16.
Con passo mogio e stanco gli uomini del Marengo si misero in cammino per raggiungere il laghetto, consapevoli che ci fosse ben poco da fare e che, se anche si fossero messi a correre, don Filippo non sarebbe tornato in vita. E fu perfino il subliminale e paradossale desiderio di ritardare il più possibile il fatidico incontro con i poveri resti del prete, ad avere il sopravvento.
Con passo mogio e stanco gli uomini del Marengo si misero in cammino per raggiungere il laghetto, consapevoli che ci fosse ben poco da fare e che, se anche si fossero messi a correre, don Filippo non sarebbe tornato in vita. E fu perfino il subliminale e paradossale desiderio di ritardare il più possibile il fatidico incontro con i poveri resti del prete, ad avere il sopravvento.
Il sole
splendeva alto nel cielo, facendo boccheggiare i buraghesi, già esausti e intristiti. Avevano le camicie
zuppe di sudore e si sentivano prostrati,
come accadeva solo durante le peggiori giornate di lavoro.
«Non
sarà un bello spettacolo», mugugnò fra sé Pinuccio, terrorizzato dall'idea di vedere un'altra persona
morta; l'ultima l'aveva vista appena due settimane prima: era il nipotino di Piero
Galbiati, malato da tempo di un misterioso morbo che nessun medico aveva saputo
diagnosticare; per poco, al suo capezzale, non era svenuto.
Il Marengo si soffermò su una lunga fila
di arbusti piegati su se stessi, anch’essi
visibilmente provati dalle alte temperature. Per un attimo distolse l'attenzione da don Filippo e si
concentrò sul fatto che da un po’ di anni a questa
parte le estati duravano sempre di più, erano più calde e spesso creavano problemi ai raccolti. Si domandò quale
fosse il motivo di questa indulgenza del clima;
non sapendo certo che la cosiddetta Piccola età glaciale fosse terminata e che d'ora innanzi, siccità e arsura,
avrebbero rappresentato la norma, anche per
un piccolo villaggio lombardo come Burago.
Guidava
la fila, di fianco all'Ambrogino,
che masticava un legnetto di robinia raccolto in un profondo mutismo. Se ne accorse e volle sincerarsi
che andasse tutto bene.
«Dove
l'hai visto esattamente?», gli chiese.
L'Ambrogino
si espresse con un broncio da deportato.
«In
mezzo allo stagno».
Il
Marengo si mordicchiò le labbra.
«Ma con
tutte le alghe che ci sono…».
L'Ambrogino
non lo lasciò finire.
«Infatti,
non si vede un accidente. Per vedere bisogna entrare…».
L'uomo
lo fissò con aria contratta.
Il
giovane se ne accorse, e tentò di smorzare
il suo cipiglio, con una giustificazione traballante, ma veritiera.
«Per un pezzetto. Il fondo teneva».
Sorrise,
quasi.
«Ti
avevo detto di stare lontano dalle rive. Volevi essere inghiottito dalle sabbie mobili?».
«Non ho
potuto fare diversamente. Da lontano non si capiva cosa fosse».
«La
prossima volta non ti darò retta e manderò qualcun altro».
Lo
disse rendendosi conto che, probabilmente, non ci sarebbe stata un'altra volta. Di fatto, non era cosa da tutti
i giorni che scomparisse dall'oggi al domani
un prete, per poi trovarlo privo di vita in una pozza acquitrinosa, pattugliata durante la sera, da
voracissime zanzare. Grazie a Dio, rifletté.
L'Ambrogino
inarcò le sopracciglia, in tono di sfida.
«Non ho
paura della sabbie mobili».
«Non
sai quello che dici».
«Non
s'è mai sentito parlare di qualcuno sparito così».
«Don
Filippo non ti basta?».
Tirarono
un respiro profondo, scoprendosi a un tiro di schioppo dal famigerato laghetto. Cinque minuti,
non di più, li dividevano dallo scempio degli scempi. Pinuccio diede una spallata all'amico. Luciano
Brioschi lo guardò distrutto.
«Hai
sentito l'Ambrogino? Ha detto che ha ancora gli occhi sbarrati...».
Rabbrividirono.
«Quanto pagherei perché fosse solo un brutto sogno».
«Quanto pagherei perché fosse solo un brutto sogno».
17.
A
destinazione puntarono gli occhi sul laghetto con riverente timore, e allo
stesso tempo con un'avidità peccaminosa; ma fra le frasche degli alberi e le canne non videro granché.
«Ambrogino…»,
blaterò il Marengo.
Il
ragazzo capì al volo.
«Seguitemi», propose.
In fila
indiana, nel silenzio più assoluto, lo stesso che aveva sconvolto poco prima il giovane, raggiunsero il punto
in cui il ragazzo s'era inoltrato nello stagno
per sincerarsi della natura di quella enigmatica macchia scura. Ritrovando la
strada maestra, non fiatò, e allungò il braccio puntando l'indice sul cadavere
di don Filippo, che, questa
volta, seppe riconoscere senza tentennamenti.
«Dio
santissimo», mugugnò il Marengo, «non si vede molto bene da qui, ma dà proprio l'impressione di essere un
corpo».
«Se
vuole esserne sicuro deve per forza entrare».
L'Ambrogino
e il Marengo si guardarono con aria meditabonda e preoccupata. Lo stesso capobanda si rese conto che non
c'erano molte alternative, anche se
aveva appena redarguito il giovane, per aver affrontato lo specchio lacustre senza il suo permesso.
«D'accordo».
Il
Marengo compì il primo passo e in mezzo secondo si ritrovò con l'acqua alle ginocchia. L'Ambrogino, contrariamente
a quanto potesse immaginare, avendolo sempre
visto come una specie di immortale, capace di vincere qualunque sfida, notò la
sua difficoltà e volle rendergli meno arduo il cammino.
«Posso
farle strada?», gli domandò.
Il Marengo annuì.
«State
attenti», li implorò Pinuccio, con il cuore in tachicardia.
L'Ambrogino
cercò di ripercorrere gli stessi passi risolti in solitaria, anche se non fu facile, perché ogni angolo
dello stagno pareva uguale all'altro ed era facilissimo confondersi. Ma capì di essere nel punto giusto,
quando sentì di nuovo le rane gracchiare. Pensò
che potessero essere le stesse viste un'ora prima, incurante del fatto che si sentisse ovunque gracidare e
che quelle osservate in precedenza, potessero nel frattempo essere giunte al
Molgora.
«Di qui»,
disse l'Ambrogino, deviando intorno a una canna più robusta delle altre, l'ultimo scoglio prima di
trovarsi a tu per tu con il corpo esanime del prete.
«State
attenti», disse nuovamente Pinuccio.
«Abbiamo
capito», gridò l'Ambrogino, esausto, «non serve che ce lo ripeti ancora mille volte».
Il
Marengo girò l'ostacolo e finalmente poté vedere con i suoi occhi ciò che il ragazzo gli aveva raccontato: era
il corpo supino, bianco, marmoreo, e senza
vita, di don Filippo. Il suo stomaco brontolò malamente, e per un attimo temette di vomitare il pranzo.
«Hai
visto?».
«E'
proprio lui», mugugnò incredulo il Marengo, vittima di un violento conato.
Rimasero
per una trentina di secondi in contemplazione del cadavere del pievano, strappati dalla realtà, in cerca
di un appiglio razionale che potesse ridare
forma al loro divenire. Ma la vista della morte di una persona scomparsa in modo così drammatico non fu facile
da metabolizzare. Ora non c'erano più dubbi:
don Filippo non era più fra i viventi, e dalle parole riportate sul foglietto era evidentemente stato lui
stesso a proclamare quella assurda fine.
Parve impossibile a entrambi, ma non ci fu
altro modo di giustificare l'inconcepibile momento. C'era solo da capire in che
modo poterlo riportare a casa e regalargli
l'estremo riposo.
18.
«Allora, allora», incitò Pinuccio.
«E'
lui», disse serafico il Marengo.
«E
adesso cosa facciamo?», domandò Luigi Brambilla, quarantenne vigoroso e spallato.
Il
Marengo lo fissò dondolando il capo.
«Dobbiamo
recuperarlo, prima che se lo mangino i topi».
A
sentire queste parole Alfredo Galbusera ebbe una vertigine.
«I
topi?».
«Qui ce
ne sono a bizzeffe», disse il Marengo.
«Così
dicevano i Casiraghi», affermò Luciano Varisco, zio alla lontana dell'Ambrogino.
«Il
problema è come…», disse Mario Porta, fratello di un maniscalco di Agrate, giunto in paese da un paio di anni,
per avere preso in sposa una buraghese.
Il
Marengo si guardò intorno per cercare qualcosa che potesse aiutarli a raggiungere la salma.
«Ci vorrebbe una barchetta»,
disse l'Ambrogino.
«C'era quella del vecchio
Paride», disse Pinuccio.
«Ma è affondata da chissà quanti
anni», precisò Alfredo.
Alcuni ragazzi bisbigliarono fra
loro, fantasticando di costruire al volo una specie di zattera. L’idea
giunse all'orecchio del Marengo che li guardò interessato. Ma prima di
arrivare a tanto, volle tentare la carta che sembrava più semplice e diretta.
«Proviamo
con qualche ramo robusto», disse il Marengo, «rompiamone un po’ e i più lunghi e resistenti li utilizziamo per
spingere il corpo verso la riva».
«Dovremo
tornare in acqua», sibilò l'Ambrogino, stanco di buttarsi in quella melma.
«Non
abbiamo altra scelta», disse il Marengo.
Gli
uomini si misero immediatamente al lavoro, ma non fu facile ottenere delle
pertiche sufficientemente resistenti con la sola forza delle mani.
Dopo
vari tentativi, Pinuccio si
propose per fare una corsa in paese a prendere
un'accetta. Il Marengo acconsentì. L'uomo partì come un fulmine e nel giro di una quindicina di minuti portò
a termine la missione.
«Quello»,
disse Luciano, indicando un ramo bello dritto e apparentemente in buona salute. Ci pensò il Brambilla,
che con pochi colpi secchi, padrone di una forza che in paese nessuno aveva, lo separò
dal tronco ottenendo una lunga stecca. Fece
la stessa cosa con altre quattro braccia di caducifoglie.
«Direi
che possono bastare», affermò il Marengo.
«Ne
abbiamo a sufficienza?», domandò Pinuccio.
Il
Marengo nemmeno gli rispose e andò avanti a organizzare le operazioni di recupero del cadavere.
«Io e
l'Ambrogino prendiamo questo. E anche voi fate lo stesso, a due a due per ogni pertica».
Ci fu
un po’ di trambusto, legato alla scelta della frasca apparentemente più pesante e alla formazione delle coppie
per affrontare l’impresa.
«Come
ci disponiamo?», domandò Alfredo.
Il
Marengo osservò con attenzione il laghetto, per capire i punti in cui la salma
del prete fosse più facile da
raggiungere. Ne individuò cinque, e li indicò ai presenti. Per tutti un solo comando: cercare di
pungere don Filippo, muovendolo dall'altra
parte dello stagno, stando attenti a non affogare.
«Non
sarebbe meglio assicurarci con una corda?», domandò Pinuccio.
«Perdiamo
troppo tempo», tagliò corto il Marengo, «se entriamo nel lago con calma, verificando la tenuta del fondo,
possiamo stare tranquilli».
19.
Il Marengo e l'Ambrogino furono i primi a buttarsi nella melma. Il più anziano diresse il grosso ramo verso il corpo del prete, reggendolo con la mano destra, cercando di avanzare a fatica nel putridume dello stagno. Alle sue spalle, l'Ambrogino, comandava il bastone, mantenendolo in equilibrio orizzontale e cercando di non farlo affondare. Per lui l'imbarazzo dell'acqua fu più sopportabile: essendo dietro, la superficie verdognola dello specchio lacustre gli arrivava solo al bacino.
Si
respirava uno strano odore. Di umidità e carne marcescente. Guardò il Marengo
sfiorato dall'idea macabra che potesse annegare da un momento all'altro. Non fu una
bella sensazione; voleva bene al Marengo e di
cose brutte ne aveva già viste fin troppe per la sua tenera età. Avrebbe voluto gridargli di stare attento, di
non spingersi troppo in là, parafrasando le
raccomandazioni appena ricevute, ma le parole gli si gelarono in bocca. Giunsero al cadavere, quando il fango
aveva quasi toccato le ascelle del capobanda.
«Alza,
alza!», ordinò alle retrovie.
L'Ambrogino
obbedì e forzando con l'avambraccio sinistro impennò la pertica, consentendole di mirare perfettamente
alle spalle disarticolate del prete.
«Bene
così», gridò il Marengo.
Il
tronco si appoggiò sul cadavere e affondò come un coltello in una pagnotta di burro: era zuppo di acqua e non fu
facile calcare sulle ossa per dargli una
bella sferzata.
«Spingi,
spingi!», urlò il Marengo.
Lo
stesso fecero gli altri uomini dislocati lungo i punti della riva segnalati dalla guida, distanti fra loro una
decina di metri. Il più in difficoltà parve Pinuccio, che non era ancora
riuscito a puntare il suo legno sulle ossa lussate di don Filippo. Sentì cedere il terreno sotto di sé,
constatando che probabilmente c'era una specie
di fossa che impediva di avanzare con sicurezza e sprofondava negli inferi.
Azzardò, ma si pentì presto della sua imprudenza. Tirò un urlo disperato, quando in un sol colpo l'acqua gli arrivò
alla bocca, inondandola di foglie secche
e altre schifezze.
«Afferra
il ramo!», lo implorò Luigi Brambilla, che spingeva come un mulo.
Pinuccio
riuscì con un colpo di reni a guadagnare un po’ di centimetri verso il cielo. Tirò un respiro
profondo e con un paio di bracciate si portò alla
giusta distanza dal pericolo di venire fagocitato dalla mota. Il suo cuore batté come un cannone, ma ringraziò il
cielo di essere in salvo. Luigi Brambilla lo fissò
impietrito. Per un attimo aveva temuto un'altra sciagura.
«Tutto
a posto?», domandò il Marengo, dall'altra parte dello stagno, con l'acqua che ormai gli sfiorava la
gola.
«Tutto
bene», tartagliò Pinuccio, devastato dalla paura.
«E'
meglio che vi fermiate», blaterò il grande capo, «magari riusciamo a farcela anche senza il vostro
appoggio».
Il
Marengo, l'Ambrogino e tutti gli altri cominciarono a spingere come forsennati sul cadavere di don Filippo
che, a mo' di una zattera malconcia e trasandata,
che fa acqua da tutte le parti, prese a muoversi traballando verso la riva opposta.
«Avanti
così!», gridò il Marengo.
Fecero
forza sui rami finché il cadavere non venne a trovarsi a un paio di metri dal bordo dello stagno.
20.
Quelli
rimasti lungo la riva, accorsero nel punto in cui, come un vascello fantasma, stava
arrivando il corpo di don Filippo. Era uno dei punti più impervi del laghetto,
completamente avvolto dagli alberi e circondato da frasche e arbusti. Faceva
strada Dante Cereda, uno dei più anziani del paese, ma ancora caratterizzato da
voluminosi bicipiti e tricipiti, pari a quelli di un trentenne in carne. Usò
dei rami come falcetti per farsi strada in mezzo a tutto quel verde selvaggio.
Alla fine giunse proprio di fronte al cadavere del pievano.
«Ci
siamo, eccolo lì».
Don
Filippo s’era fermato in corrispondenza di un grosso tronco che sorgeva dalle
acque come una ninfea. Un botanico si sarebbe potuto chiedere come un albero
del genere potesse aver radicato su quella melma stagnante.
Arrivarono
anche il Marengo, l’Ambrogino e tutti gli uomini che con le varie pertiche
s’erano messi a spingere don Filippo dall’altra parte della riva, completamente
infangati e sozzi.
«Ho
bisogno di un paio di persone», disse l'instancabile Marengo.
Ancora
una volta si fece avanti l’Ambrogino, che il capobanda guardò con aria paterna,
divertito dalla sua incredibile verve. E Luigi Brambilla, che nonostante avesse
ancora in mente il rischio corso dall’amico, si sentì in dovere di dare una
mano ai due compaesani e contribuire in prima persona al recupero di don Filippo.
«Forza»,
mugugnò il Marengo.
Rispetto
all’altra sponda, in questo angolo dello stagno, il terreno sembrò sopportare
meglio il peso delle persone. Vi entrarono uno in fila all’altro, tenendosi per
mano.
In
pochi passi furono al cospetto del corpo esanime di don Filippo. Prima di
entrare in azione lo guardarono come se stessero contemplando qualcosa di
assolutamente inaudito e inspiegabile. Di fatto, lo era. Nessuno dei tre poté
capacitarsi di quel profilo gonfio, cenerognolo, orrendo.
«Proviamo
ad afferrarlo per le braccia», disse il Marengo.
Non ci
volle molto a direzionarlo verso la superficie asciutta. Il Marengo e
l’Ambrogino tirarono per le braccia; Luigi si mise alle spalle del duo cercando
di fare forza da dietro. In pochi istanti don Filippo fu di nuovo fra i suoi
compaesani, ma in uno stato che nessuno si sarebbe mai potuto immaginare.
Sconvolse
tutti. Era bianco, violaceo in alcuni punti del viso, con le vesti e i tessuti
inzuppati di liquido putrido. Gli mancava una scarpa e le dita delle mani
sembravano di marmo. Conservava un’espressione del volto di terrore e angoscia;
gli occhi erano parzialmente richiusi, ma il riflesso che ne scaturiva era a
dir poco sconvolgente.
«Dio
mio», tartagliarono in molti.
«Povero
don Filippo», disse Pinuccio.
«Ma
cosa gli è successo? Come può avere fatto una fine del genere?», blaterò
incredulo Martino Vismara, tipetto tutto pepe già noto per la sua eccitabilità.
Il
Marengo ordinò a due uomini di raggiungere il borgo e tornare con un carretto,
per trasportare comodamente il cadavere del prete in curia. Si abbassò per
serrargli definitivamente le palpebre e invitò tutti i presenti a raccogliersi
in preghiera per qualche istante. Recitarono in gruppo il Padre Nostro e l’Ave
Maria, mentre un nugolo di mosche cominciò la sua danza macabra intorno a ciò
che rimaneva del pievano buraghese.
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