lunedì 16 luglio 2012

Rapsodia gitana # 3


21.

Si sistemarono sul letto a due piazze della roulotte, dove Radu era solito coricarsi con mamma, con gli stessi vestiti con cui s’erano accompagnati durante la giornata. Entrambi puzzavano di sudore, ma erano abituati all’odore naturale delle loro pelli e non ebbero particolari problemi a sdraiarsi uno di fianco all’altro. A Radu, però, suonò terribilmente strano non percepire quello della madre, che ogni notte inondava le sue narici augurandogli un felice riposo. Peraltro gli mancò il bacio della buonanotte. Rattristato si rivolse al cielo, invocando ancora una volta lo spirito del nonno. Gli chiese di prendersi cura di mamma, che ora avrebbe di sicuro avuto bisogno di qualcuno con cui andare a caritare.
«Ti prego nonno, fa che non debba arrangiarsi da sola, e che tu possa vegliare sul suo lavoro, consentendole di racimolare quel tanto che le possa consentire di vivere», recitò mentalmente. «Non ci sarò più io al suo fianco a fare il funambolo e... per lei potrebbe davvero essere dura. Ma so di poter contare su di te...».
Radu aveva un’idea molto personale dell’aldilà. Credeva, come molti, e come la maggior parte dei nomadi con cui aveva avuto a che fare, che dopo la morte si continuasse a vivere, ma in contesti davvero inusuali; più che all’infinitamente grande, il classico regno dei cieli, guardava all’infinitamente piccolo. Aveva, per esempio, provato a ragionare sul fatto che la vita ultraterrena potesse celarsi fra i petali di un fiore, le antenne di qualche insetto, o l’apparato miceliare di un fungo. Erano follie quotidiane che lo contraddistinguevano fin da piccolo, da cui non riusciva a distaccarsi, benché conscio dell’ipotesi che chiunque, sentendolo blaterare a proposito, gli avrebbe dato del pazzo.
La mamma semmai gli aveva raccontato dell’esistenza di un posto meraviglioso dove venivano accolte le anime, chiamato haiman, che però era appannaggio delle persone pure e prive di peccato. Non lui e la mamma, quindi, che in più erano zingari, individui da cui stare alla larga, così come la pensavano i sestesi che incrociavano il loro cammino.
Sapeva che ai membri del suo popolo questo meraviglioso posto era precluso. I più retti avrebbero vissuto in una specie di limbo, in attesa di raggiungere la beatitudine dell’haiman, ma solo se qualche dio particolarmente magnanimo avesse deciso di intercedere per loro. Per tutti gli altri sarebbe stata la follia, la miseria, la dannazione. È il motivo per il quale s’era convinto che ovunque si trovasse mamma, stesse subendo le solite pene patite sulla terra, ora in modo ancora più esasperante, visto che non avrebbe più potuto contare sul suo piccolo.
Giacinta, scoprendolo immobile e assorto in chissà quali pensieri, gli sfiorò il braccio, cercando un contatto affettuoso; Radu non si scompose più di tanto, ma accolse con piacere il brivido che ne derivò, e per un attimo si ritrovò felice.
«Dormi?», le chiese.
«Non ancora», disse lei.
«Non hai sonno?».
«Neanche un po’».
«Nemmeno io».
I due ragazzetti avevano gli occhi spalancati e fissavano disinteressatamente la luce sbiadita che filtrava dalla finestrella sopra il letto; la consueta, squallida e inutile luce che si respirava durante le sere estive, sotto il cavalcavia di via Monte Santo, col sottofondo incessante del fischio dei treni.
«Odio la luce dei lampioni», disse Radu. «Se un giorno diverrò ricco mi piacerebbe prendermi una bella luce al neon...».
«Al neon?».
«Sono le migliori. Consumano poco e fanno una luce incredibile. Mamma direbbe che piacciono anche alle fate».  
«Le fate non esistono».
«Esistono eccome».
Tentarono di dormire abbracciati, ma la notte fu tutt’altro che facile. Radu prese a girarsi sotto sopra, in cerca di una posizione che potesse consentirgli di vivere una rilassatezza che sembrava avere smarrito per sempre; ma invano.  
Giacinta avvertì il disagio dell’amico, ritrovandosi sveglia per gran parte della notte, lei stessa incapace di assumere una geometria del corpo adatta al suo fabbisogno fisiologico, e in più devastata da immagini orribili di omicidi e squartamenti: la visione della mamma di Radu tanto conciata era un flash di cui, nonostante il passare delle ore, non riusciva a liberarsi.
A un certo punto Radu si mise a parlare nel sonno, riferendosi a una misteriosa madame x. Giacinta non ebbe idea della persona a cui si stesse riferendo, ma come una mammina premurosa gli toccò la fronte per sincerarsi che non avesse la febbre.

22.

Il risveglio, in compenso, fu dolce e sereno. Radu si accorse con piacere di avere ancora il braccio di Giacinta avvitato intorno al collo, come un guanto leggero. Si udiva uno strano silenzio e l’impressione era che tutti i sestesi fossero spariti nel nulla durante la notte, spazzati via dalla furia assassina di qualche demone nascosto fra i binari della ferrovia.
Continuava a filtrare la luce dalle finestrelle della roulotte, benché non fosse più quella dei lampioni, bensì quella di un timido sole, che sbiadiva oltre la serratura del piccolo bagno. Radu si sgranchì le braccia e le gambe, attento a non scomodare Giacinta che, ancora, pareva persa nel mondo dei sogni. La osservò per qualche secondo, orgoglioso di averla come amica. Si chiese come sarebbe stata la sua prima notte da orfano, senza il suo calore. Il momento idilliaco, però, non durò per molto. Si sentì bussare alla porta. Erano Teschio e Benzina, pronti a rimettersi in pista per trovare una soluzione al giallo.
Giacinta aprì gli occhi di soprassalto.
«Cazzo, chi è a quest’ora?».
Radu rise sotto i baffi, constatando, dalla piccola sveglia posta sopra il lavabo, che erano già le dieci.
«Forse sono Teschio e Benzina...», disse il piccolo.
«Aspetta», fece Giacinta. «Controlla dalla finestra. Mica che siano gli sbirri».
«Anche se fossero gli sbirri...».
«Non sarebbe bello».
«Perché? Cosa avrebbero da accusarci?».
Giacinta non fiatò e lasciò che l’amico la scavalcasse come l’ostacolo di una gara di atletica, per raggiungere la porticina del camper.
«Siamo noi, aprite!».
Era Benzina, col viso paonazzo, preoccupato che i due giovani non volessero scomodarsi per paura di dover dare retta a qualche ficcanaso. 
Radu spalancò l’uscio e si trovò di fronte i due amici trafelati, che sembravano reduci da una notte simile alla sua: tragica. Entrambi avevano le occhiaie e un aspetto da ritirata di Russia. Ogni particolare era lasciato al caso. Si vedeva che non si rasavano da giorni, e che non s’erano nemmeno preoccupati di farsi una doccia, dopo avere consegnato all’haiman lo spirito della mamma di Radu. Di fatto, non erano così affezionati all’acqua corrente e a tutto ciò che dipendeva da essa: si lavavano quando potevano, o quando si sentivano ispirati.
«Entrate?», domandò Radu.
Giacinta se li trovò di fronte senza avere nemmeno avuto il tempo di realizzare che era iniziato un nuovo giorno. Aveva gli occhi appiccicati dal sonno e mezza camicetta sollevata, che non aveva lasciato indifferenti i due compagni di avventura.
«Si dorme?», aveva mugugnato Benzina, arrossendo per d’imbarazzo.  
Giacinta non lo considerò nemmeno. Saltò giù dal letto e si aggiustò i vestiti, infastidita dall’idea di essere stata osservata con quel tiro piuttosto malizioso.
«Se volete ho un po’ di caffé», disse Radu, con un sorriso compiaciuto, «stamattina possiamo arrangiarci così».
«Non vorremmo approfittare della tua generosità», disse Teschio. «Se siete della partita, potremmo andare a fare colazione dal nostro amico».
«E chi sarebbe il nostro amico?», chiese Giacinta impettita. «Non mi sembra che abbiamo molti amici...». 
«Proprio colui che, speriamo, sarà in grado di darci una mano a risolvere il caso...».
«Ho capito... Rafael», blaterò Radu, con aria disillusa.
Giacinta e Radu si guardarono con sufficienza. Ancora non capivano in che modo Rafael potesse contribuire alla sorte del quartetto; ma accettarono di buon grado la proposta dei due adulti. In fondo, nessuno ambiva a rimanere ancora per molto chiuso in quell’antro desolante, appestato dall’odore della notte e pervaso da un senso di oppressione legato al fatto che fino a poche ore prima - proprio lì dove stavano ciarlando - giaceva esanime Slagena.
«Allora si va?», incalzò Benzina.
Giacinta e Radu annuirono senza esprimersi verbalmente. La ragazza divaricò di nuovo la porticina del camper e fece strada: Rafael li stava aspettando.

23.

C’era la consapevolezza di un assassinio in piena regola, ma mancava la premura e l’affanno del primo viaggio a piedi dell’improvvisata banda di detective. Gli umori, soprattutto, erano differenti. Radu era meno triste e amareggiato del solito. Seppure a fatica, stava facendosene una ragione: la mamma non l’avrebbe mai più rivista e a nulla sarebbero valsi gli sforzi di una preghiera più tenace delle altre per poter fare cambiare le cose. Anche gli altri, a modo loro, erano riusciti a razionalizzare l’accaduto e a trasformare l’angoscia del giorno appena trascorso in un monito per tentare di srotolare i fili di una matassa che a tratti pareva davvero impossibile da districare.
La giornata si fece presto calda e afosa, come gran parte delle giornate di luglio in un qualsiasi borgo alle porte di Milano. Si coglieva un’elevata umidità, che rendeva più affannoso il respiro. Per Benzina furono quasi rantoli. La strada era vivamente battuta da auto e tir, e i veleni dell’aria già particolarmente insidiosi.
«Cosa raccontiamo a Rafael?», domandò Benzina.
«Vediamo cosa ne sa dei Dionisio...», disse Teschio.
«Direi, comunque, di non svuotare subito il sacco».
«Ma non troverà inopportune certe nostre curiosità?».
«Potrebbe essere...», disse Teschio, «ma non abbiamo molte alternative».
«Non so. In fondo, se anche gli dicessimo tutto fin dall’inizio, non vedo in che modo potrebbe ostacolare i nostri piani», disse Benzina.
«Il punto è che le parole corrono troppo in fretta e... se finiscono alle orecchie sbagliate...», rifletté Teschio.
«Non hai tutti i torti», recitò Benzina. «Iniziamo ad arrivare al bar, poi vediamo come muoverci. L’importante è ritagliarci un momento di confidenza con Rafael, senza che altre persone possano interferire coi nostri discorsi...».
«Siamo meglio dei servizi segreti americani», ironizzò Giacinta.
Radu rise timidamente, scalciando in mezzo alla strada una lattina di birra Moretti ancora mezza piena.  Teschio e Benzina lo guardarono con un vago risentimento.
«Faremo del nostro meglio», disse Teschio, annichilendo qualunque altro tentativo di presa in giro.  
A metà del percorso, Radu prese a fischiettare una vecchia e briosa canzoncina rom. Giacinta ne rimase sorpresa e non poté fare a meno di chiedergli il motivo di un brano che pareva un’offesa alla gravità della situazione: ce n’erano così tante anche di origine sinti, peraltro molto meno allegre, con le quali avrebbe potuto accompagnare la loro passeggiata.
«È una canzone che mi cantava sempre mamma...», disse Radu.
«Ma è una canzone rom», ribatté la giovane, con tono risentito.
«Noi non abbiamo mai avuto problemi con i rom. Sono loro che spesso se la sono presa con noi. Mamma conosceva molte canzoni sinti e altrettante rom. E io, alla fine, mi sono affezionato a entrambe».
«Di solito i rom sono degli ottimi musicisti», intervenne Benzina.
«Lo sono anche i sinti, se è per questo...», disse Giacinta.
«Sì, ma noi eccelliamo soprattutto come giostrai», mugugnò Radu.
«Non sono così d’accordo. In casa mia, se escludi mio padre, suonano tutti. E anche bene».
«Anche tua madre?», domandò Teschio.
«Mia madre? È forse la migliore suonatrice di cymbalon che sia mai vissuta in Italia».
«E che razza di strumento è?», chiese Benzina.
«Si suona con le bacchette. Puoi considerarlo uno strumento a metà strada fra una chitarra e un pianoforte», spiegò Radu, gonfiandosi come un pallone.
«Non sapevo che te ne intendessi così tanto di strumenti musicali», gli disse Giacinta, divertita. 
«Sono cose che so grazie a mamma. Avevamo anche uno zio che suonava il cymbalon. Ormai non lo vedo più da anni. Credo sia tornato in Romania. Era bravissimo. Me lo ricordo quand’ero piccolo...».
Il discorso si troncò all’improvviso. Sull’uscio del bar c’era Rafael che, sputando gigantesche boccate di sigaro cubano, pareva aspettare proprio loro.

24.

«Buongiorno ragazzi, cosa vi porta tutti insieme dalle mie parti? State organizzando qualche torneo di bridge?».
A malapena sapevano cosa fosse il bridge, ma anche Rafael era tutt’altro che esperto. Lo aveva menzionato solo perché gli era venuto in mente un manifesto appeso a un muro della stazione ferroviaria, che pubblicizzava un incontro sul famoso gioco, che sarebbe avvenuto a settembre in un auditorium di Sesto.
«Buongiorno Rafael, prendi un po’ di fresco?», domandò, con ironia, Benzina, fregandosene completamente della domanda che gli era appena stata rivolta.
«Sei spiritoso oggi, Benzina. Hai trovato la fidanzata?».
Per l’uomo fu un invito a nozze.
«Niente di tutto ciò. Ma se dovesse accadere saresti il primo a saperlo».
«Quale onore. Per l’occasione, lo prometto, servirò il mio migliore spumante».
Il botta e risposta fra Rafael e Benzina terminò qui. Lo sguardo accigliato di Teschio catalizzò l’attenzione di tutti i presenti. Se il capobanda era così ombroso, significava che c’era davvero qualcosa nell’aria che non andava. Rafael se ne accorse immediatamente: tentò di sdrammatizzare, ma Teschio lo precedette.
«Ciao Rafael», disse Teschio, «potresti darci retta quando hai un attimo di tempo?».
«Come?».
«Avremmo qualcosa di importante da chiederti...».
Rafael sbigottì, riflettendo sul fatto che era quella la prima volta che Teschio gli parlava in modo così solenne. Doveva esserci sotto una bella gatta da pelare, pensò.
«Beh, non mi sembra di avere molto da fare oggi... se volete potete svuotare il sacco fin da subito».
In effetti il locale era vuoto, come spesso accadeva a metà mattina, quando i clienti della colazione erano già tutti al loro posto di lavoro, e quelli del mezzogiorno, ancora tardi a venire. Rafael indietreggiò di qualche passo, consentendo al quartetto di superare l’uscio del bar e accomodarsi come i membri di una congrega al tavolo più nascosto dell’esercizio.
«Qualcosa da bere?», chiese Rafael, pregustandosi la sortita degli amici.
«Una bottiglietta d’acqua per tutti», disse Teschio.
L’acqua arrivò in pochi minuti. Radu se la scolò in un sol colpo. 
«Allora sentiamo», disse Rafael, «cosa avete di tanto importante da dirmi?».
«Vorremmo sapere qualcosa sui Figli di Dionisio...».
Rafael ebbe un sussulto. Si accomodò, respirò profondamente, e prese a parlare con vivo coinvolgimento.
«Perché lo chiedete proprio a me?».
«Più volte ti ho sentito menzionare la setta...», disse Benzina.
«Non so se è una setta», disse Rafael.
«Ma sai che cosa fanno».
«So cose che sarebbe meglio non si sapessero. Soprattutto se ci sono fra noi dei ragazzetti».
«Loro sono con noi: non ti preoccupare», fece Teschio.
Rafael li fissò entrambi, con spirito indagatore.
«Non mi preoccupo, ma non mi piace raccontare certe cose davanti ai bambini».
Teschio fece cenno a Radu e Giacinta di uscire un attimo.
«Noi non ci muoviamo», disse Radu, lasciando a bocca aperta gli interlocutori.  
Rafael non se la sentì di continuare nella sua battaglia e alla fine scelse di aprirsi, intuendo che la richiesta dell'amico, dovesse coinvolgere in prima persona proprio il più giovane della compagnia.
«Sono... sono un’associazione, un gruppo, un clan, non saprei come definirli, uomini e donne di ogni età, che si danno appuntamento in qualche covo di Sesto San Giovanni da parecchi anni. Probabilmente dietro gran parte delle sparizioni e dei delitti peggiori verificatesi nel circondario negli ultimi decenni, c’è la loro regia. Non sempre però, anzi, quasi mai, è stato possibile stanarli. Sanno muoversi con arguzia, non lasciano mai tracce e la polizia brancola nel buio ogni volta che deve indagare su qualche loro malefatta...».
Rafael si rischiarò la voce.
«Ma perché vi interessa così tanto sapere dei Figli di Dionisio?».
I quattro si squadrarono feroci, come lupi pronti all’attacco.  
«Abbiamo trovato per strada un ciondolo con l’effige di Dionisio e ci è venuto in mente di saperne di più...», disse Benzina, con scarsa convinzione.
«A chi volete darla a bere?», domandò Rafael.
Radu e Giacinta si guardarono con aria abbacchiata. Non fu difficile intuire che Rafael non avrebbe aggiunto altro, finché qualcuno non gli avesse rivelato nuovi e succosi dettagli.    

25.

«Hanno ucciso mia mamma», disse Radu, gelando i presenti.
Nessuno aveva previsto l’uscita spiazzante del piccolo, anche perché Teschio era stato chiaro: meglio rimanere vaghi e non entrare troppo nei particolari. Esageratamente alta la posta in gioco. Ma ormai la frittata era fatta. Sul viso di Rafael si dipinsero le fauci di un coccodrillo affamato.  
«Cosa?», domandò.
Teschio aggrottò le sopracciglia e tracannò un sorso d'acqua. Toccava a lui dare qualche spiegazione in più.  
«L'ha trovata in un mare di sangue... ieri mattina. Probabilmente è stata uccisa con un coltello, un’arma da taglio. Aveva la pancia tranciata in due. Non abbiamo idea, però, di chi sia stato...».
«Tracce?».
«Abbiamo trovato vicino al camper una targhetta dei...».
«Figli di Dionisio», indovinò Rafael.
«Proprio così».
Rafael tirò un respiro profondo, ancora incredulo innanzi alla terribile notizia. Squadrò con compassione il piccolo Radu, cercando qualcosa da dirgli, ma ogni parola si interruppe prima di giungere alle corde vocali. Era sempre stato una frana con le frasi di circostanza e conforto.
«I Figli di Dionisio sono la peggior razza della terra... uccidono per il gusto di uccidere».  
«Cosa puoi dirci sul loro conto?».
«Io non ne so molto, ma un tipo che conosco abbastanza bene... lui sa tutto».
«Chi è?», domandò Benzina.
«Una volta passava spesso dalle mie parti, ora un po’ meno. So che ha fatto parte dei Figli di Dionisio».
Teschio sbalordì, incredulo dinanzi alla possibilità che il bar di Rafael potesse ospitare assassini patentati. 
«Ora non più?», domandò Benzina.
«Dovrebbe esserne uscito», proseguì il barista. «Vi parlo di un paio di anni fa. Mi ricordo che passava di qui come un esaltato, marcio di sostanze in grado di sputtanare la coscienza. A volte sembrava completamente rimbambito, fuori di cotenna... non so se mi faceva più ridere, o più pena».
«Ti ha mai detto niente di strano?».
Rafael deglutì amaramente.
«Mi raccontava storie raccapriccianti che preferirei evitare di affrontare, anche perché non so fino a che punto fossero attendibili. Poi, però, deve essergli successo qualcosa... deve avere avuto una specie di crisi mistica e ha mandato tutto a quel paese. Ma non è facile lasciarsi alle spalle certa gentaglia».
«Uno che entra nei Figli di Dionisio non ne esce più. Se non da morto», chiarì Teschio.
«Proprio così», disse Rafael.
«Ma visti i rischi che correva come faceva a raccontarti tante cose?», gli domandò Benzina.
«In realtà non era mai così esplicito. Parlava per trabocchetti, scioglilingua, rebus. Sembrava tutto una via di mezzo fra il vero e il desiderio di provocare. Poi, però, quando leggevo sui giornali certe cose, mi era impossibile non collegarli ai suoi racconti».
«Come si chiama?», chiese Teschio.
Rafael abbozzò un sorriso sghembo.
«Il nome, probabilmente, è una copertura. Si fa chiamare “il Cinghiale”...».
Lo guardarono stupiti.
«Per via di due denti aguzzi che spuntano dalla bocca. Non so quale sia il suo vero nome, ma so dove abita...».
Benzina strabuzzò gli occhi per la curiosità.
«Allora abbiamo fatto bingo», disse Benzina.
«Non ci conviene correre troppo. Non lo vedo da mesi. Potrebbe anche essersene andato», spiegò Rafael.
«Qui gatta ci cova», intervenne Giacinta, sempre più calata nella protagonista di un romanzo di Agatha Christie. «Potrebbero averlo fatto fuori... potrebbe avere fatto la fine di Slagena».
«Tutto è possibile, ma a questo punto... tanto vale verificarlo di persona», fece Benzina.
Teschio annuì.
«D'altronde, è l'unica pista che abbiamo da seguire...».
Rafael non fece un piega.
«Saresti disposto a indicarci l’indirizzo della sua abitazione?», chiese Teschio.
Rafael si granchi le gambe, allungandole sotto la sedia di Radu. Avrebbe voluto tenersi fuori dalla faccenda, ma si rendeva ormai conto di avere oltrepassato il limite della riservatezza, mettendo in campo le sue conoscenze più intime e dando, dunque, retta a quelli che, pur non avendoglielo mai confidato, riteneva i suoi clienti più simpatici e più simili a sé.  
«Cosa credete di fare?».
«Vedremo, ora ci sembra la mossa più giusta da compiere», replicò Teschio, autorevolmente.
«Non è lontano da qui. Fatemi andare a vedere se ho ancora l'indirizzo preciso».
Rafael tornò con un biglietto stropicciato, che consegnò nelle mani di Teschio. C'era scritto: fam. Schilef, via fratelli Cairoli, 38.
«Dovrebbe esserci vicino un veterinario», precisò Rafael. «Via Fratelli Cairoli è una traversa di via Falk, sta oltre la stazione».

26.

Si misero in marcia freschi come le rose: la possibilità di far visita a casa Schilef li galvanizzò e gli restituì un po’ di buonumore. Avevano davanti un ventina di minuti di cammino, ma fu come se dovessero compiere non più di due passetti di danza fra le fronde del parco Gramsci. Durante il tragitto parlarono di come, grazie alle indicazioni di Rafael, sarebbero finalmente riusciti a sapere qualcosa di più dell'omicidio di Slagena.
«Ce la faremo», ripeté più volte Radu.
Ma nell'animo di Teschio e Benzina era altrettanto vivo il timore di fare una brutta fine. In realtà non temevano tanto per se stessi, quanto per Radu e Giacinta, che avevano ancora tutta una vita davanti e per i quali, minuto dopo minuto, sentivano di provare un sentimento sempre più forte.
Raggiunsero via Fratelli Cairoli; individuarono le saracinesche del veterinario e cercarono il nominativo impresso sul biglietto di Rafael: Schilef. Lo trovò Radu, anche se era quello che leggeva peggio di tutti.
«Bravo ragazzo», gli disse Benzina.
Giacinta gli sorrise.
Pigiarono il bottone del citofono e, in religioso silenzio, si misero in ascolto, come in attesa di un messaggio dallo spazio. Per qualche secondo il trabiccolo tacque, tanto da spingere Benzina a rimettersi a giochicchiare con l’accendino che stringeva fra le mani. All’improvviso una flebile voce spuntò dalla grata dell'apparecchio acustico, rincuorando il quartetto.
«Sì?».
Si fece avanti Teschio.
«Buongiorno signora, mi chiamo Francesco Riboldi e...».
La signora riattaccò. Benzina riprovò a sollecitarla. La donna si concesse al terzo tentativo, ma questa volta fu lesta Giacinta a creare i presupposti per avviare una degna conversazione e a far sì che non riattaccasse. Disse semplicemente:
«Stiamo cercando suo marito».
Il portone si aprì istantaneamente, seguito dalla roca indicazione di salire al primo piano, prima porta a destra dell'ascensore.
Si trovarono di fronte una donna sulla cinquantina, con la pelle cenerognola e un diavolo per capello. La casa era in ordine, ma sapeva di vecchio e stantio. Anche l’odore dell’appartamento rimandava a epoche antiche. In mezzo al locale volteggiava a grande velocità un ventilatore che Radu associò alle pale schizofreniche di un elicottero.
La donna li accolse con voce tremante e non lasciò adito ai fraintendimenti.
«Cosa sapete di mio marito?».
Teschio prese la parola con vivo disagio, infastidito da una mosca che gli ronzava intorno al capo, attratta dai suoi capelli unti.
«Possiamo entrare?».
La donna li accompagnò a sedersi sull'unico divano della sala, posto di fronte a un mobiletto sormontato da un televisore vintage. Radu, considerando che non c’era abbastanza spazio per tutti, si accomodò su un bracciolo.
«In realtà, signora, non sappiamo nulla di suo marito», esordì Teschio. «Siamo qui, semplicemente, perché vorremmo parlare con lui».
«Mio marito è scomparso da due mesi».
Benzina farfugliò una frase pressoché priva di significato, che nessuno prese seriamente. 
«In che senso?», domandò Teschio.
«Nell'unico senso che conosciamo...».
Teschio notò un’espressione insoddisfatta della donna, e intuì che fosse necessario spiegarle il vero motivo della visita, sennò non sarebbero andati troppo lontano.
«Signora, a essere precisi, sappiamo... sappiamo che suo marito ha fatto parte dei Figli di Dionisio...».
Alla donna si riempirono gli occhi di lacrime.  
«Allora sapete...».
«Ci ha raccontato qualcosa un amico. Ma a quanto pare ne è uscito. A noi, però, interessa conoscere qualche particolare della setta: è stato commesso un omicidio e abbiamo trovato che le tracce dell'assassino...  riconducono ai Figli...».
La donna ansimò, quasi felice di poter finalmente parlare con qualcuno del misterioso clan di delinquenti.
«Temo che anche mio marito abbia fatto la stessa fine».
«Se vorrà lo potremo scoprire insieme», disse Benzina, mosso da un sentimento di viva commozione. «Qui c'è del marcio, questo è sicuro».
Teschio e i due ragazzi lo guardarono con aria compassionevole. Quando ci si metteva, Benzina, riusciva davvero a essere melodrammatico.
«Dunque, cosa pensereste di fare?», domandò la donna.
«Dipende da quel che ha da raccontarci», disse Teschio, senza compiere tanti giri di parole.

27.

«Prima di tutto, è il caso che mi presenti. Mi chiamo Nadia: Nadia Schilef».
Fecero altrettanto i suoi ospiti, tendendole la mano. Radu si sporse così tanto dal suo angolino che per poco non si capovolse.
«Mio marito lavorava per una ditta di disinfestazione, io facevo la maestra di sostegno. Stavamo bene. Non avevamo problemi economici e... per quel che può valere il concetto di felicità, potevamo dirci felici. Le cose sono cambiate quando ha conosciuto una donna, una donna strana, straniera, alla quale prese a dedicarle sempre più tempo. Si incontravano nei posti più disparati, in un bar, per strada, addirittura al Vulcano, da MacDonald. Gli chiedevo se non gli sembrasse di esagerare, ma lui sminuiva ogni mia presa di posizione, dicendo che non faceva nulla di male. Il loro era un sentimento platonico, spirituale. Potevano passare anche le ore insieme senza sfiorarsi con un dito, ma solo discutendo degli argomenti più diversi, compresa la politica, la religione e...».
Nadia si placò, dando l'impressione di voler tenere in serbo qualcosa di troppo personale o compromettente. Teschio se ne accorse e le chiese se c'era qualcosa che non andava. Lei disse che andava tutto bene. E proseguì nel suo discorso, smorzando definitivamente la tensione.
«Mi confidò della setta pochi mesi dopo averla conosciuta, quando ormai aveva già perso parte della sua lucidità. Forse non è corretto parlare di mancanza di lucidità, tuttavia a volte mi dava davvero l'impressione di non essere lui a ragionare, ma qualcun altro al suo posto, come se qualcuno gli avesse fatto il lavaggio del cervello. Non mi parlò esattamente di una setta, ma di un'organizzazione, un gruppo di persone, dal suo punto di vista, dotate di un'intelligenza superiore, in grado di compiere qualsiasi cosa in virtù di non si sa bene quali scopi. Ne parlava con un entusiasmo eccessivo...».
«Non era più lui», commentò Benzina, totalmente rapito dal racconto della Schilef.
«Non era più lui. Abbiamo iniziato a litigare e a non comprenderci più. E mancava da casa sempre più spesso. Non mi diceva dove andava, ma poi trovavo nelle tasche dei pantaloni scontrini e ricevute che provavano la sua presenza anche a molta distanza da qui. Su un foglietto avevo letto che aveva dormito in un hotel di Torino, su un altro, addirittura, a Lampedusa. Le scuse erano sempre le stesse. Mi diceva che da tempo la sua ditta s'era ingrandita e che, ora, avrebbero lavorato lontano da casa sempre più frequentemente. Ci credevo poco, ma alla fine, per non far precipitare le cose, ero costretta a far finta che andasse tutto bene».
Nadia fece una piccola pausa e dondolò la testa, comunicando virtualmente ai suoi interlocutori che non era affatto facile parlare di una vicenda che l'aveva praticamente ridotta in briciole. Giacinta le regalò un sorriso di comprensione.
«La capisco», disse Benzina. «Tante volte, anche se è difficile, vale di più la pena fare un passo indietro e...».
Teschio, del tutto disinteressato all'ennesimo inutile e circostanziale intervento di Benzina, si fece avanti per capire qualcosa di concreto di questa fantomatica organizzazione.
«Ma mi dica... se si tratta di un'organizzazione, vorrà anche dire che esiste un capo, un vertice, qualcuno che coordina il tutto...».
Nadia fece una mezza smorfia.
«Non ne so fino a questo punto. Qualche volta mio marito mi ha parlato di un capo, una specie di santone, che di giorno non si vedeva mai, ma che di notte si trasformava in un...».
La Schilef, come pochi istanti prima, interruppe il suo discorso, temendo di uscire dal seminato, ma questa volta la incalzò Benzina, che non voleva più farsi scappare nulla.

28.

«In un?».
«In un... non saprei come dire... mio marito lo soprannominava il re della notte. Non si faceva mai vedere, ma solo sentire. E se compariva fra gli adepti, lo faceva con la testa incappucciata o una maschera di...».
Voleva dire minotauro, ma non le uscì la parola. Non la ricordava più. Peraltro non sapeva nemmeno chi fosse il minotauro, anche se il nome non le era nuovo.
«Sembra riferirsi a una setta a tutti gli effetti», commentò Teschio.
«Non ho dubbi», disse Nadia. «Forse una delle peggiori della zona».
«Cosa facevano durante i rituali?».
«Non me lo ha mai raccontato. Evidentemente veniva esortato a tacere. Ma so che tornava spesso a casa devastato, stravolto. Una volta rincasò convinto di essere il dio della luce. Credo fosse sotto l'effetto di qualche droga. Di certo ne consumavano parecchia».
«Dunque pensa che sia stata la donna misteriosa a introdurlo nel giro?».
«Sicuramente è andata così. Tuttavia, quando prese a frequentare assiduamente la setta, della donna non si seppe più nulla. Mio marito smise di vederla e, a quanto pare, di frequentarla. All'improvviso parve essere scomparsa nel nulla, per lasciare spazio al... re della notte».
Teschio e Benzina si scrutarono abbacchiati. Le loro supposizioni divennero sempre più palesi. Con i Figli di Dionisio c'era ben poco da scherzare: l'impressione era che chi entrava a fare parte della setta, poi scompariva come un fantasma.
«Il nostro amico ci ha anche raccontato che molti delitti commessi nella zona portano la loro firma, benché nessun organo di giustizia sia mai stato in grado di far luce sulle singole vicende».
«Ci potrei scommettere. Mio marito, lo ripeto, non mi ha mai detto nulla, ma troppi indizi mi inducono a pensare che fosse un'organizzazione tutt'altro che benevola».
Ci fu una pausa di silenzio in cui quasi tutti i presenti fissarono costernati il pavimento, mugugnando su un futuro che pareva assolutamente nebuloso. Teschio si grattò il capo infastidito da un brufolo che da giorni perseguitava il suo cuoio capelluto. Benzina accavallò le gambe, cercando di trovare un buon pretesto per avanzare un nuovo quesito. I due ragazzi si squadrarono ridendo sotto i baffi: comprendevano la drammaticità della situazione, tuttavia dal candore della loro tenera età, la faccenda stava quasi trasformandosi in un gioco, in una clamorosa avventura.
Le pale del ventilatore continuarono a girare su se stesse, obbligando i presenti all'ascolto di una colonna sonora gelida e onnipresente.
«Vi ricordate il fatto di cronaca riguardante l'odontotecnico scomparso e ritrovato dopo due settimane in una scarpata montana dalle parti di Bergamo?», riprese Nadia.
Teschio e Benzina annuirono, memori di una storia che aveva avuto una buona risonanza nella zona, anche perché la casa della vittima non sorgeva tanto distante dal bar di Rafael.
«Alla fine non fu possibile risalire al colpevole. Ma una notte, nel sonno, mio marito nominò proprio il suo nome. Farneticava e a un certo punto si mise a dire che lui non voleva farlo ma che era stato costretto. Lo stesso era accaduto un pomeriggio che s'era appisolato sulla poltrona. Non so fino a che punto potesse essere coinvolto nella vicenda, ma è chiaro che i Figli di Dionisio non furono dei semplici complici dell'omicidio».
«Poi come andò?», chiese Benzina.
«Il caso è stato archiviato per mancanza di prove. Del resto l'odontotecnico viveva solo e non aveva grandi contatti col mondo esterno. E averlo trovato ormai privo di vita dopo vari giorni dalla scomparsa, non  semplificò le cose».
«Lei, però, si sarà fatta qualche idea...».
«Secondo me hanno tirato dentro anche lui e... poi lo sa solo il padreterno cosa può essergli accaduto. Sapevano come raggirare le persone, anche le più integerrime. Alcune donne consenzienti potrebbero avere facilitato nuovi incontri».

29.

Calò di nuovo una cappa di angoscia sul gruppo, resa palese dallo sguardo terribilmente accigliato di Teschio.
Dalla finestra rimbombarono, intanto, le note di un claxon pigiato con irrispettosa foga. Davanti al veterinario qualcuno aveva parcheggiato per l’ennesima volta in doppia fila, impedendo il normale viavai del traffico. Ormai Nadia era abituata al baccano automobilistico; e così Radu e Giacinta che, praticamente, vivevano per strada... Teschio e Benzina parvero quelli più infastiditi dall’improvviso clamore metropolitano: in un'altra situazione avrebbero tranquillamente imprecato a voce alta. Assunsero vicendevolmente un'espressione da cani bastonati, cercando un modo per ritrovare il coraggio perduto.
Nadia Schilef colse l’occasione per scaricare l’ansia, andando in cucina a prendersi un bicchiere d’acqua. Bevve nervosamente. Sporse la testa dall'uscio, per chiedere se anche qualche ospite desiderasse qualcosa per rischiararsi la gola. Solo Benzina si fece avanti.
«Se ha qualcosa di forte... non mi dispiacerebbe».
Tornò con un Fernet Branca, un alcolico che Benzina non consumava da secoli, con la bottiglia  ricoperta di polvere e l'etichetta mezza stacciata. Si vedeva che nessuno lo beveva da chissà quanto tempo. Ma Benzina non ci fece caso: per la situazione, pensò, sarebbe andata bene qualunque cosa, perfino un succo di frutta ai mirtilli.
«Grazie», disse timidamente.
L’uomo bevve in silenzio, sentendosi addosso gli occhi degli amici che lo fissavano senza vedere veramente lui, bensì il terribile domani che pareva andare delineandosi.
Nadia tornò al suo posto, ma non fece in tempo a sedersi che Teschio le pose la domanda che andava elaborando da quando aveva messo piede nell'appartamento di via Fratelli Cairoli.
«Esiste un luogo nel quale i membri della setta sono soliti darsi appuntamento?».
Nadia sorrise con aria disgustata.   
«Esiste».
Respirò profondamente, fulminando Teschio con uno sguardo diabolico.
«L'ho visto solo da fuori. Me l'ha mostrato un giorno mio marito. Stavamo tornando dal supermercato. Era su di giri. Mi disse che aveva qualcosa da farmi vedere. In un'area periferica della città, contornata da fabbriche, mi indicò un parallelepipedo prefabbricato, appoggiato a una vecchia dimora, una casetta su due piani con un balconcino in ferro battuto, risalente forse ai primi del Novecento. Di giorno si lavorava la vetroresina. Di notte, non si sa bene quel che succedeva. Mi diceva che nemmeno il metronotte si fidava a varcare i confini della proprietà, per la sua aria lugubre e fatiscente: guardava da fuori che fosse tutto a posto e proseguiva per la sua strada. Non importa se, talvolta, vi erano macchine parcheggiate una dietro l'altra, suggerendo la presenza inopportuna di uomini e donne. Mio marito mi spiegò che il punto esatto del ritrovo era lo scantinato che sorgeva sotto al caseggiato più antico: una scala conduceva alle fondamenta, e da lì a uno stanzone riservato alle attività dei Figli di Dionisio».
«Non c'era il rischio che qualche dipendente dell'azienda vi incappasse? Magari per sbaglio...».
«Non credo», disse Nadia. «Da quel che ho potuto capire, gli operai non si recavano mai nella casa, ma solo nel prefabbricato. E in ogni caso, se anche l'avessero fatto, avrebbero trovato tutto sbarrato».
«Dove si trova esattamente?», domandò Teschio.
Nadia non fiatò. Si alzò di nuovo dal divano e raggiunse un cassetto del mobile principale del soggiorno: lo aprì e lo chiuse. Cercò altrove, compreso un vassoio sul quale agonizzavano dei frutti di plastica, una banana, un melograno e un grappolo d'uva... Ma anche qui la ricerca non le dette soddisfazione. Trovò, dunque, ciò che cercava in un angolo della credenza, opposta al mobile più in vista, dove aveva accumulato una serie di bicchieri ereditati da una vecchia zia. Teschio ricevette un biglietto da visita, riportante la dicitura “vetroresina spa” e un nome sconosciuto, Marcello di Napoli.
«Sul biglietto c'è tutto».
Teschio sorrise ripensando al fatto che poche ore prima, con lo stesso gesto, aveva ricevuto le indicazioni per raggiungere la casa di Nadia Schilef.

30.

«La ringrazio», disse Teschio, infilandosi il biglietto da visita nella tasca dei pantaloni.
Nadia lo osservò con dolcezza: nonostante la magrezza, le rughe, l’aria sfatta, lo trovò un bel tipo. Le piaceva anche il tono della sua voce, così pacato e suadente. Si scoprì lieta di averlo conosciuto e di aver potuto stringergli la mano. Pensò che in un altro mondo o in un'altra circostanza sarebbero potuti diventare buoni amici, se non qualcosa di più.
«Come pensate di muovervi?», chiese.
«Bella domanda...», rispose Benzina.
«Adesso ci ragioniamo», disse Teschio. «Grazie alle sue informazioni sapremo almeno da dove partire».
«Purtroppo sono emersi anche dettagli poco confortanti», disse Benzina.
«C'era, però, da aspettarselo», rettificò Teschio.  
«Se ci sono davvero di mezzo i Figli di Dionisio... non posso che augurarvi di avere dalla vostra parte tutti i santi del paradiso».
Sul viso di Nadia si dipinse un'espressione affranta.
«Per mia mamma sono disposto a tutto», intervenne Radu, colmo di rabbia. «Non so ancora chi siano questi Figli di Dionisio, ma so che io non avrò nulla da temere... e che lo spirito del nonno sarà con me».
«Nemmeno io», disse Giacinta.
Giacinta e Radu si sorrisero, pieni di voglia di dimostrare il loro coraggio e la loro forza. Ma gli adulti erano molto meno entusiasti. Conoscevano la vita e sapevano che fosse meglio tenersi lontani da certi giri. Tuttavia avevano fatto una promessa a Radu, e non sarebbero venuti meno al patto per nessun motivo.
«Adesso, quindi, come ci muoviamo?», domandò Benzina.
«Potremmo tornare da Rafael per raccontargli com'è andata», disse Teschio. «Poi cominceremo con le nostre ricerche».
«Da che parte pensereste di iniziare?», incalzò Nadia.
«Non so. Ma a questo punto mi sa che abbiamo un solo modo per venire a capo della faccenda...», disse Teschio, stuzzicando le antenne di tutti i presenti.
«Cioè?», disse Giacinta.
Teschio si morse il labbro inferiore, lasciando intuire che quel che aveva da dire non sarebbe piaciuto molto.
«Non ci resta che presentarci al cospetto dei membri della setta».
I presenti strabuzzarono gli occhi.
«Ti sei bevuto il cervello?», insorse Benzina. «Perché già che ci siamo non li invitiamo per un aperitivo da Rafael? Teschio... quella è gente che ti spappola senza problemi e poi magari ti serve arrosto in un piatto condito di spezie! Lo sai quello che stai dicendo?».
Anche Nadia non la prese bene, sapendo che chi si avventurava in quel covo sperduto del sestese, poi aveva ben poche chance di uscirne incolume.  
«Avete qualche idea migliore?», disse Teschio, con piglio rabbioso. «È stato commesso un omicidio, hanno ammazzato la mamma di Radu e sappiamo, con ogni probabilità, che l'assassino si nasconde fra le mura della fabbrica descritta da Nadia. Secondo voi dove lo dobbiamo andare a cercare? Al centro commerciale Vulcano?».
L'ironia di Teschio colpì nel segno. Di fatto non aveva tutti i torti. Ma la speranza unanime era che ci fosse comunque una soluzione meno compromettente.
«Direi di pensarci con calma», fece Benzina, ridimensionando la sua posizione da marmotta terrorizzata di pochi istanti prima. «In fondo non ci corre dietro nessuno. Nessuno sa della sparizione di Slagena, abbiamo tutto il tempo per agire indisturbati...».
«Non credo sia conveniente temporeggiare», rifletté Nadia. «Se osservate tutti i più importanti casi giudiziari di cronaca nera... più passa il tempo da un omicidio, e minori sono le probabilità di risolvere la questione».
«Puoi avere ragione, ma noi non siamo l'FBI... non so fino a che punto sia intelligente finire nella tana del lupo», disse Benzina.
«Non ti facevo così cacasotto», disse Giacinta, con un sorriso spregiudicato.
L’uomo la fulminò con uno sguardo carico di risentimento. 

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