venerdì 6 dicembre 2013

Ferragosto # 4


16. 

Con passo mogio e stanco gli uomini del Marengo si misero in cammino per raggiungere il laghetto, consapevoli che ci fosse ben poco da fare e che, se anche si fossero messi a correre, don Filippo non sarebbe tornato in vita. E fu perfino il subliminale e paradossale desiderio di ritardare il più possibile il fatidico incontro con i poveri resti del prete, ad avere il sopravvento.
Il sole splendeva alto nel cielo, facendo boccheggiare i buraghesi, già esausti e intristiti. Avevano le camicie zuppe di sudore e si sentivano prostrati, come accadeva solo durante le peggiori giornate di lavoro.
«Non sarà un bello spettacolo», mugugnò fra sé Pinuccio, terrorizzato dall'idea di vedere un'altra persona morta; l'ultima l'aveva vista appena due settimane prima: era il nipotino di Piero Galbiati, malato da tempo di un misterioso morbo che nessun medico aveva saputo diagnosticare; per poco, al suo capezzale, non era svenuto. 
Il Marengo si soffermò su una lunga fila di arbusti piegati su se stessi, anch’essi visibilmente provati dalle alte temperature. Per un attimo distolse l'attenzione da don Filippo e si concentrò sul fatto che da un po’ di anni a questa parte le estati duravano sempre di più, erano più calde e spesso creavano problemi ai raccolti. Si domandò quale fosse il motivo di questa indulgenza del clima; non sapendo certo che la cosiddetta Piccola età glaciale fosse terminata e che d'ora innanzi, siccità e arsura, avrebbero rappresentato la norma, anche per un piccolo villaggio lombardo come Burago.
Guidava la fila, di fianco all'Ambrogino, che masticava un legnetto di robinia raccolto in un profondo mutismo. Se ne accorse e volle sincerarsi che andasse tutto bene.  
«Dove l'hai visto esattamente?», gli chiese.  
L'Ambrogino si espresse con un broncio da deportato.  
«In mezzo allo stagno». 
Il Marengo si mordicchiò le labbra.  
«Ma con tutte le alghe che ci sono…». 
L'Ambrogino non lo lasciò finire.
«Infatti, non si vede un accidente. Per vedere bisogna entrare…».
L'uomo lo fissò con aria contratta.
Il giovane se ne accorse, e tentò di smorzare il suo cipiglio, con una giustificazione traballante, ma veritiera.
 «Per un pezzetto. Il fondo teneva». 
Sorrise, quasi. 
«Ti avevo detto di stare lontano dalle rive. Volevi essere inghiottito dalle sabbie mobili?».
«Non ho potuto fare diversamente. Da lontano non si capiva cosa fosse». 
«La prossima volta non ti darò retta e manderò qualcun altro». 
Lo disse rendendosi conto che, probabilmente, non ci sarebbe stata un'altra volta. Di fatto, non era cosa da tutti i giorni che scomparisse dall'oggi al domani un prete, per poi trovarlo privo di vita in una pozza acquitrinosa, pattugliata durante la sera, da voracissime zanzare. Grazie a Dio, rifletté. 
L'Ambrogino inarcò le sopracciglia, in tono di sfida. 
«Non ho paura della sabbie mobili». 
«Non sai quello che dici». 
«Non s'è mai sentito parlare di qualcuno sparito così». 
«Don Filippo non ti basta?». 
Tirarono un respiro profondo, scoprendosi a un tiro di schioppo dal famigerato laghetto. Cinque minuti, non di più, li dividevano dallo scempio degli scempi. Pinuccio diede una spallata all'amico. Luciano Brioschi lo guardò distrutto.
«Hai sentito l'Ambrogino? Ha detto che ha ancora gli occhi sbarrati...».
 Rabbrividirono. 
«Quanto pagherei perché fosse solo un brutto sogno».
 
17. 

A destinazione puntarono gli occhi sul laghetto con riverente timore, e allo stesso tempo con un'avidità peccaminosa; ma fra le frasche degli alberi e le canne non videro granché. 
«Ambrogino…», blaterò il Marengo. 
Il ragazzo capì al volo.
 «Seguitemi», propose.
In fila indiana, nel silenzio più assoluto, lo stesso che aveva sconvolto poco prima il giovane, raggiunsero il punto in cui il ragazzo s'era inoltrato nello stagno per sincerarsi della natura di quella enigmatica macchia scura. Ritrovando la strada maestra, non fiatò, e allungò il braccio puntando l'indice sul cadavere di don Filippo, che, questa volta, seppe riconoscere senza tentennamenti.
«Dio santissimo», mugugnò il Marengo, «non si vede molto bene da qui, ma dà proprio l'impressione di essere un corpo». 
«Se vuole esserne sicuro deve per forza entrare». 
L'Ambrogino e il Marengo si guardarono con aria meditabonda e preoccupata. Lo stesso capobanda si rese conto che non c'erano molte alternative, anche se aveva appena redarguito il giovane, per aver affrontato lo specchio lacustre senza il suo permesso. 
«D'accordo». 
Il Marengo compì il primo passo e in mezzo secondo si ritrovò con l'acqua alle ginocchia. L'Ambrogino, contrariamente a quanto potesse immaginare, avendolo sempre visto come una specie di immortale, capace di vincere qualunque sfida, notò la sua difficoltà e volle rendergli meno arduo il cammino.
«Posso farle strada?», gli domandò.  
 Il Marengo annuì. 
«State attenti», li implorò Pinuccio, con il cuore in tachicardia. 
L'Ambrogino cercò di ripercorrere gli stessi passi risolti in solitaria, anche se non fu facile, perché ogni angolo dello stagno pareva uguale all'altro ed era facilissimo confondersi. Ma capì di essere nel punto giusto, quando sentì di nuovo le rane gracchiare. Pensò che potessero essere le stesse viste un'ora prima, incurante del fatto che si sentisse ovunque gracidare e che quelle osservate in precedenza, potessero nel frattempo essere giunte al Molgora.
«Di qui», disse l'Ambrogino, deviando intorno a una canna più robusta delle altre, l'ultimo scoglio prima di trovarsi a tu per tu con il corpo esanime del prete. 
«State attenti», disse nuovamente Pinuccio. 
«Abbiamo capito», gridò l'Ambrogino, esausto, «non serve che ce lo ripeti ancora mille volte». 
Il Marengo girò l'ostacolo e finalmente poté vedere con i suoi occhi ciò che il ragazzo gli aveva raccontato: era il corpo supino, bianco, marmoreo, e senza vita, di don Filippo. Il suo stomaco brontolò malamente, e per un attimo temette di vomitare il pranzo. 
«Hai visto?». 
«E' proprio lui», mugugnò incredulo il Marengo, vittima di un violento conato.
Rimasero per una trentina di secondi in contemplazione del cadavere del pievano, strappati dalla realtà, in cerca di un appiglio razionale che potesse ridare forma al loro divenire. Ma la vista della morte di una persona scomparsa in modo così drammatico non fu facile da metabolizzare. Ora non c'erano più dubbi: don Filippo non era più fra i viventi, e dalle parole riportate sul foglietto era evidentemente stato lui stesso a proclamare quella assurda fine.
Parve impossibile a entrambi, ma non ci fu altro modo di giustificare l'inconcepibile momento. C'era solo da capire in che modo poterlo riportare a casa e regalargli l'estremo riposo.   

18. 

«Allora, allora», incitò Pinuccio. 
«E' lui», disse serafico il Marengo. 
«E adesso cosa facciamo?», domandò Luigi Brambilla, quarantenne vigoroso e spallato. 
Il Marengo lo fissò dondolando il capo. 
«Dobbiamo recuperarlo, prima che se lo mangino i topi». 
A sentire queste parole Alfredo Galbusera ebbe una vertigine. 
«I topi?». 
«Qui ce ne sono a bizzeffe», disse il Marengo. 
«Così dicevano i Casiraghi», affermò Luciano Varisco, zio alla lontana dell'Ambrogino. 
«Il problema è come…», disse Mario Porta, fratello di un maniscalco di Agrate, giunto in paese da un paio di anni, per avere preso in sposa una buraghese. 
Il Marengo si guardò intorno per cercare qualcosa che potesse aiutarli a raggiungere la salma. 
«Ci vorrebbe una barchetta», disse l'Ambrogino. 
«C'era quella del vecchio Paride», disse Pinuccio. 
«Ma è affondata da chissà quanti anni», precisò Alfredo. 
Alcuni ragazzi bisbigliarono fra loro, fantasticando di costruire al volo una specie di zattera. L’idea giunse all'orecchio del Marengo che li guardò interessato. Ma prima di arrivare a tanto, volle tentare la carta che sembrava più semplice e diretta. 
«Proviamo con qualche ramo robusto», disse il Marengo, «rompiamone un po’ e i più lunghi e resistenti li utilizziamo per spingere il corpo verso la riva». 
«Dovremo tornare in acqua», sibilò l'Ambrogino, stanco di buttarsi in quella melma. 
«Non abbiamo altra scelta», disse il Marengo. 
Gli uomini si misero immediatamente al lavoro, ma non fu facile ottenere delle pertiche sufficientemente resistenti con la sola forza delle mani.
Dopo vari tentativi, Pinuccio si propose per fare una corsa in paese a prendere un'accetta. Il Marengo acconsentì. L'uomo partì come un fulmine e nel giro di una quindicina di minuti portò a termine la missione.
«Quello», disse Luciano, indicando un ramo bello dritto e apparentemente in buona salute. Ci pensò il Brambilla, che con pochi colpi secchi, padrone di una forza che in paese nessuno aveva, lo separò dal tronco ottenendo una lunga stecca. Fece la stessa cosa con altre quattro braccia di caducifoglie.  
«Direi che possono bastare», affermò il Marengo. 
«Ne abbiamo a sufficienza?», domandò Pinuccio. 
Il Marengo nemmeno gli rispose e andò avanti a organizzare le operazioni di recupero del cadavere. 
«Io e l'Ambrogino prendiamo questo. E anche voi fate lo stesso, a due a due per ogni pertica». 
Ci fu un po’ di trambusto, legato alla scelta della frasca apparentemente più pesante e alla formazione delle coppie per affrontare l’impresa.
«Come ci disponiamo?», domandò Alfredo. 
Il Marengo osservò con attenzione il laghetto, per capire i punti in cui la salma del prete fosse più facile da raggiungere. Ne individuò cinque, e li indicò ai presenti. Per tutti un solo comando: cercare di pungere don Filippo, muovendolo dall'altra parte dello stagno, stando attenti a non affogare. 
«Non sarebbe meglio assicurarci con una corda?», domandò Pinuccio. 
«Perdiamo troppo tempo», tagliò corto il Marengo, «se entriamo nel lago con calma, verificando la tenuta del fondo, possiamo stare tranquilli». 

19. 

Il Marengo e l'Ambrogino furono i primi a buttarsi nella melma. Il più anziano diresse il grosso ramo verso il corpo del prete, reggendolo con la mano destra, cercando di avanzare a fatica nel putridume dello stagno. Alle sue spalle, l'Ambrogino, comandava il bastone, mantenendolo in equilibrio orizzontale e cercando di non farlo affondare. Per lui l'imbarazzo dell'acqua fu più sopportabile: essendo dietro, la superficie verdognola dello specchio lacustre gli arrivava solo al bacino.
Si respirava uno strano odore. Di umidità e carne marcescente. Guardò il Marengo sfiorato dall'idea macabra che potesse annegare da un momento all'altro. Non fu una bella sensazione; voleva bene al Marengo e di cose brutte ne aveva già viste fin troppe per la sua tenera età. Avrebbe voluto gridargli di stare attento, di non spingersi troppo in là, parafrasando le raccomandazioni appena ricevute, ma le parole gli si gelarono in bocca. Giunsero al cadavere, quando il fango aveva quasi toccato le ascelle del capobanda. 
«Alza, alza!», ordinò alle retrovie. 
L'Ambrogino obbedì e forzando con l'avambraccio sinistro impennò la pertica, consentendole di mirare perfettamente alle spalle disarticolate del prete. 
«Bene così», gridò il Marengo. 
Il tronco si appoggiò sul cadavere e affondò come un coltello in una pagnotta di burro: era zuppo di acqua e non fu facile calcare sulle ossa per dargli una bella sferzata.  
«Spingi, spingi!», urlò il Marengo. 
Lo stesso fecero gli altri uomini dislocati lungo i punti della riva segnalati dalla guida, distanti fra loro una decina di metri. Il più in difficoltà parve Pinuccio, che non era ancora riuscito a puntare il suo legno sulle ossa lussate di don Filippo. Sentì cedere il terreno sotto di sé, constatando che probabilmente c'era una specie di fossa che impediva di avanzare con sicurezza e sprofondava negli inferi. Azzardò, ma si pentì presto della sua imprudenza. Tirò un urlo disperato, quando in un sol colpo l'acqua gli arrivò alla bocca, inondandola di foglie secche e altre schifezze. 
«Afferra il ramo!», lo implorò Luigi Brambilla, che spingeva come un mulo.  
Pinuccio riuscì con un colpo di reni a guadagnare un po’ di centimetri verso il cielo. Tirò un respiro profondo e con un paio di bracciate si portò alla giusta distanza dal pericolo di venire fagocitato dalla mota. Il suo cuore batté come un cannone, ma ringraziò il cielo di essere in salvo. Luigi Brambilla lo fissò impietrito. Per un attimo aveva temuto un'altra sciagura.  
«Tutto a posto?», domandò il Marengo, dall'altra parte dello stagno, con l'acqua che ormai gli sfiorava la gola. 
«Tutto bene», tartagliò Pinuccio, devastato dalla paura. 
«E' meglio che vi fermiate», blaterò il grande capo, «magari riusciamo a farcela anche senza il vostro appoggio». 
Il Marengo, l'Ambrogino e tutti gli altri cominciarono a spingere come forsennati sul cadavere di don Filippo che, a mo' di una zattera malconcia e trasandata, che fa acqua da tutte le parti, prese a muoversi traballando verso la riva opposta.
«Avanti così!», gridò il Marengo.
Fecero forza sui rami finché il cadavere non venne a trovarsi a un paio di metri dal bordo dello stagno. 

20. 

Quelli rimasti lungo la riva, accorsero nel punto in cui, come un vascello fantasma, stava arrivando il corpo di don Filippo. Era uno dei punti più impervi del laghetto, completamente avvolto dagli alberi e circondato da frasche e arbusti. Faceva strada Dante Cereda, uno dei più anziani del paese, ma ancora caratterizzato da voluminosi bicipiti e tricipiti, pari a quelli di un trentenne in carne. Usò dei rami come falcetti per farsi strada in mezzo a tutto quel verde selvaggio. Alla fine giunse proprio di fronte al cadavere del pievano.
«Ci siamo, eccolo lì».
Don Filippo s’era fermato in corrispondenza di un grosso tronco che sorgeva dalle acque come una ninfea. Un botanico si sarebbe potuto chiedere come un albero del genere potesse aver radicato su quella melma stagnante.
Arrivarono anche il Marengo, l’Ambrogino e tutti gli uomini che con le varie pertiche s’erano messi a spingere don Filippo dall’altra parte della riva, completamente infangati e sozzi.
«Ho bisogno di un paio di persone», disse l'instancabile Marengo.
Ancora una volta si fece avanti l’Ambrogino, che il capobanda guardò con aria paterna, divertito dalla sua incredibile verve. E Luigi Brambilla, che nonostante avesse ancora in mente il rischio corso dall’amico, si sentì in dovere di dare una mano ai due compaesani e contribuire in prima persona al recupero di don Filippo.
«Forza», mugugnò il Marengo.
Rispetto all’altra sponda, in questo angolo dello stagno, il terreno sembrò sopportare meglio il peso delle persone. Vi entrarono uno in fila all’altro, tenendosi per mano.
In pochi passi furono al cospetto del corpo esanime di don Filippo. Prima di entrare in azione lo guardarono come se stessero contemplando qualcosa di assolutamente inaudito e inspiegabile. Di fatto, lo era. Nessuno dei tre poté capacitarsi di quel profilo gonfio, cenerognolo, orrendo. 
«Proviamo ad afferrarlo per le braccia», disse il Marengo.
Non ci volle molto a direzionarlo verso la superficie asciutta. Il Marengo e l’Ambrogino tirarono per le braccia; Luigi si mise alle spalle del duo cercando di fare forza da dietro. In pochi istanti don Filippo fu di nuovo fra i suoi compaesani, ma in uno stato che nessuno si sarebbe mai potuto immaginare.
Sconvolse tutti. Era bianco, violaceo in alcuni punti del viso, con le vesti e i tessuti inzuppati di liquido putrido. Gli mancava una scarpa e le dita delle mani sembravano di marmo. Conservava un’espressione del volto di terrore e angoscia; gli occhi erano parzialmente richiusi, ma il riflesso che ne scaturiva era a dir poco sconvolgente.
«Dio mio», tartagliarono in molti.
«Povero don Filippo», disse Pinuccio.
«Ma cosa gli è successo? Come può avere fatto una fine del genere?», blaterò incredulo Martino Vismara, tipetto tutto pepe già noto per la sua eccitabilità.   

Il Marengo ordinò a due uomini di raggiungere il borgo e tornare con un carretto, per trasportare comodamente il cadavere del prete in curia. Si abbassò per serrargli definitivamente le palpebre e invitò tutti i presenti a raccogliersi in preghiera per qualche istante. Recitarono in gruppo il Padre Nostro e l’Ave Maria, mentre un nugolo di mosche cominciò la sua danza macabra intorno a ciò che rimaneva del pievano buraghese. 

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