21.
Si sistemarono sul letto a due
piazze della roulotte, dove Radu era solito coricarsi con mamma, con gli stessi
vestiti con cui s’erano accompagnati durante la giornata. Entrambi puzzavano di
sudore, ma erano abituati all’odore naturale delle loro pelli e non ebbero
particolari problemi a sdraiarsi uno di fianco all’altro. A Radu, però, suonò
terribilmente strano non percepire quello della madre, che ogni notte inondava
le sue narici augurandogli un felice riposo. Peraltro gli mancò il bacio della
buonanotte. Rattristato si rivolse al cielo, invocando ancora una volta lo
spirito del nonno. Gli chiese di prendersi cura di mamma, che ora avrebbe di
sicuro avuto bisogno di qualcuno con cui andare a caritare.
«Ti prego nonno, fa che non debba
arrangiarsi da sola, e che tu possa vegliare sul suo lavoro, consentendole di
racimolare quel tanto che le possa consentire di vivere», recitò mentalmente.
«Non ci sarò più io al suo fianco a fare il funambolo e... per lei potrebbe
davvero essere dura. Ma so di poter contare su di te...».
Radu aveva un’idea molto
personale dell’aldilà. Credeva, come molti, e come la maggior parte dei nomadi
con cui aveva avuto a che fare, che dopo la morte si continuasse a vivere, ma
in contesti davvero inusuali; più che all’infinitamente grande, il classico
regno dei cieli, guardava all’infinitamente piccolo. Aveva, per esempio, provato
a ragionare sul fatto che la vita ultraterrena potesse celarsi fra i petali di
un fiore, le antenne di qualche insetto, o l’apparato miceliare di un fungo. Erano
follie quotidiane che lo contraddistinguevano fin da piccolo, da cui non riusciva
a distaccarsi, benché conscio dell’ipotesi che chiunque, sentendolo blaterare a
proposito, gli avrebbe dato del pazzo.
La mamma semmai gli aveva
raccontato dell’esistenza di un posto meraviglioso dove venivano accolte le
anime, chiamato haiman, che però era appannaggio delle persone pure e prive di
peccato. Non lui e la mamma, quindi, che in più erano zingari, individui da cui
stare alla larga, così come la pensavano i sestesi che incrociavano il loro
cammino.
Sapeva che ai membri del suo
popolo questo meraviglioso posto era precluso. I più retti avrebbero vissuto in
una specie di limbo, in attesa di raggiungere la beatitudine dell’haiman, ma
solo se qualche dio particolarmente magnanimo avesse deciso di intercedere per
loro. Per tutti gli altri sarebbe stata la follia, la miseria, la dannazione. È
il motivo per il quale s’era convinto che ovunque si trovasse mamma, stesse subendo
le solite pene patite sulla terra, ora in modo ancora più esasperante, visto
che non avrebbe più potuto contare sul suo piccolo.
Giacinta, scoprendolo immobile e
assorto in chissà quali pensieri, gli sfiorò il braccio, cercando un contatto
affettuoso; Radu non si scompose più di tanto, ma accolse con piacere il
brivido che ne derivò, e per un attimo si ritrovò felice.
«Dormi?», le chiese.
«Non ancora», disse lei.
«Non hai sonno?».
«Neanche un po’».
«Nemmeno io».
I due ragazzetti avevano gli occhi
spalancati e fissavano disinteressatamente la luce sbiadita che filtrava dalla
finestrella sopra il letto; la consueta, squallida e inutile luce che si
respirava durante le sere estive, sotto il cavalcavia di via Monte Santo, col
sottofondo incessante del fischio dei treni.
«Odio la luce dei lampioni»,
disse Radu. «Se un giorno diverrò ricco mi piacerebbe prendermi una bella luce
al neon...».
«Al neon?».
«Sono le migliori. Consumano poco
e fanno una luce incredibile. Mamma direbbe che piacciono anche alle
fate».
«Le fate non esistono».
«Esistono eccome».
Tentarono di dormire abbracciati,
ma la notte fu tutt’altro che facile. Radu prese a girarsi sotto sopra, in
cerca di una posizione che potesse consentirgli di vivere una rilassatezza che
sembrava avere smarrito per sempre; ma invano.
Giacinta avvertì il disagio
dell’amico, ritrovandosi sveglia per gran parte della notte, lei stessa
incapace di assumere una geometria del corpo adatta al suo fabbisogno
fisiologico, e in più devastata da immagini orribili di omicidi e squartamenti:
la visione della mamma di Radu tanto conciata era un flash di cui, nonostante
il passare delle ore, non riusciva a liberarsi.
A un certo punto Radu si mise a
parlare nel sonno, riferendosi a una misteriosa madame x. Giacinta non ebbe
idea della persona a cui si stesse riferendo, ma come una mammina premurosa gli
toccò la fronte per sincerarsi che non avesse la febbre.
22.
Il risveglio, in compenso, fu
dolce e sereno. Radu si accorse con piacere di avere ancora il braccio di
Giacinta avvitato intorno al collo, come un guanto leggero. Si udiva uno strano
silenzio e l’impressione era che tutti i sestesi fossero spariti nel nulla
durante la notte, spazzati via dalla furia assassina di qualche demone nascosto
fra i binari della ferrovia.
Continuava a filtrare la luce
dalle finestrelle della roulotte, benché non fosse più quella dei lampioni,
bensì quella di un timido sole, che sbiadiva oltre la serratura del piccolo
bagno. Radu si sgranchì le braccia e le gambe, attento a non scomodare Giacinta
che, ancora, pareva persa nel mondo dei sogni. La osservò per qualche secondo,
orgoglioso di averla come amica. Si chiese come sarebbe stata la sua prima
notte da orfano, senza il suo calore. Il momento idilliaco, però, non durò per
molto. Si sentì bussare alla porta. Erano Teschio e Benzina, pronti a
rimettersi in pista per trovare una soluzione al giallo.
Giacinta aprì gli occhi di
soprassalto.
«Cazzo, chi è a quest’ora?».
Radu rise sotto i baffi, constatando,
dalla piccola sveglia posta sopra il lavabo, che erano già le dieci.
«Forse sono Teschio e Benzina...»,
disse il piccolo.
«Aspetta», fece Giacinta.
«Controlla dalla finestra. Mica che siano gli sbirri».
«Anche se fossero gli sbirri...».
«Non sarebbe bello».
«Perché? Cosa avrebbero da
accusarci?».
Giacinta non fiatò e lasciò che
l’amico la scavalcasse come l’ostacolo di una gara di atletica, per raggiungere
la porticina del camper.
«Siamo noi, aprite!».
Era Benzina, col viso paonazzo, preoccupato
che i due giovani non volessero scomodarsi per paura di dover dare retta a
qualche ficcanaso.
Radu spalancò l’uscio e si trovò
di fronte i due amici trafelati, che sembravano reduci da una notte simile alla
sua: tragica. Entrambi avevano le occhiaie e un aspetto da ritirata di Russia.
Ogni particolare era lasciato al caso. Si vedeva che non si rasavano da giorni,
e che non s’erano nemmeno preoccupati di farsi una doccia, dopo avere consegnato
all’haiman lo spirito della mamma di Radu. Di fatto, non erano così affezionati
all’acqua corrente e a tutto ciò che dipendeva da essa: si lavavano quando
potevano, o quando si sentivano ispirati.
«Entrate?», domandò Radu.
Giacinta se li trovò di fronte
senza avere nemmeno avuto il tempo di realizzare che era iniziato un nuovo
giorno. Aveva gli occhi appiccicati dal sonno e mezza camicetta sollevata, che
non aveva lasciato indifferenti i due compagni di avventura.
«Si dorme?», aveva mugugnato
Benzina, arrossendo per d’imbarazzo.
Giacinta non lo considerò
nemmeno. Saltò giù dal letto e si aggiustò i vestiti, infastidita dall’idea di
essere stata osservata con quel tiro piuttosto malizioso.
«Se volete ho un po’ di caffé»,
disse Radu, con un sorriso compiaciuto, «stamattina possiamo arrangiarci così».
«Non vorremmo approfittare della
tua generosità», disse Teschio. «Se siete della partita, potremmo andare a fare
colazione dal nostro amico».
«E chi sarebbe il nostro amico?», chiese Giacinta
impettita. «Non mi sembra che abbiamo molti amici...».
«Proprio colui che, speriamo,
sarà in grado di darci una mano a risolvere il caso...».
«Ho capito... Rafael», blaterò Radu,
con aria disillusa.
Giacinta e Radu si guardarono con
sufficienza. Ancora non capivano in che modo Rafael potesse contribuire alla
sorte del quartetto; ma accettarono di buon grado la proposta dei due adulti.
In fondo, nessuno ambiva a rimanere ancora per molto chiuso in quell’antro
desolante, appestato dall’odore della notte e pervaso da un senso di
oppressione legato al fatto che fino a poche ore prima - proprio lì dove
stavano ciarlando - giaceva esanime Slagena.
«Allora si va?», incalzò Benzina.
Giacinta e Radu annuirono senza
esprimersi verbalmente. La ragazza divaricò di nuovo la porticina del camper e
fece strada: Rafael li stava aspettando.
23.
C’era la consapevolezza di un
assassinio in piena regola, ma mancava la premura e l’affanno del primo viaggio
a piedi dell’improvvisata banda di detective. Gli umori, soprattutto, erano
differenti. Radu era meno triste e amareggiato del solito. Seppure a fatica,
stava facendosene una ragione: la mamma non l’avrebbe mai più rivista e a nulla
sarebbero valsi gli sforzi di una preghiera più tenace delle altre per poter
fare cambiare le cose. Anche gli altri, a modo loro, erano riusciti a
razionalizzare l’accaduto e a trasformare l’angoscia del giorno appena
trascorso in un monito per tentare di srotolare i fili di una matassa che a
tratti pareva davvero impossibile da districare.
La giornata si fece presto calda
e afosa, come gran parte delle giornate di luglio in un qualsiasi borgo alle
porte di Milano. Si coglieva un’elevata umidità, che rendeva più affannoso il
respiro. Per Benzina furono quasi rantoli. La strada era vivamente battuta da
auto e tir, e i veleni dell’aria già particolarmente insidiosi.
«Cosa raccontiamo a Rafael?»,
domandò Benzina.
«Vediamo cosa ne sa dei Dionisio...»,
disse Teschio.
«Direi, comunque, di non svuotare
subito il sacco».
«Ma non troverà inopportune certe
nostre curiosità?».
«Potrebbe essere...», disse
Teschio, «ma non abbiamo molte alternative».
«Non so. In fondo, se anche gli
dicessimo tutto fin dall’inizio, non vedo in che modo potrebbe ostacolare i
nostri piani», disse Benzina.
«Il punto è che le parole corrono
troppo in fretta e... se finiscono alle orecchie sbagliate...», rifletté
Teschio.
«Non hai tutti i torti», recitò
Benzina. «Iniziamo ad arrivare al bar, poi vediamo come muoverci. L’importante
è ritagliarci un momento di confidenza con Rafael, senza che altre persone
possano interferire coi nostri discorsi...».
«Siamo meglio dei servizi segreti
americani», ironizzò Giacinta.
Radu rise timidamente, scalciando
in mezzo alla strada una lattina di birra Moretti ancora mezza piena. Teschio e Benzina lo guardarono con un vago
risentimento.
«Faremo del nostro meglio», disse
Teschio, annichilendo qualunque altro tentativo di presa in giro.
A metà del percorso, Radu prese a
fischiettare una vecchia e briosa canzoncina rom. Giacinta ne rimase sorpresa e
non poté fare a meno di chiedergli il motivo di un brano che pareva un’offesa alla
gravità della situazione: ce n’erano così tante anche di origine sinti, peraltro
molto meno allegre, con le quali avrebbe potuto accompagnare la loro
passeggiata.
«È una canzone che mi cantava
sempre mamma...», disse Radu.
«Ma è una canzone rom», ribatté
la giovane, con tono risentito.
«Noi non abbiamo mai avuto
problemi con i rom. Sono loro che spesso se la sono presa con noi. Mamma
conosceva molte canzoni sinti e altrettante rom. E io, alla fine, mi sono
affezionato a entrambe».
«Di solito i rom sono degli
ottimi musicisti», intervenne Benzina.
«Lo sono anche i sinti, se è per
questo...», disse Giacinta.
«Sì, ma noi eccelliamo
soprattutto come giostrai», mugugnò Radu.
«Non sono così d’accordo. In casa
mia, se escludi mio padre, suonano tutti. E anche bene».
«Anche tua madre?», domandò
Teschio.
«Mia madre? È forse la migliore
suonatrice di cymbalon che sia mai vissuta in Italia».
«E che razza di strumento è?»,
chiese Benzina.
«Si suona con le bacchette. Puoi
considerarlo uno strumento a metà strada fra una chitarra e un pianoforte»,
spiegò Radu, gonfiandosi come un pallone.
«Non sapevo che te ne intendessi così
tanto di strumenti musicali», gli disse Giacinta, divertita.
«Sono cose che so grazie a mamma.
Avevamo anche uno zio che suonava il cymbalon. Ormai non lo vedo più da anni.
Credo sia tornato in Romania. Era bravissimo. Me lo ricordo quand’ero
piccolo...».
Il discorso si troncò
all’improvviso. Sull’uscio del bar c’era Rafael che, sputando gigantesche
boccate di sigaro cubano, pareva aspettare proprio loro.
24.
«Buongiorno ragazzi, cosa vi
porta tutti insieme dalle mie parti? State organizzando qualche torneo di
bridge?».
A malapena sapevano cosa fosse il
bridge, ma anche Rafael era tutt’altro che esperto. Lo aveva menzionato solo
perché gli era venuto in mente un manifesto appeso a un muro della stazione
ferroviaria, che pubblicizzava un incontro sul famoso gioco, che sarebbe
avvenuto a settembre in un auditorium di Sesto.
«Buongiorno Rafael, prendi un po’
di fresco?», domandò, con ironia, Benzina, fregandosene completamente della
domanda che gli era appena stata rivolta.
«Sei spiritoso oggi, Benzina. Hai
trovato la fidanzata?».
Per l’uomo fu un invito a nozze.
«Niente di tutto ciò. Ma se
dovesse accadere saresti il primo a saperlo».
«Quale onore. Per l’occasione, lo
prometto, servirò il mio migliore spumante».
Il botta e risposta fra Rafael e
Benzina terminò qui. Lo sguardo accigliato di Teschio catalizzò l’attenzione di
tutti i presenti. Se il capobanda era così ombroso, significava che c’era davvero
qualcosa nell’aria che non andava. Rafael se ne accorse immediatamente: tentò
di sdrammatizzare, ma Teschio lo precedette.
«Ciao Rafael», disse Teschio,
«potresti darci retta quando hai un attimo di tempo?».
«Come?».
«Avremmo qualcosa di importante da
chiederti...».
Rafael sbigottì, riflettendo sul
fatto che era quella la prima volta che Teschio gli parlava in modo così
solenne. Doveva esserci sotto una bella gatta da pelare, pensò.
«Beh, non mi sembra di avere
molto da fare oggi... se volete potete svuotare il sacco fin da subito».
In effetti il locale era vuoto,
come spesso accadeva a metà mattina, quando i clienti della colazione erano già
tutti al loro posto di lavoro, e quelli del mezzogiorno, ancora tardi a venire.
Rafael indietreggiò di qualche passo, consentendo al quartetto di superare l’uscio
del bar e accomodarsi come i membri di una congrega al tavolo più nascosto
dell’esercizio.
«Qualcosa da bere?», chiese
Rafael, pregustandosi la sortita degli amici.
«Una bottiglietta d’acqua per
tutti», disse Teschio.
L’acqua arrivò in pochi minuti.
Radu se la scolò in un sol colpo.
«Allora sentiamo», disse Rafael,
«cosa avete di tanto importante da dirmi?».
«Vorremmo sapere qualcosa sui
Figli di Dionisio...».
Rafael ebbe un sussulto. Si
accomodò, respirò profondamente, e prese a parlare con vivo coinvolgimento.
«Perché lo chiedete proprio a
me?».
«Più volte ti ho sentito
menzionare la setta...», disse Benzina.
«Non so se è una setta», disse
Rafael.
«Ma sai che cosa fanno».
«So cose che sarebbe meglio non
si sapessero. Soprattutto se ci sono fra noi dei ragazzetti».
«Loro sono con noi: non ti
preoccupare», fece Teschio.
Rafael li fissò entrambi, con
spirito indagatore.
«Non mi preoccupo, ma non mi
piace raccontare certe cose davanti ai bambini».
Teschio fece cenno a Radu e
Giacinta di uscire un attimo.
«Noi non ci muoviamo», disse
Radu, lasciando a bocca aperta gli interlocutori.
Rafael non se la sentì di
continuare nella sua battaglia e alla fine scelse di aprirsi, intuendo che la
richiesta dell'amico, dovesse coinvolgere in prima persona proprio il più
giovane della compagnia.
«Sono... sono un’associazione, un
gruppo, un clan, non saprei come definirli, uomini e donne di ogni età, che si
danno appuntamento in qualche covo di Sesto San Giovanni da parecchi anni. Probabilmente
dietro gran parte delle sparizioni e dei delitti peggiori verificatesi nel
circondario negli ultimi decenni, c’è la loro regia. Non sempre però, anzi,
quasi mai, è stato possibile stanarli. Sanno muoversi con arguzia, non lasciano
mai tracce e la polizia brancola nel buio ogni volta che deve indagare su
qualche loro malefatta...».
Rafael si rischiarò la voce.
«Ma perché vi interessa così
tanto sapere dei Figli di Dionisio?».
I quattro si squadrarono feroci, come
lupi pronti all’attacco.
«Abbiamo trovato per strada un ciondolo
con l’effige di Dionisio e ci è venuto in mente di saperne di più...», disse
Benzina, con scarsa convinzione.
«A chi volete darla a bere?»,
domandò Rafael.
Radu e Giacinta si guardarono con
aria abbacchiata. Non fu difficile intuire che Rafael non avrebbe aggiunto
altro, finché qualcuno non gli avesse rivelato nuovi e succosi dettagli.
25.
«Hanno ucciso mia mamma», disse
Radu, gelando i presenti.
Nessuno aveva previsto l’uscita
spiazzante del piccolo, anche perché Teschio era stato chiaro: meglio rimanere
vaghi e non entrare troppo nei particolari. Esageratamente alta la posta in
gioco. Ma ormai la frittata era fatta. Sul viso di Rafael si dipinsero le fauci
di un coccodrillo affamato.
«Cosa?», domandò.
Teschio aggrottò le sopracciglia
e tracannò un sorso d'acqua. Toccava a lui dare qualche spiegazione in più.
«L'ha trovata in un mare di
sangue... ieri mattina. Probabilmente è stata uccisa con un coltello, un’arma
da taglio. Aveva la pancia tranciata in due. Non abbiamo idea, però, di chi sia
stato...».
«Tracce?».
«Abbiamo trovato vicino al camper
una targhetta dei...».
«Figli di Dionisio», indovinò
Rafael.
«Proprio così».
Rafael tirò un respiro profondo,
ancora incredulo innanzi alla terribile notizia. Squadrò con compassione il
piccolo Radu, cercando qualcosa da dirgli, ma ogni parola si interruppe prima
di giungere alle corde vocali. Era sempre stato una frana con le frasi di
circostanza e conforto.
«I Figli di Dionisio sono la
peggior razza della terra... uccidono per il gusto di uccidere».
«Cosa puoi dirci sul loro conto?».
«Io non ne so molto, ma un tipo
che conosco abbastanza bene... lui sa tutto».
«Chi è?», domandò Benzina.
«Una volta passava spesso dalle
mie parti, ora un po’ meno. So che ha fatto parte dei Figli di Dionisio».
Teschio sbalordì, incredulo
dinanzi alla possibilità che il bar di Rafael potesse ospitare assassini
patentati.
«Ora non più?», domandò Benzina.
«Dovrebbe esserne uscito»,
proseguì il barista. «Vi parlo di un paio di anni fa. Mi ricordo che passava di
qui come un esaltato, marcio di sostanze in grado di sputtanare la coscienza. A
volte sembrava completamente rimbambito, fuori di cotenna... non so se mi
faceva più ridere, o più pena».
«Ti ha mai detto niente di
strano?».
Rafael deglutì amaramente.
«Mi raccontava storie raccapriccianti
che preferirei evitare di affrontare, anche perché non so fino a che punto
fossero attendibili. Poi, però, deve essergli successo qualcosa... deve avere
avuto una specie di crisi mistica e ha mandato tutto a quel paese. Ma non è
facile lasciarsi alle spalle certa gentaglia».
«Uno che entra nei Figli di
Dionisio non ne esce più. Se non da morto», chiarì Teschio.
«Proprio così», disse Rafael.
«Ma visti i rischi che correva
come faceva a raccontarti tante cose?», gli domandò Benzina.
«In realtà non era mai così esplicito.
Parlava per trabocchetti, scioglilingua, rebus. Sembrava tutto una via di mezzo
fra il vero e il desiderio di provocare. Poi, però, quando leggevo sui giornali
certe cose, mi era impossibile non collegarli ai suoi racconti».
«Come si chiama?», chiese
Teschio.
Rafael abbozzò un sorriso
sghembo.
«Il nome, probabilmente, è una
copertura. Si fa chiamare “il Cinghiale”...».
Lo guardarono stupiti.
«Per via di due denti aguzzi che
spuntano dalla bocca. Non so quale sia il suo vero nome, ma so dove abita...».
Benzina strabuzzò gli occhi per
la curiosità.
«Allora abbiamo fatto bingo»,
disse Benzina.
«Non ci conviene correre troppo.
Non lo vedo da mesi. Potrebbe anche essersene andato», spiegò Rafael.
«Qui gatta ci cova», intervenne
Giacinta, sempre più calata nella protagonista di un romanzo di Agatha
Christie. «Potrebbero averlo fatto fuori... potrebbe avere fatto la fine di
Slagena».
«Tutto è possibile, ma a questo
punto... tanto vale verificarlo di persona», fece Benzina.
Teschio annuì.
«D'altronde, è l'unica pista che
abbiamo da seguire...».
Rafael non fece un piega.
«Saresti disposto a indicarci
l’indirizzo della sua abitazione?», chiese Teschio.
Rafael si granchi le gambe,
allungandole sotto la sedia di Radu. Avrebbe voluto tenersi fuori dalla
faccenda, ma si rendeva ormai conto di avere oltrepassato il limite della
riservatezza, mettendo in campo le sue conoscenze più intime e dando, dunque,
retta a quelli che, pur non avendoglielo mai confidato, riteneva i suoi clienti
più simpatici e più simili a sé.
«Cosa credete di fare?».
«Vedremo, ora ci sembra la mossa
più giusta da compiere», replicò Teschio, autorevolmente.
«Non è lontano da qui. Fatemi
andare a vedere se ho ancora l'indirizzo preciso».
Rafael tornò con un biglietto stropicciato,
che consegnò nelle mani di Teschio. C'era scritto: fam. Schilef, via fratelli
Cairoli, 38.
«Dovrebbe esserci vicino un
veterinario», precisò Rafael. «Via Fratelli Cairoli è una traversa di via Falk,
sta oltre la stazione».
26.
Si misero in marcia freschi come
le rose: la possibilità di far visita a casa Schilef li galvanizzò e gli
restituì un po’ di buonumore. Avevano davanti un ventina di minuti di cammino,
ma fu come se dovessero compiere non più di due passetti di danza fra le fronde
del parco Gramsci. Durante il tragitto parlarono di come, grazie alle
indicazioni di Rafael, sarebbero finalmente riusciti a sapere qualcosa di più
dell'omicidio di Slagena.
«Ce la faremo», ripeté più volte
Radu.
Ma nell'animo di Teschio e Benzina
era altrettanto vivo il timore di fare una brutta fine. In realtà non temevano tanto
per se stessi, quanto per Radu e Giacinta, che avevano ancora tutta una vita
davanti e per i quali, minuto dopo minuto, sentivano di provare un sentimento
sempre più forte.
Raggiunsero via Fratelli Cairoli;
individuarono le saracinesche del veterinario e cercarono il nominativo impresso
sul biglietto di Rafael: Schilef. Lo trovò Radu, anche se era quello che
leggeva peggio di tutti.
«Bravo ragazzo», gli disse
Benzina.
Giacinta gli sorrise.
Pigiarono il bottone del citofono
e, in religioso silenzio, si misero in ascolto, come in attesa di un messaggio
dallo spazio. Per qualche secondo il trabiccolo tacque, tanto da spingere
Benzina a rimettersi a giochicchiare con l’accendino che stringeva fra le mani.
All’improvviso una flebile voce spuntò dalla grata dell'apparecchio acustico,
rincuorando il quartetto.
«Sì?».
Si fece avanti Teschio.
«Buongiorno signora, mi chiamo
Francesco Riboldi e...».
La signora riattaccò. Benzina
riprovò a sollecitarla. La donna si concesse al terzo tentativo, ma questa
volta fu lesta Giacinta a creare i presupposti per avviare una degna
conversazione e a far sì che non riattaccasse. Disse semplicemente:
«Stiamo cercando suo marito».
Il portone si aprì istantaneamente,
seguito dalla roca indicazione di salire al primo piano, prima porta a destra
dell'ascensore.
Si trovarono di fronte una donna
sulla cinquantina, con la pelle cenerognola e un diavolo per capello. La casa
era in ordine, ma sapeva di vecchio e stantio. Anche l’odore dell’appartamento
rimandava a epoche antiche. In mezzo al locale volteggiava a grande velocità un
ventilatore che Radu associò alle pale schizofreniche di un elicottero.
La donna li accolse con voce
tremante e non lasciò adito ai fraintendimenti.
«Cosa sapete di mio marito?».
Teschio prese la parola con vivo
disagio, infastidito da una mosca che gli ronzava intorno al capo, attratta dai
suoi capelli unti.
«Possiamo entrare?».
La donna li accompagnò a sedersi
sull'unico divano della sala, posto di fronte a un mobiletto sormontato da un
televisore vintage. Radu, considerando che non c’era abbastanza spazio per
tutti, si accomodò su un bracciolo.
«In realtà, signora, non sappiamo
nulla di suo marito», esordì Teschio. «Siamo qui, semplicemente, perché
vorremmo parlare con lui».
«Mio marito è scomparso da due
mesi».
Benzina farfugliò una frase
pressoché priva di significato, che nessuno prese seriamente.
«In che senso?», domandò Teschio.
«Nell'unico senso che conosciamo...».
Teschio notò un’espressione
insoddisfatta della donna, e intuì che fosse necessario spiegarle il vero
motivo della visita, sennò non sarebbero andati troppo lontano.
«Signora, a essere precisi,
sappiamo... sappiamo che suo marito ha fatto parte dei Figli di Dionisio...».
Alla donna si riempirono gli
occhi di lacrime.
«Allora sapete...».
«Ci ha raccontato qualcosa un
amico. Ma a quanto pare ne è uscito. A noi, però, interessa conoscere qualche
particolare della setta: è stato commesso un omicidio e abbiamo trovato che le
tracce dell'assassino... riconducono ai
Figli...».
La donna ansimò, quasi felice di
poter finalmente parlare con qualcuno del misterioso clan di delinquenti.
«Temo che anche mio marito abbia
fatto la stessa fine».
«Se vorrà lo potremo scoprire
insieme», disse Benzina, mosso da un sentimento di viva commozione. «Qui c'è
del marcio, questo è sicuro».
Teschio e i due ragazzi lo
guardarono con aria compassionevole. Quando ci si metteva, Benzina, riusciva
davvero a essere melodrammatico.
«Dunque, cosa pensereste di
fare?», domandò la donna.
«Dipende da quel che ha da
raccontarci», disse Teschio, senza compiere tanti giri di parole.
27.
«Prima di tutto, è il caso che mi
presenti. Mi chiamo Nadia: Nadia Schilef».
Fecero altrettanto i suoi ospiti,
tendendole la mano. Radu si sporse così tanto dal suo angolino che per poco non
si capovolse.
«Mio marito lavorava per una
ditta di disinfestazione, io facevo la maestra di sostegno. Stavamo bene. Non
avevamo problemi economici e... per quel che può valere il concetto di
felicità, potevamo dirci felici. Le cose sono cambiate quando ha conosciuto una
donna, una donna strana, straniera, alla quale prese a dedicarle sempre più
tempo. Si incontravano nei posti più disparati, in un bar, per strada,
addirittura al Vulcano, da MacDonald. Gli chiedevo se non gli sembrasse di
esagerare, ma lui sminuiva ogni mia presa di posizione, dicendo che non faceva
nulla di male. Il loro era un sentimento platonico, spirituale. Potevano
passare anche le ore insieme senza sfiorarsi con un dito, ma solo discutendo
degli argomenti più diversi, compresa la politica, la religione e...».
Nadia si placò, dando
l'impressione di voler tenere in serbo qualcosa di troppo personale o
compromettente. Teschio se ne accorse e le chiese se c'era qualcosa che non
andava. Lei disse che andava tutto bene. E proseguì nel suo discorso, smorzando
definitivamente la tensione.
«Mi confidò della setta pochi
mesi dopo averla conosciuta, quando ormai aveva già perso parte della sua
lucidità. Forse non è corretto parlare di mancanza di lucidità, tuttavia a
volte mi dava davvero l'impressione di non essere lui a ragionare, ma qualcun
altro al suo posto, come se qualcuno gli avesse fatto il lavaggio del cervello.
Non mi parlò esattamente di una setta, ma di un'organizzazione, un gruppo di
persone, dal suo punto di vista, dotate di un'intelligenza superiore, in grado
di compiere qualsiasi cosa in virtù di non si sa bene quali scopi. Ne parlava
con un entusiasmo eccessivo...».
«Non era più lui», commentò
Benzina, totalmente rapito dal racconto della Schilef.
«Non era più lui. Abbiamo
iniziato a litigare e a non comprenderci più. E mancava da casa sempre più
spesso. Non mi diceva dove andava, ma poi trovavo nelle tasche dei pantaloni scontrini
e ricevute che provavano la sua presenza anche a molta distanza da qui. Su un
foglietto avevo letto che aveva dormito in un hotel di Torino, su un altro,
addirittura, a Lampedusa. Le scuse erano sempre le stesse. Mi diceva che da
tempo la sua ditta s'era ingrandita e che, ora, avrebbero lavorato lontano da
casa sempre più frequentemente. Ci credevo poco, ma alla fine, per non far
precipitare le cose, ero costretta a far finta che andasse tutto bene».
Nadia fece una piccola pausa e
dondolò la testa, comunicando virtualmente ai suoi interlocutori che non era
affatto facile parlare di una vicenda che l'aveva praticamente ridotta in
briciole. Giacinta le regalò un sorriso di comprensione.
«La capisco», disse Benzina.
«Tante volte, anche se è difficile, vale di più la pena fare un passo indietro
e...».
Teschio, del tutto disinteressato
all'ennesimo inutile e circostanziale intervento di Benzina, si fece avanti per
capire qualcosa di concreto di questa fantomatica organizzazione.
«Ma mi dica... se si tratta di
un'organizzazione, vorrà anche dire che esiste un capo, un vertice, qualcuno
che coordina il tutto...».
Nadia fece una mezza smorfia.
«Non ne so fino a questo punto.
Qualche volta mio marito mi ha parlato di un capo, una specie di santone, che di
giorno non si vedeva mai, ma che di notte si trasformava in un...».
La Schilef, come pochi istanti
prima, interruppe il suo discorso, temendo di uscire dal seminato, ma questa
volta la incalzò Benzina, che non voleva più farsi scappare nulla.
28.
«In un?».
«In un... non saprei come dire...
mio marito lo soprannominava il re della notte. Non si faceva mai vedere, ma
solo sentire. E se compariva fra gli adepti, lo faceva con la testa
incappucciata o una maschera di...».
Voleva dire minotauro, ma non le
uscì la parola. Non la ricordava più. Peraltro non sapeva nemmeno chi fosse il
minotauro, anche se il nome non le era nuovo.
«Sembra riferirsi a una setta a
tutti gli effetti», commentò Teschio.
«Non ho dubbi», disse Nadia.
«Forse una delle peggiori della zona».
«Cosa facevano durante i
rituali?».
«Non me lo ha mai raccontato.
Evidentemente veniva esortato a tacere. Ma so che tornava spesso a casa
devastato, stravolto. Una volta rincasò convinto di essere il dio della luce.
Credo fosse sotto l'effetto di qualche droga. Di certo ne consumavano
parecchia».
«Dunque pensa che sia stata la
donna misteriosa a introdurlo nel giro?».
«Sicuramente è andata così.
Tuttavia, quando prese a frequentare assiduamente la setta, della donna non si
seppe più nulla. Mio marito smise di vederla e, a quanto pare, di frequentarla.
All'improvviso parve essere scomparsa nel nulla, per lasciare spazio al... re
della notte».
Teschio e Benzina si scrutarono
abbacchiati. Le loro supposizioni divennero sempre più palesi. Con i Figli di
Dionisio c'era ben poco da scherzare: l'impressione era che chi entrava a fare
parte della setta, poi scompariva come un fantasma.
«Il nostro amico ci ha anche
raccontato che molti delitti commessi nella zona portano la loro firma, benché
nessun organo di giustizia sia mai stato in grado di far luce sulle singole
vicende».
«Ci potrei scommettere. Mio
marito, lo ripeto, non mi ha mai detto nulla, ma troppi indizi mi inducono a
pensare che fosse un'organizzazione tutt'altro che benevola».
Ci fu una pausa di silenzio in
cui quasi tutti i presenti fissarono costernati il pavimento, mugugnando su un
futuro che pareva assolutamente nebuloso. Teschio si grattò il capo infastidito
da un brufolo che da giorni perseguitava il suo cuoio capelluto. Benzina accavallò
le gambe, cercando di trovare un buon pretesto per avanzare un nuovo quesito. I
due ragazzi si squadrarono ridendo sotto i baffi: comprendevano la drammaticità
della situazione, tuttavia dal candore della loro tenera età, la faccenda stava
quasi trasformandosi in un gioco, in una clamorosa avventura.
Le pale del ventilatore
continuarono a girare su se stesse, obbligando i presenti all'ascolto di una
colonna sonora gelida e onnipresente.
«Vi ricordate il fatto di cronaca
riguardante l'odontotecnico scomparso e ritrovato dopo due settimane in una
scarpata montana dalle parti di Bergamo?», riprese Nadia.
Teschio e Benzina annuirono,
memori di una storia che aveva avuto una buona risonanza nella zona, anche
perché la casa della vittima non sorgeva tanto distante dal bar di Rafael.
«Alla fine non fu possibile
risalire al colpevole. Ma una notte, nel sonno, mio marito nominò proprio il
suo nome. Farneticava e a un certo punto si mise a dire che lui non voleva
farlo ma che era stato costretto. Lo stesso era accaduto un pomeriggio che
s'era appisolato sulla poltrona. Non so fino a che punto potesse essere coinvolto
nella vicenda, ma è chiaro che i Figli di Dionisio non furono dei semplici
complici dell'omicidio».
«Poi come andò?», chiese Benzina.
«Il caso è stato archiviato per
mancanza di prove. Del resto l'odontotecnico viveva solo e non aveva grandi
contatti col mondo esterno. E averlo trovato ormai privo di vita dopo vari
giorni dalla scomparsa, non semplificò le
cose».
«Lei, però, si sarà fatta qualche
idea...».
«Secondo me hanno tirato dentro
anche lui e... poi lo sa solo il padreterno cosa può essergli accaduto.
Sapevano come raggirare le persone, anche le più integerrime. Alcune donne
consenzienti potrebbero avere facilitato nuovi incontri».
29.
Calò di nuovo una cappa di angoscia
sul gruppo, resa palese dallo sguardo terribilmente accigliato di Teschio.
Dalla finestra rimbombarono,
intanto, le note di un claxon pigiato con irrispettosa foga. Davanti al
veterinario qualcuno aveva parcheggiato per l’ennesima volta in doppia fila, impedendo
il normale viavai del traffico. Ormai Nadia era abituata al baccano
automobilistico; e così Radu e Giacinta che, praticamente, vivevano per strada...
Teschio e Benzina parvero quelli più infastiditi dall’improvviso clamore
metropolitano: in un'altra situazione avrebbero tranquillamente imprecato a
voce alta. Assunsero vicendevolmente un'espressione da cani bastonati, cercando
un modo per ritrovare il coraggio perduto.
Nadia Schilef colse l’occasione
per scaricare l’ansia, andando in cucina a prendersi un bicchiere d’acqua. Bevve
nervosamente. Sporse la testa dall'uscio, per chiedere se anche qualche ospite desiderasse
qualcosa per rischiararsi la gola. Solo Benzina si fece avanti.
«Se ha qualcosa di forte... non
mi dispiacerebbe».
Tornò con un Fernet Branca, un alcolico
che Benzina non consumava da secoli, con la bottiglia ricoperta di polvere e l'etichetta mezza
stacciata. Si vedeva che nessuno lo beveva da chissà quanto tempo. Ma Benzina
non ci fece caso: per la situazione, pensò, sarebbe andata bene qualunque cosa,
perfino un succo di frutta ai mirtilli.
«Grazie», disse timidamente.
L’uomo bevve in silenzio,
sentendosi addosso gli occhi degli amici che lo fissavano senza vedere
veramente lui, bensì il terribile domani che pareva andare delineandosi.
Nadia tornò al suo posto, ma non
fece in tempo a sedersi che Teschio le pose la domanda che andava elaborando da
quando aveva messo piede nell'appartamento di via Fratelli Cairoli.
«Esiste un luogo nel quale i
membri della setta sono soliti darsi appuntamento?».
Nadia sorrise con aria
disgustata.
«Esiste».
Respirò profondamente, fulminando
Teschio con uno sguardo diabolico.
«L'ho visto solo da fuori. Me
l'ha mostrato un giorno mio marito. Stavamo tornando dal supermercato. Era su
di giri. Mi disse che aveva qualcosa da farmi vedere. In un'area periferica
della città, contornata da fabbriche, mi indicò un parallelepipedo
prefabbricato, appoggiato a una vecchia dimora, una casetta su due piani con un
balconcino in ferro battuto, risalente forse ai primi del Novecento. Di giorno
si lavorava la vetroresina. Di notte, non si sa bene quel che succedeva. Mi
diceva che nemmeno il metronotte si fidava a varcare i confini della proprietà,
per la sua aria lugubre e fatiscente: guardava da fuori che fosse tutto a posto
e proseguiva per la sua strada. Non importa se, talvolta, vi erano macchine
parcheggiate una dietro l'altra, suggerendo la presenza inopportuna di uomini e
donne. Mio marito mi spiegò che il punto esatto del ritrovo era lo scantinato
che sorgeva sotto al caseggiato più antico: una scala conduceva alle
fondamenta, e da lì a uno stanzone riservato alle attività dei Figli di
Dionisio».
«Non c'era il rischio che qualche
dipendente dell'azienda vi incappasse? Magari per sbaglio...».
«Non credo», disse Nadia. «Da
quel che ho potuto capire, gli operai non si recavano mai nella casa, ma solo
nel prefabbricato. E in ogni caso, se anche l'avessero fatto, avrebbero trovato
tutto sbarrato».
«Dove si trova esattamente?»,
domandò Teschio.
Nadia non fiatò. Si alzò di nuovo
dal divano e raggiunse un cassetto del mobile principale del soggiorno: lo aprì
e lo chiuse. Cercò altrove, compreso un vassoio sul quale agonizzavano dei
frutti di plastica, una banana, un melograno e un grappolo d'uva... Ma anche
qui la ricerca non le dette soddisfazione. Trovò, dunque, ciò che cercava in un
angolo della credenza, opposta al mobile più in vista, dove aveva accumulato
una serie di bicchieri ereditati da una vecchia zia. Teschio ricevette un
biglietto da visita, riportante la dicitura “vetroresina spa” e un nome
sconosciuto, Marcello di Napoli.
«Sul biglietto c'è tutto».
Teschio sorrise ripensando al
fatto che poche ore prima, con lo stesso gesto, aveva ricevuto le indicazioni
per raggiungere la casa di Nadia Schilef.
30.
«La ringrazio», disse Teschio,
infilandosi il biglietto da visita nella tasca dei pantaloni.
Nadia lo osservò con dolcezza:
nonostante la magrezza, le rughe, l’aria sfatta, lo trovò un bel tipo. Le
piaceva anche il tono della sua voce, così pacato e suadente. Si scoprì lieta di
averlo conosciuto e di aver potuto stringergli la mano. Pensò che in un altro
mondo o in un'altra circostanza sarebbero potuti diventare buoni amici, se non
qualcosa di più.
«Come pensate di muovervi?»,
chiese.
«Bella domanda...», rispose
Benzina.
«Adesso ci ragioniamo», disse
Teschio. «Grazie alle sue informazioni sapremo almeno da dove partire».
«Purtroppo sono emersi anche dettagli
poco confortanti», disse Benzina.
«C'era, però, da aspettarselo»,
rettificò Teschio.
«Se ci sono davvero di mezzo i
Figli di Dionisio... non posso che augurarvi di avere dalla vostra parte tutti
i santi del paradiso».
Sul viso di Nadia si dipinse
un'espressione affranta.
«Per mia mamma sono disposto a tutto»,
intervenne Radu, colmo di rabbia. «Non so ancora chi siano questi Figli di
Dionisio, ma so che io non avrò nulla da temere... e che lo spirito del nonno
sarà con me».
«Nemmeno io», disse Giacinta.
Giacinta e Radu si sorrisero,
pieni di voglia di dimostrare il loro coraggio e la loro forza. Ma gli adulti
erano molto meno entusiasti. Conoscevano la vita e sapevano che fosse meglio
tenersi lontani da certi giri. Tuttavia avevano fatto una promessa a Radu, e
non sarebbero venuti meno al patto per nessun motivo.
«Adesso, quindi, come ci muoviamo?»,
domandò Benzina.
«Potremmo tornare da Rafael per
raccontargli com'è andata», disse Teschio. «Poi cominceremo con le nostre
ricerche».
«Da che parte pensereste di
iniziare?», incalzò Nadia.
«Non so. Ma a questo punto mi sa
che abbiamo un solo modo per venire a capo della faccenda...», disse Teschio, stuzzicando
le antenne di tutti i presenti.
«Cioè?», disse Giacinta.
Teschio si morse il labbro
inferiore, lasciando intuire che quel che aveva da dire non sarebbe piaciuto
molto.
«Non ci resta che presentarci al
cospetto dei membri della setta».
I presenti strabuzzarono gli
occhi.
«Ti sei bevuto il cervello?»,
insorse Benzina. «Perché già che ci siamo non li invitiamo per un aperitivo da
Rafael? Teschio... quella è gente che ti spappola senza problemi e poi magari
ti serve arrosto in un piatto condito di spezie! Lo sai quello che stai
dicendo?».
Anche Nadia non la prese bene,
sapendo che chi si avventurava in quel covo sperduto del sestese, poi aveva ben
poche chance di uscirne incolume.
«Avete qualche idea migliore?»,
disse Teschio, con piglio rabbioso. «È stato commesso un omicidio, hanno
ammazzato la mamma di Radu e sappiamo, con ogni probabilità, che l'assassino si
nasconde fra le mura della fabbrica descritta da Nadia. Secondo voi dove lo
dobbiamo andare a cercare? Al centro commerciale Vulcano?».
L'ironia di Teschio colpì nel
segno. Di fatto non aveva tutti i torti. Ma la speranza unanime era che ci
fosse comunque una soluzione meno compromettente.
«Direi di pensarci con calma»,
fece Benzina, ridimensionando la sua posizione da marmotta terrorizzata di
pochi istanti prima. «In fondo non ci corre dietro nessuno. Nessuno sa della
sparizione di Slagena, abbiamo tutto il tempo per agire indisturbati...».
«Non credo sia conveniente temporeggiare»,
rifletté Nadia. «Se osservate tutti i più importanti casi giudiziari di cronaca
nera... più passa il tempo da un omicidio, e minori sono le probabilità di
risolvere la questione».
«Puoi avere ragione, ma noi non
siamo l'FBI... non so fino a che punto sia intelligente finire nella tana del
lupo», disse Benzina.
«Non ti facevo così cacasotto»,
disse Giacinta, con un sorriso spregiudicato.
L’uomo la fulminò con uno sguardo
carico di risentimento.
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