icona dell'underground...
lunedì 30 luglio 2012
domenica 29 luglio 2012
Live!
prima del concerto alla morosina
con il tecnico a un passo
e il batterista a un altro
e mauro beretta che richiama in vita i morti
e la geologia di pastina
e il cielo estivo bluastro, nerastro, rossastro
vicine sedie blu
giovedì 26 luglio 2012
Umori stravaganti
«Forse sono un uomo di umore stravagante. Non so fino a che punto ciò che provo sia condiviso da altri. A volte soffro del più strano senso di distacco da me stesso e dal mondo che mi circonda; mi sembra di osservare tutto dall'esterno, da un punto inconcepibilmente remoto, fuori dal tempo e dallo spazio, fuori della tragica tensione di tutto».
Herbert George Wells, La guerra dei mondi
mercoledì 25 luglio 2012
les vaches
le guitariste
archives
chanson
Paris
chansons
Boris Vian
Triple-Alliance
observer les étoiles
en regardant les vaches
passer
archives
chanson
Paris
chansons
Boris Vian
Triple-Alliance
observer les étoiles
en regardant les vaches
passer
martedì 24 luglio 2012
Rapsodia gitana # 8
71.
«Via libera», disse Radu.
«Aspetta», ordinò Teschio.
«Lasciamo che se ne vadano del tutto…».
Radu non stava più nella pelle: ancora
una volta, forte della tipica impazienza giovanile, e dell'ardore che lo
consumava legato alla speranza di poter presto rivendicare la mamma, avrebbe
voluto forzare i tempi per risolvere definitivamente il caso.
«Dobbiamo muoverci».
Teschio lo guardò divertito,
trovandolo per un istante più grande e maturo della sua età. Pensò che non gli
sarebbe dispiaciuto se fosse stato suo figlio. Avrebbe, infatti, sotto sotto, desiderato
un figlio, ma il destino, evidentemente, non era stato dello stesso avviso:
l'ultima storia importante, degna di poter creare i presupposti per una prole,
l'aveva avuta dieci anni prima con una donna che, senza preavviso, l'aveva
lasciato per un dirigente dell'Esselunga, divorziato con già due pargoli da
mantenere. Da allora non ne aveva più voluto sapere di relazioni serie.
Nonostante le apparenze da macho
che non deve chiedere mai, era un sentimentale, un romantico; una persona
contraddistinta da sentimenti profondi, che se venivano disillusi, la portavano
a chiudersi a riccio e a soffrire come un leone costretto a morire dietro alle
sbarre di uno zoo cittadino, intriso di smog e umidità. Era fatto così. Di
tanto in tanto si concedeva qualche donnetta senza troppe pretese, ma badava
bene di non farsi coinvolgere troppo sul piano emotivo. Erano storie da una
notte e via, per nulla struggenti, tristemente meccaniche, come meccanico è un
qualunque gesto che si compie senza pensare, tipo timbrare il biglietto della
metropolitana.
Razionalizzava lo squallore di
certe situazioni, ma alla fine si convinceva che gli andava bene così. Sicché,
negli ultimi tempi, solo una donna era riuscita a stimolarlo un po’ più del
normale, ridandogli quel sapore di conquista che aveva perduto da millenni:
Nadia. Proprio lei, la moglie di Cinghiale... non l'avrebbe mai potuto
immaginare che in questa storia assurda ci potesse anche essere spazio per un
vivido e onnisciente scombussolamento del cuore. E invece...
Pensò a lei anche mentre si
accingeva a conquistare la roulotte di Aicha, con il suo beniamino; e più
passavano le ore da quel felice primo incontro in casa Schilef, dopo la sortita
di Rafael, più percepiva il suo animo sussultare. Ora, poi, che aveva trovato
perfino il coraggio di invitarla fuori, si sentiva al settimo cielo, riuscendo
a vedere le cose con un ottimismo esagerato.
«Sei pronto?», domandò a Radu.
«Lo sono da un pezzo».
«Però conviene organizzarci un
attimo…».
Sul volto di Radu si materializzò
un gigantesco punto interrogativo.
Teschio tentò di
tranquillizzarlo.
«Tu farai il palo, mentre io,
nella roulotte, cercherò prove dell'assassinio di tua madre…».
Il piccolo parve contrariato.
«Voglio essere io a scoprire chi
ha ucciso mia madre».
«Sarai, infatti, tu a scoprirlo.
Ma per prima cosa è indispensabile non farci beccare…».
«Cosa vuoi dire?».
«Io m'intrufolo nella roulotte e
tu vai avanti e indietro lungo il marciapiede, come una sentinella, con fare
disinteressato, avvertendomi se dovessi vedere qualcuno puntare da queste parti.
Nessuno può farlo meglio di te...».
«Scuse. Voglio salire anch'io
sulla roulotte».
Teschio s'indispose.
«Radu, non fare il bambino
dell'asilo. Per portare a termine con successo una missione è necessario essere
compatti e…».
Radu non insistette.
«Va bene, facciamo come vuoi.
Basta che ci muoviamo».
Con fare circospetto lasciarono
la radura del parco e si portarono sulla ciclabile che affiancava la roulotte
di Aicha. Passò a gran velocità un tipo con un casco mastodontico e un paio di
pantaloncini da hawaiano; Teschio lo mandò mentalmente a quel paese.
Di fronte all'ingresso della
roulotte, i due detective si regalarono un gesto di intesa con gli occhi,
dopodichè il più anziano si avvicinò scaltramente all’abitazione rom, facendo
forza sulla serratura con una specie di chiavistello. Radu gli fece cenno di sì
col capo: la via era libera e si poteva procedere con l'ispezione.
72.
Le cose sull'altro fronte
andarono, invece, un po’ più a rilento; ma quando Benzina terminò con
l'operazione di pulizia, con Giacinta a pochi centimetri nauseata dal tanfo
opprimente delle feci canine impiastrate sotto la suola dell'amico, si sentì
Fatima ruotare la serratura della porta del camper e uscire con in mano due
voluminosi sacchetti di iuta. Non fu possibile intuire ciò che potessero
nascondere, tuttavia i due che la osservavano a sua insaputa, compresero che la
donna stesse per lasciare la roulotte, in barba ai suoi buoni propositi di
preparare un succulento piatto tradizionale.
Benzina fu sopraffatto da una
scena horror, con la donna che s’incamminava per liberarsi dei brandelli di
qualche nemico fatto a pezzi la sera prima con una mannaia. Controllò il fondo delle
sacche per vedere se colavano gocce di sangue. Da qualche giorno, di fatto, era
vittima di disegni onirici lugubri e pesti di questo tipo, sortilegi che lo
lasciavano con l'amaro in bocca, incredulo di fronte alla capacità della sua
mente di elaborare simili romanzate, degne del miglior esordio alla Edgar Allan
Poe.
Si rallegrarono, in ogni caso,
all'idea che avrebbero presto avuto modo di passare al setaccio la casa
ambulante, senza pericoli. Giacinta regalò all'amico un sorriso privo di ogni
rancore, mandandolo in sollucchero: anche per loro era ufficialmente via
libera.
«Forza», disse Benzina.
Uscirono allo scoperto,
sincerandosi che Fatima si fosse finalmente dileguata. La strada era stracolma
di mezzi che andavano e venivano, ma non ci fu il rischio di essere colti in
fragrante: l'uscio della roulotte dava, infatti, sul marciapiedi, stretto fra
la ciclabile e l'area verde destinata ai quattrozampe, dove il traffico era
meno imponente.
Giacinta si appoggiò alla rete
della zona cani, e si guardò intorno con grande attenzione. Lasciò passare una
mamma in compagnia del proprio piccolo nel passeggino, dopodichè fece cenno a
Benzina che poteva entrare in azione. L'uomo si avvicinò al camper con una
leggiadria da ippopotamo imbolsito, e cercò di fare leva sulla serratura,
impugnando uno strumento analogo a quello di Teschio, ma non ottenendo lo
stesso risultato: del resto era la prima volta che cercava di violare
l'ingranaggio di una porta, a mo' di uno dei tanti esperti scassinatori visti e
rivisti al cinema o in tv. Vedendolo in difficoltà, Giacinta dondolò la testa
sconsolata. Gli si avvicinò con garbo:
«Che succede?».
«Non riesco a far girare la
serratura».
«Sei una sega. Dai a me».
La ragazza si mise a trafficare
con il punteruolo e in meno di cinque minuti fu un in grado di vincere la
soglia dell'abitazione di Fatima. Fu sopraffatta dall'odore pungente di una
spezia indefinita, che più volte, però, aveva respirato venendo a contatto con
qualche famiglia rom. Le ricordava quand'era piccola, piccola, e con mamma e
papà andavano a fare visita a una famiglia sinti che abitava dalle parti di
Cinisello. Ogni volta che salivano a bordo del loro camper, era come fare un
salto in un paese lontano, esotico, forse proprio nell'India dell'undicesimo
secolo, da dove l'etnia che li rappresentava aveva iniziato il suo lungo e
rocambolesco pellegrinaggio.
Giacinta non sapeva quasi nulla
delle origini del suo popolo, ma più volte s'era soffermata sulla sua pelle più
scura, ambrata, in antitesi con i colori pallidi dei ragazzi della sua età che
vedeva correre per le strade di Sesto San Giovanni. Capiva che era diversa
dagli altri non solo per il fatto di vivere in un roulotte e di non avere altro
da fare che industriarsi per poter involare qualcosa di nuovo e bello in
qualche negozio o abitazione, ma anche, appunto, per una carnagione che non
trovava degna corrispondenza fra le tante persone che la circondavano. Si voltò
per guardare Benzina. L'uomo le indicò di iniziare a perlustrare.
A Giacinta cominciò a battere
forte il cuore.
73.
Teschio trovò una roulotte
disordinatissima, con panni sporchi da tutte le parti, e stoviglie piene di
pezzi avanzati di cibo. E un odore nauseabondo. Anche il caldo la diceva lunga.
Si respirava a fatica, un po’ come era accaduto nella roulotte di Radu
all'indomani dell'omicidio di Slagena. Non ebbe modo di muoversi con grande
agilità, in mezzo a tutto quel putiferio, ma con coraggio si mise in testa di sindacare
con accortezza maniacale ogni angolo della casa ambulante. Partì dal cucinino.
Spostò il lerciume dei piatti per indagare lo stato delle posate, e magari
riscontrare la presenza di un coltello sospetto. Ma non trovò nulla di tutto
ciò. Erano semplici e comuni forchette e cucchiai, alcuni con ancora
appiccicati chicchi di riso. Subì un conato di vomito, ma proseguì con
stoicismo per la sua strada. Osservò un bicchiere mezzo pieno di vino
puzzolente. Si chiese come si potesse vivere in un simile immondezzaio. Anche
lui non era un campione di pulizia e igiene, ma qui, davvero, constatò che
fosse peggio che trovarsi in una porcilaia. Un posto ideale per una dimora
animale, non umana. Ma tant'è. S'avvide che evidentemente non tutti dovessero
vivere la sporcizia e il disordine allo stesso modo. Forse, in certi casi, per
alcuni astrusi paradigmi esistenziali, anche il caos più assoluto poteva essere
contemplato come un sorriso gaudente. Non andò comunque avanti a elucubrare più
di tanto e passò a indagare le secrete del cucinino. C'era la spazzatura colma,
con lo strato superiore dei rifiuti completamente coperto da bucce nerastre di
banana, che contribuivano pesantemente a rendere ancora più micidiale l'odore
stantio del camper.
«Hei!».
Radu non stava più nella pelle.
Si avvicinò alla porticina, richiamando l'attenzione del grande capo. Teschio
barcollò.
«Che fai lì? Torna al tuo posto».
«Volevo sapere…».
«Torna al tuo posto! Se arriva
qualcuno stiamo freschi! Muoviti!».
Era un ordine al quale Radu non
poté non obbedire. Con il cuore in gola e la consapevolezza di avere fatto una stupidata,
tornò a passeggiare lungo il marciapiede, sincerandosi che non ci fossero rom
nei dintorni. Sospirò, quando s'accorse che era tutto sotto controllo. Passò un
pensionato al quale sorrise astutamente. L’uomo, colpito dalla trasandatezza
del piccolo, lo rimproverò con una smorfia.
«Sparisci merda», bofonchiò il
ragazzino.
Teschio, intanto, con
un'agitazione che gli corrompeva sempre più l'animo, continuava a cercare.
Giunse al letto. C'erano quattro cuscini, uno sopra all'altro e un lenzuolo
sudicio, pieno di briciole e peli. Provò un altro conato di vomito, pensando a
quel che dovesse essere accaduto di recente in quell'alcova.
«Che schifo», sibilò, finendo con
lo sguardo ai piedi del mobiletto che affiancava il giaciglio di Aicha.
Individuò un mucchio di vestiti
gettati alla rinfusa, coperti da un piccolo cesto di vimini. Lo tolse e si mise
a rovistare fra i panni sporchi. Fu colto da un brivido gelido, quando notò un
fazzoletto macchiato di sangue. Lo studiò con particolare attenzione, cercando
di capire quale fosse la sua provenienza. Sembrava un fazzoletto comune,
femminile, con il bordino disegnato da piccoli ricami. Non seppe dargli una
spiegazione; sarebbe potuto essere il sangue di chiunque, pensò all'epistassi
di uno dei figli di Aicha... Non c'era motivo di credere che dovesse essere
quello di Slagena… Troppo avventata e ottimistica come supposizione. Ma i dubbi
crollarono definitivamente quando scorse, nel punto più basso del montone di
abiti, una camicetta da donna con un frammento di manica pesantemente impregnata
di liquido ematico. Qualcosa non tornava.
74.
Teschio la fissò con grande
coinvolgimento, riflettendo sul fatto che potesse benissimo essere una
camicetta di Aicha. Quello che però non tornava era come potesse essersi macchiata
in quel modo. Non era il segno di una banale ferita: il sangue, infatti, pareva
assai copioso, corposo, e colorava gran parte del vestito. Quel che doveva aver
provocato quel disastro poteva essere stato solo un taglio profondo, una
lesione ben più importante di una banale perdita di sangue dal naso o di un
ematoma provocato da una caduta accidentale. Gli si accese una lampadina in
testa e per la prima volta azzardò che potesse, dunque, essere proprio quella
la prova dell'assassinio di Slagena. Solo una violenta accoltellata poteva, di
fatto, spiegare quello scempio impresso sulla camicetta come un’immagine su una
lastra fotografica.
Tuttavia si sorprese pensando ad Aicha
e alla sua scarsa intelligenza; tutti sanno, infatti, che la prima cosa da fare
quando si commette volutamente un omicidio, è far sparire completamente le
tracce. Perché lei non l'aveva fatto? Perché il marito non le aveva dato
consigli a riguardo? E se il marito fosse ancora all'oscuro di tutto? E' vero,
il montone di vestiti pareva sorto apposta per nascondere l'indumento più
compromettente… ma ci sarebbero stati mille altri modi ben più efficaci per far
sparire la prova di un assassinio; senza andare tanto lontani, i dintorni della
stazione erano pieni di angoli remoti, dove rifilare qualunque cosa
pregiudizievole. Teschio fu di nuovo preda della desolazione. E tornò a pensare
che quel sangue non fosse quello di Slagena, ma di chissà chi…
Pensò alle galline che aveva
visto sgozzare da sua nonna quand'era piccino. Aveva visto litri di sangue
andando a trovare i nonni in campagna. Se lo ricordava come fosse ieri. La
nonna afferrava i pennuti con le sue possenti manone e gli tranciava il collo
con un taglio netto o un'incisione profonda. In pochi secondi si rovesciavano
al suolo cascate di rosso vivo. Non era un bello spettacolo. Ma è così che
facevano i contadini dalla notte dei tempi. S'immaginò, dunque, che anche Aicha
avesse potuto far fuori un pollo da qualche parte, per poi ritrovarsi col
vestito completamente impiastrato. Guardò più da vicino la camicetta, per
capire se fosse possibile distinguere a una sola occhiata il sangue umano da
quello di un uccello. Ma ci rise sopra scoprendosi di fronte a un'impresa a dir
poco insormontabile. Si sarebbe seduto sul letto se non fosse che, ancora con
l'indumento di Aicha fra le mani, notò una specie di adesivo appiccicato, in
mezzo ad altri di difficile interpretazione, alla porticina del bagno.
Si avvicinò con curiosità e notò
che riprendeva in tutto e per tutto l'effige presente sulla medaglietta
scoperta nei pressi della roulotte di Radu. L'agitazione lo pervase: era il
simbolo dei Dionisio. Deglutì con un'ansia parossistica e, dopo aver mollato la
camicetta incriminata in cima al provvidenziale montone di vestiti, saltò
all'esterno per richiamare l'attenzione di Radu. Il piccolo si guardò intorno
come un furetto, prima di catapultarsi al servizio del grande capo.
«Che c'è?», domandò, mostrandogli
un'esagerata riverenza.
«Sali un attimo», disse Teschio.
«Ma…».
«Non fiatare e datti una mossa».
Teschio, con un cenno nervoso del
mento, indicò a Radu l'adesivo incollato all'uscio del wc. E non fu necessario
porgli domande in merito alla sua autenticità.
«Puttana, puttana… questo è il
marchio dei Dionisio».
Teschio lo guardò, fra l'eccitazione
e lo sconvolgimento.
«Nessun dubbio, vero?».
Radu bestemmiò sotto voce.
«E' identico a quello della
medaglietta».
75.
Scesero di corsa dal camper e si
diressero alla stazione, cercando di dissimulare il più possibile i loro
intendimenti. Riuscirono senza problemi nell'impresa, camuffandosi fra l’andirivieni
dei pendolari e i vivacissimi colori delle bancarelle dei marocchini che
vendevano vestiti e scarpe a prezzi stracciati. Si ritrovarono alla fine del
parcheggio libero ansimanti, come cavalli da corsa, dopo una lunga galoppata
fra le praterie del centro America. Si guardarono con gli occhi stralunati
consapevoli di avere in mano la situazione: le due prove raccolte bastavano e
avanzavano per librare il colpo di grazia e incastrare una volta per tutte
l’assassino di Slagena.
«Aicha, è stata Aicha», disse
Radu, con l'aria trafelata.
Teschio non ribatté: la sua testa
era in completo subbuglio.
«Voglio essere io a ucciderla».
L’uomo s’incupì.
«Ragazzo, non correre. Abbiamo
fatto una scoperta importante, ma non dobbiamo essere precipitosi. Potremmo
rovinare tutto…».
«Ha ucciso mia madre… voglio
essere io a vendicarla».
Teschio comprese benissimo la
furia del piccolo, ma dovette trovare un modo per calmare i suoi bollenti
spiriti, prima che facesse qualche pazzia.
«Sarai tu a risolvere il caso»,
gli disse, cercando di ammansirlo con eleganza. «Ma adesso andiamo con ordine,
non facciamoci prendere dalla foga...».
«Cosa si fa, quindi?», domandò
Radu, irrequieto.
Teschio si fece meditabondo, percependo
che con le loro sole forze non avrebbero potuto fare molto, se non rischiare di
finire in un mare di guai. Si autoconvinse, pertanto, della necessità di
doversi affidare a qualche figura competente, in gamba, con mezzi reali per
poter completare l’opera in modo degno e risoluto. Ci ragionò per un po’, senza
giungere, però, a conclusioni particolarmente vantaggiose. Non conosceva
nessuno, del resto, di un certo calibro, che potesse realmente sfilare gli
ultimi fili della matassa e chiudere abilmente la faccenda. Non aveva mai avuto
a che fare con le forze dell'ordine, se non per casini da lui vissuti in prima
persona.
«Ci pensiamo con calma...»,
tagliò corto Teschio, «andiamo, intanto, a vedere cosa stanno combinando quei
due. Sperando che non li abbiano beccati».
«Magari c'è di mezzo anche
Fatima».
«Ho i miei dubbi. Una pazza basta
e avanza».
Abbandonarono il trambusto della
stazione e raggiunsero la roulotte di Fatima. Scorsero Benzina che brancolava
avanti e indietro di fronte alla casa ambulante della donna; ma non videro
Giacinta.
«Sarà dentro a cercare indizi…»,
blaterò Radu.
Teschio si scaldò pensando a
Benzina che, a quanto sembrava, aveva lasciato alla ragazzina l'arduo compito
di setacciare la roulotte di Fatima, per rivelare tracce dell'assassino.
«Ciao ragazzi, già qua?», esordì
Benzina al loro sopraggiungere.
«Vedo che ti sei dato da fare»,
ironizzò Teschio.
«Lei mi sembrava più scaltra e…
più sveglia».
«E tu sei un cacasotto», disse
Radu.
Benzina fece finta di nulla,
essendo ormai abituato alle bastonate dei partner.
Teschio introdusse la testa nella
roulotte di Fatima, intimando a Giacinta di venire fuori che avevano ormai in
pugno il caso.
«Che succede?», domandò la
ragazza, con apprensione.
Teschio non aprì bocca, ma con un
segnale del capo, ordinò a tutti di seguirlo senza fare storie. Fra via Bellini
e via Loduvico Ariosto c'era un altro parchetto preso spesso d'assalto da rom
ed extracomunitari, dove conquistarono una panchina; e dove Teschio rivelò a
Benzina e Giacinta il frutto delle ultime scoperte.
«Dio mio», disse Giacinta,
allibita.
«Porca troia», corresse il tiro
Benzina.
«Allora è stata lei…».
«Le prove sembrerebbero
incastrarla alla grande», disse Teschio. «Ma ora dobbiamo capire come muoverci,
come proseguire nelle indagini. Mica possiamo catturarla come si cattura un
cane fuggito dal canile, infilarle le manette e…».
«Anche perché non ne abbiamo… di
manette», disse ridacchiando Benzina, guadagnandosi l'ennesima smorfia di
sufficienza da parte del gruppo.
«Come procediamo, quindi?»,
incalzò Giacinta.
«Tanto per iniziare ci
converrebbe far sapere a Rafael quel che abbiamo scoperto. E sentire se può
darci qualche consiglio su come andare avanti».
Nessuno obiettò. Di fatto,
nessuno aveva proposte alternative da fare.
76.
I quattro si diressero al bar di
Rafael, con passo sostenuto, rischiarati da un cielo lindo e profumato d’estate.
«Dobbiamo darci una mossa, se non
vogliamo che Aicha sparisca», disse Giacinta.
«Se non è sparita fino a oggi,
non sparisce più», disse Teschio.
«Se ha lasciato sparsi per la
roulotte i vestiti macchiati del sangue di Slagena, significa proprio che non
ha alcun timore di essere beccata», sottolineò Benzina.
«Non capisco da dove derivi tutta
questa sua sicurezza», disse Teschio.
«Probabilmente dalle droghe che
usa. Secondo me i Dionisio l'hanno rimbambita ben bene...».
«Mi suona strano», replicò
Teschio. «Come farebbe il marito a volerla ancora con sé? Se fosse come dici
non avrebbe nemmeno la testa per badare ai figli. E invece non mi sembra messa
così male. Io e Radu l'abbiamo vista bene. Sembrava tranquillissima. S'è
imbarcata coi figli e via...».
Passò una autoambulanza a sirene
spiegate. Radu la seguì fino al punto in cui intraprese una curva a gomito.
Sognò che potesse esserci a bordo sua madre, che veniva trasportata d'urgenza
all'ospedale, per poi essere curata e guarire completamente. Gli vennero le
lacrime agli occhi pensando che stava svanendo sotto mezzo metro di terra, ma
cercò di non mostrare il momento di difficoltà, fissando il marciapiede, come
si fissa cogitabondi il titolo di un articolo di giornale.
«In ogni caso, non è del tutto
vero che non abbia nascosto le tracce», disse Giacinta. «Il fatto che abbia
sommerso i vestiti sotto una pila di indumenti sporchi, indica la sua
intenzione di volersi proteggere. Teniamo, inoltre, presente che nessuno di noi
ha trovato l'arma del delitto. Sicuramente il coltello che ha usato per
uccidere Slagena l’ha fatto sparire velocemente».
«Parli come un detective», disse
Benzina, stupefatto.
«Non hai tutti i torti. Certo, se
avessimo individuato il coltello dell'assassino...», puntualizzò Teschio.
«Magari con ancora le tracce del
sangue di Slagena... dai, non esageriamo», disse Benzina.
Trovarono Rafael alle prese con
la macchina del caffé, che faceva le bizze dal giorno prima; aveva un problema
con il filtro dell'acqua. A un signore aveva praticamente servito un caffé
vomitevole che il cliente s'era rifiutato di pagare.
Rafael aveva le mani ricoperte di
grasso e i capelli arruffati, ma fu ben disposto a servire i bisogni degli amici.
Li vide e mollò al volo il trabiccolo della Faema per accoglierli gentilmente.
«Allora?», disse.
Il volto di Teschio si irrigidì.
«Ho capito», disse Rafael.
«Andiamo sul retro».
Li guidò oltre la porticina che
sorgeva alle spalle del bancone, allontanandosi da orecchie indiscrete,
lasciando all'inserviente il compito di soddisfare la clientela.
«Sputa il rospo», disse Rafael.
Teschio gli raccontò tutto per
filo e per segno, dal momento in cui avevano lasciato Nadia, all’epilogo della
mattinata. Gli disse della visita ai Dionisio, della terribile atmosfera patita
in quell’androne infernale, dell'incontro con Cinghiale, della perlustrazione
delle case ambulanti di Aicha e Fatima...
Rafael li guardò incredulo. Non
avrebbe mai immaginato tanta efficienza da parte di un gruppo così improvvisato;
benché provasse per loro rispetto e in un certo senso anche affetto, li
riteneva sostanzialmente una masnada di poveri cristi, che non sarebbero nemmeno
stati in grado di scovare i bagni della stazione di Sesto, figuriamoci un
assassino. Per qualche secondo non fiatò, dopodichè si fece avanti con l'unica cosa che gli pareva
davvero sensata, anche se sapeva che i due giovani sinti avrebbero potuto passare
qualche guaio, soprattutto Radu che era ormai orfano.
«Dobbiamo avvertire la polizia».
Giacinta tracollò.
«Scordatelo».
Benzina e Teschio la guardarono allibiti.
Lei li affrontò con altrettanta risolutezza.
«Toglietevelo dalla testa.
Avevamo detto di no agli sbirri».
«È vero», disse Teschio, «ma non
sapevamo che piega avrebbero preso le cose».
«Teschio non mi deludere», disse
Radu.
«Ragazzi... guardiamo in faccia
la realtà... la situazione è troppo grande per le nostre umili capacità investigative.
È un giro troppo grande per noi. Credo che Rafael abbia ragione. Arrivati a
questo punto solo le forze dell'ordine sarebbero in grado di chiudere
definitivamente il caso, dando un degno epilogo alla vicenda».
Giacinta lo guardò affranta.
«Non ci voglio credere».
«Non ti preoccupare... vedrai che
saranno clementi anche con te e Radu...».
«In effetti, dovessimo pensare di
eliminare noi Aicha... poi finiremmo dalla parte dei colpevoli», disse Benzina.
Radu lo fissò stranito,
consapevole che il suo sogno di poter vendicare la mamma con le sue stesse mani
fosse ormai del tutto tramontato.
«Io finirò in un orfanotrofio»,
disse sconsolato.
77.
Arrivarono alla caserma dei
carabinieri con la faccia stravolta dalla spossatezza e con l’ansia disegnata
fra le pieghe delle bocche contratte. Con loro c'era anche Rafael che, ormai
totalmente rapito dalla vicenda, aveva preferito disertare il lavoro: qualche
ora di assenza non gli avrebbe stravolto gli incassi, pensò.
Li accolse il comandante Saverio
Nazaro, un burbero membro delle forze dell'ordine, con un gigantesco naso a
patata e due orecchie da Dumbo.
«Venite».
Li indirizzò a una stanza
privata, dove furono fatti accomodare. Radu rimase colpito dall'austerità
dell'ambiente e provò una specie di attacco di claustrofobia: gli sudarono le
mani e sentì il cuore battere strani colpi.
Giacinta lo rassicurò con un
sorriso dolce.
«Stai tranquillo».
«Sono tranquillo».
Al comandante si affiancò un
subalterno smilzo, con il labbro inferiore mangiucchiato dalla furia di un
herpes tignoso, che chiese al gruppo le generalità. Risposero in coro
all'appello, ma il brigadiere fece intendere che la questione rom, l'avrebbero
dovuta affrontare in separata sede.
«Dite, dunque, che è stato
commesso un omicidio e che la vittima è la mamma del ragazzino», riattaccò il
comandante.
«Esattamente», disse Teschio.
«Non c'è tempo da perdere se vogliamo incastrare l'assassino…».
Il comandante s'infastidì.
«Signor?».
«Sanvito Franco, detto Teschio».
«Signor Sanvito», disse il
comandante, «la prego di contenersi».
Teschio strabuzzò gli occhi. Per
un attimo aveva pensato che il comandante si volesse complementare con lui per la
sua sagacia.
«Siamo noi a dirigere le
operazioni. Lei ci deve solo dire quello che sa…».
Teschio non replicò e si diede
una calmata.
«Vada avanti».
Il capobanda chiarì nei dettagli
ciò che era accaduto. Parlò meticolosamente della setta dei Figli di Dionisio e
di quelle che si presumeva dovessero essere state nel tempo le loro principali
malefatte. Gli riferì di Radu e della scoperta del corpo della madre, riverso
su se stesso, in una pozza di sangue; della tumulazione del cadavere; del giro
nelle roulotte dei presunti colpevoli e della finale e inevitabile decisione di
rivolgersi ai carabinieri, con il coinvolgimento di Rafael.
Lo smilzo prese nota di tutte le
sue dichiarazioni, alzando di tanto in tanto gli occhi per guardare in faccia
il curioso interlocutore.
«Perché non ci avete avvertiti
subito?», domandò Nazaro.
Cadde il silenzio.
«Volevamo dare una mano a Radu e…
ci siamo trovati in mezzo a una vicenda che non avremmo mai potuto immaginare,
molto più grande di quella che avevamo prospettato», disse Benzina, temendo di
poter essere accusati di occultamento di cadavere e chissà che altro.
«Anche la vostra posizione non è
delle migliori…», sospirò il comandante, «ma con voi la vediamo dopo. Chi vi ha
indirizzato ai Figli di Dionisio?».
«Un'amica», disse Teschio,
guardando Rafael, col timore di dire qualcosa di inopportuno.
«Quale amica?».
«Si chiama Nadia Schilef,
intervenne Rafael. Per la precisione è una mia amica. Frequenta il mio
locale…».
«Come mai conosce la setta?».
Ci fu un altro attimo di
silenzio.
«Non me l'ha mai detto. Me ne
parlava senza spiegarmi da dove derivassero le sue informazioni».
Il comandante non abboccò.
«Torneremo ad affrontare questi
punti che non mi sembrano per nulla chiari…».
Teschio e Benzina deglutirono
amaramente.
«Adesso è necessario andare in
cerca di questa…».
«Aicha», intervenne Giacinta.
«Bene», disse il comandante.
Si alzarono simultaneamente dalle
rispettive comode, pronti a guadagnare l'uscita, ma l'estemporanea banda fu
immediatamente redarguita da Nazaro.
«I ragazzini rimangono qui».
Radu, per poco, non scoppiò in
lacrime.
«Non possono venire con noi?»,
chiese Teschio.
«Direi proprio di no», affermò
con veemenza il comandante. «Temo che, per colpa vostra, abbiano già visto fin
troppo».
«Loro non c'entrano», disse
Giacinta. «Siamo stati noi a coinvolgerli. Ci lasci venire».
Il comandante dondolò il mento,
indicando al brigadiere di prendersi cura dei due giovani, e di trattenerli in
caserma fino al loro rientro. Nazaro, con Teschio, Benzina e Rafael, partirono
alla ricerca di Aicha.
78.
La trovarono sdraiata sul prato,
intenta a mangiucchiare un legnetto di liquirizia, con gote alla Battisti e le
sopracciglia pitturate di fresco.
«Eccola», disse Teschio.
Sembrava la donna più felice del
mondo, come se aver ammazzato un essere umano non avesse minimamente scalfito
la sua coscienza, regalandole una sorta di gioia metafisica. Davanti a tanto
menefreghismo, Teschio fu colto da un attacco di rabbia: se pensava al dolore
che aveva passato e a quello che stava passando Radu… a dir poco gli prudevano
le mani. Ora più che mai intuiva il peso delle parole del piccolo, quando
reclamava di non desiderare altro che uccidere personalmente l'assassino di sua
madre; se si passano certi limiti, diventa davvero difficile domare le
pulsioni, pensò, anche se il riferimento è a un giovincello con un’intera vita
davanti.
Il comandante si accorse del
momento critico dell'uomo e lo rassicurò con parola bonarie.
«Stia calmo, ormai ce l'abbiamo
in pugno...».
Era in compagnia dei due figli e
di altre donne rom che né Teschio né Benzina avevano mai visto. C'era una donna
anziana, con una folta chioma grigia, che faceva giocare i piccoli con il
copertone di un'automobile mezzo sfasciato, recuperato ai piedi della muraglia
che dava sulla ferrovia. I bimbi ridevano come matti, come se avessero fra le
mani il più bel gioco della loro vita.
«Dividiamoci», disse il
comandante.
Nazaro e Teschio entrarono dal
cancello di via Gramsci; il brigadiere, Benzina e Rafael, da quello di via
Monte Santo. Tutti si mossero con cautela, per non dare nell'occhio e sollevare
un inutile putiferio che, senz’altro, avrebbe reso più difficili le operazioni
di cattura. Per il parco, ignari di ogni cosa, bighellonavano sereni e
tranquilli alcuni corridori, e gruppetti di anziani con il cagnolino al guinzaglio.
I primi a raggiungere Aicha furono
il comandante e Teschio.
La donna li vide e li riconobbe all’istante,
come individui che non erano certamente lì per caso: glielo si leggeva in
faccia che la stavano cercando. Non ci mise molto, pertanto, a capire che
doveva darsela a gambe. Si alzò di scatto e si mise a correre senza criterio, verso
lo spazio riservato alle bocce; la sua condanna a morte.
«Non ci sarà molto tempo da
sprecare con gli interrogatori», cincischiò il comandante, sottintendendo che
il comportamento dell’assassina fosse stato fin troppo eloquente.
Aicha, cercando di fuggire alle
grinfie di Nazaro e Teschio, finì dritta fra le braccia del brigadiere, di Benzina
e di Rafael. Oppose resistenza con delle grandi manate, cominciando a urlare frasi
sconnesse come una posseduta. Il comandante seguì la prassi e la costrinse alle
manette, attirando l'attenzione dei giocatori di bocce che allibiti, si
chiedevano che diamine stesse succedendo in quel caldo e anonimo pomeriggio
sestese.
«Io non c'entro niente!», prese a
gridare.
«Adesso lo vedremo», disse il
membro delle forze dell’ordine.
«La figlia del destino non
c'entra niente!».
«Sicuramente».
«Lasciatemi tornare dai miei
figli! Non possono stare senza di me!».
Il comandante non le dette retta,
ansimando come un cane da corsa.
La donna controbatté, sempre più
disperata:
«Allora vi colpirò con la
maledizione di Dionisio!».
«Forza signora. Collabori che
sennò peggiora le cose».
«Il santone vi ucciderà tutti
quanti!».
«Signora, non dica scemenze».
«Voi non sapete con chi avete a
che fare!».
Comandante e brigadiere la
sollevarono di forza e la trasportarono sulla camionetta parcheggiata in via
Gramsci, pronta a ingabbiare sedicenti assassini e truffatori di ogni sorta.
Le donne rom seguirono la scena
sbigottite, come se tutto ciò che stesse accadendo fosse privo di qualunque
logica. Osservandole, Teschio pensò che forse nemmeno loro erano al corrente
dell'omicidio di Slagena; e per un istante provò pena per quei piccoli che,
inconsapevoli del trambusto generale, continuavano imperterriti a correre
dietro al pneumatico marcescente, convinti che la madre si fosse messa a
giocare a guardie e ladri.
Di ritorno in caserma, il
comandante dispose all’unanimità di non muoversi fino a nuovo ordine.
Giacinta e Radu non stettero più
nella pelle e vedendo passare in manette l'assassina di Slagena, dimentichi di
ogni preoccupazione, si abbandonarono a un abbraccio fraterno.
«Hai visto?», disse Giacinta.
«Voglio vederla marcire
all'inferno», fece Radu.
Aicha sparì con il comandante e
per due ore gli improvvisati detective furono presi in ostaggio dal brigadiere, interrogandosi stupiti su tutta
una serie di passaggi poco chiari, desiderosi di capire il momento in cui
l'incredibile avventura avrebbe finalmente avuto il suo epilogo.
Benzina chiese di potersi recare
in bagno, per risolvere un generico, ma impellente bisogno: ancora una volta fu
vinto da una violenta colica addominale, che a questo punto, fu evidente a
tutti, dovesse sopraggiungere tutte le volte che si trovava a dover affrontare
compiti particolarmente ardui. Giacinta e Radu risero di gusto.
Compilarono numerosi documenti
per mettere regolarmente a verbale tutto ciò che era successo e per assicurare
alle forze dell'ordine il loro ritorno in caserma per il lunedì successivo,
necessario a risolvere le posizioni dei due sinti e a chiudere la pendenza
legale relativa all'occultamento del cadavere. Rafael cercò di spiegare che lui
non c'entrava niente, che si era unito alla combriccola solo per la far visita
ai carabinieri e che doveva tornare al più presto al suo bar; ma ogni suo
lamento fu vano.
«Finché non ricevo l'ordine del
comandante, dovrò trattenervi. Compreso lei, signore».
Il brigadiere li lasciò liberi
nel primo pomeriggio, comunicandogli che, se non avessero rispettato gli
impegni presi, avrebbero passato un mare di guai.
Appena fuori tirarono un grosso
respiro di sollievo: nessuno poté credere a quel che era accaduto; a parte Radu,
forse, al quale brillarono gli occhi gioia.
79.
Il giorno successivo, un caldo e
afoso sabato di luglio, si ritrovarono al bar di Rafael per festeggiare: alle ventuno
il padrone di casa serrò le saracinesche e stappò le tre bottiglie di vino più
pregiate che aveva, che conservava in cantina per le occasioni più importanti,
deciso, con i suoi ospiti, a isolarsi dal mondo.
«Ci voleva!», esultò Benzina.
Rifocillò i ragazzi con due
panini super farciti e chiamò al telefono Nadia per proporle di unirsi alla combriccola.
«Il caso è finalmente risolto»,
le disse.
Nadia arrivò dopo un quarto
d'ora, ansiosa di sapere come erano andate nei dettagli le cose, in che modo
avevano catturato Aicha, ma anche per poter guardare ancora negli occhi
Teschio, quell’uomo che aveva appena conosciuto, ma che aveva già avuto così
tanto da darle.
Sopraggiungendo, il capobanda,
non riuscì a domare l’imbarazzo e arrossì come un peperone stagionato, mettendo
a nudo tutta la sua sensibilità, troppe volte tenuta nascosta da atteggiamenti
da superman.
«Benvenuta», fu l'unica cosa che
riuscì a dirle, dando a Nadia l'impressione di trovarsi di fronte a un uomo
diverso da quello con cui aveva avuto a che fare fino a quel momento e che,
addirittura, l'aveva chiamata per un'uscita intima.
«Non siamo qui a festeggiare?»,
gli domandò, percependo il disagio dell’uomo e cercando di metterlo,
cinicamente, ancor più in difficoltà.
«Infatti», blaterò Teschio.
«Dalla tua faccia non si
direbbe».
Teschio cercò di ricomporsi,
riacquisendo la sua solita statura, sollecitato dalla volontà di poter presto
buttarsi a capofitto in quella che si prospettava una storia d'amore coi
fiocchi, come non ne viveva da tempo immemore. Fece accomodare la donna vicino
a sé e le spiegò precisamente come s’erano snodati i fatti, com'era avvenuta la
cattura della donna rom e delle rocambolesche ore trascorse in caserma.
«E i ragazzi?», domandò la moglie
di Cinghiale.
«Lunedì abbiamo un altro incontro
con i carabinieri. Dobbiamo risolvere il problema dei documenti, non sono
nemmeno registrati all’anagrafe...».
«Dio».
«Ma non escludo l'ipotesi di
poter prendermi cura di Radu in prima persona…».
Nadia si mostrò sorpresa.
«Lo faresti davvero?».
«Già».
«E' una bellissima notizia».
Teschio le sorrise dolcemente.
«Lui lo sa?».
«Non ancora. Anche perché, per il
momento, nulla è deciso… non vorrei offrirgli false speranze».
«Sei un uomo di cuore, Teschio…».
Teschio arrossì di nuovo.
«Considerando che ha paura di
finire in orfanotrofio…», tagliò corto.
Radu e Giacinta non dettero retta
a nessuno e presero a stuzzicarsi come il giorno della gita in riva al
Villoresi. Giacinta gli morsicò il braccio come una piccola cannibale.
«Brutta stronza».
Radu rideva concitato, provando
un sentimento sempre più vivo e percependo una vaga eccitazione che poco aveva
a che vedere con il semplice e innocuo gusto di divertirsi fanciullescamente.
Era la prima volta che gli capitava e non gli dispiaceva affatto. Per un
istante avrebbe voluto baciare sulla bocca Giacinta, assaporare il gusto delle
sue labbra, il miele del suo corpo, per poi impossessarsi del suo respiro. Ma
tremava all'idea di arrivare a tanto, benché si rendesse conto di averne già
avuto occasione, quando avevano dormito insieme e lui s'era ritratto da
qualunque smaliziata azione dell'amica. Il piccolo non sapeva nulla del suo
destino, e della seria possibilità che, d'ora innanzi, gli avrebbe potuto fare
da padre l'amato Teschio. Era talmente felice di avere vendicato la mamma che
non pativa più alcun dolore e anche il presentimento di finire in un
orfanotrofio s'era fatto piccolo e impalpabile.
«Alla salute di Radu!», gridò
Benzina, alzando al cielo il suo quarto calice.
Risposero in coro tutti gli
altri.
«E adesso musica!», vociò Rafael.
Il proprietario del locale si
avvicinò alla radio che partì con un vecchio brano di Cat Stevens cantato da
Rod Stewart. Giacinta si avvicinò a Radu per invitarlo a ballare e così fece
Nadia con Teschio. Tutti e due, rimbambiti dall'euforica atmosfera, accettarono
di buon grado.
Benzina guardò Rafael con aria
tremebonda: restavano solo loro due, ma fu chiaro a entrambi che non fosse il
caso di unirsi alle danze.
80.
Al termine dei festeggiamenti,
ben oltre la mezzanotte, Benzina era completamente ubriaco; anche Rafael non
era in condizioni ottimali e continuava a saltare per aria come un bambino al
gioco della corda.
I primi ad andarsene furono
Teschio e Nadia, desiderosi di aprire una nuova parentesi sul loro divenire.
Fuori dal locale si guardarono con aria tesa, anche se i fumi dell'alcol
avevano ormai sciolto ogni inibizione.
«Ti va di fare due passi?», si
fece avanti Teschio.
«È tardi, ma non ho nessuna
voglia di rincasare».
Si incamminarono lungo via
Gramsci, entrambi fiduciosi di poter presto imboccare la strada per la casa di
Nadia.
Radu e Giacinta si divertivano,
intanto, a tenere sveglio Benzina che barcollava, prendendolo apertamente per i
fondelli.
«Hai sonno Benzina? Non ti va di
fare un partitina a carte?».
«Che giorno è oggi?», domandò
l'uomo, mostrando tutta la sua alienazione.
«Oggi? Oggi è domenica... sei
scemo, per caso?».
Giacinta fu la più perfida.
Radu rise compiaciuto, tirandogli
in testa delle briciole di pane.
«Ragazzi, non avete sonno?»,
chiese Rafael, auspicando l'imminente congedo dei più giovani.
«Sonno? Cos'è il sonno? Il nome
di un nuovo panino?», chiese Giacinta, facendosi beffa anche del proprietario
dell’esercizio che li ospitava.
Rafael la guardò disgustato,
incapace di organizzare una replica. Si limitò a grattarsi i baffi.
«Dai andiamo, la festa è durata
abbastanza», mugugnò Radu, fattosi serio all'improvviso. «C'è una cosa che
vorrei fare adesso...».
Giacinta lo fissò stupita,
chiedendosi il senso di tutta quella foga: in pochi secondi aveva cambiato
totalmente espressione. Radu le fece intendere che aveva una certa premura, e
che avrebbe contato su di lei per poter risolvere l'impellenza scaturita così
frettolosamente fra i suoi neuroni.
Rafael li congedò con un sorriso
sincero.
«Arrivederci ragazzi».
Inquadrò Benzina, curvo sul
tavolo, privo di sensi.
«Questo lo tengo qui con me a
dormire. Non mi sembra nelle condizioni di tornare a casa da solo».
«Auguri», disse Giacinta.
«Ciao Rafael, ci vediamo», disse
Radu.
All’esterno, Radu si mise a
correre all'impazzata, come se stesse fuggendo da un calabrone infervorato.
«Dove scappi? Sei ubriaco anche
tu?».
Radu non rispose e proseguì nella
sua danza forsennata.
Giacinta lo inseguì e, forte di
una falcata più potente della sua, con il cuore che batteva come un tamburo, in
pochi istanti lo raggiunse.
«Sei impazzito?».
Si fermarono contro un muro, dove
c'era scritto una frase con lo spray, che nessuno dei due si preoccupò di
leggere: “Tu mi rubi l'amore”.
«Vieni con me?».
«Dove?».
«Voglio andare alla fabbrica a
salutare la mamma».
Giacinta tracollò.
«A piedi fino a là?».
«Io vado, tu fai come vuoi».
Si rimisero in marcia
silenziosamente, uno di fianco all'altro, come scolaretti in gita; rivolgendosi
la parola, solo quando i silenzi e le angosce della notte erano calati su tutto
il sestese e furono, ormai, in procinto di attraversare il confine con
Brugherio. Scorsero il cartello che indicava l'inizio del nuovo paese e
finalmente si sentirono più tranquilli. Dopo una decina di minuti intrapresero
la strada che dava sulla fabbrica abbandonata.
Individuarono il buco dal quale
s'erano introdotti con Teschio e Benzina, trovandolo ancora più sconquassato
della volta prima, come se, nel frattempo, l’avessero vinto altri disperati. A
Radu venne il magone, ripensando a quella sera maledetta. Quante cose erano
cambiate, però...
«Prima tu», disse Giacinta.
Il piccolo varcò la soglia agilmente
e si diresse come una scheggia verso il punto in cui avevano seppellito
Slagena; ricordando bene ogni angolo, ogni piega, ogni sasso, di quel brullo e
insignificante appezzamento di terreno, compreso l’attrezzo arrugginito che
spuntava come un dente avvelenato dall'aia antistante l'ingresso principale
della fabbrica.
Si fermarono in religioso
silenzio dinanzi al giaciglio di Slagena, un tutt'uno con l'ambiente
circostante, pregando ognuno per conto proprio. La luna brillava alta nel cielo
e nell’aria trionfava l'odore penetrante e tonificante del sambuco.
Vendite autorizzate
bei
tempi andati
fregati
fumo
di sigarette
e
sigari
brillantine
e
cappelli grigi
e
capelli bianchi
e
ricci di mare
aguzzini
aguzzano
l'ingegno
di
questo trafiletto
vetusto
lunedì 23 luglio 2012
Rapsodia gitana # 7
61.
«Dove è finito quel gran figlio
di puttana?», si domandò Teschio.
Pensò che fosse sparito oltre
l'unica porta che contraddistingueva il locale, quella sormontata dal misterioso
scalpo che sembrava osservare i presenti pronti a scagliarsi su di essi con
piglio assatanato. Non poteva esserci altra spiegazione, visto che non c’erano
altri varchi altrettanto appetibili. Ne ebbe, dunque, conferma nel momento in
cui ordinarono alla donna con gli abiti succinti di prepararsi per entrare in
scena. Era arrivato il suo turno. Teschio seguì sgomento l'avvicendarsi dei
fatti, con il cuore in gola, timoroso di dover assistere a qualche scena
splatter, o cose del genere, con cui non aveva alcuna familiarità.
Due donne che prima non aveva
notato, si affiancarono alla prescelta obbligandola a indossare una specie di
saio, bianco e trasparente, dal quale fu perfettamente leggibile l’anatomia
sottostante, esaltata da un seno da maggiorata, di cui anche l’occhio di
Teschio godette.
La malcapitata obbedì senza
remore, dando l'impressione di essere già stata preparata da tempo alla serata
e a tutto ciò che di infelice avrebbe potuto comportare. Con l'ingombrante
vestito raggiunse la porta dalla quale il santone era sprofondato chissà dove,
e varcò l’uscio, sparendo nei meandri di un mondo misterioso.
Gli adepti zittirono completamente,
lasciando Teschio a bocca aperta:
«Che succede?», chiese Benzina.
Teschio non seppe che dire.
«Non ne ho idea», sussurrò. «Sono
tutti immobili... come statue di cera».
Arretrò di qualche metro per
raggiungere gli altri della banda, che lo fissarono con aria stravolta.
«Non so cosa stia accadendo. Il
santone è sparito con una donna al di là di una porta... gli altri si sono
acquietati; non parla più nessuno».
«Fa vedere anche a me», disse
all'improvviso Radu.
Il piccolo si avvicinò
all'entrata del covo e, con affanno, prese a sbirciare con spirito indagatore.
«Stai indietro!», gli ordinò
Giacinta, temendo che il piccolo potesse sporgersi oltremisura, mostrandosi al
pubblico di malavitosi.
Radu osservò i vari seguaci della
setta, come assorti in un sonno profondo e pervasi dalla sensazione di non fare
più parte di questo universo: gran parte di essi teneva gli occhi chiusi,
apparentemente catapultati in un'altra dimensione. L'unico che dette
l’impressione di mantenere un atteggiamento normale e vigile, fu il presunto
braccio destro del santone, che di tanto in tanto ruotava la testa per sincerarsi
che tutto andasse secondo programma.
Trascorsero dieci minuti di
silenzio, finché il mingherlino in forza del grande capo, non si alzò per
dirigersi verso un mobile basso, contenente un sfilza di bicchieri già riempiti
con un liquido giallognolo, simile al limoncello. Radu strabuzzò gli occhi,
chiedendo l'intervento di Teschio. Capendolo al volo, quest’ultimo, lo sostituì
precipitosamente, facendo appena in tempo a scorgere il braccio destro del
santone posare ai piedi di ogni adepto un singolo bicchierino colmo dell'enigmatico
liquido. Teschio pensò all'assenzio, benché non sapesse minimamente cosa fosse:
semplicemente aveva visto da poco tempo su un giornale la foto di un poeta, tal
Paul Verlaine, accomodato a un tavolo parigino con davanti il prodigioso
distillato; che da quel che diceva la didascalia, era in grado di regalare i
prati del paradiso a ogni provvidenziale sorso.
Terminata l’operazione, il
seguace dei Dionisio schioccò le dita, ridando vita all’assemblea.
«E’ giunta l’ora».
I primi a rispondere furono i tre
giganti, che quasi buffamente agguantarono il proprio calice, bevendo come
bufali disorientati da una lunga arsura. Fecero lo stesso, nel giro di pochi
istanti, tutti gli altri, che bevvero alla goccia, senza alcuna esitazione, evidentemente
abituati a un simile passaggio iniziatico.
Teschio seguitò a fissarli
allibito, pervaso da un proverbiale dubbio: si stavano drogando? Ritornò a quel
che gli aveva raccontato Nadia e, dunque, all'ipotesi che quell'intruglio
potesse contenere qualcosa di ben più potente di una normale lemonsoda. Il suo
pensiero si dimostrò fondato. Non passò molto, infatti, dal momento in cui gli
adepti cominciarono a ridere come pazzi, dandosi pacche sulle spalle e
arrivando perfino a schiaffeggiarsi. Si domandò dove sarebbero arrivati, avanti
di questo passo...
La riunione si trasformò in un
putiferio di grida e schiamazzi.
62.
Anche gli altri della banda
furono sopraffatti dal clamore, disponendosi uno sopra all'altro per vedere
cosa stava succedendo. Benzina rimase sconcertato.
«Sembrano tutti ubriachi».
«Hanno bevuto una specie di
liquore...», spiegò Teschio.
«Potessi assaggiarne un po'
anch'io...», disse Benzina.
Giacinta gli tirò uno
scappellotto sulla nuca, con fare bonario.
«Il solito coglione...».
Benzina trovò il coraggio di
sorridere. E per un attimo si sentirono tutti un po' più rilassati. Ma la
quiete non durò a lungo. All'improvviso, Teschio sentì qualcosa di freddo
premere sulla fronte, dandogli l’idea di un attrezzo medico pronto a testare la
sua precaria salute. Niente di tutto ciò: erano le canne di una pistola. L’uomo
non volle crederci e in un istante si sentì cadavere.
Impugnava l'arma un barbuto con i
capelli bianchi, unti e puzzolenti, la faccia rossiccia, con tanti capillari
che ricamavano sul naso una specie di cartina geografica e due canini
sproporzionati. Nessuno fiatò, impietriti dalla paura. Giacinta pensò che fosse
stato troppo bello essersela cavata fin lì. Ora, quella pistola, era il chiaro
segno che erano stati beccati, che le cose non erano andate secondo i piani, e che
la missione era già al tramonto. Fu sopraffatta dall’idea di tirare un calcione
sull'avambraccio al nuovo venuto, ma dalla posizione in cui si trovava, mezzo
incancrenita, intuì facilmente che non avrebbe avuto molte chance di ottenere
ciò che voleva. Si rassegnò al silenzio, aspettando che qualcuno compisse la
prima mossa.
«Non muovetevi e non fiatate».
Fu lapidario, lasciando intendere
che non fosse uno sprovveduto, ma uno avvezzo a certi retaggi della malavita.
Teschio si irrigidì al punto di rischiare di farsi venire un crampo alle gambe;
percepì i muscoli del polpaccio destro
divenire duri come l'acciaio, incapaci di reggere il suo peso e l'angoscia di
un incontro che avrebbe potuto segnare la fine della sua compassata esistenza.
Ma non ci rimase male più di tanto, riflettendo sul fatto che, tutto sommato,
sarebbe stato contento di morire per una buona causa. L’aveva già messo in
conto... la vita, in fondo, non aveva più granché da dirgli, e l’idea di andarsene
come un eroe gli rese d'un tratto quasi piacevole quell'assurda incombenza.
Chissà perché gli venne in mente
la madre, e le tante volte che, da piccino, andavano a fare il bagno a Varazze.
Era stato il periodo più bello della sua vita; da quel momento, infatti, le
cose sarebbero andate sempre peggio. La mamma avrebbe desiderato mandarlo
all'università, ma era già tanto che avesse conseguito la terza media. Solo
ora, in quel frangente disperato, si rese conto di quanto tempo avesse buttato
alle ortiche, percependo la stupidità di non avere voluto dar retta al
genitore. Erano state le cosiddette cattive compagnie a traviarlo, facendogli
credere in un futuro fittizio, governato dall'idea del soldo facile.
Tentò di riacquistare la postura
eretta, ma venne bloccato dall’aggressore, che spinse con ulteriore foga la
pistola sulla fronte del capobanda.
«Non ti muovere. Sennò salti
all'aria tu... e io».
Si riferì al fatto che una
baruffa avrebbe di certo attirato l'attenzione dei Dionisio, mandando in crisi
qualunque tentativo di passare inosservati e poter seguire le vicende dei
membri della setta. Questa inaspettata uscita indusse Teschio e Benzina a
pensare che, evidentemente, l'uomo armato non fosse della stessa parrocchia dei
delinquenti che avevano a pochi metri di distanza e che, quindi, c’era ancora
qualche speranza di cavarsela. Ma allora chi era? E perché li teneva sotto
tiro?
Si fecero queste domande, mentre
l'assalitore allentava la presa, alleggerendo il pungiglione d'acciaio sulla
fronte della vittima.
63.
Lo chiamavano il Cinghiale e
finalmente anche Teschio poté capire il perché: aveva due canini giganteschi,
che venivano messi in grande evidenza ogni volta che l'uomo divaricava le
labbra. Non ci fu, dunque, la necessità di una presentazione ufficiale: la
persona che stava puntando la pistola alla testa di Teschio era il marito di
Nadia Schilef. Era uscito dai Dionisio da tempo e da tempo s'era ripromesso di
accumulare prove per poter incastrare una volta per tutte colui che credeva il
più grande farabutto della Terra: il santone. Con le sue parole e i suoi
raggiri era di fatto riuscito a devastare la mente di centinaia di persone e
sul suo collo pendevano decine di omicidi. Assassini in piena regola, eseguiti
solo per poter incrementare il suo potere e il peso del suo portafoglio. Il
carcere a vita non gliel'avrebbe tolto nessuno. Era lì che voleva arrivare il
Cinghiale, conoscendo ormai tutte le mosse del grande capo e l'odio profondo
provato per un personaggio privo di qualunque scrupolo, che, peraltro, anche a
lui, aveva spillato un bel po' di quattrini. Ma non era stato facile far
perdere le tracce di sé. Chi entrava nella setta, infatti, difficilmente
riusciva a uscirne... se non in una bara.
Ma Cinghiale non era uno stupido
e per un po' di mesi era riuscito a sparire completamente dalla circolazione,
abitando in un appartamentino anonimo nel cuore di Bologna, e vivacchiando di
espedienti, compresa la professione di tutto fare in un alberghetto della
città. Aveva ereditato il bilocale da un vecchio zio rimasto senza parenti
diretti, poco tempo prima di abbandonare i Dionisio. Non ne sapeva nulla
nemmeno la moglie. Voleva tutelarla: se le avesse rivelato qualcosa, infatti,
qualcuno avrebbe potuto prenderla di mira. C'era finito da solo in quel giro di
scapestrati, dando retta alla sottana di una donna che s'era venuta per caso a
trovare sul suo cammino. Era una donna misteriosa e affascinante, di cui non
aveva mai saputo il vero nome, né le origini. Benché la fisionomia del volto
tradisse lineamenti che in qualche modo rimandavano al Medio Oriente. Faceva
parte dei Figli di Dionisio da diversi anni, ed era una delle predilette dal
santone: era forse la beniamina di cui si serviva per raccogliere nuovi adepti.
Cinghiale non aveva saputo resisterle.
S'incontravano di nascosto e
insieme si dedicavano ai divertimenti più assurdi, come due adolescenti.
Avevano perfino trascorso una serata intera al Luna Park che sorge nei pressi
di Linate. E negli stessi paraggi avevano fatto l'amore per la prima volta. Con
la nuova conoscente gli sembrava di vivere in un perenne stato di euforia. Il
marito di Nadia si trasformava, divenendo un'altra persona, e perdendo
qualunque senso di responsabilità nei confronti di se stesso e della moglie.
Qualcosa aveva raccontato a Rafael, nei momenti in cui i fumi dell'alcol
prendevano il sopravvento, ma senza entrare troppo nei dettagli: i movimenti
della setta dovevano rimanere segreti. Dopo poco tempo era comparsa la droga. E
fu proprio in occasione di una sera davvero al di sopra delle righe che il
Cinghiale finì per la prima volta al cospetto dei Dionisio. Assistette a una
specie di orgia, in un'atmosfera da girone infernale. Non aveva saputo se
ridere o piangere. Uomini e donne sembravano dei robot, addestrati per compiere
operazioni che da sani di mente non avrebbero mai preso in considerazione. Non
riusciva a togliersi dalla mente il tipo che s'era fatto tagliuzzare mezzo
corpo in nome di chissà quale arcana creatura degli inferi, dando l'impressione
di non patire alcun dolore. Sicché gli era bastato poco per capire che non era
quello il mondo che aveva sempre sognato.
La donna misteriosa che l'aveva
introdotto nel circolo del male, sparì all'improvviso senza fargli più sapere
nulla e lasciandolo nella desolazione più cupa. Trovò la forza di dire basta
una sera che s'era ritrovato a dieci centimetri di distanza dalla moglie che
dormiva, con un coltello in mano, convinto che dovesse scotennarla perché
altrimenti avrebbe rivelato alla BBC la sua tresca con la paladina del santone.
Era troppo, era davvero troppo. Da quel momento dichiarò guerra ai Figli di
Dionisio.
64.
Teschio e Cinghiale si guardarono
negli occhi raccontandosi un avvenire diverso da quello sospettato trovandosi
per la prima volta a tu per tu. Fu, infatti, evidente a entrambi che fossero
più o meno lì per lo stesso motivo: contrastare le cattive intenzioni dei Figli
di Dionisio. Cinghiale mosse la testa indicando alla sua vittima di seguirlo.
Lo fece con uno scatto nervoso e tremebondo, come in preda a una convulsione epilettica.
Stessa cosa fece Teschio con il resto della banda. Cinghiale si mise a capo del
gruppo e nel silenzio più assoluto riguadagnò i colori sbiaditi dell'uscita.
Ripercorsero le scale
pericolanti, e la prima rampa direttamente collegata all'uscio principale,
godendo di una felice atmosfera, ben diversa da quella angustiante patita
all'andata. Ora conoscevano la loro meta, benché fossero guidati da un tipo che
ancora non avevano capito chi fosse. L'uomo si muoveva scaltramente, dando
l'impressione di conoscere perfettamente l'ambiente, girando di tanto in tanto
il capo per sincerarsi che i nuovi amici lo stessero seguendo.
Muovendosi verso l'alto fu, per
tutti, più facile respirare: all'unanimità supposero felicemente di poter disporre
di una quantità maggiore di ossigeno, come se fino a quel momento avessero
respirato catrame. Benzina fu rapito da un pensiero rocambolesco, inerente la
possibilità che in quel maledetto antro, si fossero appositamente disperse
tossine velenose in grado di anestetizzare cuori e cervelli. Era un'ulteriore
spiegazione al delirio collettivo che pareva contraddistinguere tutti coloro
che si inchinavano agli sguardi funerei del santone. Ogni passo era un tassello
in più verso la libertà; anche la luce dette l'impressione di essere meno recalcitrante
nei confronti del quintetto. All'esterno Teschio e Cinghiale si consultarono
con un rapido su e giù delle ciglia: dovevano levarsi di torno al più presto,
avendo già rischiato abbastanza.
Finirono per strada, sì e no nel
punto in cui il camionista aveva chiesto indicazioni a Benzina, per ritrovare
il cammino maestro. Si disposero in cerchio, colmi di curiosità.
«Adesso ci vuole dire chi è?»,
domandò Giacinta, bruciapelo.
Cinghiale la guardò con distacco.
«Sono un fuoriuscito… un ex dei
Dionisio».
La banda ammutolì.
«Sto dando la caccia a quei
bastardi che hanno rovinato me e moltissime altre persone...».
«Ci spieghi meglio», disse
Teschio.
«Non sto a elencarvi i
presupposti che mi hanno portato fin qui, ma ormai ho deciso di andare fino in
fondo, a costo di rimetterci le penne. Cerco delle prove per poterli
definitivamente incastrare...».
«Wow», blaterò Radu entusiasta.
«So tutto di voi, ma non
preoccupatevi, non ho nessuna intenzione di compromettere le vostre ricerche,
anzi… voglio, però, dirvi che stasera avete corso un grossissimo pericolo: se vi
avessero scoperto non sareste andati lontani…».
«Addirittura», disse Benzina, con
un sorriso sardonico.
«Hanno compiuto decine e decine
di omicidi, senza mai essere scoperti. Sono protetti da qualche pezzo grosso
del governo o da qualche servizio segreto. Con loro nessuno l'ha mai passata
liscia…».
«Tu però te la stai cavando
egregiamente…», gli disse Benzina.
«Mi sa che sono l'unico... ma
solo perché ho avuto la possibilità di sparire per un po’. E in ogni caso
bisognerà vedere come andrà a finire».
A Giacinta venne
un'illuminazione, intuita dall'amico di sempre, che fissava Cinghiale con gli
occhi sgranati. Ora tutto tornava. E anche l’autore del biglietto trovato
all’ingresso del camper aveva finalmente un nome.
«Lei… lei è il marito di Nadia?».
L'uomo tacque per qualche
istante, inarcando le sopracciglia e riflettendo sul fatto che ormai tanto
valeva svuotare completamente il sacco.
«Sì, sono io».
«E' stata sua moglie a darci le
indicazioni per arrivare fin qui», disse Teschio, preceduto di un soffio dalla
perspicacia di Giacinta.
«Lo so. Come sta?».
«Credo che la stia aspettando».
«Lo sto facendo per lei…».
«Mi rendo conto», chiuse Teschio.
«Non deve essere facile».
65.
Allontanandosi ulteriormente dal covo
dei Dionisio, si inoltrarono nel cuore della città. Sostarono di fronte a una
tabaccheria con le saracinesche abbassate, illuminata, all'interno, da una
debole luce al neon. Cinghiale si guardò intorno con fare circospetto, dando
l'impressione di temere di essere spiato: viveva con questa angoscia da mesi.
Passarono diverse macchine, ma la situazione sembrava tranquilla. Fu allora che
prese di nuovo la parola.
«So perché siete arrivati ai
Dionisio», disse corrugando la fronte. «E, forse, potrei esservi d'aiuto...».
Ai quattro si rizzarono le
antenne, come se avessero appena saputo di aver vinto alla lotteria. Radu, col
petto all’infuori, si interpose fra Cinghiale e Teschio, marcando la sua
presenza e sottintendendo che le spiegazioni
spettassero soprattutto a lui. Il marito di Nadia lo guardò con avidità, non
capendo quale storia avesse alle spalle, quel che gli pareva poco più di uno
scricciolo indifeso.
«Cosa può dirci?», incalzò
Teschio, con garbo e quell’atteggiamento mansueto, quasi di sottomissione,
riservato solo a chi, davvero, è in grado di offrire valide opportunità per
tirarsi fuori da qualche impiccio.
«Non so come siano andate le cose
di preciso, dopo la mia dipartita dal gruppo, ma c'ero ancora quando il santone
ordinò a una donna rom di esaudire l'ennesimo sacrificio. E immagino che voi siate
qui proprio per questo...».
«Esattamente», disse Benzina,
concitato, con le guance fiammeggianti.
«Posso, dunque, sospettare che
l'assassinio sia già avvenuto....».
«Qualcuno ha pugnalato a morte la
mamma di Radu», disse Teschio, indicando con un cenno del mento il piccolo che
aveva sotto gli occhi.
A Cinghiale fu tutto più chiaro.
Osservò Radu e gli regalò un'espressione solidale, contorcendo le labbra e
socchiudendo le palpebre.
«Vogliamo risalire all'assassino.
I Dionisio non avranno vita facile finché non avremo raggiunto il nostro
scopo», sentenziò Benzina, con caparbietà.
«È in grado di darci qualche
informazione in più?», domandò Teschio. «Non ha qualche nome?».
«Purtroppo no», disse Cinghiale.
«Ma suppongo che la comunità rom locale sia più volte stata coinvolta dai
Dionisio. Non so se hanno un debole per gli zingari o se il modo di vivere dei
nomadi sposi, per qualche strana dinamica, le esigenze della setta...».
«Di fatto anche stasera abbiamo
visto alcuni rom partecipare alla seduta».
«Li conoscevate?».
«No», rispose Giacinta. «Ma ne
passano così tanti da Sesto che i responsabili potrebbero esserci sfuggiti.
Peraltro la mia famiglia e quella di Radu, di origine sinti, non hanno mai
fatto parte attivamente della comunità locale».
«Potrebbe essere un buon elemento
da cui partire per le vostre indagini», dichiarò Cinghiale. «Se i Dionisio
hanno commissionato a una donna rom un assassinio, è facile supporre che la
donna sia andata a pescare nel suo paniere...».
Giacinta e Radu si guardarono conturbati,
non avendo quasi capito nulla dell'ultima enigmatica affermazione di Cinghiale.
Ma l'avevano compresa bene i due adulti, che mettendo insieme un po’ tutti gli
elementi raccolti fino a quel momento, si sentirono, in qualche modo, un po'
più vicini alla soluzione del caso.
«Ritiene, quindi, che l’assassino
possa essere una rom di Sesto?».
«Che dirvi... se è morta una
donna rom per mano di un'altra donna rom... è altamente probabile che le due si
conoscessero. O... si odiassero».
Giacinta e Radu si fissarono
sgomenti, messaggiandosi telepaticamente che c'erano dei validi presupposti per
pensare che qualcuno potesse odiare Slagena.
Teschio e Benzina notarono questo
loro scambio di intenti, intuendo a loro volta che, forse, non erano del tutto
al corrente delle vicissitudini dei vari clan familiari che rappresentavano la
realtà nomade sestese. E fecero centro.
66.
«C'è qualcosa che non ci avete
detto?», gli domandò Teschio.
«Non so...», rivelò Giacinta, titubante.
«Lo sai tu, Radu?».
Benzina scorse il ragazzo in
difficoltà e gli pose una mano sulla spalla in segno di affetto.
«Puoi parlarne apertamente, non
c'è nulla di cui ti devi preoccupare… ormai... siamo una sola famiglia…».
«Me l'hai già detto mille volte
che siamo una sola famiglia. Non serve che me li ricordi in ogni istante!».
Radu, sopraffatto dalla rabbia, allontanò
sgarbatamente la mano di Benzina e si rifugiò in un piccolo anfratto di muro
del palazzone che li sovrastava, con le mani conserte e lo sguardo muto.
Teschio e Benzina si interrogarono affranti, non comprendendo questo suo
attacco improvviso. Forse gli era sfuggito qualcosa? Non erano stati
sufficientemente accorti? Giacinta nicchiò.
«Cosa c'è sotto?», domandò
Teschio.
Giacinta tirò un bel respiro e
rivelò che le cose fra i nomadi del circondario erano molto più difficili di
quanto avevano lasciato trapelare dai loro racconti iniziali. In particolare,
le famiglie di Giacinta e Radu, erano vivamente tenute a debita distanza da
tutte le altre, perché giudicate più fortunate degli altri clan: essendosi
dedicate per anni alle giostre, molti pensavano che conservassero da qualche
parte gruzzoli di denaro che al più presto avrebbero utilizzato per cambiare
aria e soprattutto vita. E c'era anche il problema religioso. Molti rom locali
seguivano, infatti, una specie di rito cristiano ortodosso, ereditato da un
vecchio capo tribù, che proprio a Sesto aveva fatto la storia, ma che non era
apprezzato e condiviso dai sinti. Più volte erano sorte incomprensioni proprio
per questo motivo, spingendo alcuni nomadi a emarginare pubblicamente le due
famiglie cugine. Una volta Slagena era corsa via in lacrime da un gruppo rom
che l’aveva schernita per la catenella che portava al collo, raffigurante una
vergine sconosciuta alla tradizionale iconografia dell'est.
«Tutti i nodi vengono al
pettine», disse Cinghiale. «Come vedete c'è più di un valido motivo per credere
che la mamma del piccolo possa essere stata fatta fuori da qualcuno… qualcuna
che la odiava».
Teschio e Benzina annuirono simultaneamente.
«Pensateci bene», proseguì
Cinghiale, con fare fraterno, sollecitato da una folata di vento ristoratore.
«Potreste non essere lontani dalla soluzione…».
L'uomo si acquietò, scoprendosi
sazio di atteggiamenti altruistici, che nel vivere quotidiano raramente lo
contraddistinguevano. Rifletté altresì sul fatto che era da ben tre giorni che rincorreva
come un cane segugio le mosse perfide e sadiche dei Dionisio: era evidentemente
arrivato il momento di fare nuovamente perdere le proprie tracce.
«Ora vi devo salutare», disse con
aria avvilita. «Credo di essermi fermato abbastanza. Ma almeno possiedo
numerosi dettagli in più sui quali ragionare, per stanare una volta per tutti
quei cani bastardi… tornerò per il colpo di grazia».
Teschio e Benzina lo
ringraziarono di cuore.
«Il suo intervento è stato
provvidenziale», disse il capobanda.
«Non ho fatto nulla».
«Ha fatto molto», continuò
teschio. «Senza di lei staremmo ancora brancolando nel buio. E invece,
finalmente, sappiamo come andare avanti…».
«Spero riusciate a risolvere il
caso...».
«Ce la faremo», disse Benzina,
pervaso da una ventata di ottimismo.
Cinghiale esibì una faccia
strana, tipica di chi sta per dire qualcosa, ma non trova le parole giuste per
farlo. Si limitò, pertanto, a intimarli di tacere con chiunque, benché fosse chiaro
a tutti che si riferisse soprattutto alla moglie.
«Stai tranquillo, non le diremo
niente...», blaterò Benzina.
Teschio lo salutò con un cenno
della mano, sopraffatto da un sentimento malinconico, e dall’ipotesi che questa
sorta di amicizia in divenire, avrebbe potuto non avere seguito.
Cinghiale, in pochi secondi,
scomparve dai loro orizzonti come un fantasma, nel momento in cui Radu, guarito
dall'improvvisato broncio, riprese la marcia verso casa.
67.
Al camper si raccolsero in un
cerchio silenzioso, nel punto in cui avevano individuato la medaglietta dei
Dionisio. Avevano le facce devastate dalla stanchezza ed erano privi della
forza necessaria a intavolare un nuovo discorso. Non badarono neanche al
frastuono provocato dal passaggio di un treno merci, diretto chissà dove, che
in un'altra circostanza li avrebbe portati a imprecare malamente. Decisero così
di rimandare ogni decisione all'indomani, prevedendo di avere menti più fresche
e scattanti.
Radu dette l’impressione di
essere il più esausto della compagnia, raccolto in un’espressione dura e arcigna.
Il suo rammarico era dovuto al fatto che si sarebbe aspettato qualcosa di più
dal raid di perlustrazione presso il covo nemico. S'era infatti convinto che
avrebbe finalmente potuto mettere le mani addosso all'assassino di sua madre, per
fargli patire le pene dell’inferno; mentre non erano andati oltre un semplice e
banale appostamento, tipo quelli che aveva visto fare dai cowboy o
dall’esercito nordista in qualche film western. Gli altri lo guardarono con
l'aria assonnata, comprendendo la sua scontentezza e la sua incapacità a
valutare l'importanza dell'operazione da poco conclusasi, ma anche rendendosi
conto che non avrebbero saputo dove andare a pescare nuove rassicurazioni.
«Che facciamo adesso?», domandò
Giacinta.
Teschio la osservò pensoso.
«Direi di rivederci qui domani
mattina per organizzare le prossime mosse. Adesso siamo troppo stanchi per ogni
cosa. Magari potremmo telefonare a Nadia, per avere qualche consiglio utile...».
Benzina non metabolizzò al volo,
era troppo devastato. Nelle condizioni in cui si trovava non avrebbe desiderato
altro che sdraiarsi per riposare una decina di ore di fila. Sarebbe andato bene
di tutto, anche un giaciglio improvvisato nell'androne della stazione di Sesto,
dove molti suoi amici, da tempo, campeggiavano più o meno indisturbati. Non gli
sfuggì, in ogni caso, il riferimento a Nadia, il cui intervento non gli pareva
così indispensabile per il prosieguo delle indagini. Suppose, pertanto, che l’amico
fraterno potesse davvero essersi invaghito della moglie di Cinghiale e stesse,
dunque, cercando ogni buon motivo per poterla contattare; lo aveva, in fondo,
già sospettato il giorno in cui l’avevano conosciuta, dopo la sortita di
Rafael. Sicché finì per stuzzicarlo con garbo, anche se a malapena riusciva a
tenere aperte le palpebre.
«Da quando in qua ti affidi al
parere di una donna per decidere cosa fare?».
Anche Giacinta osservò con
stupore e ironia il grande capo, comunque rallegrandosi del fatto che perfino
un duro come lui potesse provare dei sentimenti. Ma Teschio non soccombette al
tiro mancino del duo. Stette al gioco, fece finta di niente, dribblando
magistralmente la situazione.
«Volete insinuare che Nadia non
ci sia stata di aiuto fino a questo momento?».
«Nessuno dice questo», blaterò
Giacinta.
«Ha saputo indicarci la sede dei
Dionisio... senza di lei, probabilmente, staremmo ancora girando intorno al
camper».
«Ne sei così sicuro?», domandò
Benzina, ridacchiando.
Teschio non gli diede alcuna
soddisfazione.
«Ogni sua dritta potrebbe essere
utile. Mi sembra che in questa faccenda ci siano di mezzo un bel po’ di
donne... dunque, una donna in più, non potrà fare che bene...».
Giacinta e Benzina risero sotto i
baffi, auspicando un sensazionale futuro per la coppia, in barba al
sentimentalismo di Cinghiale, apparentemente più innamorato di Bologna che non
della donna con cui aveva diviso il letto per molti anni.
«Va beh, con questa direi che è
arrivato anche per noi il momento di andare a dormire... che dite?».
La proposta della ragazza venne
accolta con gioia dai due adulti, visibilmente tramortiti dall'ansia patita
nelle ultime ore.
«Tu ti fermi ancora qui?», le
chiese Benzina, con un tiro impercettibilmente malizioso.
Giacinta fece una smorfia per
sottolineare che la sua domanda era alquanto fuori luogo: ormai era evidente
che il camper di Radu fosse diventato anche il suo. Si sentì offesa e non lo
degnò di alcuna risposta. Sorrise a Teschio e riguadagnò l'ingresso della
roulotte. Trovò Radu rannicchiato su se stesso, in posizione fetale, come un
ghiro in letargo. Si mosse con cautela per non svegliarlo, trovandolo ancora
più piccolo e indifeso del solito.
68.
Radu si svegliò con le tenebre in
pompa magna e il cuore in gola: aveva appena sognato la mamma che camminava per
la roulotte grondante di sangue, con un coltello in mano e una sigaretta marcia
fra le labbra. Riaprendo gli occhi se la vide davanti e fu travolto dal
terrore. Rimase per qualche istante immobile, accecato dall'angoscia, cercando
di nascondersi con un lembo di lenzuolo, incredulo dinanzi alla possibilità che
lo zombie di Slagena potesse fargli del male. Nemmeno le lacrime riuscirono a
dargli sollievo. Si alzò per coccolarsi con un bicchiere d'acqua e si calmò
solo quando, osservando la strada dal piccolo oblò sopra al lavandino,
illuminata dai puntini gialli dei lampioni della ferrovia, si rese conto che
era stato semplicemente un brutto sogno e che non c'era nulla di cui
preoccuparsi. Giacinta non si accorse di nulla.
Al risveglio, la ragazza, allungò
il braccio destro per stirarsi e senza accorgersi finì col tirare una specie di
schiaffo all’amico. Radu non fece una piega: con le prime luci dell'alba e i
primi via vai forsennati dei pendolari era sprofondato in un sonno profondo, catartico,
dimentico dei patemi subiti durante la terrificante veglia notturna. Giacinta
non lo volle disturbare. Si arrangiò in silenzio, mangiucchiando un paio di
grissini scaduti e lavandosi ben bene la faccia.
Scese dalla roulotte e prese a
pitturarsi le unghie, con uno smalto recuperato dal cassetto personale di
Slagena. Andò avanti per pochi minuti, finché un'ombra non le oscurò
volutamente la visuale. Era Benzina, in perfetto orario.
«Non c'è Teschio?».
«Arriva anche lui…».
Giacinta rimase sulle sue, stufa degli
occhi languidi e viscidi dell’adulto.
«Radu?».
«Dorme ancora».
«E tu? Dormito bene?».
Benzina non ricevette risposta e percependo
l'insofferenza dell'amica, girò al largo, andando a fare due passi nel parco
Gramsci, dove spesso si rintanava per godersi un po’ di frescura. La ragazza
apprezzò. Non aveva nessuna voglia di dargli retta e anche se sapeva che non le
avrebbe mai fatto del male, era piuttosto infastidita dalle sue attenzioni
vagamente morbose: lo sguardo di Benzina troppe volte le ricordava quello
bavoso di qualche vecchio incontrato sul metrò, ipnotizzato dalle sue forme. Di
lì a poco arrivò anche Teschio.
«Buongiorno signorina».
Con Teschio fu tutto un altro
mondo, trovandolo, ormai, una specie di secondo padre.
«Bene arrivato. Ti piacciono le
mie unghie?».
«Non potevi farle di un altro
colore?».
«Il nero è il mio colore preferito».
Fece capolino anche Radu, con gli
occhi ancora imburrati di sonno.
«Buongiorno».
«Buongiorno a voi».
Vedendo che mancava all’appello
ancora Benzina, Teschio impugnò il telefonino e chiamò Nadia. Lo fece
allontanandosi di qualche passo dalla roulotte, lasciando che Giacinta e Radu
lo seguissero con i loro sguardi civettuoli.
«Sono Teschio, ciao Nadia…».
La moglie di Cinghiale rispose
con garbo, felice di poter scambiare due chiacchiere con un uomo che trovava
simpatico e intelligente, nonostante il precario status sociale che lo
contraddistingueva. Teschio le spiegò l'accaduto e se aveva qualche suggerimento
da dargli su come affrontare le prossime tappe della missione.
Giacinta e Radu si scambiarono un
sorriso ironico, vedendo Teschio allontanarsi ulteriormente, dando
l’impressione di voler affrontare un discorso troppo personale per essere
condiviso anche con degli amici fidati, finendo per mimetizzarsi con il muro di
cinta che divideva la strada dalla ferrovia. Tornò dopo dieci minuti.
«Allora? Che ti ha raccontato di
bello?», domandò Giacinta, con sarcasmo.
Teschio ebbe un attimo di esitazione:
non divenne rosso, ma poco ci mancò. Di fatto, con le varie considerazioni fatte,
relative all’uccisione di Slagena, aveva anche colto l’occasione per proporsi a Nadia per un'uscita intima; e la donna gli
aveva risposto affermativamente, non appena le cose si fossero sistemate.
Teschio era su di giri, e non
sapendo come contenere la sua gioia, redarguì senza motivo Benzina, ricomparso
all'orizzonte.
«Sei in ritardo».
«In realtà sono arrivato prima di
te».
«Io sono qui da dieci minuti».
«Io da venti…».
«Se vogliamo risolvere il caso
dobbiamo essere puntuali…».
La finirono lì, consci del fatto
che fosse una conversazione priva di ogni senso, intavolata solo per sedare un
momentaneo imbarazzo. Se ne accorsero anche i due giovani che dondolarono la
testa, convincendosi del fatto che, in fondo, fra adulti e ragazzi non ci fosse
una così grande differenza: un adulto era solo un bimbo un po’ cresciuto.
69.
«Che si fa, allora?», domandò
Giacinta, rimirandosi le unghie come una modella.
«Radu, abbiamo bisogno di te»,
disse Teschio.
Il piccolo si avvicinò al gruppo,
ancora visibilmente assonnato e con la mente annebbiata dalle immagini non
ancora del tutto tramontate di Slagena che camminava come uno zombie. Fissò
Teschio con aria di sfida.
«Cosa volete sapere?».
«Chi odiava tua madre», disse
Teschio, con grande autorevolezza. «Adesso è arrivato il momento di sapere come
stavano davvero le cose fra tua madre e le altre rom del circondario... adesso
è arrivato il momento di agire veramente».
Giacinta guardò Radu con
compassione, sapendo quanto fosse doloroso dover rispolverare un passato infingardo
e meschino. Anche lei, di fatto, aveva passato le stesse angherie della
famiglia di del piccolo, vicissitudini dovute all'ostracismo dei rom locali. Ma
ci teneva che fosse per primo lui a dare qualche ragguaglio in più agli
amici.
«Fatima e Aicha», sibilò Radu.
«Le hanno fatto il malocchio...».
Si illuminarono gli occhi di
Teschio e Benzina; e i due uomini si resero conto che la matassa di un caso
apparentemente irrisolvibile stava srotolandosi definitivamente.
«Sono due donne rom che abitano
lungo la via Gramsci», precisò Giacinta.
«Praticamente a due passi da
qui», disse Benzina.
«Esattamente», disse la ragazza.
Teschio si fece meditabondo. Era
necessario un piano.
«Come sono organizzate?», chiese.
«In che senso?», domandò
Giacinta.
«Vivono insieme?», chiese
Benzina.
«No», sentenziò Radu. «Vivono
ognuna nella propria roulotte».
«Coi rispettivi mariti»,
sottolineò Giacinta.
«Ma i mariti durante la mattinata
sono sempre in giro...», disse Benzina.
«Di solito è così...», disse
Radu. «Suonano entrambi la fisarmonica».
«Quindi?», incalzò Giacinta.
«Dobbiamo dividerci», replicò
Teschio. «La miglior cosa da fare è questa: due vanno da una parte e due
dall'altra. Proviamo a stargli addosso, studiando le loro mosse, ma senza farci
beccare. Se avessimo dei cannocchiali...».
«E dove li troviamo, adesso, dei
cannocchiali?», domandò Benzina, sorridendo.
Il capobanda crucciò la fronte,
dinanzi al fatto che, obiettivamente, non ci fossero molte possibilità di
trovare al volo oggetti così particolari: nessuno di essi, del resto, ne aveva
mai posseduto uno. Dovettero rinunciare per fare unicamente affidamento sulle
proprie retine, spoglie di ogni accessorio.
«Per ora possiamo farne a meno»,
disse Teschio. «Accontentiamoci di sondare la situazione. In un secondo momento
potremmo intervenire con un'attrezzatura più adatta...».
«Più che altro... noi due
rischiamo di essere riconosciuti», disse Giacinta. «Se ci vedono nei dintorni
delle loro roulotte di sicuro si insospettiscono... sanno bene che preferiamo
stargli alla larga...».
«Hai ragione», disse Teschio. «Avete
qualcosa per camuffarvi?».
«Camu che?», disse Radu, ridendo.
«Mascherarvi, truccarvi, con un
cappello, una sciarpa, un...».
«Una sciarpa in pieno luglio...
mi sembra un'ottima idea», lo ridicolizzò Giacinta.
«Su, era tanto per dire...», si
difese Benzina. «Radu, c'è qualcosa sul vostro camper che possa aiutarvi a
passare inosservati?».
Radu non aspettò un minuto a
salire a bordo della sua casa ambulante per verificare che c'era tutto
l'occorrente per travestirsi al meglio: c'erano altresì degli indumenti assurdi
che aveva provato a indossare per qualche show in piazza Duomo, potenzialmente
in grado di mimetizzare anche un rinoceronte. Giacinta lo seguì. Sparirono per
una decina di minuti. E quando si ripresentarono al cospetto dei due adulti non
erano più loro: Radu vestiva un cappello da giocatore di baseball, un paio di
occhiali da metalmeccanico, e una specie di mantello nero che gli copriva tutto
il corpo; Giacinta una parrucca nera, un fondotinta così scuro da farla
sembrare un’abissina, e una camicia bianca di una taglia esageratamente
voluminosa per le sue forme comunque contenute. Teschio e Benzina gioirono come
bimbi in gita con l'oratorio.
«Siete fantastici», disse
Benzina.
«A dir poco fantastici».
Teschio mosse su e giù la testa
approvando con enfasi la trovata dei ragazzi: conciati in quella maniera non li
avrebbero riconosciuti nemmeno i parenti più stretti.
70.
«Come ci dividiamo?», domandò
Giacinta.
Teschio rifletté per una frazione
di secondi.
«Io vado con Radu, tu con Benzina».
Giacinta non ne fu felice, ma non
ribatté: comprese che non ci fossero molte alternative. In fondo, era giusto
che il più piccolo andasse con il più grande, potendo in qualche modo
beneficiare di una maggiore protezione.
«Bene, allora… mettiamoci al lavoro»,
disse Benzina, tutto allegro, convinto che non gli avrebbe potuto fare che
bene, trascorrere qualche ora da solo con Giacinta, per la quale provava un
desiderio sempre più spiccato, benché fosse conscio del fatto che se solo
l'avesse sfiorata con un dito gli avrebbero fatto saltare le budella; Teschio
per primo.
La roulotte di Aicha e del marito
si trovava a circa mezzo chilometro dalla stazione dei treni di Sesto, lungo
via Gramsci, in direzione Milano. Fra tutti i rom della zona, erano quelli che
abitavano più vicini all'ingresso principale della ferrovia, a pochissimi passi
dal parcheggio a pagamento e dall'ingresso del Palasesto. Vivevano in un camper
trasandato, ancora più sporco e maltenuto di quello di Slagena. Vi dormivano in
quattro: madre, padre e i due figli piccini. Al suo interno si respirava un
odore pungente e asfissiante.
La casa ambulante di Fatima si
trovava, invece, dall'altra parte della strada, e volgeva il suo sguardo al
monzese, verso nord, forse il motivo per cui, in inverno, pareva fare più
fredda di tutte le altre roulotte. Anch'essa non era in buone condizioni, ma
l'innato buon gusto di Fatima per l'arredamento, e la mancanza di bimbi che
lasciassero in giro ogni cosa, riusciva sempre a fornirle un appeal
particolare.
Le operazioni dei singoli gruppi
si svolsero quasi in contemporanea: Radu e Teschio si sistemarono dietro un
cespuglio rigoglioso, di fronte al camper di Aicha; Benzina e Giacinta si
appollaiarono alle spalle di un arbusto nel parchetto, dove venivano portati a
spasso i cani.
"Porca puttana, iniziamo
bene".
Fu l'esclamazione di Benzina,
quando si accorse di avere calpestato la poltiglia intestinale di qualche
quattrozampe che se avesse avuto fra le mani, avrebbe come minimo stritolato.
Giacinta rise di gusto, strofinandosi il naso per vincere l'improvviso effluvio
molesto.
«Che schifo!», blaterò.
Nello stesso momento, i mariti di
Aicha e Fatima imbracciarono la fisarmonica e lasciarono le rispettive roulotte
per correre a prendere il metro e iniziare la quotidiana attività di musicisti erranti:
lo facevano da anni, raccattando quasi ogni giorno monete a sufficienza per
sfamarsi e pure concedersi qualche vizio. Incontrandosi a pochi metri di
distanza dall'occhio indiscreto delle due vedette, parlottarono con vigore,
esprimendosi con ampi gesti delle braccia e dando l'impressione di avere
qualche affare in corso o di non vedersi da decenni.
Dopo pochi minuti fu la volta di
Aicha e dei suoi due piccoli: la donna sistemò il più giovane in un passeggino
divorato dall'incuria, lasciando che l'altro le camminasse al fianco e guidasse
la carovana verso la pompa dell'acqua nei pressi del mercatone dell'usato,
oltre i confini della Smeg.
Teschio e Radu drizzarono le
orecchie: non avrebbero mai immaginato di trovare la strada spianata dopo
appena una decina di minuti dal loro arrivo.
Sull'altro fronte, invece, le
cose non andarono altrettanto bene. Fatima sembrò, infatti, non avere alcuna
intenzione di muoversi, asserragliata nel camper, presa dall'idea di cucinare
un piatto di bolapé, tipico della sua gente, a base di pollo, peperoni e
datteri. Ai due non rimase che trovare la sistemazione migliore, cercando di
non cancrenarsi le gambe. Benzina raccolse un legnetto più robusto degli altri
e iniziò a ripulirsi la cacca delle scarpe.
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