preparato una cena coi
fiocchi, mica quella dell'altra sera con Teschio e Benzina».
Radu proclamò il verdetto senza
rendersi conto che aveva proprio i due amici incollati alla schiena. In effetti
s'era nutrito di gran gusto, e Giacinta era stata davvero brava a preparare
quel pasto delizioso. Sembrava una sera promettente, se non fosse che mancava
pochissimo all'inizio di un'avventura che nessuno sapeva dove avrebbe portato.
«Bene, bene, così tenete in serbo
per voi i piatti migliori, mentre a noi riservate i cracker», ironizzò Benzina,
apparentemente calmo e rilassato. «Ne terremo conto la prossima volta che
dovremo offrirvi qualcosa da mangiare...».
«Urca», fece Radu, «siete già
qui?».
«Ebbene sì».
Radu s’imbarazzò.
«Ho mangiato come un bue senza
rendermi conto del tempo che passava. Ma immagino non ci sia tutta sta fretta...».
Giacinta aveva ancora le maniche
della camicia rimboccate per non bagnarsi lavando i piatti. Teschio era il più
contratto e pareva tutt'altro che sereno. Aveva lo sguardo duro e rammaricato,
come non gli capitava da tempo. Sembrava che in quarantotto ore fosse
invecchiato di mille anni e che avesse anzitempo fatto i conti con la necessità
di ritagliarsi un angolo di mondo dove andare a scontare le sue ultime pene.
Aveva la barba sfatta e gli occhi contornati da un alone rosso vivo. Aveva
dormito male, pensando ai rischi che avrebbero corso andando a mettere il becco
nelle faccende riguardanti i Figli di Dionisio. Ma ormai non c'era più spazio
per i dubbi. Era arrivato il momento di agire.
«Siamo pronti?».
La domanda di Teschio, esposta
con lugubre convinzione, portò i presenti a spegnere gli umori e a sedare anche
gli ultimi tentativi di tergiversare su una cena andata ben oltre ogni
immaginazione. Radu si alzò da tavola, asciugando il sorriso e debuttando con
un'espressione di viva prostrazione.
«Sì».
Giacinta salì sul camper per
darsi una sistemata e ordinare gli ultimi piatti. L'unico a dare una risposta
convincente fu Benzina, annuendo con vigore.
«Bene, allora muoviamoci.
Prendiamo tutto ciò che ci serve e partiamo», disse il capobanda.
Salparono seguendo le indicazioni
di Nadia, diretti alla Vetroresina spa. Sorgeva in una zona malfamata di Sesto
San Giovanni, che già in altre occasioni, per puro caso, avevano provato a
visitare. Teschio e Benzina vi andavano, d'estate, in un campo vicino, a
raccogliere prugne selvatiche; Radu e Giacinta, coi rispettivi genitori,
avevano provato a perlustrare l'area in cerca di oggetti e altri materiali
abbandonati nelle discariche abusive che pullulavano come funghi nei pressi
della ditta. Era un posto dimenticato da dio, sul quale non ci si soffermava
più di tanto: anche per questo nessuno dei quattro aveva mai notato prima d'ora
la ditta segnalata dalla complice.
Teschio guidava il gruppo,
seguito a breve distanza da Benzina e dai due giovani che camminavano fianco a
fianco. Avevano la testa bassa e lo sguardo avvilito.
Nonostante il sopraggiungere
della sera, sembrava facesse ancora più caldo del solito. Giacinta era tornata
a respirare male, come le era già accaduto durante il pomeriggio, recandosi dai
suoi genitori, di corsa. Radu se ne accorse, ma fece finta di niente. La sua
mente era altrove e pregustava l'ipotesi di poter uccidere con le sue stesse
mani l'assassino di mamma. Prefigurava, febbricitante, Teschio e Benzina che
immobilizzavano l'omicida, mentre lui affondava il coltello nel suo ventre,
facendogli patire la stessa agonia vissuta da Slagena. Alla fine del macabro
sogno si sentì molto più leggero.
49.
Giunsero alla Vetroresina spa
preceduti dal fischio roboante di un tir che aveva perso la strada. Il
conducente, non avendo la più pallida idea del posto in cui si trovava, sporse
lo scalpo dal finestrino inseguendo il primo passante potenzialmente in grado
di dargli qualche indicazione. Lo trovò in Benzina che, con le guance arrossate
dalla camminata, si arrampicò sui vetri per cercare di mostrarsi tranquillo e
rilassato.
«La dogana di Concorezzo?».
L'uomo consultò un foglietto
mezzo accartocciato e lo porse a Benzina.
«È completamente fuori strada.
Per andare a Concorezzo deve necessariamente passare per Monza».
Solo a questo punto comprese di
trovarsi di fronte a uno straniero, con le labbra da aborigeno e gli occhi da pesce
lesso. Ne ebbe conferma osservando la bandiera sconosciuta che sventolava dallo
specchietto retrovisore: pensò a quella polacca.
«Sa dov'è Monza?».
«Mozza?».
«Andiamo bene», ironizzò Giacinta,
accorsa al fianco di Benzina per vedere se avesse bisogno di aiuto.
«Monza. Si dice Monza. Deve
proseguire lungo via Gramsci di Sesto, la via Gramsci di Sesto... Deve tornare
indietro».
L'autista del camion, in totale
defaillance, aggrottò le sopracciglia, sconsolato. Benzina non seppe più che
pesci pigliare. Intervenne Teschio con aria scocciata.
«Non siamo del posto. Chieda a
qualcun altro».
Lo straniero s'immalinconì
completamente e annuì senza controbattere.
«Come sei crudele...», disse
Benzina, ridacchiando.
Teschio lo fulminò con lo
sguardo.
«Non so se avete capito cosa
siamo qui a fare. Se ci mettiamo anche a parlare coi camionisti, che hanno
perso la strada, non ce la caviamo più. Dobbiamo sfidare una delle sette più bastarde
d’Italia. E, secondo voi, possiamo permetterci di stare qui a cazzeggiare?».
Nessuno fiatò, ritrovandosi come
per magia di fronte alla ditta da assaltare. Non era un posto particolarmente
carino. Sembrava cadere a pezzi. Era anche per via delle luci che andavano
sbiadendo, per lasciare definitivamente il posto ai rigori serali. Era uno di
quei luoghi tipicamente industriali, che sorgono ai margini delle città, le
classiche terre di nessuno, perennemente spettrali, col bello e il cattivo
tempo.
Poterono notare un blocco
principale, un prefabbricato alto parecchi metri, con parecchi finestroni opachi,
in cima alla struttura; e una casetta vicina, a due piani, con le tapparelle
abbassate e l'intonaco che in più punti dava l’impressione di essere già stato
attaccato dall’umidità e dalle muffe. La casetta emanava un'aria sinistra, come
se fosse stata abitata da figure ectoplasmatiche, vogliose solo di sferragliare
catene ai danni dei primi malcapitati intenzionati a fermarsi a risposare fra
le sue mura accidentate. Fu Radu a mostrare per primo la sua titubanza.
«In quella casa ci abitano le
streghe».
«Le streghe non esistono», ribatté
Giacinta.
«E invece ti dico che esistono.
Mamma me ne parlava sempre».
Teschio osservò con stupore il
piccolo della banda che pareva un pulcino spennacchiato, mentre l'umidità dei
campi attigui cominciava a farsi sentire, obbligando Radu a incrociare le
braccia, cercando di trattenere un po' di calore.
«Meglio non fermarci troppo in
questo punto della strada», osservò Teschio. «Se qualcuno ci vede potrebbe
insospettirsi...».
Benzina individuò una specie di
cespuglio dalla parte opposta della giugulare periferica: soffocava fra il
grigiore del cemento e un mucchio di rifiuti maleodoranti, comprendenti fusti
di detersivi e sedie diroccate. Non era così maestoso, ma le sue fronde
rigogliose avrebbero permesso di nascondere anche un mastodonte.
«Là?».
Teschio confortò la proposta di
Benzina, auspicando un degno luogo dove poter trascorrere serenamente i
prossimi minuti, in attesa di entrare veramente in azione.
«Va benissimo».
Si mossero rapidamente e in pochi
secondi furono a destinazione. Un posto strategico: potevano infatti osservare
la strada e la Vetroresina spa, senza alcun rischio di essere visti.
Radu si strinse a Giacinta, per
vincere ulteriormente la sensazione di freddo patita. In realtà era l'ansia: la
ragazza non ci mise molto a verificare che il piccolo stava tremando come una
foglia.
50.
«Hai fifa?», gli chiese la
ragazza.
«Macchè», rispose Radu.
«Ti sento tremare».
Radu si staccò dall'amica,
gonfiandosi il petto, pur rendendosi conto, nell'intimo, che tutta la
spavalderia di pochi istanti prima, era svanita come una bolla di sapone.
«Non sai quello che dici».
Benzina li osservò con spirito
indagatore, notando fra loro un feeling non scontato. Li vedeva bene insieme.
Giacinta era una bellissima ragazza; mentre Radu dimostrava qualcosa in più
della sua età ed era abbastanza alto da formare con lei una potenziale coppia.
Rifletté sul fatto che non era raro che rom e sinti si sposassero giovanissimi,
spesso contro le proprie volontà, per far quadrare i bilanci e le dinamiche
familiari. Proprio come accadeva una volta fra le nobili famiglie autoctone. Aveva
sentito parlare delle cosiddette spose bambine, ragazzine in età pre-puberale,
destinate magari a vecchiardi bavosi e insensibili, che per fare sesso
sarebbero stati disposti a vendere anche la madre. Non sapeva se a Sesto
esistessero casi di questo tipo, ma presupponeva che – oggigiorno – fossero una
prerogativa delle realtà sociali più disagiate.
Tutto sommato vedeva in Radu e
Giacinta due ragazzini normalissimi, che non avevano nulla da invidiare ai loro
coetanei perfettamente integrati nel mondo civile. Ma si rattristò pensando al
fatto che essi avrebbero di sicuro incontrato più difficoltà degli altri a
farsi strada nella vita. Leggeva, in ogni caso, nei loro occhi la volontà di
voler un giorno superare la tribolazione cronica che condizionava l'esistenza
delle rispettive famiglie e degli avi che li avevano preceduti, come una
malattia cronica che si passa di generazione in generazione. Era il desiderio
di emancipazione vissuto in modo eclatante dal loro amico Pollice, già con un
piede oltre il destino segnato dell'etnia di origine indiana.
Giacinta notò Benzina scrutarli
con occhio civettuolo, e non poté fare a meno di affrontarlo verbalmente per
capire cosa avesse in mente. Fu estremamente esplicita:
«Che cazzo hai da guardare
Benzina...».
L'uomo non si aspettava un
attacco così sfrontato e girò la testa dall'altra parte, cercando un modo
qualunque per vincere l'imbarazzo. Dopotutto non aveva fatto nulla di male, se
non provare un vivo sentimento d’amore per i due giovani.
«Niente di che. Mi chiedevo solo cosa
vi sarebbe piaciuto fare da grandi...».
Disse la prima cosa che gli venne
in mente.
«Bella domanda», ironizzò Radu.
Giacinta lo fissò con gli occhi
spiritati, credendo che stesse in realtà tergiversando maliziosamente sulle sue
forme; cosa che era già successa e non sopportava.
«Io vorrei fare la principessa
delle barbabietole».
Radu rise di gusto. Benzina si
abbandonò a un'espressione buffa.
«Senz'altro un bel lavoro. Deve
essere molto remunerativo».
Sul volto di Radu e Giacinta
prese forma un enorme punto interrogativo: certe volte non riuscivano proprio a
capire i termini usati dall'amico di merende, unti dall’accademia evinta dalle
letture sporadiche dei giornali.
«Remu che?», bofonchiò Radu.
Benzina percepì tardi il problema:
i due sinti era già tanto se riuscivano a esprimersi in italiano; figuriamoci
il resto. Alcuni nomi e aggettivi non potevano essere di loro competenza.
Avrebbe potuto pensarci.
«Silenzio!», intervenne Teschio,
con arroganza.
Un'automobile s'era appena
fermata davanti all'entrata della ditta. Era una Mercedes cabrio: roba da
ricchi. Scesero due persone: un uomo, sulla sessantina, ben vestito e con un
cappello grigio, e una donna di una decina d'anni più giovane, anche lei
dall'aria assai benestante. Impugnavano qualcosa che l’uomo non riuscì a
mettere a fuoco. Lo capì più tardi, quand'erano oltre il cancello d'entrata:
era una busta cartonata, contenente chissà cosa, che l’ospite pose sopra il
davanzale, nei pressi dell'uscio da percorrere per raggiungere il covo della
setta.
Aprirono la porta e si
inoltrarono nel cuore del caseggiato che sorgeva di fianco alla ditta.
Scomparvero velocemente, lasciando a bocca aperta Teschio e i suoi compari.
«Che dite?», blaterò Teschio,
senza cognizione.
Nessuno fiatò, ma fu evidente a
tutti che l'ora x fosse ormai scoccata.
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