31.
«Va beh, dormiamoci su stanotte,
poi vedremo cosa fare... intanto sarà bene levare i tacchi e tornare da dove
siamo venuti», disse Teschio.
«Torniamo da Rafael?», domandò
Giacinta.
«Direi di sì», mugugnò Teschio. «Mi
sembra giusto ragguagliarlo in merito al nostro incontro con Nadia».
La donna scrutò Teschio con fare
meditabondo, rintuzzata dal desiderio di voler continuare a dare una mano ai
nuovi amici. In fondo, non aveva nulla da perderci.
«Se volete vi accompagno», disse.
La guardarono stupiti.
«Potreste avere bisogno di
qualche mio nuovo consiglio...».
I quattro improvvisati detective
si consultarono colmi di orgoglio, sentendosi sulla strada giusta e
convincendosi, per la prima volta, che sarebbe andato tutto bene. L'unico
ancora titubante rimaneva Benzina, che, conoscendo i retroscena della setta più
di tutti gli altri, non riusciva ancora a beneficiare dell'idea che potesse
filare tutto liscio.
Il cielo si fece scuro, suggerendo
che potesse iniziare a piovere da un momento all’altro, come preannunciato
dalle previsioni meteorologiche. Ma l'aria rimaneva calda e umida, come nei
giorni precedenti, compreso quello in cui avevano trovato il corpo senza vita
di Slagena. Benzina pensò che per il tanto caldo patito, non gli sarebbe
dispiaciuto inzupparsi un po’ membra e vestiti. Radu e Giacinta non fecero
nemmeno caso al cambiamento di tempo in atto; non sapevano nemmeno cosa fosse
l'ombrello e, di certo, due gocce non gli avrebbero fatto paura.
Si misero a capo della carovana e
fecero strada verso il lido di Rafael. Teschio e Nadia occuparono il fanalino
di coda, dedicandosi ad argomenti un po' più frivoli, benché nell'animo si
rendessero conto che non fosse il momento ideale per concentrarsi su temi
frugali. In verità stavano cercando un valido pretesto per studiarsi
vicendevolmente.
A metà del percorso Radu e
Giacinta rallentarono il passo, per aspettare Benzina che camminava con lo
sguardo basso e rassegnato, perso in un mondo tutto suo.
«Qualcosa non va?», gli chiese
Giacinta.
Benzina la guardò incuriosita.
Non sapeva quanti anni fossero passati dall'ultima volta che una donna si fosse
informata sul suo stato di salute. Ne fu felice. Tuttavia non seppe come
risponderle:
«Perché me lo chiedi?».
«Mi sembri così mogio...».
«Non vedo cosa ci sia da rallegrarsi.
Sto pensando che, forse, ci faranno fuori tutti quanti».
Radu e Giacinta risero sottecchi.
Per essi continuava a essere una magica avventura. Non comprendevano la grande
apprensione del socio e non vedevano l'ora di poter andare a ficcare il naso nel
quartiere generale della setta.
«Non ti devi preoccupare», gli
disse Radu. «Ti devi fidare dello spirito del nonno. Lui non mi ha mai
abbandonato e mai mi abbandonerà. E così sarà per tutti i miei amici».
Radu si espresse col cuore in
mano, mostrando la sua gratitudine a uno dei due uomini che s’erano presi
carico di proteggerlo e affiancarlo in una missione al limite della
fantascienza. Benzina apprezzò il gesto del piccolo amico. Gli concesse un
sorriso bonario, mentre cominciavano a cadere le prime gocce di pioggia,
regalando ai passanti il caratteristico odore dell'asfalto bagnato.
I tre proseguirono in silenzio,
seminando gli altri due, sempre più simili a una coppia consumata che non a
individui che s'erano appena conosciuti: vedendo all'orizzonte il bar di Rafael
si davano già del tu.
«Quello è il bar di Rafael»,
disse Teschio.
«Strano che mio marito non me ne
abbia mai parlato».
«Non lo frequentava spesso, ma
conosceva bene il gestore».
«Credi sappia qualcosa di più su
di lui?».
«Quel che sapeva l'ha detto».
Teschio notò le guance rosse di
Nadia e se ne compiacque, rivivendo una storia d'amore di quand'era ragazzino.
«Ti fidi di lui?».
Teschio fece spallucce.
«Non conosco bene il suo passato,
ma da quando ha aperto il bar, non mi ha mai dato modo di pensare male. Quando
gli abbiamo spiegato la situazione non ha esitato a darci una mano. Certo non
si può dire che sia uno stinco di santo... ma chi può dire di esserlo?».
32.
Al bar di Rafael fecero finta di
niente per una decina di minuti. Il locale s'era riempito rispetto alla
mattinata e non fu il caso di aggiornare pubblicamente il gestore che saltava
da un tavolo all'altro per servire bibite e panini: c'erano troppe orecchie
indiscrete. Rafael gli fece comunque cenno di accomodarsi che presto gli
avrebbe dato retta.
La banda di detective scelse il
tavolino che li aveva accolti qualche ora prima, fra i due rimasti liberi. Si
vedeva che era recentemente stato occupato da qualche cliente: era pieno di
briciole e disseminato di gocce di acqua vittime della tensione capillare.
Benzina fece svolazzare gli avanzi di pane e brioche con un soffio,
indisponendo Nadia, che si vide inondata dai frammenti alimentari. La scena
venne notata da Kvetuska, la slava che lavorava per Rafael – col quale, probabilmente,
aveva anche una storia - che incombette per risolvere la situazione, con un
panno di cotone.
«Ho fame», disse Radu.
«Anch'io», fece Giacinta.
Nadia li rincuorò.
«Adesso vi ordino qualcosa. Non
vi preoccupate».
Il locale era quasi completamente
occupato dai dipendenti della Camisasca Motori, il rivenditore della Nissan che
sorgeva a mezzo chilometro di distanza da Rafael. Nonostante l'aria di
superuomini tutto fare, imprenditoriale e gongolante, anche per loro le cose
non andavano benissimo. La crisi s'era abbattuta sulla ditta come un macigno, e
non erano pochi i rischi che tutto potesse saltare da un momento all’altro. Ma
avevano temporaneamente retto al momento difficile, grazie a una serie di
affari andati a buon fine durante la primavera, concernente prodotti usati che
erano riusciti a sbrigare a un prezzo più che oneroso. Il problema erano le
prospettive. D'ogni modo, durante le sortite da Rafael, non davano molto adito alle
preoccupazioni, ridendo e sbraitando come cagne in calore, apparentemente
dimentichi degli affanni.
Teschio si soffermò su un tipo
con la cravatta a pois che blaterava di sport con un collega, riferendosi alla
nuova rinascita della Juventus e al genio di Antonio Conte: pareva di tutto,
fuorché triste per il futuro. Ma forse, meditò, era solo frutto di un’impressione.
Aveva sempre odiato i tipi così: imbellettati e dalla parlantina sciolta. Li
avrebbe presi volentieri tutti a schiaffi. Più prosaicamente provava per essi
un po' di invidia, per essere arrivati a fare ciò che lui non era mai riuscito:
carriera.
«Anch'io ti vorrei vedere un
giorno con una cravatta così», gli confidò Benzina, percependo il disappunto
dell'amico che conosceva come un fratello.
«Piuttosto di vestirmi così... vado
in giro nudo», replicò Teschio.
Giacinta iniziò a stuzzicare
Radu, facendogli il piedino, ma senza alcun rimando di natura sessuale. Radu
rise nervosamente e cominciò a tirarle dei pugni sulla spalla. Faceva caldo, ma
Rafael era riuscito a creare una corrente d'aria che consentì ai presenti di sopportare
serenamente l'arsura estiva. Dopo una decina di minuti i dipendenti
dell'azienda sestese cominciarono a sfollare. Uno a uno si accavallarono alla
cassa per saldare il proprio debito. Rafael li attese con una faccia da boia e
le mani impiastrate di salsa tartara. Non pochi si erano lamentati della sua
scarsa igiene, tuttavia alcuni suoi sandwich erano, davvero, fra i migliori
della zona. Qualcuno aveva perfino provato a parlare delle ricette culinarie di
Rafael.
C’era anche una quarantenne
particolarmente avvenente, sulla quale Benzina perse gran parte delle sue
fantasie. Indossava una minigonna da urlo. Era senza calze, ma con i tacchi
delle scarpe che la alzavano di almeno dieci centimetri. Le labbra carnose, le
sopracciglia ben disegnate, una nasino alla Scarlett Johansson... Benzina se
l'immaginò protagonista con se stesso di un amplesso volante, nel bagno di
Rafael, dove più di una volta s'era fatto una sega. Capitava proprio quando
qualche superlativa cliente del bar giungeva a mostrare le sue grazie.
Nonostante l'età, e le periodiche sniffate di carburante, si sentiva ancora un
leone, sessualmente attivo come un ventenne col testosterone alle stelle.
33.
Rimase solo una donna di mezza
età al bancone, indecisa o meno se prendere il caffé: le andava e non le
andava, per via dell'acidità di stomaco insortale negli ultimi giorni che
nemmeno il Malox era riuscito a tenere a bada. Era una vecchia amica di Rafael,
anche lei poco incline a una vita normale, con un figlio che non vedeva da
cinque anni, fuggito col padre dall'altro capo del mondo, dopo un contenzioso
sentimentale durato anni.
«Ti sei decisa?», le domandò
Rafael.
«E fammi sto caffé. Se sto male,
però, sarà per colpa tua».
«Bel ringraziamento. Allora non
ti faccio un bel niente».
«Non fare lo stronzo. Muoviti, se
non vuoi che me ne vada da un’altra parte».
Rafael obbedì, strizzando
l’occhio a Teschio e Benzina che seguivano lo scambio di battute tra i due, non
sapendo fino a che punto scherzassero. La donna si accorse del gesto di Rafael
e riprese la parola coinvolgendo anche coloro che, dopo una rapida analisi,
realizzò di non avere mai visto.
«Il caffé di Rafael è il più
buono del paese. Non credete?».
Era pane per l’humour di Benzina.
«Non solo del paese, direi, ma
dell'intera nazione».
Sentendosi vagamente derisa, la
donna sbuffò e prese a sorseggiare la sua bevanda dimenticandosi di quelli che
avevano tutta l’aria di credere di far parte della CIA: poveri illusi.
Rafael abbandonò la postazione di
lavoro per raggiungere gli amici che lo aspettavano da almeno mezz'ora.
«Allora, ragazzi?».
«Non c'è qualcosa da dare mangiare
almeno a queste creature?», domandò Nadia, prima che qualcun altro potesse
fiatare.
Rafael non ricordava di aver
promesso qualcosa da mettere sotto i denti ai cinque dell'Ave Maria. Ma risolse
all’istante la dimenticanza ordinando il da farsi alla sua unica dipendente.
«Kvetuska, ci pensi tu?».
La ragazza era in bagno.
«Kvetuska! Ma dove cazzo è
andata?».
Uscì in quello stesso istante.
«Fai cinque panini, per questi
baldi giovani?».
La cameriera annuì.
«Cosa ci metto? Prosciutto e
caprino?».
Rafael la squadrò malamente,
dandole a intendere che non fosse il caso di chiedere altro. L’aveva addestrata
per fare bene il suo lavoro senza fare troppe domande; peraltro non gli piaceva
essere interrotto quando aveva qualche tarlo per la testa.
«Avete scoperto qualcosa?».
«Un bel po’ di cose
interessanti», disse Teschio, impaziente di confidare all'amico le novità. «I
Figli di Dionisio hanno la base proprio a Sesto, in una vecchia fabbrica della
periferia. Nadia ci ha dato le indicazioni per raggiungere il posto. È a un
tiro di schioppo da qui».
«Abbiamo anche appurato che chi
ficca il naso nelle loro faccende non torna a casa vivo», disse Benzina, con il
solito disgusto.
Rafael lo guardò divertito.
«Hai intenzione di tirarti
indietro?», gli chiese.
«Figurati. Ma non sarà una
passeggiata».
«Lo sappiamo», intervenne
l'audace Giacinta.
«Non ci resta che andare a
stanare la volpe nella sua tana», s’illuminò Teschio.
Rafael strabuzzò gli occhi, comprendendo
il rischio della missione. E rendendosi conto di non essere in grado di
suggerire una valida alternativa. Se volevano davvero indagare sull'omicidio di
Slagena avevano una sola chance: risalire alla radice del problema, andando a scovarli
nel loro buco. Restava da decidere il momento per entrare in azione, cercando
di non fare troppi viaggi a vuoto.
«Quando?», domandò Rafael.
«Per quel che mi riguarda anche
subito», disse Teschio.
Benzina saltò dalla sedia,
incredulo.
«Forse sarebbe dapprima
conveniente osservare i movimenti nei dintorni della fabbrica per capire in che
modo si muovono i vari membri della setta... cercando di mettere in luce se c'è
un giorno particolare in cui si ritrovano... non credo convenga essere
precipitosi».
«Non serve», disse
perentoriamente Nadia, azzerando qualunque tentativo di Benzina di procastinare
la missione. «I Figli di Dionisio si trovano tutti i venerdì sera, dalle ventidue
in poi».
Rafael la guardò stupito, sempre
più colpito dal suo fascino.
34.
Ci fu ben poco altro da
aggiungere. Perfino Benzina incassò senza battere ciglio. Rafael e Teschio si
squadrarono come amici di vecchia data, riflettendo sul fatto che ormai mancavano
poco più di quarantotto ore alla fatidica entrata in azione. Davvero un’inezia.
I loro sguardi erano intorpiditi dall’angoscia, non sapendo a quali conseguenze
avrebbe potuto portare la loro iniziativa. Erano davvero sulla strada giusta?
Non sarebbe stato meglio avvertire le forze dell’ordine? Furono sopraffatti da
pensieri di questo tipo, valutando che le previsioni erano tutt’altro che rosee.
C’era da farsela sotto.
Solo Giacinta e Radu,
sostanzialmente inconsapevoli dei rischi che avrebbero potuto correre, per via
della loro sana incoscienza giovanile, continuarono nel loro giocoso
temporeggiare. Ripresero a stuzzicarsi con dei pezzetti di mollica che presero
a infilarsi nelle orecchie.
Nadia fu la prima a lasciare il
locale, sollecitata da un impellente bisogno di andare in bagno.
«Vi saluto ragazzi».
Benzina si alzò di scatto per
tenderle la mano.
«Grazie di tutto».
«Grazie a voi... è stato bello
conoscervi».
«Piacere nostro», andò avanti
Benzina.
«Ora sapete dove abito... se
avete bisogno...».
Alla donna luccicarono gli occhi,
come chi sta partendo per un viaggio lontano. Fissò Teschio, forte di un
sentimento che non riusciva ancora a mettere a fuoco, ma ribolliva, benché lo
conoscesse solo da poche ore.
«Grazie Nadia», disse Rafael.
Teschio la salutò con fare civettuolo,
alludendo metafisicamente a un futuro incontro in condizioni meno disastrate.
«Ciao piccoli», fece Nadia
rivolgendosi al duo più giovane. «Mi raccomando, tenete d’occhio questa mandria
di scappati di casa. Il vostro spirito sarà determinante...».
Radu e Giacinta la salutarono
dondolando pigramente la mano.
«Dunque?», riattaccò Benzina.
«Venerdì si parte...», disse
Teschio.
«Verrai con noi?», chiese Benzina
al padrone di casa.
«E chi mi tiene aperto il bar?».
Era una scusa: Rafael avrebbe
fatto a meno di aggregarsi all’improvvisata comitiva, anche se si fosse trovato
con le saracinesche abbassate per le festività natalizie. Si sentiva coinvolto
dalla vicenda, ma di certo non al punto da rischiare di rimetterci le penne.
Doveva essere stato lo stesso pensiero che aveva accarezzato Nadia, filandosela
il prima possibile.
«Bene, possiamo congedarci...»,
disse Benzina.
Teschio annuì.
«Ok ragazzi?», disse rivolgendosi
a Radu e Giacinta.
«Come rimaniamo d'accordo?»,
chiese la ragazza.
«Non ci resta che darci
appuntamento per venerdì pomeriggio. Abbiamo davanti a noi un paio di giorni
per rilassarci», disse Teschio.
«E dove ci troviamo?», domandò
Radu.
Teschio rifletté per qualche
secondo, non vedendo particolari problemi all'identificazione del luogo più
idoneo per ricomporre la banda.
«Se per te va bene potremmo darci
appuntamento al tuo camper, come al solito, subito dopo l'ora di cena...».
«Mi sembra perfetto», disse
Giacinta. «Sei d'accordo, Radu?».
«Per me va benone».
Rideva ancora come una piccola
iena, sempre più preso da un'avventura che non avrebbe mai immaginato, benché avesse
preso il largo da uno dei peggiori dolori patiti in vita sua.
«Leviamo le tende, su», disse
Benzina, sollevato di poter finalmente cambiare aria e tornare, seppur per
poche ore, al suo solito tran tran.
«Addio ragazzi», disse Rafael,
«io sono sempre qui, per ogni necessità...».
Benzina lo squadrò rabbiosamente:
avrebbe voluto trovarsi al suo posto, libero dal terrore che lo attanagliava.
I quattro lasciarono il locale di
Rafael con il sole ancora alto. La strada che correva di fronte al bar cominciò
a riempirsi per il consueto via vai legato al rientro lavorativo. Un motorino
truccato sfrecciò all’impazzata di fronte all’esercizio, suscitando l'ira di
Benzina che gli alzò il dito medio e imprecò mentalmente. Radu e Giacinta
risero sfrontatamente. Le nubi cariche di pioggia si estinsero, lasciando il
posto alla solita afa che da giorni metteva a ferro e fuoco la città.
Si salutarono nei pressi del
parco Gramsci.
«Allora ci vediamo al camper
venerdì, dopo cena. Mi raccomando, non sparite», disse Teschio.
«Nemmeno per sogno» disse
Giacinta. «Non vedo l'ora di scoprire dove si nascondono i farabutti che hanno
ammazzato Slagena».
Teschio e Benzina procedettero
verso la stazione, con un’andatura stanca e rassegnata. Radu e Giacinta individuarono
uno spiazzo nell'area verde, dove si sdraiarono a prendere un po' di sole e a
succhiare fili d'erba.
35.
Il risveglio dei due piccoli fu
meno rocambolesco del giorno prima. Mancò la fretta di correre da Rafael per
fargli sapere l'accaduto e capire se potesse fornire indicazioni utili.
Aprirono gli occhi simultaneamente e si sorrisero scoprendosi di nuovo vicini.
«Ciao», disse Giacinta.
Radu la salutò con un'espressione
gaia, saltando giù dal letto come un grillo.
«Che mangiamo stamattina di
colazione?», chiese.
«Bella domanda. Mi sa che non
abbiamo più nulla».
«Dici che Rafael ci regala un
paio di brioche?».
«Penso di sì. Ma non ho voglia di
tornare là. Oggi vorrei pensare ad altro...».
«Ad altro?».
«Preferirei stare lontano da tutto
ciò che mi ricorda le ultime cose successe».
Radu si strofinò gli occhi e
guardò fuori dal finestrino sopra la cucina, percependo una piacevole
atmosfera. Gli tornò la gioia di vivere.
«È una bella giornata. Potremmo
andare a farci un giro».
Giacinta lo osservò divertita.
Scese dal letto e corse in bagno a fare pipì, senza preoccuparsi di chiudere la
porta e tenere in serbo le sue intimità. Radu scorse una macchia scura in mezzo
alle cosce dell'amica che lo fece sussultare. Ma non si fece troppe domande: cambiò
posizione e tornò a fotografare il panorama al di là del cucinino, ripensando
al da farsi.
Lo anticipò Giacinta, intenta a
far scorrere l'acqua del water.
«Potremmo passare da me a
prendere qualcosa da mangiare. Di sicuro mia madre ha via qualcosa... poi
potremmo prendere le bici e andare al canale».
«Quale canale?».
«Il Villoresi. È un po' lontano
da qui. Ma possiamo divertirci. Non c'è nessuno che rompe, si può fare anche il
bagno...».
«Quale canale?».
«È il canale più artificiale
d'Italia».
«Ma chi ti dice certe scemenze?».
«Sai cosa vuol dire più artificiale?».
«Ma vaffanculo, va».
Risero entrambi, spalancando la
porta del camper e correndo verso la roulotte di Giacinta. Vi arrivarono di
corsa, sbuffando come le ciminiere di Dalmine. Non c'era nessuno. Supposero che
la madre di Giacinta fosse in giro con qualche amica per cercare di raccattare
qualcosa per rinfoltire la dispensa o per riempire di acqua le taniche. Capitava
spesso che si assentasse per questi motivi durante la mattina, mentre il
pomeriggio lo dedicava all’ozio. Trovarono tre brioche e qualche fetta
biscottata, che divorarono con una fame da leoni.
«Per il pranzo ci pensiamo dopo»,
disse Giacinta.
La disponibilità delle biciclette
sistemate nel retro del mezzo, protette da un muretto colorato dai muschi e dai
licheni, incorniciò quel giorno benedetto da dio: erano una mountain bike che
usava il papà di Giacinta, quando si spostava per Sesto e una bici da donna,
con un seggiolino da poppante.
«Che te ne fai di questo?»,
domandò Radu.
«La bici è di mia madre. Dice che
col seggiolino è più comoda per trasportare i sacchetti della spesa».
Partirono verso le undici. Il
sole brillava caldo e spavaldo. Frotte di moscerini vorticavano nell’aria,
seguendo rotte inconsulte. E c’era un bel po’ di traffico.
Fece strada Giacinta, che più
volte d'estate era stata col padre al Villoresi, dove incontravano un tale di
Cascina Fidelina, che trafficava merce rubata nei container del Mercatone Uno.
Radu s'avvide con risentimento
che la sua bici non era molto comoda e che faceva più fatica del previsto.
«Puoi rallentare?», disse a
Giacinta, dalle parti di Brugherio. «Questo catorcio è pesantissimo...».
«Non è il catorcio. Sei tu che
sei un pappamolle», gridò l'amica.
Attraversarono vie che
diventavano sempre più verdi, e sempre meno trafficate, impossessandosi degli
stradari di Brugherio, Carugate, Caponago... A Radu parve il paradiso. Lui, di
solito, con mamma si dirigeva verso Milano, verso la giungla di asfalto meneghina
che nulla aveva a che vedere con le propaggini bucoliche della metropoli. Non
aveva mai visto tanti alberi in vita sua e si sentì meravigliosamente bene.
«Non sei più stanco?», gli chiese
Giacinta.
Radu nemmeno rispose. Spinse sui
pedali come un forsennato e in corrispondenza di un'ansa del canale, ormai al
confine con Pessano, superò la compagna facendole una linguaccia.
«Diavolo, vieni qui che ti uccido!».
36.
Decisero di accamparsi sotto un
vecchio albero di noce, che con le sue ampie fronde ombreggiava un bel po’ di
terreno, offrendo frescura e riparo. A pochi metri scorreva il Villoresi il cui
livello, forse a causa della siccità, pareva un po’ più basso del solito: lo si
notava dalla lunga linea scura colonizzata da vegetali primordiali che scorreva
parallela una ventina di centimetri sopra la superficie delle acque. Giacinta, abituata
a vivere simili esperienze, senza tante remore, si sfilò i pantaloni e scivolò
lungo la sponda, del tutto indifferente alla seria ipotesi che si stesse
accingendo a fare il bagno in litri di melma industriale.
«Vieni anche tu pappamolle!
L'acqua è pulita!», gridò.
Radu la osservò come si scruta un
animale mai visto, di cui non si conoscono bene le reazioni. Fu vinto da un
sentimento vicino all’invida: lui non aveva mai avuto tanta confidenza con
l'acqua, non sapeva nemmeno nuotare.
«Non me la sento».
«Non fare il cacasotto! Muovi il
culo! Sbrigati!».
Giacinta si tappò il naso e
sperimentò un'immersione, felice di mostrare all'amico quanto fosse abile fra
le acque. Le cose, però, non andarono come si aspettava e finì per starnutire
malamente. Radu le regalò una smorfia, sedendosi sul bordo del canale e
lasciandosi accarezzare dai raggi del sole.
Giacinta si aggrappò alla base di
un ponticello vicino, completamente arrugginito, e riguadagnò la riva. Si
sedette al fianco di Radu strizzandosi i capelli e respirando profondamente:
Radu si imbarazzò notando l'amica in mutande e con la maglietta appiccicata al
seno che metteva così bene in risalto i capezzoli terribilmente turgidi. La
ragazza sembrò non farci caso, tuttavia non desiderava altro che mostrare a
Radu di essere ormai una donna a tutti gli effetti, con la quale, evidentemente,
non bastava più andare solo in giro in bicicletta e sdraiarsi a indovinare la
forma delle nuvole.
«Dici che da grandi ci
sposeremo?», chiese Giacinta.
«Non so. Ma che domande fai?».
«Non so. Mi piacerebbe sposarti e
fare un sacco di bambini».
«Perché proprio me».
«Perché tu mi piaci».
Radu sbigottì.
«Per ora non ci penso. Voglio
pensare solo a fare l'acrobata».
«Sei già un acrobata».
«Non abbastanza».
«Pensa se ci sposiamo... faremo
una festa fantastica... inviteremo un mucchio di gente...».
Radu tacque. Raccolse un sasso
piatto e lo lanciò nel canale, facendolo saltare come un freesbee. Giacinta
compì la stessa azione, rimettendosi i pantaloni. Passò una bottiglietta di
latte di plastica, sulla quale si avventarono:
«Se la colpiamo vorrà dire che ci
sposiamo, sennò niente», disse Giacinta.
«Non mi piacciono i tuoi giochi».
Il tiro di Giacinta andò a vuoto,
ma non quello di Radu.
«Hai visto?», esultò la ragazza,
strattonando l'amico.
Radu sorrise.
«Ma vaffanculo, va».
Alzandosi, presero a rincorrersi
come due farfalle in amore, muovendosi a scatti e saltando impavidi da un fosso
all’altro.
«Se ti prendo ti butto nel canale!»,
urlò Giacinta.
«Prima mi devi prendere!».
Finirono nei pressi di una
cascina mezzo abbandonata, lungo un sentiero ben tracciato che conduceva a Pessano.
Vinsero l’ingresso di un cortile disastrato, con molte porte sigillate da
pesanti assi di legno e un paio di auto parcheggiate senza criterio.
«Hai visto anche tu?», domandò
Giacinta.
«Eccome».
Sul davanzale di una finestra protetta
da vivaci tendine rossastre, avevano sistemato una torta. Per i due sinti fu come
un invito a nozze.
«Vai tu o vado io?», disse
Giacinta.
«Io sono più veloce».
Radu partì come un missile e con
uno scatto rapidissimo fece suo il dolce che profumava di latte e canditi. Giacinta
lo guardò trasognante.
«Evviva!», esultò.
Non ci fu nessuno a interrompere
la loro corsa che si risolse dopo un chilometro di distanza dai caseggiati
fatiscenti. Ripresero fiato e smisero di guardarsi alle spalle:
«Bel colpo amico mio», disse
Giacinta.
«Bel colpo amica mia. Per oggi
siamo a posto».
Si sedettero sotto il noce e
cominciarono a mangiare con grande foga.
37.
«Non ho mai mangiato una torta
così buona», disse Radu, leccandosi i baffi.
«Idem».
«Come?».
«Anche per me è lo stesso».
«È buonissima».
Giacinta era ancora troppo presa
a gestire la sua insaziabile fame per poter dar retta come avrebbe voluto
all’amico.
«Bello questo posto».
Percependo l’assenza dell’amica,
Radu si spazientì.
«Oh, ma mi stai a sentire?».
«Sapevo che ti sarebbe piaciuto».
«Veniamo ancora?».
A Giacinta andarono di traverso
delle briciole e tossì come una tabagista di Ankara.
«Perché no? Basta che ti decidi a
fare un bagno...».
«Non me la sento. Te l'ho già
detto».
Giacinta rise, accaparrandosi
un’altra porzione di dolce. Radu si alzò per andare a fare pipì.
«Fatto tutto?», gli chiese
Giacinta con fare civettuolo.
«Cazzi miei», le rispose Radu,
arrossendo.
«E questa?», disse Giacinta,
riferendosi alla torta rimasta.
«La finiamo stasera. O ce la
teniamo per domani mattina a colazione. Così ci facciamo una colazione coi
fiocchi».
«Dovremmo, però, andare a
ringraziare la signora che l'ha fatta...».
Radu sogghignò.
«Dovremmo almeno andarle a
chiedere la ricetta».
Si sdraiarono uno accanto all'altro
e chiusero gli occhi. Radu ripensò alla mamma appena scomparsa e per la prima
volta dall'incidente riuscì a domare con successo l’angoscia. Le parlò col
cuore in mano, convinto che dalle nuvole potesse ascoltarlo, in compagnia del
papà e del nonno. Le disse di non preoccuparsi che nonostante la sua lontananza,
in qualche modo, se la sarebbe cavata. Le raccontò della bella giornata che
stava vivendo, confidandole di non avere mai visitato posti così belli, dove il
cielo sembrava senza fine e il verde una macchia immensa di paradiso. Le chiese
perché non c'erano mai andati insieme. Ma mamma non rispose.
Giacinta? Oddio. La mamma gli
stava chiedendo di Giacinta... E, seppure mentalmente, Radu si ritrovò impacciato.
Recuperò il coraggio per confidarle che con lei si trovava benissimo, benché
non fosse l'unica che gli avesse fatto compagnia fino a quel momento: c'erano
anche Teschio e Benzina, i due amici del bar di Rafael, che anche lei
conosceva. Fu evidente il suo tentativo di deviare il discorso. Ma non poté
andare avanti con la sua messinscena perché, all'improvviso, si ritrovò bagnato
fradicio dalla testa i piedi, per colpa di una secchiata proveniente dall'alto.
Era stata Giacinta, che aveva recuperato un contenitore marcescente nei pressi
del ponticello: l’ideale per il diabolico scherzo che andava tramando.
Radu si alzò di scatto. Rise come
un matto e si mise a rincorrere l'amica. La catturò con un vero e proprio
placcaggio in mezzo a un prato di erba medica che era stato appena falciato. La
immobilizzò, schiena a terra, bloccandole le braccia e il bacino. Giacinta sapeva
che le sarebbe bastato insistere un po' sugli avambracci per divincolarsi senza
problemi dalla presa dell'amico, tuttavia lo lasciò fare, galvanizzata
dall’iniziativa del compagno.
«Se ci provi ancora ti ammazzo,
hai capito!», gridò Radu, ridendo felice.
«No, no, te lo giuro, non lo
rifarò mai più... te lo giuro».
Radu fece finta di far cadere un
po' di saliva sulla faccia di Giacinta, a mo’ di un filamentoso chew-in-gum vittima
della forza di gravità, gioco che faceva spesso con qualche amico di
scorribande. Lei si mise a urlare come una disperata.
«No! Questo no! Ti prego!».
«E invece sì, così impari».
Un filo di saliva arrivò a una
ventina di centimetri dalla faccia della giovane, ma la viscosità del liquido
consentì al ragazzo di risucchiare lo sputo, rasserenando l'animo di Giacinta
che, però, arrivata fin qui, non fu più disposta a farsi torturare.
«Adesso basta».
Fece forza sul braccio destro e
catapultò Radu oltre il suo stomaco, impedendogli di reagire con la pianta del
piede, pronta a parare qualsiasi colpo. Corse verso il canale, si tolse di
nuovo i calzoni e scivolò nell'acqua con la solita disinvoltura, liberandosi
definitivamente dalle grinfie del piccolo.
«Prendimi adesso se riesci!»,
gridò, mentre Radu si rialzava, con la rassegnazione dello sconfitto, dal campo
di battaglia.
38.
Rimontarono in sella con il cielo
che cominciava a rosseggiare e le nuvole che disegnavano una cornice ovoidale
lungo l’immane orizzonte. Transitò un contadino con le bretelle colorate, un
paio di pantaloni larghi e dei sandali da battaglia, a bordo di una bici
dell’anteguerra con un cestello pieno di verdura: li squadrò malamente,
mostrando tutta la sua insofferenza nei confronti degli zingari, che avrebbe
riconosciuto lontano un miglio.
I due sinti gli fecero una
boccaccia sbalordita. L'uomo non seppe come reagire: imprecò, mormorando
qualcosa in dialetto, che Radu e Giacinta non compresero. Ma erano abituati a
sentire qualcuno inveire nei loro confronti e a essere giudicati dei cittadini
di serie b. Ormai non ci facevano più caso. Tuttavia non disdegnavano
l’opportunità di far valere le loro ragioni, ribellandosi allo scocciatore di
turno con qualche colorita espressione:
«Fanculo vecchio», disse
Giacinta.
«Sparisci lebbra», disse Radu.
Tornarono alla loro torta. C'erano
ancora almeno quattro porzioni, una delle quali era stata presa d'assalto da
una decina di formiche voraci.
«Che schifo», disse Giacinta.
Radu le sterminò in pochi
secondi.
«M'è tornata la fame».
«Idem».
«Mangerò mentre andiamo in bici».
«Dammene una anche a me».
Dopo poche pedalate, però, si
resero conto che non fosse per niente facile pedalare mangiando; si fermarono,
pertanto, a masticare con calma, tallonati da un minaccioso stormo di
cornacchie, accampate fra i rami di un gigantesco albero rinsecchito.
«Starai ancora da me?», chiese
Radu.
«Certo, te l'ho già detto».
«Non dirai niente a tua madre?».
«Glielo dirò».
«Quando?».
«Per ora non serve. È abituata ai
miei vagabondaggi».
Radu scosse la testa.
«Ho provato a stare via una
settimana senza avvertirla... non credo di mancarle».
«Dove?».
«Cosa dove?».
«Dove sei stata?».
«Sono stata in giro, non mi
chiedere dove. Avevo voglia di farmi i fatti miei. A te non capita mai di
volerti fare i fatti tuoi?».
«Io mi faccio sempre i fatti
miei».
Giacinta gli sorrise, fingendo di
pigiare sui pedali per dargli spago.
«Hai voglia di fare una gara?».
«Non credo».
«Pappamolle».
«Comincio a essere stanca».
Finirono la torta e ripresero a
pedalare, disponendosi uno di fianco all'altro e raggiungendo in men che non si
dica, il tratto di sterrato che divideva il sentiero che costeggiava il
Villoresi, dal provinciale che collegava al sestese. Benché fossero già passate
le otto di sera, il traffico era ancora piuttosto sostenuto.
Si sentirono a logo agio
riprendendo la strada maestra e lasciandosi alle spalle le vie campestri.
L’asfalto e l'odore di smog erano il loro pane quotidiano: nonostante il
fascino agreste, solo nel ventre della città avrebbero vissuto comodamente.
Con il restringimento della
carreggiata, Giacinta guadagnò la testa del duo, preoccupata dal rischio di finire
falciata. Un auto squillò il clacson, più per spaventare i due sinti che non
per una reale necessità. Giacinta sporse il dito medio. Radu rise divertito. La
raggiunse poco prima del cartello indicante l'entrata in Brugherio, con
l'arteria stradale che riprendeva il suo tracciato normale.
«Hai paura per domani?», le
chiese Radu.
Giacinta temporeggiò.
«Non lo so».
«Io no».
«Perché non sai a cosa stiamo
andando incontro...».
«Lo so benissimo... ma a me i
Figlio di Dionisio non fanno paura. Li ucciderei uno a uno con le mie mani».
Giacinta dondolò la testa verificando
che, pur di vendicare la mamma, Radu sarebbe stato disposto a dare la vita.
«Ti capisco. Ammiro il tuo
coraggio».
«Domani vedremo come andrà».
«Benzina, per me, se la fa
sotto».
Risero.
«Benzina parla, parla, ma poi
quando c'è da muovere il culo... è peggio di una femminuccia», disse Giacinta.
«Se, però, farà il pieno di
carburante...».
La ragazza si congedò dalla
conversazione con una grassa risata, con le ombre della notte ormai imminenti.
Radu capì di essere vicino a casa quando intravide la grossa insegna luminosa
del Vulcano. Entrambi avevano le guance incandescenti.
39.
Con i muscoli dolenti e una sete
da beduino sperso fra le colline del Sahara, sistemarono le biciclette nel
retro del camper.
«Sto morendo di sete», disse
Giacinta.
«A chi lo dici», disse Radu.
«Hai qualcosa di fresco?».
«Mamma, il giorno prima di
morire, mi aveva comprato la Coca Cola. Credo che nessuno l'abbia ancora
bevuta».
Giacinta godette all'idea di
poter tracannare a volontà la bibita, che rare volte le capitava di assaggiare
e percepire il brivido delle bollicine.
Radu aprì la porticina del
camper, scorgendone alla base un foglietto che aveva tutta l'aria di non essere
capitato lì per caso. Lo raccolse e lo porse a Giacinta.
«Tu ci capisci qualcosa?».
Non era una bella calligrafia, ma
si capiva che apparteneva a un adulto. Era una frase riportata su un foglietto
strappato, verosimilmente, da un bloc-notes. Giacinta lo lesse con calma.
«Siete sulla buona strada. Ci vediamo presto».
Non c'era la firma. Giacinta
allargò gli occhi colma di meraviglia.
«È un messaggio segreto».
Radu la fissò stupito.
«Cosa significa?».
«Credo che qualcuno stia seguendo
le nostre mosse...».
«Non mi sembra una bella notizia.
Preferirei che gli altri si facessero i cazzi propri».
Giacinta fu di diverso avviso,
ritenendo quel biglietto una specie di buon augurio, lasciato da una sorta di
benefattore. Avrebbe voluto correre a dirlo a Teschio e a Benzina, ma non
avendo la più pallida idea di dove si trovassero, desistette dal suo proposito,
concentrando le sue attenzioni su Radu.
«Non capisci? Significa che non
siamo soli...».
«Magari l'hanno messo Teschio e
Benzina».
«Che senso avrebbe?».
«Non lo so».
«Faresti meglio a tacere,
piuttosto di sparare minchiate. Questo è il chiaro segno che siamo sulla buona
strada».
Radu non diede lo stesso peso al
biglietto: nel giro di pochi minuti la sua mente fu altrove. Si levò le scarpe,
si sdraiò, desideroso solo di poter riposare il più a lungo possibile.
Si scoprì meravigliosamente
sereno, ma la lunga giornata di sole e la biciclettata, gli avevano procurato una
violenta sonnolenza. Chiuse gli occhi e per la prima volta s’accorse di poter
sopportare senza problemi il dolore della perdita della mamma. Percepì una
sensazione di grande sollievo. Sentì, in qualche modo, che stava per rinascere,
che stava ritornando a nuova vita.
Rifletté altresì sul fatto che
rare volte gli era capitato di divertirsi così tanto con qualcuno. I suoi dolci
pensieri, però, furono presto interrotti da Giacinta che, storcendo il naso, dette
l’impressione di sentirsi male, per via della puzza di formaggio sprigionata
dai suoi piedi devastati dai batteri.
«Vuoi andare a letto con quelle
zampe puzzolenti?».
Radu spalancò gli occhi,
strappato a forza dal suo sonnambulismo.
«Come?».
«Se dobbiamo vivere insieme,
forse è il caso che ti dia una regolata... ».
«Che dici?».
«Vatti a lavare!».
Radu balzò giù dal letto e
strinse il collo dell'amica con un bracciata vigorosa. Non voleva farle male,
ma sentì la necessità di mostrarle che era lui a comandare. E che avrebbe fatto
quello che voleva.
«Cosa stai dicendo?».
«Hai capito bene».
«Vuoi che ti torturi ancora?».
Giacinta lo ammonì, alludendo a
un aspetto della fisiologia umana, ancora piuttosto oscuro per Radu.
«Smettila pivello... smettila che
non ti tira neanche».
Il ragazzino si abbandonò a
un'espressione affranta. Non capiva proprio quale fosse il senso compiuto dell’ultima
affermazione dell’amica, benché intuisse che ci fosse di mezzo qualche rimando
di natura sessuale, di cui ancora non comprendeva significato e importanza.
«Mi tira, eccome».
Giacinta rise sguaiatamente.
«Sei proprio un pivello».
Radu lasciò perdere e scese dal
camper per travasare un po' di acqua nel catino. Si sedette sull’appoggia piedi
del camper e cominciò a sciacquarsi gli arti. Giacinta sporse la testa dalla
finestrella sopra il lavandino, compiacendosi della sua risolutezza.
40.
Si sdraiarono uno di fianco
all'altro, anestetizzati dalla solita luce fioca che filtrava dalle tendine
abbassate delle finestrelle del camper. Faceva caldo e non ci fu bisogno del
lenzuolo. Entrambi indossavano la maglietta con cui avevano trascorso la
giornata e gli slip. Su quella del ragazzo c'erano ancora le macchie provocate dalle
briciole della torta, impiastratesi sul tessuto dopo aver cercato di toglierle
con una manata. Radu perse il sonno, eccitato dall'idea di poter riposare, per
la seconda volta, accanto all'amica di sempre, con la quale, di fatto, stava
per iniziare una nuova vita: nel punto in cui fino a poche ore prima aveva
dormito con mamma, ora c'era lei, con tutta la sua esuberanza e voglia di
vivere.
Anche Giacinta era su di giri. E
non riuscì a chiudere occhio. Le ultime vicissitudini sembravano un lontano
ricordo, come se fossero appartenute a un'altra vita. Giacinta lo sfiorò con
una mano, apparentemente senza motivo. In realtà desiderava instaurare un
contatto fisico che Radu non fu in grado di razionalizzare.
«Vuoi vedere le mie tette?»,
domandò a bruciapelo.
Radu fece finta di niente.
«Mi hai sentito?».
«Sì».
«Allora?».
Radu non seppe cosa rispondere,
ma alla fine fu lieto di poter indagare il mondo misterioso che l’amica serbava
sotto quello strano indumento femminile chiamato reggiseno.
«Va bene, fammele vedere».
Giacinta si voltò verso l'amico,
alzando fieramente la maglietta e tutto il resto, mostrando i suoi gioielli nel
loro massimo splendore adolescenziale. Radu non poté rimanere indifferente a
tutto quel ben di dio, ma si volle mostrare integerrimo e risoluto, come se non
ci fosse assolutamente nulla di che scandalizzarsi e rabbrividire. Si avvicinò
ulteriormente al seno dell'amica, dando l'idea di analizzare un reperto
forense, o le caratteristiche mineralogiche di una roccia, e mugugnò qualcosa
di incomprensibile, arrossendo di colpo.
«Che hai detto?».
«Niente».
Giacinta rimase con il seno
all'aria per un paio di minuti, convinta di riuscire a sollecitare la curiosità
e la morbosità del piccolo di casa. Radu, però, riacquisendo la posizione
originaria, comunicò all'amica di non nutrire più alcun interesse per quel
corpo da donna. Un corpo così diverso dal suo, adulto, pronto per assecondare
voglie che lui ancora non comprendeva... ma non era del tutto vero.
Stava, di fatto, mettendo in
relazione quel che aveva appena osservato con piglio investigativo, con le bocce
della madre. Erano tutto un altro mondo. Il seno di mamma era flaccido e
cadente, con i capezzoli grandi e sformati, quello di Giacinta era sodo, ben
disegnato, vigoroso, con due punte arrossate che parevano le appendici di un
mitra pronto a far fuoco. L’anatomia materna delle alte vie tessutali che
riflettevano l’area sternale, non gli diceva niente; quella di Giacinta, al
contrario, gli aveva procurato un pedissequo sussulto interiore, che non avrebbe
saputo descrivere. Una specie di geyser metafisico gli ribolliva nell'animo, ma
non avrebbe mai saputo concettualizzare tanto livore: erano sensazioni che non
aveva mai provato e che gli provocavano una sensazione fisica vicina al
formicolio, ma dal tiro molto, molto più eccitante. Il disagio proseguì, quando
Giacinta prese a solleticargli i piedi.
«Mi fai il solletico, la vuoi
smettere?».
«Sai cosa vuol dire fare
piedino?».
Radu tacque.
«Si vede che sei proprio un
pivello».
«Sarai tu una...».
«I grandi fanno così quando
stanno per fare l'amore. Si accarezzano piano, piano, e poi... scopano».
L'imbarazzo di Radu crebbe a
dismisura, non capendo dove l'amica volesse andare a parare.
«Non mi piacciono i tuoi
discorsi».
Giacinta rise e prese a fargli il
solletico.
«La vuoi piantare? Smettila e
lasciami dormire».
Il lamento di Radu fu così
persuasivo che Giacinta non se la sentì di proseguire con le sue pantomime.
Abbandonò la morsa, constatando che, per certe cose, Radu fosse ancora
profondamente immaturo. Si girarono schiena contro schiena e nel giro di dieci
minuti precipitarono in un sonno profondo.
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