giovedì 19 luglio 2012

Rapsodia gitana # 5


41.

Si svegliarono tardi, con le giugulari sestesi già intasate dal traffico e lo sferragliare dei treni potente come l’esplosione di una gigantesca acciaieria. Radu, raggomitolato su se stesso a mo’ di un cincillà dormiente, per poco precipitò dal letto. Il timore che Giacinta potesse giocargli qualche brutto scherzo l'aveva impensierito a tal punto da spingerlo fino all’estremità del giaciglio, a un centimetro dal vuoto. Giacinta nemmeno se ne accorse. Fu la seconda dei due ad aprire gli occhi, impiastrati dall'umidità delle ciglia. Notò Radu in bagno, di spalle, al termine della minzione.
«Ciao», gli disse.
«Ciao», rispose Radu.
«Dormito bene?».
«Così, così».
Pareva imbronciato, ingrugnito, come qualche manciata di ore prima, col fantasma di Slagena impossibile da fare volare via. Giacinta lo lasciò al suo destino, prendendo il suo posto sul trono del massimo disimpegno. Spalancò la finestra, insofferente all'idea di respirare l'aria stantia del bugigattolo intriso di particelle azotate, figlie dell’attività glomerulare dell’amico. Si sentì, per un attimo, una specie di madre; si ritrovò per la prima volta adulta e in dovere di assumersi le sue responsabilità.
Radu non se la filò di striscio e tornò a riflettere sul mistero del bigliettino ritrovato che giaceva abbandonato di fianco al lavandino della cucina. Lo riprese in mano cercando di capire qualcosa di più di quella scritta e di quel tratto calligrafico. Non gli venne in mente nulla. Buio. Sapeva, però, che nelle mani di Teschio e Benzina avrebbe potuto assumere un significato diverso. Pensò ai due amici sperando di rivederli presto.
«Non si mangia?», chiese Giacinta uscendo dal bagno.
«Mi sa che abbiamo esaurito le scorte».
«Brutta notizia».
«Terribile».
Si guardarono affranti.
«Io ho una fame...», disse Giacinta.
«Tua madre?».
«Avrà già notato che ieri è sparita della roba... potrebbe insospettirsi».
Bussarono alla porticina del camper.
«Chi cazzo è?», disse Radu, spaventato.
«Non di certo Teschio e Radu», disse Giacinta. «Con loro siamo d'accordo per stasera. A quest’ora...».
«Appunto».
Era l'amico con cui Radu andava spesso a cercare rame da vendere e col quale amava trascorrere i pomeriggi esplorando gli angoli più disperati della stazione di Sesto San Giovanni: Pollice. Il soprannome gli era stato affibbiato da alcuni amici convinti che la sua compagnia fosse assimilabile a quella del primo dito della mano infilato nel deretano. Non era una bella nomea, ma ormai nemmeno lui ci faceva più caso.
Era anche lui un sinti, ma, a differenza degli altri, era ben introdotto nella società. Sapeva leggere e scrivere e da un po' di tempo aveva anche un lavoro: prestava servizio, in nero, naturalmente, presso una specie di contadino di Brugherio che mercanteggiava i suoi cimeli fotosintetizzanti lungo il viale delle Industrie. Lo pagava, pochi euro, per fargli allestire il banco vendita, pulire l'interno del camioncino con cui si spostava e gridare ai quattro venti “fiori di zucca!, fiori di zucca!”.
I suoi genitori erano fra i più benestanti della zona e non gli mancavano mai gli spiccioli con cui concedersi qualche vizio, in primis le sigarette che divorava come un tabagista consumato. Ribussò con maggiore vigore.  
«Che facciamo?», chiese Giacinta.
«Gli apriamo».                                                                                                
«E poi?».
«Niente. Dai apri».
Pollice li salutò con l'aria allibita.
«Che ci fa qui, questa?», domandò, senza tanti peli sulla lingua.
Giacinta si sentì offesa.
«Che cazzo vuoi Pollice? Cosa ci fai tu, qui?».
Pollice non le diede alcuna importanza e seguitò a discorrere con l'amico.
«Dov'è tua madre?».
Radu fu vago.
«Non so. Deve essere andata a prendere l'acqua...».
Pollice scrutò all’interno del camper, convinto che i due non gliela stessero raccontando giusta. Non lo insospettiva tanto l'assenza di Slagena, quanto il fatto che si trovassero lì, da soli. In mutande. In mutande? Tagliò corto e arrivò al sodo.
«Ho due brioche appena sfornate».
A Radu si illuminarono gli occhi di contentezza, sentendo lo stomaco brontolare, benché non fosse la prima volta che Pollice lo andava a trovare con qualcosa di buono da mettere sotto i denti. In questo caso se ne rallegrò con particolare enfasi, poiché i morsi della fame avevano cominciato a essere davvero difficili da sopportare; quando comparivano i crampi, lo sapeva bene, significava che non c’era più tanto margine di autonomia e che se non si mangiava al più presto qualcosa si rischiava di non avere più nemmeno la forza di alzare un cucchiaio. Nonostante ciò guardò Giacinta con fare fraterno:
«Se ti va, la nostra, possiamo dividercela».

42.

Radu e Giacinta si avventarono sui chicchi di zucchero come gatti a digiuno da una settimana di fronte a un bel salame stagionato. Pollice li osservò stupefatto.
«Siete sicuri di stare bene?».
Giacinta lo guardò con risentimento.
«Perché ce lo chiedi?», domandò.
«Così. Mi sembrate strani e non vi ho mai visti così affamati...».
Radu e Giacinta si guardarono offesi dalla consapevolezza; ponderarono il loro famelico comportamento, cercando di domare l’acquolina: non volevano far intuire all'amico che qualcosa non andava per il verso giusto. Comunque sia, in pochi morsi il dolce era già finito e il loro stomaco neanche vagamente impensierito dalla sazietà.
«Mi sa che avete ancora fame».
«Puoi dirlo forte», disse Giacinta.
Pollice li invitò a seguirlo in un negozio dove vendevano animali domestici. Lo avevano appena aperto sulla strada per la Bicocca. A Giacinta piacevano gli animali e accettò di buon grado. Radu era un po' più perplesso, anche perché si rendeva conto che quella non sarebbe stata una giornata come tutte le altre. Più tardi sarebbero arrivati Teschio e Benzina e sarebbe scattata l'ora x. Era necessario mantenere un certo contegno, una certa concentrazione. Sapeva quanto fosse importante stare concentrati, anche quando faceva i suoi esercizi funambolici.
Giacinta notò la sua titubanza e gli diede un calcio nel sedere. Radu la fulminò con uno sguardo al cianuro. Il sole era già caldo, benché durante la prima mattinata, una spessa coltre di nubi a occidente, avesse lasciato presagire una giornata più fresca delle altre.   
«Si crepa», disse Pollice.
Gli altri due non proferirono parola.
«Mi sembrate due zombie».
«Abbiamo dormito da cani».
«Avete dormito insieme?».
Radu tracollò.
«Sei scemo? Mica siamo fidanzati».
«Da me c'erano due zanzare che mi hanno perseguitato tutta notte. Ho cotole da tutte le parti», risolse Giacinta.
Dopo un paio di chilometri di cammino, giunsero febbricitanti al negozio suggerito da Pollice. Giacinta e Radu si sforzarono di apparire il più normale possibile, elucubrando sul fatto che non avessero assecondato l’amico per puro piacere, o per spirito di solidarietà; ma solo perché, dalla grossolana magnanimità di Pollice, speravano potesse saltare fuori il pranzo. Diversamente non avrebbero mai abbandonato la loro tana per dargli retta.
La ragazza fu entusiasta di scorgere in vetrina due cagnolini che si rincorrevano e due cavie che sonnecchiavano nell'angolo di un cubo di vetro colmo di segatura puzzolente. Per un attimo dimenticò i patemi legati all'imminente missione.
«Sarebbe il mio sogno tenerne uno».
«Il proprietario è un mio amico. Se vuoi me lo posso lavorare per fartelo avere per pochi spiccioli...».
«Figurati. Mia madre non ne vorrà sapere».
«Io sì, però...», disse Radu, sorridendo.  
Compirono un giro all'interno dell'esercizio, come se stessero passeggiando per le stradine di Gardaland, con gli occhi sbarrati e la bava alla bocca. Si divertirono a stuzzicare uno scoiattolo che s'arrampicava lungo una pertica di plastica, triste e smunta, addobbata di foglie artificiali. C'era anche un animale strano che non avevano mai visto, pieno di puntini colorati, e sul quale si soffermarono con particolare interesse.  
«Che animale è?», chiese Pollice al proprietario.
«Una salamandra tigre. Se le metti lì un dito te lo fa saltare con un morso».
«Ma vaffanculo», mormorò Radu, sottovoce.
Quando uscirono dal negozio era ormai mezzogiorno e la fame era tornata a farsi sentire. Come previsto dai due fidanzatini, Pollice si fece avanti per offrirgli il pranzo. Sapeva essere incredibilmente generoso, quando voleva; ma era anche l’unico modo che aveva di dimostrare agli amici che lui era il più danaroso di tutti e che presto avrebbe abbandonato la vita da nomade - una vita che odiava con tutte le sue forze - per poter godere di ogni privilegio e benessere, come i tanti ragazzi della sua età che vedeva circolare per Sesto, agghindati come damerini.
Finirono in un negozietto a ridosso dell'università che vendeva tranci di pizza e focacce. Vedendo tutto quel ben di dio sistemato con tanta benevolenza, lungo un bancone lindo e luccicante, Giacinta e Radu si leccarono i baffi. Pollice ci mise poco a capire che i due avevano una fame da leoni e ordinò tre pizze abbondanti, con altrettante maxi Coca Cola. Un pranzo così lo avrebbero sognato per settimane.

43.

Tornarono al camper nel primo pomeriggio, zigzagando fra gli studenti universitari che andavano e venivano dalle aule dell'ateneo. Si muovevano come fantasmi. Come se non esistessero. Le loro arie trasandate non facevano una buona impressione. Solo una ragazza si soffermò sul dolce viso di Giacinta, indicando la sua bellezza a un compagno universitario che si era abbandonato a una smorfia contratta.
Radu e Giacinta cercarono di fare capire a Pollice che la sua presenza era stata provvidenziale e che, come sempre, s'era dimostrato un amico insostituibile, ma che ora sarebbe stato necessario dividersi. Non volevano, di fatto, correre il pericolo di averlo ancora fra i piedi quando sarebbero sopraggiunti Teschio e Benzina, pronti per andare a fare visita ai Figli di Dionisio. Adottarono, pertanto, lo stratagemma del Vulcano.
«Penso di andare con mamma al centro commerciale», disse Giacinta.
«Quando?», domandò Radu.
«Oggi pomeriggio».
«Wow, anch’io».
«Anch’io cosa?».
«Posso aggregarmi?».
«Se ti va...».
«Da tempo ho voglia di andare a fare un bel giro al Vulcano».
Pollice rabbuiò. Sapeva di non poter più mettere piede nel principale centro commerciale di Sesto, per via di un furto che aveva commesso un anno prima, con un amico venuto dalla Campania con cui aveva messo a soqquadro mezza Brianza. I due erano stati beccati con un carrello pieno di refurtiva, sfuggito alle casse per via della disattenzione di un lavoratore con la testa perennemente tra le nuvole, che conoscevano e tenevano d'occhio per fargliela sotto i baffi. Dopo un lungo interrogatorio li avevano rilasciati, ma ammonendoli di non farsi più vedere da quelle parti, pena la seria possibilità di finire dietro le sbarre. Pollice, inconsapevole della messinscena del duo, non avrebbe rischiato e programmò di togliere quanto prima il disturbo.
«Se voi andate al Vulcano... io andrò a farmi un giretto dagli Umiza di Vimodrone».
Era una famiglia di zingari particolarmente rinomata, per le sue agiate condizioni economiche e per l’eccezionale numero di traffici che gestiva, consentendo a molti rom di costruirsi un degno avvenire. Per Pollice fu, dunque, il pretesto ideale per comunicare agli amici che volevano scaricarlo, che la sua destinazione era molto più intrigante di una banale ricognizione al Vulcano. Dagli Umiza, peraltro, era sempre festa: c'era chi suonava, cantava e ballava. In realtà fu proprio Pollice a cadere nel tranello senza rendersene minimamente conto, del tutto ignaro dei casini che stavano passando i due sinti.
Si intravedevano già le punte degli alberi del Parco Gramsci, quando il congedo fu definitivo.
«Ci lasciamo qui», disse Pollice.
«Sei stato molto generoso», disse Giacinta, con un vago senso di colpa.
«Già...», blaterò Radu.
«Con un amico come te, tutto sarebbe più facile», precisò Giacinta. «Si vede che hai una marcia in più degli altri».
Pollice gonfiò il petto, fiero di essere considerato così importante e di avere un’ulteriore prova che non fosse troppo lontano il giorno della sua totale emancipazione.
«Grazie», chiuse Radu.
Dopo i saluti, il piccolo si fece di nuovo pensieroso, rivivendo il disgusto di non avere più la mamma, e di dover compiere un'azione che avrebbe tranquillamente evitato. Pensò che, proprio a quell’ora del pomeriggio, sarebbe dovuto essere con lei fra i prati del parco, dove avrebbe compiuto qualche esercizio per preparare un nuovo numero da equilibrista, in attesa di vedersi servire qualcosa per merenda, magari delle fette biscottate ricoperte di Nutella.
Gli parve di essere orfano da secoli e invece erano passati solo due giorni dalla fine della sua vita spensierata. Si mise in cammino senza tenere conto di Giacinta che gli marciava accanto avvolgendolo come un mantello di lana.
«Qualcosa non va?».
«Niente».
«Sei diventato mogio tutto d'un colpo».
«Mi manca mamma».
«Mi dispiace».
«Cosa ne sai tu? Tu una mamma ce l'hai».

44.

A destinazione si accomodarono sul ciglio del marciapiede, in attesa di decidere come ammazzare il tempo, aspettando Teschio e Benzina; ma non arrivarono da nessuna parte, attanagliati dalla noia e dalla rassegnazione. Radu preferì proseguire nel suo mutismo assoluto, lasciando a Giacinta ben poche chance di risolvere la situazione. La ragazza non trovò, dunque, di meglio da fare che fissare le bracciate di una vecchietta del palazzo di fronte che indagava rabbiosa lo svolazzare nervoso dei piccioni: alla fine, la donna, prese una scopa e l'agitò nell'aria, compiendo un'azione del tutto inutile, poiché i volatili erano molto più agili e svegli di lei. Giacinta sorrise osservando l’incredibile goffaggine dell'anziana che, in qualche modo, le consentì di vincere la monotonia di un pomeriggio senza futuro. Dopo mezz’ora di silenzi, ritornò a Radu, perso nella sua malinconia e cercò di rincuorarlo.
«Vedrai che dopo stasera comincerai a stare meglio. Con Teschio e Benzina risolveremo il caso e...».
«Qualunque cosa accadrà non servirà a riportarmi la mamma».
Giacinta trovò a fatica nuove parole per sollevarlo.
«Lo so. Ma potrebbe aiutarti a vivere con meno angoscia la sua assenza».
Radu si fece meditabondo.
«Non capisco tante cose. Non capisco perché questa brutta storia sia successa proprio a me».
«Sono cose che sanno gli spiriti. Solo Del comprende i nostri destini».
«Del...».
«Siamo nelle sue mani. E nelle mani di Sara la Nera. Se tua mamma è stata uccisa... è terribile dirlo, ma ci sarà un perché».
«Non mi interessa alcun perché. Non mi interessa niente».
Radu si alzò di scatto e iniziò a prendere a calci il camper. Un colpo più deciso degli altri fece saltare il fanalino anteriore. Giacinta lo guardò allibita. Non l'aveva mai visto così furente. Pensando al giorno prima e alla sua spensieratezza in riva al Villoresi, non le sembrava vero che potesse essere cambiato in così poco tempo.
«Radu, smettila!», gridò.
Ma il piccolo non ne volle sapere e continuò nella sua rocambolesca e sconsiderata azione.
«Voglio distruggere tutto ciò che mi ricorda mamma. Non voglio più avere a che fare con lei. È anche colpa sua se ora sono solo».
Radu, fu chiaro, blaterava. Non sapeva più quello che diceva; era accecato dall'ira e dal risentimento.
«Radu, Radu... cerca di stare calmo!».
Radu la guardò con furia omicida.
«Stammi lontana».
«La vuoi capire che non serve a niente comportarsi così?».
Giacinta non si lasciò intimidire e continuò nel suo tentativo di ammansirlo dicendogli che Slagena non sarebbe stata felice di vedere suo figlio comportarsi in quel modo. Sapeva che, nonostante la scarsa scolarizzazione e le umili origini, era sempre stata una donna desiderosa di impartire una buona educazione al figlio, convinta che un gentiluomo, benché rom o sinti, avrebbe avuto più chance di farsi strada nella vita: il che è tutto un dire, visto che non erano state rare le volte che insieme avevano rubacchiato qualcosa qua e là, adottando un comportamento non esattamente in linea con il rispetto verso il prossimo. Ma in troppi casi non avevano avuto alternativa, se non morire di fame.
Anche lei, come Pollice, aveva puntato all’ipotesi di potersi un giorno lasciare alle spalle la vita deplorevole vissuta fino a quel momento, per poter garantire a Radu il futuro più roseo, strappandolo da un destino segnato. Ma le cose, per un motivo o per l'altro, erano sempre andate male. Imputava la colpa alle difficoltà legate all'integrazione e all'ostracismo degli autoctoni. Diceva, infatti, che gli italiani erano razzisti e che al di là di tanti bei discorsi sentiti in tv o letti sui manifesti relativi a qualche manifestazione di solidarietà, covavano nei confronti degli zingari un odio profondo. Questa situazione le aveva impedito di ottenere qualunque tipo di vantaggio per sé e per la propria famiglia. E le cose erano peggiorate con la morte del marito: abbandonata a se stessa e con un figlio a carico, era stata costretta a riparare in angoli della vita sociale sempre più ristretti, fino a sprofondare nell'isolamento più totale. Poteva contare sulla famiglia di Giacinta, ma era un’amara consolazione: la vera vita era altrove e, forse, non le sarebbe mai appartenuta.

45.

Radu si acquietò tirando un ultimo pugno sul parabrezza, ammettendo che quello che stava facendo era forse più una dimostrazione di forza nei confronti di Giacinta, che non la reale necessità di sfogarsi fisicamente su qualcosa per marginare il dolore.
Giacinta respirò profondamente, constatando che la scenata dell'amico fosse giunta al termine e che le sue parole non erano state vane. Tornarono a sedersi sul gradino del marciapiedi con la vecchietta della casa di fianco che riprese a dare la caccia ai piccioni. Fu una scena che portò i due piccoli a rilassarsi e a ridere come avevano fatto fino a poche ore prima. Radu, però, non si lasciò andare a troppi complimenti e senza proferire parola guadagnò l'entrata del camper.
Riprese in mano il foglietto trovato il giorno prima, redatto da qualche misteriosa mano che, evidentemente, li stava tenendo d'occhio. Il pensiero gli suscitò un senso di piacere e soddisfazione. Si sdraiò sul letto, fissò Santa la Nera. Il mondo non era del tutto terribile. 
Giacinta, vagamente offesa dal suo umore altalenante, gli comunicò che sarebbe tornata alla propria roulotte, per sincerarsi che tutto stesse proseguendo senza intoppi e che i suoi genitori non le stessero dando la caccia.
«Ok, ci vediamo dopo», disse Radu, privo di qualunque entusiasmo.
Giacinta corse come un fulmine, come se avesse il bisogno, con l’esercizio fisico, di scaricare la tensione accumulata. Al cavalcavia che precede la ditta che le dava ospitalità, si fermò in preda alla tachicardia. Si accovacciò, appoggiandosi con una mano al muro per non rischiare di finire per terra. Con la coda dell’occhio osservò la sfilza di murales che tinteggiavano il tunnel, ma non ebbe la forza di contemplarli com'era solita fare, indagando curiosa la maestria dei writer. Si spaventò accorgendosi di non riuscire a riempire i polmoni come avrebbe voluto e come le era sempre capitato dopo una zampettata. Passarono almeno cinque minuti, prima che potesse raggiungere le propaggini della roulotte.
Scorse per prima cosa il padre, appena rientrato dal raid svizzero. Trafficava all'esterno del mezzo con una serie di attrezzi da lavoro che non aveva mai visto. Maneggiava un aggeggio del quale si serviva per deflagrare il metallo. L'uomo indossava una specie di mascherina che lo proteggeva dal fumo e dalle schegge. Vide la figlia, ma non si scompose minimamente, nemmeno quando le fu accanto. Si fece, in compenso, avanti la madre per sapere cosa avesse fatto tutto il tempo in cui era sparita dalla circolazione.  
«Dove sei stata?».
«Da Radu».
«Cosa?».
Il rumore del flessibile impedì una degna corrispondenza fra le due donne.
«Sono stata da Radu!».
La più anziana tornò alle sue faccende, indifferente alla risposta della figlia. Sporse dal davanzale delle finestrella della cucina un tappeto unto e ricoperto di sporcizia. Lo sbatté, senza curarsi del fatto che il vento muovesse tutto quel catrame domestico dalla tettoia al capo spelucchiato del marito, piegato su se stesso come una spirale galattica. Giacinta non seppe se ridere o piangere.
Da una parte fu lieta di rivedere i suoi, ma dall'altra si rese conto che, per l'ennesima volta, la sua presenza nelle dinamiche familiari era del tutto irrilevante. Non le sarebbe davvero dispiaciuto trascorrere il resto dei suoi giorni con Radu, ma il pensiero che mamma e papà fossero del tutto disinteressati al suo avvenire, la tormentarono non poco.
«Vado ad abitare con lui!», gridò Giacinta per attirare l'attenzione.
Il padre smise di far baccano e salutò la figlia.
«Hai capito cosa ho detto?».
«Cosa?».
«Sto pensando di andare a vivere con Radu».
«E la mamma di Radu è d'accordo?».
«La mamma di Radu è partita per la Romania».
«Non dire sciocchezze».
«Se n'è andata mentre tu eri a Lugano».
Il padre di Giacinta interpellò la moglie che, dopo aver ritirato il tappeto, stava cominciando a scopare gli interni della roulotte.
«Esma, lo senti quel che dice tua figlia?».
La donna aveva sentito tutto, ma non le interessava nulla.
«Sì, sì, lascia che vada dove vuole. Tanto dopo due giorni ce l'abbiamo ancora qui a rompere le scatole».

46.

«Mi riposo», disse Giacinta, rassegnata all'idea che qualunque altra spiegazione sarebbe stata inutile. 
«Ti riposi?», domandò il padre. «Sarà meglio che tu vada con tua madre fuori dalla chiesa...».
«Neanche per sogno».
«Non ci provare a contraddire tuo padre».
«Non andiamo mai il pomeriggio...».
«Adesso serve anche il pomeriggio... se vuoi mangiare».
«Che palle».
Il padre la rimproverò con uno sguardo inverecondo. Ma vedendo la figlia non battere ciglio, rincarò la dose, inseguendola per menarla: non era particolarmente manesco, ma qualche volta non disdegnava suonargliele di santa ragione, quasi sempre con l’unico scopo di poter sfogare le proprie frustrazioni. Volavano sberle e in alcune occasioni era arrivato a utilizzare perfino la cinghia, come suo padre l’aveva usata con lui, quand’era piccino.
«Lasciami in pace».
Giacinta fu più lesta del genitore e - guizzando abilmente come una gazzella al suo primo viaggio oltre la radura natia - corse alle spalle della roulotte, nascondendosi alla base di un grosso bidone della ditta, mezzo pieno di cartacce e acqua marcescente. Si accovacciò, sparendo dalla vista del capofamiglia, con il cuore che riprese a battere come un tamburo.
«Vieni fuori che ti ammazzo».
«Neanche per sogno».
«Vieni fuori che ti uccido».
«Vaffanculo».
La madre rise, come rideva tutte le volte che si accendevano gli animi di qualche membro della comunità, purché non fosse lei stessa tirata in ballo in prima persona. In questo caso, evidentemente, lo era solo di striscio. Il suo coinvolgimento era dovuto al fatto che si recava spesso con la figlia fuori dalla chiesa di San Babila, a Milano - quella ricoperta di mattoni rossi, dove venne battezzato Alessandro Manzoni - a chiedere l'elemosina. Si disponevano come guardie pontificie azzoppate dalla rogna, agli angoli della porta principale, stendevano la mano con lo sguardo mogio o posizionavano di fronte alle ginocchia un’implorante scatoletta di tonno o di Simmenthal, e attendevano l’arrivo di qualche benefattore.
La presenza di Giacinta era davvero confortante e provvidenziale, perciò il padre insisteva tanto. Quando c'era lei gli incassi erano decisamente più alti. I fedeli che si recavano in chiesa la guardavano incantati da quella bellezza, increduli di fronte all’ipotesi che tanta grazia potesse andare sprecata. Qualche milanese si fermava a parlarle, mostrando tutta la sua boria, viscido e bavoso come il muco di una limaccia indigesta.
«Lasciala perdere quella sgualdrinella».
«Puttana, non ti ci mettere anche tu...».
«Mi ci metto, eccome. Oggi non va neanche a me di andare a caritare...».
«Sparisci, donna! Non ti voglio vedere, strega!».
La verità è che lo lasciavano parlare, lo lasciavano sfogare; sapendo che le sue sfuriate non duravano mai a lungo. Diventava particolarmente molesto quando alzava il gomito – amando più di ogni cosa bere e fumare - ma poi si acquietava come un agnellino e diveniva del tutto innocuo. La sua rabbia era sovente dovuta al fatto che nessuno lo prendeva veramente in considerazione, se non Radu.
Fra il padre di Giacinta e il figlio di Slagena era sempre corso buon sangue. Più di una volta aveva addirittura rinfacciato alla piccola di casa che avrebbe preferito un maschio come Radu, e non una femminuccia come lei, capace solo di spendere il suo tempo davanti allo specchio per farsi bella. Da giovane era stato un grande professionista nell'arte circense, ma poi le cose erano andate a rotoli, e aveva cominciato a vivere di espedienti. Rubacchiava materiali qua e là che rivendeva per pochi euro.
Girava per le strade malfamate della zona con un carretto sbilenco, talvolta aiutato da un mentecatto che abitava in una tenda nei pressi della stazione, perennemente in bilico fra la vita e la morte. I rischi non erano legati solo al timore di finire al fresco, ma anche alle vivide difficoltà concernenti questa poco remunerativa attività. Una volta per recuperare del rame da una grondaia di un asilo di Cinisello, aveva fatto un volo di tre metri. Gli andò bene, anche perché dopo anni di cadute funamboliche, aveva imparato ad atterrare con estrema malizia. Il resto, necessario al sostentamento del trio, lo procuravano le due donne, per certi aspetti molto più sveglie e preparate di lui.

47.

Giacinta si liberò del bidone che la teneva incastrata fra il muro e la roulotte quando sentì il padre andarsene. Lo capì dallo sferragliare della catena della bicicletta arrugginita del genitore, e per l'imprecazione che l'uomo dedicò alla moglie, a mo’ di una serenata improvvisa. Aveva le mani pregne di muschio e la bocca impastata di paura, come quando, anni prima, si era trovata imprigionata in un recinto pieno di tacchini che la puntavano come una porchetta prelibata e aveva cercato in tutti i modi di vincere un muro tappezzato di briofite per scappare dai loro becchi appuntiti e minacciosi. Si sentì terribilmente spossata, con quintali di pensieri e dispiaceri da portare sul gobbo. Capì più che mai il dolore che dovesse patire Radu, ritrovatosi orfano dalla mattina alla sera, senza più un appiglio al quale aggrapparsi per ricevere, se non altro, una banale smorfia di approvazione. Percepì che qualcosa della sua giovinezza, fosse passata per sempre. Sentì che gli ultimi giorni vissuti erano stati così intensi da averla strappata dal suo passato divenire. La sua piccola vita era diventata una grande vita. Ma paradossalmente si sentì vecchia e inutile. Tornò alla roulotte e, del tutto indifferente alla presenza della madre, si tolse le scarpe e si sdraiò sul divano, prevedendo un sonnellino di qualche minuto. S'addormentò di colpo, risvegliandosi solo dopo le diciassette, con l'impressione di non avere mai riposato e un terribile mal di testa.
La roulotte parve deserta. Uno strano silenzio l’avvolse. Mamma e papà sembrarono spariti nel nulla. E con loro l’umanità. Ebbe l’impressione che tutto si fosse acquietato, come se una voragine avesse ingurgitato il mondo intero; una sensazione dovuta, forse, ai riflessi nervosi ancora sopiti. Se ne rese conto udendo, pochi istanti dopo il travaglio del risveglio, la brusca e rumorosa frenata di un mezzo pesante che transitava di fianco alla ditta che dava ospitalità ai sinti. Mancava poco all'ora x. Aprì la porticina della roulotte e interrogò il cielo. Era lo stesso degli ultimi giorni, grigio e opaco. E c'era la solita afa. Le condizioni climatiche ottimali per mettere in atto il piano organizzato con la banda dei quattro? È la domanda che si pose, grattandosi con insistenza una crosta sul ginocchio.
Cercò una pasticca per calmare i dolori alla testa, ma non trovò nulla se non la carta disfatta di una confezione di Aspirina. Si rinfrescò con una manciata di acqua recuperata da una bottiglia alla base del lavandino della cucina. Rinvigorì. Si cambiò i vestiti che indossava da una settimana, incalzata dall’idea di agghindarsi con cura. Indossò una camicetta che mamma aveva trovato in un cassonetto della Caritas, ancora molto bella, con le righe rosa e rosse. Si guardò allo specchio trovandosi incredibilmente graziosa e non vedendo l'ora di potersi mostrare a Radu. Pensò di raggiungerlo per cena, tirandosi i capelli con una spazzola malandata, ma ancora funzionale e indossando un paio di orecchini baldanzosi.
Terminò le operazioni di cura personale, mettendosi a cercare qualcosa da mangiare. Trovò, meravigliandosi, la dispensa rifornita di leccornie, dalle quali selezionò un po' di pasta, delle fette di prosciutto e un barattolo di olive. Mise tutto in un sacchetto di plastica che appoggiò sul letto, prima di infilarsi le scarpe. Finalmente poté partire alla volta del cavalcavia e del suo amato.
«Dove vai?».
Era la madre con la solita faccia scura.   
«Da Radu».
«Stai sempre con quello là. Se almeno ci guadagnassi qualcosa».  
Giacinta la guardò con biasimo prendere il suo posto nella roulotte, chiudere la porta e dimenticarsi di lei. Storse le labbra. Ma si convinse che fosse comunque meglio avere una madre menefreghista che non averne; come Radu. L'avrebbe d'ora innanzi vissuta con più sentimento, anche se non sempre i rapporti fra loro erano idilliaci. Probabilmente... ne valeva la pena.

48.

«Hai preparato una cena coi fiocchi, mica quella dell'altra sera con Teschio e Benzina».
Radu proclamò il verdetto senza rendersi conto che aveva proprio i due amici incollati alla schiena. In effetti s'era nutrito di gran gusto, e Giacinta era stata davvero brava a preparare quel pasto delizioso. Sembrava una sera promettente, se non fosse che mancava pochissimo all'inizio di un'avventura che nessuno sapeva dove avrebbe portato.
«Bene, bene, così tenete in serbo per voi i piatti migliori, mentre a noi riservate i cracker», ironizzò Benzina, apparentemente calmo e rilassato. «Ne terremo conto la prossima volta che dovremo offrirvi qualcosa da mangiare...».
«Urca», fece Radu, «siete già qui?».
«Ebbene sì».
Radu s’imbarazzò.
«Ho mangiato come un bue senza rendermi conto del tempo che passava. Ma immagino non ci sia tutta sta fretta...».
Giacinta aveva ancora le maniche della camicia rimboccate per non bagnarsi lavando i piatti. Teschio era il più contratto e pareva tutt'altro che sereno. Aveva lo sguardo duro e rammaricato, come non gli capitava da tempo. Sembrava che in quarantotto ore fosse invecchiato di mille anni e che avesse anzitempo fatto i conti con la necessità di ritagliarsi un angolo di mondo dove andare a scontare le sue ultime pene. Aveva la barba sfatta e gli occhi contornati da un alone rosso vivo. Aveva dormito male, pensando ai rischi che avrebbero corso andando a mettere il becco nelle faccende riguardanti i Figli di Dionisio. Ma ormai non c'era più spazio per i dubbi. Era arrivato il momento di agire.
«Siamo pronti?».
La domanda di Teschio, esposta con lugubre convinzione, portò i presenti a spegnere gli umori e a sedare anche gli ultimi tentativi di tergiversare su una cena andata ben oltre ogni immaginazione. Radu si alzò da tavola, asciugando il sorriso e debuttando con un'espressione di viva prostrazione.
«Sì».
Giacinta salì sul camper per darsi una sistemata e ordinare gli ultimi piatti. L'unico a dare una risposta convincente fu Benzina, annuendo con vigore.
«Bene, allora muoviamoci. Prendiamo tutto ciò che ci serve e partiamo», disse il capobanda.
Salparono seguendo le indicazioni di Nadia, diretti alla Vetroresina spa. Sorgeva in una zona malfamata di Sesto San Giovanni, che già in altre occasioni, per puro caso, avevano provato a visitare. Teschio e Benzina vi andavano, d'estate, in un campo vicino, a raccogliere prugne selvatiche; Radu e Giacinta, coi rispettivi genitori, avevano provato a perlustrare l'area in cerca di oggetti e altri materiali abbandonati nelle discariche abusive che pullulavano come funghi nei pressi della ditta. Era un posto dimenticato da dio, sul quale non ci si soffermava più di tanto: anche per questo nessuno dei quattro aveva mai notato prima d'ora la ditta segnalata dalla complice.
Teschio guidava il gruppo, seguito a breve distanza da Benzina e dai due giovani che camminavano fianco a fianco. Avevano la testa bassa e lo sguardo avvilito.
Nonostante il sopraggiungere della sera, sembrava facesse ancora più caldo del solito. Giacinta era tornata a respirare male, come le era già accaduto durante il pomeriggio, recandosi dai suoi genitori, di corsa. Radu se ne accorse, ma fece finta di niente. La sua mente era altrove e pregustava l'ipotesi di poter uccidere con le sue stesse mani l'assassino di mamma. Prefigurava, febbricitante, Teschio e Benzina che immobilizzavano l'omicida, mentre lui affondava il coltello nel suo ventre, facendogli patire la stessa agonia vissuta da Slagena. Alla fine del macabro sogno  si sentì molto più leggero.

49.

Giunsero alla Vetroresina spa preceduti dal fischio roboante di un tir che aveva perso la strada. Il conducente, non avendo la più pallida idea del posto in cui si trovava, sporse lo scalpo dal finestrino inseguendo il primo passante potenzialmente in grado di dargli qualche indicazione. Lo trovò in Benzina che, con le guance arrossate dalla camminata, si arrampicò sui vetri per cercare di mostrarsi tranquillo e rilassato.
«La dogana di Concorezzo?».
L'uomo consultò un foglietto mezzo accartocciato e lo porse a Benzina.
«È completamente fuori strada. Per andare a Concorezzo deve necessariamente passare per Monza».
Solo a questo punto comprese di trovarsi di fronte a uno straniero, con le labbra da aborigeno e gli occhi da pesce lesso. Ne ebbe conferma osservando la bandiera sconosciuta che sventolava dallo specchietto retrovisore: pensò a quella polacca.
«Sa dov'è Monza?».
«Mozza?».
«Andiamo bene», ironizzò Giacinta, accorsa al fianco di Benzina per vedere se avesse bisogno di aiuto.
«Monza. Si dice Monza. Deve proseguire lungo via Gramsci di Sesto, la via Gramsci di Sesto... Deve tornare indietro».
L'autista del camion, in totale defaillance, aggrottò le sopracciglia, sconsolato. Benzina non seppe più che pesci pigliare. Intervenne Teschio con aria scocciata.
«Non siamo del posto. Chieda a qualcun altro».
Lo straniero s'immalinconì completamente e annuì senza controbattere.
«Come sei crudele...», disse Benzina, ridacchiando.
Teschio lo fulminò con lo sguardo.
«Non so se avete capito cosa siamo qui a fare. Se ci mettiamo anche a parlare coi camionisti, che hanno perso la strada, non ce la caviamo più. Dobbiamo sfidare una delle sette più bastarde d’Italia. E, secondo voi, possiamo permetterci di stare qui a cazzeggiare?».
Nessuno fiatò, ritrovandosi come per magia di fronte alla ditta da assaltare. Non era un posto particolarmente carino. Sembrava cadere a pezzi. Era anche per via delle luci che andavano sbiadendo, per lasciare definitivamente il posto ai rigori serali. Era uno di quei luoghi tipicamente industriali, che sorgono ai margini delle città, le classiche terre di nessuno, perennemente spettrali, col bello e il cattivo tempo.
Poterono notare un blocco principale, un prefabbricato alto parecchi metri, con parecchi finestroni opachi, in cima alla struttura; e una casetta vicina, a due piani, con le tapparelle abbassate e l'intonaco che in più punti dava l’impressione di essere già stato attaccato dall’umidità e dalle muffe. La casetta emanava un'aria sinistra, come se fosse stata abitata da figure ectoplasmatiche, vogliose solo di sferragliare catene ai danni dei primi malcapitati intenzionati a fermarsi a risposare fra le sue mura accidentate. Fu Radu a mostrare per primo la sua titubanza.
«In quella casa ci abitano le streghe».
«Le streghe non esistono», ribatté Giacinta.
«E invece ti dico che esistono. Mamma me ne parlava sempre».
Teschio osservò con stupore il piccolo della banda che pareva un pulcino spennacchiato, mentre l'umidità dei campi attigui cominciava a farsi sentire, obbligando Radu a incrociare le braccia, cercando di trattenere un po' di calore.   
«Meglio non fermarci troppo in questo punto della strada», osservò Teschio. «Se qualcuno ci vede potrebbe insospettirsi...».
Benzina individuò una specie di cespuglio dalla parte opposta della giugulare periferica: soffocava fra il grigiore del cemento e un mucchio di rifiuti maleodoranti, comprendenti fusti di detersivi e sedie diroccate. Non era così maestoso, ma le sue fronde rigogliose avrebbero permesso di nascondere anche un mastodonte.
«Là?».
Teschio confortò la proposta di Benzina, auspicando un degno luogo dove poter trascorrere serenamente i prossimi minuti, in attesa di entrare veramente in azione.
«Va benissimo».
Si mossero rapidamente e in pochi secondi furono a destinazione. Un posto strategico: potevano infatti osservare la strada e la Vetroresina spa, senza alcun rischio di essere visti.
Radu si strinse a Giacinta, per vincere ulteriormente la sensazione di freddo patita. In realtà era l'ansia: la ragazza non ci mise molto a verificare che il piccolo stava tremando come una foglia.

50.

«Hai fifa?», gli chiese la ragazza.
«Macchè», rispose Radu.
«Ti sento tremare».
Radu si staccò dall'amica, gonfiandosi il petto, pur rendendosi conto, nell'intimo, che tutta la spavalderia di pochi istanti prima, era svanita come una bolla di sapone.
«Non sai quello che dici».
Benzina li osservò con spirito indagatore, notando fra loro un feeling non scontato. Li vedeva bene insieme. Giacinta era una bellissima ragazza; mentre Radu dimostrava qualcosa in più della sua età ed era abbastanza alto da formare con lei una potenziale coppia. Rifletté sul fatto che non era raro che rom e sinti si sposassero giovanissimi, spesso contro le proprie volontà, per far quadrare i bilanci e le dinamiche familiari. Proprio come accadeva una volta fra le nobili famiglie autoctone. Aveva sentito parlare delle cosiddette spose bambine, ragazzine in età pre-puberale, destinate magari a vecchiardi bavosi e insensibili, che per fare sesso sarebbero stati disposti a vendere anche la madre. Non sapeva se a Sesto esistessero casi di questo tipo, ma presupponeva che – oggigiorno – fossero una prerogativa delle realtà sociali più disagiate.
Tutto sommato vedeva in Radu e Giacinta due ragazzini normalissimi, che non avevano nulla da invidiare ai loro coetanei perfettamente integrati nel mondo civile. Ma si rattristò pensando al fatto che essi avrebbero di sicuro incontrato più difficoltà degli altri a farsi strada nella vita. Leggeva, in ogni caso, nei loro occhi la volontà di voler un giorno superare la tribolazione cronica che condizionava l'esistenza delle rispettive famiglie e degli avi che li avevano preceduti, come una malattia cronica che si passa di generazione in generazione. Era il desiderio di emancipazione vissuto in modo eclatante dal loro amico Pollice, già con un piede oltre il destino segnato dell'etnia di origine indiana.
Giacinta notò Benzina scrutarli con occhio civettuolo, e non poté fare a meno di affrontarlo verbalmente per capire cosa avesse in mente. Fu estremamente esplicita:
«Che cazzo hai da guardare Benzina...».
L'uomo non si aspettava un attacco così sfrontato e girò la testa dall'altra parte, cercando un modo qualunque per vincere l'imbarazzo. Dopotutto non aveva fatto nulla di male, se non provare un vivo sentimento d’amore per i due giovani.
«Niente di che. Mi chiedevo solo cosa vi sarebbe piaciuto fare da grandi...».
Disse la prima cosa che gli venne in mente.
«Bella domanda», ironizzò Radu.
Giacinta lo fissò con gli occhi spiritati, credendo che stesse in realtà tergiversando maliziosamente sulle sue forme; cosa che era già successa e non sopportava.
«Io vorrei fare la principessa delle barbabietole».
Radu rise di gusto. Benzina si abbandonò a un'espressione buffa.
«Senz'altro un bel lavoro. Deve essere molto remunerativo».
Sul volto di Radu e Giacinta prese forma un enorme punto interrogativo: certe volte non riuscivano proprio a capire i termini usati dall'amico di merende, unti dall’accademia evinta dalle letture sporadiche dei giornali. 
«Remu che?», bofonchiò Radu.
Benzina percepì tardi il problema: i due sinti era già tanto se riuscivano a esprimersi in italiano; figuriamoci il resto. Alcuni nomi e aggettivi non potevano essere di loro competenza. Avrebbe potuto pensarci.   
«Silenzio!», intervenne Teschio, con arroganza.
Un'automobile s'era appena fermata davanti all'entrata della ditta. Era una Mercedes cabrio: roba da ricchi. Scesero due persone: un uomo, sulla sessantina, ben vestito e con un cappello grigio, e una donna di una decina d'anni più giovane, anche lei dall'aria assai benestante. Impugnavano qualcosa che l’uomo non riuscì a mettere a fuoco. Lo capì più tardi, quand'erano oltre il cancello d'entrata: era una busta cartonata, contenente chissà cosa, che l’ospite pose sopra il davanzale, nei pressi dell'uscio da percorrere per raggiungere il covo della setta.
Aprirono la porta e si inoltrarono nel cuore del caseggiato che sorgeva di fianco alla ditta. Scomparvero velocemente, lasciando a bocca aperta Teschio e i suoi compari.
«Che dite?», blaterò Teschio, senza cognizione.
Nessuno fiatò, ma fu evidente a tutti che l'ora x fosse ormai scoccata.  

Nessun commento:

Posta un commento