mercoledì 18 luglio 2012

Rapsodia gitana # 4


31.

«Va beh, dormiamoci su stanotte, poi vedremo cosa fare... intanto sarà bene levare i tacchi e tornare da dove siamo venuti», disse Teschio.
«Torniamo da Rafael?», domandò Giacinta.
«Direi di sì», mugugnò Teschio. «Mi sembra giusto ragguagliarlo in merito al nostro incontro con Nadia».
La donna scrutò Teschio con fare meditabondo, rintuzzata dal desiderio di voler continuare a dare una mano ai nuovi amici. In fondo, non aveva nulla da perderci.
«Se volete vi accompagno», disse.
La guardarono stupiti.
«Potreste avere bisogno di qualche mio nuovo consiglio...».
I quattro improvvisati detective si consultarono colmi di orgoglio, sentendosi sulla strada giusta e convincendosi, per la prima volta, che sarebbe andato tutto bene. L'unico ancora titubante rimaneva Benzina, che, conoscendo i retroscena della setta più di tutti gli altri, non riusciva ancora a beneficiare dell'idea che potesse filare tutto liscio.
Il cielo si fece scuro, suggerendo che potesse iniziare a piovere da un momento all’altro, come preannunciato dalle previsioni meteorologiche. Ma l'aria rimaneva calda e umida, come nei giorni precedenti, compreso quello in cui avevano trovato il corpo senza vita di Slagena. Benzina pensò che per il tanto caldo patito, non gli sarebbe dispiaciuto inzupparsi un po’ membra e vestiti. Radu e Giacinta non fecero nemmeno caso al cambiamento di tempo in atto; non sapevano nemmeno cosa fosse l'ombrello e, di certo, due gocce non gli avrebbero fatto paura.
Si misero a capo della carovana e fecero strada verso il lido di Rafael. Teschio e Nadia occuparono il fanalino di coda, dedicandosi ad argomenti un po' più frivoli, benché nell'animo si rendessero conto che non fosse il momento ideale per concentrarsi su temi frugali. In verità stavano cercando un valido pretesto per studiarsi vicendevolmente.
A metà del percorso Radu e Giacinta rallentarono il passo, per aspettare Benzina che camminava con lo sguardo basso e rassegnato, perso in un mondo tutto suo.
«Qualcosa non va?», gli chiese Giacinta.
Benzina la guardò incuriosita. Non sapeva quanti anni fossero passati dall'ultima volta che una donna si fosse informata sul suo stato di salute. Ne fu felice. Tuttavia non seppe come risponderle:
«Perché me lo chiedi?».
«Mi sembri così mogio...».
«Non vedo cosa ci sia da rallegrarsi. Sto pensando che, forse, ci faranno fuori tutti quanti».
Radu e Giacinta risero sottecchi. Per essi continuava a essere una magica avventura. Non comprendevano la grande apprensione del socio e non vedevano l'ora di poter andare a ficcare il naso nel quartiere generale della setta.
«Non ti devi preoccupare», gli disse Radu. «Ti devi fidare dello spirito del nonno. Lui non mi ha mai abbandonato e mai mi abbandonerà. E così sarà per tutti i miei amici».
Radu si espresse col cuore in mano, mostrando la sua gratitudine a uno dei due uomini che s’erano presi carico di proteggerlo e affiancarlo in una missione al limite della fantascienza. Benzina apprezzò il gesto del piccolo amico. Gli concesse un sorriso bonario, mentre cominciavano a cadere le prime gocce di pioggia, regalando ai passanti il caratteristico odore dell'asfalto bagnato.
I tre proseguirono in silenzio, seminando gli altri due, sempre più simili a una coppia consumata che non a individui che s'erano appena conosciuti: vedendo all'orizzonte il bar di Rafael si davano già del tu.
«Quello è il bar di Rafael», disse Teschio.
«Strano che mio marito non me ne abbia mai parlato».
«Non lo frequentava spesso, ma conosceva bene il gestore».
«Credi sappia qualcosa di più su di lui?».
«Quel che sapeva l'ha detto».
Teschio notò le guance rosse di Nadia e se ne compiacque, rivivendo una storia d'amore di quand'era ragazzino.
«Ti fidi di lui?».
Teschio fece spallucce.
«Non conosco bene il suo passato, ma da quando ha aperto il bar, non mi ha mai dato modo di pensare male. Quando gli abbiamo spiegato la situazione non ha esitato a darci una mano. Certo non si può dire che sia uno stinco di santo... ma chi può dire di esserlo?».

32.

Al bar di Rafael fecero finta di niente per una decina di minuti. Il locale s'era riempito rispetto alla mattinata e non fu il caso di aggiornare pubblicamente il gestore che saltava da un tavolo all'altro per servire bibite e panini: c'erano troppe orecchie indiscrete. Rafael gli fece comunque cenno di accomodarsi che presto gli avrebbe dato retta.
La banda di detective scelse il tavolino che li aveva accolti qualche ora prima, fra i due rimasti liberi. Si vedeva che era recentemente stato occupato da qualche cliente: era pieno di briciole e disseminato di gocce di acqua vittime della tensione capillare. Benzina fece svolazzare gli avanzi di pane e brioche con un soffio, indisponendo Nadia, che si vide inondata dai frammenti alimentari. La scena venne notata da Kvetuska, la slava che lavorava per Rafael – col quale, probabilmente, aveva anche una storia - che incombette per risolvere la situazione, con un panno di cotone.
«Ho fame», disse Radu.
«Anch'io», fece Giacinta.
Nadia li rincuorò.
«Adesso vi ordino qualcosa. Non vi preoccupate».
Il locale era quasi completamente occupato dai dipendenti della Camisasca Motori, il rivenditore della Nissan che sorgeva a mezzo chilometro di distanza da Rafael. Nonostante l'aria di superuomini tutto fare, imprenditoriale e gongolante, anche per loro le cose non andavano benissimo. La crisi s'era abbattuta sulla ditta come un macigno, e non erano pochi i rischi che tutto potesse saltare da un momento all’altro. Ma avevano temporaneamente retto al momento difficile, grazie a una serie di affari andati a buon fine durante la primavera, concernente prodotti usati che erano riusciti a sbrigare a un prezzo più che oneroso. Il problema erano le prospettive. D'ogni modo, durante le sortite da Rafael, non davano molto adito alle preoccupazioni, ridendo e sbraitando come cagne in calore, apparentemente dimentichi degli affanni.
Teschio si soffermò su un tipo con la cravatta a pois che blaterava di sport con un collega, riferendosi alla nuova rinascita della Juventus e al genio di Antonio Conte: pareva di tutto, fuorché triste per il futuro. Ma forse, meditò, era solo frutto di un’impressione. Aveva sempre odiato i tipi così: imbellettati e dalla parlantina sciolta. Li avrebbe presi volentieri tutti a schiaffi. Più prosaicamente provava per essi un po' di invidia, per essere arrivati a fare ciò che lui non era mai riuscito: carriera.
«Anch'io ti vorrei vedere un giorno con una cravatta così», gli confidò Benzina, percependo il disappunto dell'amico che conosceva come un fratello.
«Piuttosto di vestirmi così... vado in giro nudo», replicò Teschio.
Giacinta iniziò a stuzzicare Radu, facendogli il piedino, ma senza alcun rimando di natura sessuale. Radu rise nervosamente e cominciò a tirarle dei pugni sulla spalla. Faceva caldo, ma Rafael era riuscito a creare una corrente d'aria che consentì ai presenti di sopportare serenamente l'arsura estiva. Dopo una decina di minuti i dipendenti dell'azienda sestese cominciarono a sfollare. Uno a uno si accavallarono alla cassa per saldare il proprio debito. Rafael li attese con una faccia da boia e le mani impiastrate di salsa tartara. Non pochi si erano lamentati della sua scarsa igiene, tuttavia alcuni suoi sandwich erano, davvero, fra i migliori della zona. Qualcuno aveva perfino provato a parlare delle ricette culinarie di Rafael.
C’era anche una quarantenne particolarmente avvenente, sulla quale Benzina perse gran parte delle sue fantasie. Indossava una minigonna da urlo. Era senza calze, ma con i tacchi delle scarpe che la alzavano di almeno dieci centimetri. Le labbra carnose, le sopracciglia ben disegnate, una nasino alla Scarlett Johansson... Benzina se l'immaginò protagonista con se stesso di un amplesso volante, nel bagno di Rafael, dove più di una volta s'era fatto una sega. Capitava proprio quando qualche superlativa cliente del bar giungeva a mostrare le sue grazie. Nonostante l'età, e le periodiche sniffate di carburante, si sentiva ancora un leone, sessualmente attivo come un ventenne col testosterone alle stelle.

33.

Rimase solo una donna di mezza età al bancone, indecisa o meno se prendere il caffé: le andava e non le andava, per via dell'acidità di stomaco insortale negli ultimi giorni che nemmeno il Malox era riuscito a tenere a bada. Era una vecchia amica di Rafael, anche lei poco incline a una vita normale, con un figlio che non vedeva da cinque anni, fuggito col padre dall'altro capo del mondo, dopo un contenzioso sentimentale durato anni.
«Ti sei decisa?», le domandò Rafael.
«E fammi sto caffé. Se sto male, però, sarà per colpa tua».
«Bel ringraziamento. Allora non ti faccio un bel niente».
«Non fare lo stronzo. Muoviti, se non vuoi che me ne vada da un’altra parte».
Rafael obbedì, strizzando l’occhio a Teschio e Benzina che seguivano lo scambio di battute tra i due, non sapendo fino a che punto scherzassero. La donna si accorse del gesto di Rafael e riprese la parola coinvolgendo anche coloro che, dopo una rapida analisi, realizzò di non avere mai visto.  
«Il caffé di Rafael è il più buono del paese. Non credete?».
Era pane per l’humour di Benzina.
«Non solo del paese, direi, ma dell'intera nazione».
Sentendosi vagamente derisa, la donna sbuffò e prese a sorseggiare la sua bevanda dimenticandosi di quelli che avevano tutta l’aria di credere di far parte della CIA: poveri illusi.
Rafael abbandonò la postazione di lavoro per raggiungere gli amici che lo aspettavano da almeno mezz'ora.
«Allora, ragazzi?».
«Non c'è qualcosa da dare mangiare almeno a queste creature?», domandò Nadia, prima che qualcun altro potesse fiatare.
Rafael non ricordava di aver promesso qualcosa da mettere sotto i denti ai cinque dell'Ave Maria. Ma risolse all’istante la dimenticanza ordinando il da farsi alla sua unica dipendente.
«Kvetuska, ci pensi tu?».
La ragazza era in bagno.
«Kvetuska! Ma dove cazzo è andata?».
Uscì in quello stesso istante.
«Fai cinque panini, per questi baldi giovani?».
La cameriera annuì.
«Cosa ci metto? Prosciutto e caprino?».
Rafael la squadrò malamente, dandole a intendere che non fosse il caso di chiedere altro. L’aveva addestrata per fare bene il suo lavoro senza fare troppe domande; peraltro non gli piaceva essere interrotto quando aveva qualche tarlo per la testa.
«Avete scoperto qualcosa?».
«Un bel po’ di cose interessanti», disse Teschio, impaziente di confidare all'amico le novità. «I Figli di Dionisio hanno la base proprio a Sesto, in una vecchia fabbrica della periferia. Nadia ci ha dato le indicazioni per raggiungere il posto. È a un tiro di schioppo da qui».
«Abbiamo anche appurato che chi ficca il naso nelle loro faccende non torna a casa vivo», disse Benzina, con il solito disgusto.
Rafael lo guardò divertito.
«Hai intenzione di tirarti indietro?», gli chiese.
«Figurati. Ma non sarà una passeggiata».
«Lo sappiamo», intervenne l'audace Giacinta.
«Non ci resta che andare a stanare la volpe nella sua tana», s’illuminò Teschio.
Rafael strabuzzò gli occhi, comprendendo il rischio della missione. E rendendosi conto di non essere in grado di suggerire una valida alternativa. Se volevano davvero indagare sull'omicidio di Slagena avevano una sola chance: risalire alla radice del problema, andando a scovarli nel loro buco. Restava da decidere il momento per entrare in azione, cercando di non fare troppi viaggi a vuoto.
«Quando?», domandò Rafael.
«Per quel che mi riguarda anche subito», disse Teschio.
Benzina saltò dalla sedia, incredulo.
«Forse sarebbe dapprima conveniente osservare i movimenti nei dintorni della fabbrica per capire in che modo si muovono i vari membri della setta... cercando di mettere in luce se c'è un giorno particolare in cui si ritrovano... non credo convenga essere precipitosi».
«Non serve», disse perentoriamente Nadia, azzerando qualunque tentativo di Benzina di procastinare la missione. «I Figli di Dionisio si trovano tutti i venerdì sera, dalle ventidue in poi».
Rafael la guardò stupito, sempre più colpito dal suo fascino.  

34.

Ci fu ben poco altro da aggiungere. Perfino Benzina incassò senza battere ciglio. Rafael e Teschio si squadrarono come amici di vecchia data, riflettendo sul fatto che ormai mancavano poco più di quarantotto ore alla fatidica entrata in azione. Davvero un’inezia. I loro sguardi erano intorpiditi dall’angoscia, non sapendo a quali conseguenze avrebbe potuto portare la loro iniziativa. Erano davvero sulla strada giusta? Non sarebbe stato meglio avvertire le forze dell’ordine? Furono sopraffatti da pensieri di questo tipo, valutando che le previsioni erano tutt’altro che rosee. C’era da farsela sotto.
Solo Giacinta e Radu, sostanzialmente inconsapevoli dei rischi che avrebbero potuto correre, per via della loro sana incoscienza giovanile, continuarono nel loro giocoso temporeggiare. Ripresero a stuzzicarsi con dei pezzetti di mollica che presero a infilarsi nelle orecchie.
Nadia fu la prima a lasciare il locale, sollecitata da un impellente bisogno di andare in bagno.
«Vi saluto ragazzi».
Benzina si alzò di scatto per tenderle la mano.
«Grazie di tutto».
«Grazie a voi... è stato bello conoscervi».
«Piacere nostro», andò avanti Benzina.
«Ora sapete dove abito... se avete bisogno...».
Alla donna luccicarono gli occhi, come chi sta partendo per un viaggio lontano. Fissò Teschio, forte di un sentimento che non riusciva ancora a mettere a fuoco, ma ribolliva, benché lo conoscesse  solo da poche ore.
«Grazie Nadia», disse Rafael.
Teschio la salutò con fare civettuolo, alludendo metafisicamente a un futuro incontro in condizioni meno disastrate.
«Ciao piccoli», fece Nadia rivolgendosi al duo più giovane. «Mi raccomando, tenete d’occhio questa mandria di scappati di casa. Il vostro spirito sarà determinante...».
Radu e Giacinta la salutarono dondolando pigramente la mano.
«Dunque?», riattaccò Benzina.
«Venerdì si parte...», disse Teschio.
«Verrai con noi?», chiese Benzina al padrone di casa.
«E chi mi tiene aperto il bar?».
Era una scusa: Rafael avrebbe fatto a meno di aggregarsi all’improvvisata comitiva, anche se si fosse trovato con le saracinesche abbassate per le festività natalizie. Si sentiva coinvolto dalla vicenda, ma di certo non al punto da rischiare di rimetterci le penne. Doveva essere stato lo stesso pensiero che aveva accarezzato Nadia, filandosela il prima possibile.
«Bene, possiamo congedarci...», disse Benzina.
Teschio annuì.
«Ok ragazzi?», disse rivolgendosi a Radu e Giacinta.
«Come rimaniamo d'accordo?», chiese la ragazza.
«Non ci resta che darci appuntamento per venerdì pomeriggio. Abbiamo davanti a noi un paio di giorni per rilassarci», disse Teschio.
«E dove ci troviamo?», domandò Radu.
Teschio rifletté per qualche secondo, non vedendo particolari problemi all'identificazione del luogo più idoneo per ricomporre la banda.
«Se per te va bene potremmo darci appuntamento al tuo camper, come al solito, subito dopo l'ora di cena...».
«Mi sembra perfetto», disse Giacinta. «Sei d'accordo, Radu?».
«Per me va benone».
Rideva ancora come una piccola iena, sempre più preso da un'avventura che non avrebbe mai immaginato, benché avesse preso il largo da uno dei peggiori dolori patiti in vita sua.
«Leviamo le tende, su», disse Benzina, sollevato di poter finalmente cambiare aria e tornare, seppur per poche ore, al suo solito tran tran.
«Addio ragazzi», disse Rafael, «io sono sempre qui, per ogni necessità...».
Benzina lo squadrò rabbiosamente: avrebbe voluto trovarsi al suo posto, libero dal terrore che lo attanagliava.
I quattro lasciarono il locale di Rafael con il sole ancora alto. La strada che correva di fronte al bar cominciò a riempirsi per il consueto via vai legato al rientro lavorativo. Un motorino truccato sfrecciò all’impazzata di fronte all’esercizio, suscitando l'ira di Benzina che gli alzò il dito medio e imprecò mentalmente. Radu e Giacinta risero sfrontatamente. Le nubi cariche di pioggia si estinsero, lasciando il posto alla solita afa che da giorni metteva a ferro e fuoco la città.
Si salutarono nei pressi del parco Gramsci.
«Allora ci vediamo al camper venerdì, dopo cena. Mi raccomando, non sparite», disse Teschio.
«Nemmeno per sogno» disse Giacinta. «Non vedo l'ora di scoprire dove si nascondono i farabutti che hanno ammazzato Slagena».
Teschio e Benzina procedettero verso la stazione, con un’andatura stanca e rassegnata. Radu e Giacinta individuarono uno spiazzo nell'area verde, dove si sdraiarono a prendere un po' di sole e a succhiare fili d'erba.

35.

Il risveglio dei due piccoli fu meno rocambolesco del giorno prima. Mancò la fretta di correre da Rafael per fargli sapere l'accaduto e capire se potesse fornire indicazioni utili. Aprirono gli occhi simultaneamente e si sorrisero scoprendosi di nuovo vicini.
«Ciao», disse Giacinta.
Radu la salutò con un'espressione gaia, saltando giù dal letto come un grillo.
«Che mangiamo stamattina di colazione?», chiese.
«Bella domanda. Mi sa che non abbiamo più nulla».
«Dici che Rafael ci regala un paio di brioche?».
«Penso di sì. Ma non ho voglia di tornare là. Oggi vorrei pensare ad altro...».
«Ad altro?».
«Preferirei stare lontano da tutto ciò che mi ricorda le ultime cose successe».
Radu si strofinò gli occhi e guardò fuori dal finestrino sopra la cucina, percependo una piacevole atmosfera. Gli tornò la gioia di vivere.
«È una bella giornata. Potremmo andare a farci un giro».
Giacinta lo osservò divertita. Scese dal letto e corse in bagno a fare pipì, senza preoccuparsi di chiudere la porta e tenere in serbo le sue intimità. Radu scorse una macchia scura in mezzo alle cosce dell'amica che lo fece sussultare. Ma non si fece troppe domande: cambiò posizione e tornò a fotografare il panorama al di là del cucinino, ripensando al da farsi.
Lo anticipò Giacinta, intenta a far scorrere l'acqua del water.  
«Potremmo passare da me a prendere qualcosa da mangiare. Di sicuro mia madre ha via qualcosa... poi potremmo prendere le bici e andare al canale».
«Quale canale?».
«Il Villoresi. È un po' lontano da qui. Ma possiamo divertirci. Non c'è nessuno che rompe, si può fare anche il bagno...».
«Quale canale?».
«È il canale più artificiale d'Italia».
«Ma chi ti dice certe scemenze?».
«Sai cosa vuol dire più artificiale?».
«Ma vaffanculo, va».
Risero entrambi, spalancando la porta del camper e correndo verso la roulotte di Giacinta. Vi arrivarono di corsa, sbuffando come le ciminiere di Dalmine. Non c'era nessuno. Supposero che la madre di Giacinta fosse in giro con qualche amica per cercare di raccattare qualcosa per rinfoltire la dispensa o per riempire di acqua le taniche. Capitava spesso che si assentasse per questi motivi durante la mattina, mentre il pomeriggio lo dedicava all’ozio. Trovarono tre brioche e qualche fetta biscottata, che divorarono con una fame da leoni.
«Per il pranzo ci pensiamo dopo», disse Giacinta.
La disponibilità delle biciclette sistemate nel retro del mezzo, protette da un muretto colorato dai muschi e dai licheni, incorniciò quel giorno benedetto da dio: erano una mountain bike che usava il papà di Giacinta, quando si spostava per Sesto e una bici da donna, con un seggiolino da poppante.
«Che te ne fai di questo?», domandò Radu.
«La bici è di mia madre. Dice che col seggiolino è più comoda per trasportare i sacchetti della spesa».
Partirono verso le undici. Il sole brillava caldo e spavaldo. Frotte di moscerini vorticavano nell’aria, seguendo rotte inconsulte. E c’era un bel po’ di traffico.
Fece strada Giacinta, che più volte d'estate era stata col padre al Villoresi, dove incontravano un tale di Cascina Fidelina, che trafficava merce rubata nei container del Mercatone Uno.
Radu s'avvide con risentimento che la sua bici non era molto comoda e che faceva più fatica del previsto.
«Puoi rallentare?», disse a Giacinta, dalle parti di Brugherio. «Questo catorcio è pesantissimo...».
«Non è il catorcio. Sei tu che sei un pappamolle», gridò l'amica.
Attraversarono vie che diventavano sempre più verdi, e sempre meno trafficate, impossessandosi degli stradari di Brugherio, Carugate, Caponago... A Radu parve il paradiso. Lui, di solito, con mamma si dirigeva verso Milano, verso la giungla di asfalto meneghina che nulla aveva a che vedere con le propaggini bucoliche della metropoli. Non aveva mai visto tanti alberi in vita sua e si sentì meravigliosamente bene.
«Non sei più stanco?», gli chiese Giacinta.
Radu nemmeno rispose. Spinse sui pedali come un forsennato e in corrispondenza di un'ansa del canale, ormai al confine con Pessano, superò la compagna facendole una linguaccia.
«Diavolo, vieni qui che ti uccido!».

36.

Decisero di accamparsi sotto un vecchio albero di noce, che con le sue ampie fronde ombreggiava un bel po’ di terreno, offrendo frescura e riparo. A pochi metri scorreva il Villoresi il cui livello, forse a causa della siccità, pareva un po’ più basso del solito: lo si notava dalla lunga linea scura colonizzata da vegetali primordiali che scorreva parallela una ventina di centimetri sopra la superficie delle acque. Giacinta, abituata a vivere simili esperienze, senza tante remore, si sfilò i pantaloni e scivolò lungo la sponda, del tutto indifferente alla seria ipotesi che si stesse accingendo a fare il bagno in litri di melma industriale.
«Vieni anche tu pappamolle! L'acqua è pulita!», gridò.
Radu la osservò come si scruta un animale mai visto, di cui non si conoscono bene le reazioni. Fu vinto da un sentimento vicino all’invida: lui non aveva mai avuto tanta confidenza con l'acqua, non sapeva nemmeno nuotare.
«Non me la sento».
«Non fare il cacasotto! Muovi il culo! Sbrigati!».
Giacinta si tappò il naso e sperimentò un'immersione, felice di mostrare all'amico quanto fosse abile fra le acque. Le cose, però, non andarono come si aspettava e finì per starnutire malamente. Radu le regalò una smorfia, sedendosi sul bordo del canale e lasciandosi accarezzare dai raggi del sole.
Giacinta si aggrappò alla base di un ponticello vicino, completamente arrugginito, e riguadagnò la riva. Si sedette al fianco di Radu strizzandosi i capelli e respirando profondamente: Radu si imbarazzò notando l'amica in mutande e con la maglietta appiccicata al seno che metteva così bene in risalto i capezzoli terribilmente turgidi. La ragazza sembrò non farci caso, tuttavia non desiderava altro che mostrare a Radu di essere ormai una donna a tutti gli effetti, con la quale, evidentemente, non bastava più andare solo in giro in bicicletta e sdraiarsi a indovinare la forma delle nuvole.
«Dici che da grandi ci sposeremo?», chiese Giacinta.
«Non so. Ma che domande fai?».
«Non so. Mi piacerebbe sposarti e fare un sacco di bambini».
«Perché proprio me».
«Perché tu mi piaci».
Radu sbigottì.
«Per ora non ci penso. Voglio pensare solo a fare l'acrobata».
«Sei già un acrobata».
«Non abbastanza».
«Pensa se ci sposiamo... faremo una festa fantastica... inviteremo un mucchio di gente...».
Radu tacque. Raccolse un sasso piatto e lo lanciò nel canale, facendolo saltare come un freesbee. Giacinta compì la stessa azione, rimettendosi i pantaloni. Passò una bottiglietta di latte di plastica, sulla quale si avventarono:
«Se la colpiamo vorrà dire che ci sposiamo, sennò niente», disse Giacinta.
«Non mi piacciono i tuoi giochi».
Il tiro di Giacinta andò a vuoto, ma non quello di Radu.
«Hai visto?», esultò la ragazza, strattonando l'amico.
Radu sorrise.  
«Ma vaffanculo, va».
Alzandosi, presero a rincorrersi come due farfalle in amore, muovendosi a scatti e saltando impavidi da un fosso all’altro.
«Se ti prendo ti butto nel canale!», urlò Giacinta.
«Prima mi devi prendere!».
Finirono nei pressi di una cascina mezzo abbandonata, lungo un sentiero ben tracciato che conduceva a Pessano. Vinsero l’ingresso di un cortile disastrato, con molte porte sigillate da pesanti assi di legno e un paio di auto parcheggiate senza criterio.
«Hai visto anche tu?», domandò Giacinta.
«Eccome».
Sul davanzale di una finestra protetta da vivaci tendine rossastre, avevano sistemato una torta. Per i due sinti fu come un invito a nozze.
«Vai tu o vado io?», disse Giacinta.
«Io sono più veloce».
Radu partì come un missile e con uno scatto rapidissimo fece suo il dolce che profumava di latte e canditi. Giacinta lo guardò trasognante.
«Evviva!», esultò.
Non ci fu nessuno a interrompere la loro corsa che si risolse dopo un chilometro di distanza dai caseggiati fatiscenti. Ripresero fiato e smisero di guardarsi alle spalle:
«Bel colpo amico mio», disse Giacinta.
«Bel colpo amica mia. Per oggi siamo a posto».
Si sedettero sotto il noce e cominciarono a mangiare con grande foga.

37.

«Non ho mai mangiato una torta così buona», disse Radu, leccandosi i baffi.
«Idem».
«Come?».
«Anche per me è lo stesso».
«È buonissima».
Giacinta era ancora troppo presa a gestire la sua insaziabile fame per poter dar retta come avrebbe voluto all’amico.
«Bello questo posto».
Percependo l’assenza dell’amica, Radu si spazientì.
«Oh, ma mi stai a sentire?».
«Sapevo che ti sarebbe piaciuto».
«Veniamo ancora?».
A Giacinta andarono di traverso delle briciole e tossì come una tabagista di Ankara.
«Perché no? Basta che ti decidi a fare un bagno...».
«Non me la sento. Te l'ho già detto».
Giacinta rise, accaparrandosi un’altra porzione di dolce. Radu si alzò per andare a fare pipì.
«Fatto tutto?», gli chiese Giacinta con fare civettuolo.
«Cazzi miei», le rispose Radu, arrossendo.
«E questa?», disse Giacinta, riferendosi alla torta rimasta.
«La finiamo stasera. O ce la teniamo per domani mattina a colazione. Così ci facciamo una colazione coi fiocchi».
«Dovremmo, però, andare a ringraziare la signora che l'ha fatta...».
Radu sogghignò.
«Dovremmo almeno andarle a chiedere la ricetta».
Si sdraiarono uno accanto all'altro e chiusero gli occhi. Radu ripensò alla mamma appena scomparsa e per la prima volta dall'incidente riuscì a domare con successo l’angoscia. Le parlò col cuore in mano, convinto che dalle nuvole potesse ascoltarlo, in compagnia del papà e del nonno. Le disse di non preoccuparsi che nonostante la sua lontananza, in qualche modo, se la sarebbe cavata. Le raccontò della bella giornata che stava vivendo, confidandole di non avere mai visitato posti così belli, dove il cielo sembrava senza fine e il verde una macchia immensa di paradiso. Le chiese perché non c'erano mai andati insieme. Ma mamma non rispose.
Giacinta? Oddio. La mamma gli stava chiedendo di Giacinta... E, seppure mentalmente, Radu si ritrovò impacciato. Recuperò il coraggio per confidarle che con lei si trovava benissimo, benché non fosse l'unica che gli avesse fatto compagnia fino a quel momento: c'erano anche Teschio e Benzina, i due amici del bar di Rafael, che anche lei conosceva. Fu evidente il suo tentativo di deviare il discorso. Ma non poté andare avanti con la sua messinscena perché, all'improvviso, si ritrovò bagnato fradicio dalla testa i piedi, per colpa di una secchiata proveniente dall'alto. Era stata Giacinta, che aveva recuperato un contenitore marcescente nei pressi del ponticello: l’ideale per il diabolico scherzo che andava tramando.   
Radu si alzò di scatto. Rise come un matto e si mise a rincorrere l'amica. La catturò con un vero e proprio placcaggio in mezzo a un prato di erba medica che era stato appena falciato. La immobilizzò, schiena a terra, bloccandole le braccia e il bacino. Giacinta sapeva che le sarebbe bastato insistere un po' sugli avambracci per divincolarsi senza problemi dalla presa dell'amico, tuttavia lo lasciò fare, galvanizzata dall’iniziativa del compagno.
«Se ci provi ancora ti ammazzo, hai capito!», gridò Radu, ridendo felice.
«No, no, te lo giuro, non lo rifarò mai più... te lo giuro».
Radu fece finta di far cadere un po' di saliva sulla faccia di Giacinta, a mo’ di un filamentoso chew-in-gum vittima della forza di gravità, gioco che faceva spesso con qualche amico di scorribande. Lei si mise a urlare come una disperata.
«No! Questo no! Ti prego!».
«E invece sì, così impari».
Un filo di saliva arrivò a una ventina di centimetri dalla faccia della giovane, ma la viscosità del liquido consentì al ragazzo di risucchiare lo sputo, rasserenando l'animo di Giacinta che, però, arrivata fin qui, non fu più disposta a farsi torturare.
«Adesso basta».
Fece forza sul braccio destro e catapultò Radu oltre il suo stomaco, impedendogli di reagire con la pianta del piede, pronta a parare qualsiasi colpo. Corse verso il canale, si tolse di nuovo i calzoni e scivolò nell'acqua con la solita disinvoltura, liberandosi definitivamente dalle grinfie del piccolo.  
«Prendimi adesso se riesci!», gridò, mentre Radu si rialzava, con la rassegnazione dello sconfitto, dal campo di battaglia.

38.

Rimontarono in sella con il cielo che cominciava a rosseggiare e le nuvole che disegnavano una cornice ovoidale lungo l’immane orizzonte. Transitò un contadino con le bretelle colorate, un paio di pantaloni larghi e dei sandali da battaglia, a bordo di una bici dell’anteguerra con un cestello pieno di verdura: li squadrò malamente, mostrando tutta la sua insofferenza nei confronti degli zingari, che avrebbe riconosciuto lontano un miglio.
I due sinti gli fecero una boccaccia sbalordita. L'uomo non seppe come reagire: imprecò, mormorando qualcosa in dialetto, che Radu e Giacinta non compresero. Ma erano abituati a sentire qualcuno inveire nei loro confronti e a essere giudicati dei cittadini di serie b. Ormai non ci facevano più caso. Tuttavia non disdegnavano l’opportunità di far valere le loro ragioni, ribellandosi allo scocciatore di turno con qualche colorita espressione:
«Fanculo vecchio», disse Giacinta.
«Sparisci lebbra», disse Radu.
Tornarono alla loro torta. C'erano ancora almeno quattro porzioni, una delle quali era stata presa d'assalto da una decina di formiche voraci.
«Che schifo», disse Giacinta.
Radu le sterminò in pochi secondi.
«M'è tornata la fame».
«Idem».
«Mangerò mentre andiamo in bici».
«Dammene una anche a me».
Dopo poche pedalate, però, si resero conto che non fosse per niente facile pedalare mangiando; si fermarono, pertanto, a masticare con calma, tallonati da un minaccioso stormo di cornacchie, accampate fra i rami di un gigantesco albero rinsecchito.
«Starai ancora da me?», chiese Radu.
«Certo, te l'ho già detto».
«Non dirai niente a tua madre?».
«Glielo dirò».
«Quando?».
«Per ora non serve. È abituata ai miei vagabondaggi».
Radu scosse la testa.
«Ho provato a stare via una settimana senza avvertirla... non credo di mancarle».
«Dove?».
«Cosa dove?».
«Dove sei stata?».
«Sono stata in giro, non mi chiedere dove. Avevo voglia di farmi i fatti miei. A te non capita mai di volerti fare i fatti tuoi?».
«Io mi faccio sempre i fatti miei».
Giacinta gli sorrise, fingendo di pigiare sui pedali per dargli spago.
«Hai voglia di fare una gara?».
«Non credo».
«Pappamolle».
«Comincio a essere stanca».
Finirono la torta e ripresero a pedalare, disponendosi uno di fianco all'altro e raggiungendo in men che non si dica, il tratto di sterrato che divideva il sentiero che costeggiava il Villoresi, dal provinciale che collegava al sestese. Benché fossero già passate le otto di sera, il traffico era ancora piuttosto sostenuto.
Si sentirono a logo agio riprendendo la strada maestra e lasciandosi alle spalle le vie campestri. L’asfalto e l'odore di smog erano il loro pane quotidiano: nonostante il fascino agreste, solo nel ventre della città avrebbero vissuto comodamente.
Con il restringimento della carreggiata, Giacinta guadagnò la testa del duo, preoccupata dal rischio di finire falciata. Un auto squillò il clacson, più per spaventare i due sinti che non per una reale necessità. Giacinta sporse il dito medio. Radu rise divertito. La raggiunse poco prima del cartello indicante l'entrata in Brugherio, con l'arteria stradale che riprendeva il suo tracciato normale.  
«Hai paura per domani?», le chiese Radu.
Giacinta temporeggiò.
«Non lo so».
«Io no».
«Perché non sai a cosa stiamo andando incontro...».
«Lo so benissimo... ma a me i Figlio di Dionisio non fanno paura. Li ucciderei uno a uno con le mie mani».
Giacinta dondolò la testa verificando che, pur di vendicare la mamma, Radu sarebbe stato disposto a dare la vita.
«Ti capisco. Ammiro il tuo coraggio».
«Domani vedremo come andrà».
«Benzina, per me, se la fa sotto».
Risero.
«Benzina parla, parla, ma poi quando c'è da muovere il culo... è peggio di una femminuccia», disse Giacinta.
«Se, però, farà il pieno di carburante...».
La ragazza si congedò dalla conversazione con una grassa risata, con le ombre della notte ormai imminenti. Radu capì di essere vicino a casa quando intravide la grossa insegna luminosa del Vulcano. Entrambi avevano le guance incandescenti.

39.

Con i muscoli dolenti e una sete da beduino sperso fra le colline del Sahara, sistemarono le biciclette nel retro del camper.
«Sto morendo di sete», disse Giacinta.
«A chi lo dici», disse Radu.
«Hai qualcosa di fresco?».
«Mamma, il giorno prima di morire, mi aveva comprato la Coca Cola. Credo che nessuno l'abbia ancora bevuta».
Giacinta godette all'idea di poter tracannare a volontà la bibita, che rare volte le capitava di assaggiare e percepire il brivido delle bollicine.
Radu aprì la porticina del camper, scorgendone alla base un foglietto che aveva tutta l'aria di non essere capitato lì per caso. Lo raccolse e lo porse a Giacinta.
«Tu ci capisci qualcosa?».
Non era una bella calligrafia, ma si capiva che apparteneva a un adulto. Era una frase riportata su un foglietto strappato, verosimilmente, da un bloc-notes. Giacinta lo lesse con calma.
«Siete sulla buona strada. Ci vediamo presto».
Non c'era la firma. Giacinta allargò gli occhi colma di meraviglia.
«È un messaggio segreto».
Radu la fissò stupito.
«Cosa significa?».
«Credo che qualcuno stia seguendo le nostre mosse...».
«Non mi sembra una bella notizia. Preferirei che gli altri si facessero i cazzi propri».
Giacinta fu di diverso avviso, ritenendo quel biglietto una specie di buon augurio, lasciato da una sorta di benefattore. Avrebbe voluto correre a dirlo a Teschio e a Benzina, ma non avendo la più pallida idea di dove si trovassero, desistette dal suo proposito, concentrando le sue attenzioni su Radu.
«Non capisci? Significa che non siamo soli...».
«Magari l'hanno messo Teschio e Benzina».
«Che senso avrebbe?».
«Non lo so».
«Faresti meglio a tacere, piuttosto di sparare minchiate. Questo è il chiaro segno che siamo sulla buona strada».
Radu non diede lo stesso peso al biglietto: nel giro di pochi minuti la sua mente fu altrove. Si levò le scarpe, si sdraiò, desideroso solo di poter riposare il più a lungo possibile.
Si scoprì meravigliosamente sereno, ma la lunga giornata di sole e la biciclettata, gli avevano procurato una violenta sonnolenza. Chiuse gli occhi e per la prima volta s’accorse di poter sopportare senza problemi il dolore della perdita della mamma. Percepì una sensazione di grande sollievo. Sentì, in qualche modo, che stava per rinascere, che stava ritornando a nuova vita.
Rifletté altresì sul fatto che rare volte gli era capitato di divertirsi così tanto con qualcuno. I suoi dolci pensieri, però, furono presto interrotti da Giacinta che, storcendo il naso, dette l’impressione di sentirsi male, per via della puzza di formaggio sprigionata dai suoi piedi devastati dai batteri.
«Vuoi andare a letto con quelle zampe puzzolenti?».
Radu spalancò gli occhi, strappato a forza dal suo sonnambulismo.
«Come?».
«Se dobbiamo vivere insieme, forse è il caso che ti dia una regolata... ».
«Che dici?».
«Vatti a lavare!».
Radu balzò giù dal letto e strinse il collo dell'amica con un bracciata vigorosa. Non voleva farle male, ma sentì la necessità di mostrarle che era lui a comandare. E che avrebbe fatto quello che voleva.
«Cosa stai dicendo?».
«Hai capito bene».
«Vuoi che ti torturi ancora?».
Giacinta lo ammonì, alludendo a un aspetto della fisiologia umana, ancora piuttosto oscuro per Radu. 
«Smettila pivello... smettila che non ti tira neanche».
Il ragazzino si abbandonò a un'espressione affranta. Non capiva proprio quale fosse il senso compiuto dell’ultima affermazione dell’amica, benché intuisse che ci fosse di mezzo qualche rimando di natura sessuale, di cui ancora non comprendeva significato e importanza.
«Mi tira, eccome».
Giacinta rise sguaiatamente.
«Sei proprio un pivello».
Radu lasciò perdere e scese dal camper per travasare un po' di acqua nel catino. Si sedette sull’appoggia piedi del camper e cominciò a sciacquarsi gli arti. Giacinta sporse la testa dalla finestrella sopra il lavandino, compiacendosi della sua risolutezza.

40.

Si sdraiarono uno di fianco all'altro, anestetizzati dalla solita luce fioca che filtrava dalle tendine abbassate delle finestrelle del camper. Faceva caldo e non ci fu bisogno del lenzuolo. Entrambi indossavano la maglietta con cui avevano trascorso la giornata e gli slip. Su quella del ragazzo c'erano ancora le macchie provocate dalle briciole della torta, impiastratesi sul tessuto dopo aver cercato di toglierle con una manata. Radu perse il sonno, eccitato dall'idea di poter riposare, per la seconda volta, accanto all'amica di sempre, con la quale, di fatto, stava per iniziare una nuova vita: nel punto in cui fino a poche ore prima aveva dormito con mamma, ora c'era lei, con tutta la sua esuberanza e voglia di vivere.
Anche Giacinta era su di giri. E non riuscì a chiudere occhio. Le ultime vicissitudini sembravano un lontano ricordo, come se fossero appartenute a un'altra vita. Giacinta lo sfiorò con una mano, apparentemente senza motivo. In realtà desiderava instaurare un contatto fisico che Radu non fu in grado di razionalizzare.   
«Vuoi vedere le mie tette?», domandò a bruciapelo.
Radu fece finta di niente.
«Mi hai sentito?».
«Sì».
«Allora?».
Radu non seppe cosa rispondere, ma alla fine fu lieto di poter indagare il mondo misterioso che l’amica serbava sotto quello strano indumento femminile chiamato reggiseno.
«Va bene, fammele vedere».
Giacinta si voltò verso l'amico, alzando fieramente la maglietta e tutto il resto, mostrando i suoi gioielli nel loro massimo splendore adolescenziale. Radu non poté rimanere indifferente a tutto quel ben di dio, ma si volle mostrare integerrimo e risoluto, come se non ci fosse assolutamente nulla di che scandalizzarsi e rabbrividire. Si avvicinò ulteriormente al seno dell'amica, dando l'idea di analizzare un reperto forense, o le caratteristiche mineralogiche di una roccia, e mugugnò qualcosa di incomprensibile, arrossendo di colpo.  
«Che hai detto?».
«Niente».
Giacinta rimase con il seno all'aria per un paio di minuti, convinta di riuscire a sollecitare la curiosità e la morbosità del piccolo di casa. Radu, però, riacquisendo la posizione originaria, comunicò all'amica di non nutrire più alcun interesse per quel corpo da donna. Un corpo così diverso dal suo, adulto, pronto per assecondare voglie che lui ancora non comprendeva... ma non era del tutto vero.
Stava, di fatto, mettendo in relazione quel che aveva appena osservato con piglio investigativo, con le bocce della madre. Erano tutto un altro mondo. Il seno di mamma era flaccido e cadente, con i capezzoli grandi e sformati, quello di Giacinta era sodo, ben disegnato, vigoroso, con due punte arrossate che parevano le appendici di un mitra pronto a far fuoco. L’anatomia materna delle alte vie tessutali che riflettevano l’area sternale, non gli diceva niente; quella di Giacinta, al contrario, gli aveva procurato un pedissequo sussulto interiore, che non avrebbe saputo descrivere. Una specie di geyser metafisico gli ribolliva nell'animo, ma non avrebbe mai saputo concettualizzare tanto livore: erano sensazioni che non aveva mai provato e che gli provocavano una sensazione fisica vicina al formicolio, ma dal tiro molto, molto più eccitante. Il disagio proseguì, quando Giacinta prese a solleticargli i piedi.
«Mi fai il solletico, la vuoi smettere?».
«Sai cosa vuol dire fare piedino?».
Radu tacque.
«Si vede che sei proprio un pivello».
«Sarai tu una...».
«I grandi fanno così quando stanno per fare l'amore. Si accarezzano piano, piano, e poi... scopano».
L'imbarazzo di Radu crebbe a dismisura, non capendo dove l'amica volesse andare a parare.
«Non mi piacciono i tuoi discorsi».
Giacinta rise e prese a fargli il solletico.
«La vuoi piantare? Smettila e lasciami dormire».
Il lamento di Radu fu così persuasivo che Giacinta non se la sentì di proseguire con le sue pantomime. Abbandonò la morsa, constatando che, per certe cose, Radu fosse ancora profondamente immaturo. Si girarono schiena contro schiena e nel giro di dieci minuti precipitarono in un sonno profondo.

Nessun commento:

Posta un commento