domenica 13 maggio 2012

Affari condominiali: quinto piano, appartamento D


Era una delle famiglie apparentemente più normali del condominio. In realtà, non era affatto così. Abitava l'appartamento D del quinto piano, rimirando, dunque, gli stessi orizzonti della Gariboldi, di Ada Villa, Delphine, e dei tipi dello scambio di coppia. Erano molto discreti anche perché erano giunti da poco in paese, non conoscevano nessuno ed erano soliti prendere spesso la macchina per frequentare luoghi e persone di Monza, da cui provenivano. Passavano i pomeriggi intorno all'Arengario, gustandosi un gelato, o visitando i negozi che conducono al Ponte dei Leoni; quando, invece, si sentivano particolarmente “bucolici”, puntavano al parco reale, muovendosi allegramente fra i meandri dell'area verde, declinando le vie più battute e inoltrandosi nei punti più impervi. La donna di casa era appassionata di giardinaggio e amava fermarsi a osservare le varie specie che abbellivano le zone abitative del parco. Spesso facevano visita alle stalle, fermandosi ad accarezzare qualche mucca compiacente. Era il divertimento più sentito dal più piccolo di casa. Sicché, a Omate, in pratica, non c'erano mai. Erano come fantasmi. Gli altri condomini li consideravano degli stranieri passati per caso dal loro paese, e pronti da un momento all'altro a fare le valigie per andare ad abitare altrove. Perfino la scusa di avere due figli in giovane età non era servito a facilitare i rapporti. I due piccoli del casato non andavano a scuola a Omate o ad Agrate, ma a Busnago, presso il collegio Sant'Antonio, struttura risalente al 1929, gestita dai religiosi della congregazione dei Fratelli di Nostra Signora della Misericordia. Non era una famiglia particolarmente religiosa, anzi, il capofamiglia poteva addirittura definirsi ateo, con una moglie che alle messe domenicali preferiva di gran lunga sedersi comoda sul divano a leggere qualche femminile. Tuttavia è lì che avevano pensato di indirizzare i propri ragazzi, sapendo che avrebbero potuto fermarsi anche il pomeriggio e rimanere a scuola a mangiare. Il più piccolo di casa faceva la quinta elementare, l'altro la terza media. Il primo sembrava una caricatura del piccolo lord; aveva come Rick Schroder un caschetto biondo che gli copriva mezza faccia, ma rispetto all'attore statunitense era meno avvenente, anche per via del continuo proliferare sul suo volto di herpes labiali; il più grande ricordava Boka, dei ragazzi della Via Paal, con il suo bagaglio di saggezza e seriosità. Era un libro che entrambi avevano letto, benché, paradossalmente, non avessero alcun tipo di relazione con gli altri giovani del palazzone e non potessero, quindi, minimamente interpretare le sensazioni e le atmosfere evocate dal libro di Molnar. Amavano tutti i protagonisti della Banda dello Stucco, da Kolnay a Csele, passando per Barabas e Csonakos e il leggendario Nemecsek. Li amavano e li invidiavano, anche se sapevano che erano solo prodotti dell'immaginazione. Il punto è che loro non avevano una grande vita sociale. Avrebbero amato vivere esperienze come quelle dei ragazzi della via Paal, ma di fatto non facevano altro che andare avanti e indietro da Busnago e uscire con i genitori. Non scendevano neanche in cortile, tenendosi loro malgrado a debita distanza da tutto ciò che riguardasse azioni tipiche di un bambino, come arrampicarsi su un albero, costruire una capanna, andare in cerca di qualche tesoro come facevano Guido e Maurizio. Non era la timidezza a frenarli ma una specie di blocco psicologico. Era come se a loro fosse preclusa dal fato la volontà di mischiarsi agli altri giovani. Come se fossero appartenuti a un'altra categoria sociale, un po' come accade nelle caste indiane. Anche a scuola non erano particolarmente vivaci. Ma forse il problema era semplicemente dovuto al fatto che essendo sempre in movimento da un paese all'altro, non si sentivano mai a casa loro. Però i giochi dei coetanei piacevano anche a loro. Li seguivano a distanza, con lo sguardo malinconico. A volte si affacciavano alla finestra della cucina o della camera e stavano per decine di minuti a osservare giocatori improvvisati di strega comanda color, nascondino o guardie e ladri. Talvolta, soprattutto il più grande, seguiva con piglio cinico e irriverente i movimenti civettuoli di Marina Tresoldi e della Cristina del primo piano. In grande segreto amava la Tresoldi: gli piaceva la sua aria scontrosa e il suo bellissimo sguardo. Le rare volte che si incrociavano abbassava la testa. È probabile che Marina si fosse accorta di questa luce particolare negli occhi del ragazzetto del quinto piano, ma non aveva mai cercato di coinvolgerlo in qualche conversazione, anche perché era sempre appiccicato alle costole di mamma e papà. Al di là di questo atipico comportamento, si distinguevano dagli altri ragazzi del palazzo anche per una cordialità sopraffina, del tutto inadeguata ai giovanissimi, che se non ti mandavano a quel paese, si limitavano, al massimo, a un laconico buongiorno o buonasera. Ma per i pargoli del quinto piano era assai diverso. Avevano ricevuto un'educazione esemplare. I genitori li avevano istruiti con grande puntiglio, convinti del fatto che anche per i più imberbi fosse necessario presentarsi con eleganza e serietà in ogni occasione. Per questo erano spesso presi dai fondelli dagli altri ragazzi del condominio, e stavano un po' sulle palle anche a un buon numero di grandi che li consideravano troppo rigidi per la loro età; gli sfottò derivavano soprattutto da Cristina, Marina, ma anche da Maurizio e dalla sorella di Guido Sangalli. L'unico giovanissimo a farsi gli affari suoi era Guido, essendo troppo preso dalle sue piante, dai suoi erbari e dall'universo naturale che giorno dopo giorno gli si schiudeva davanti agli occhi; ma è possibile che, pur senza averlo mai ostentato, apprezzasse la riservatezza e la classe dei due fratelli del quinto piano, benché il loro rapporto non andasse oltre i convenevoli ciao. Era la famiglia Piffer, il padre Hans Piffer, di origine altoatesina, la madre Ginevra Merisi, i figli Olimpio e Tiberio Piffer. Non erano di sangue blu ma era come se lo fossero. E si distinguevano sempre e comunque da tutti gli altri. Il padre era l'elemento più misterioso del quartetto. Sembrava che dovesse ogni volta tenere in serbo qualcosa. I suoi sorrisi erano rattrappiti come quelli di un capo carabinieri dell'esercito, che non può scomporsi nemmeno davanti alla nascita di un proprio figlio, come se fosse costantemente in servizio. Ada Villa ci sguazzava, confidando al marito che “quell'uomo aveva qualcosa da nascondere”. Fisicamente le ricordava il protagonista di Tutti insieme appassionatamente, Christopher Plummer, il film del '65, fra i più visti della storia cinematografica. A modo suo aveva uno charme che non passava inosservato. Pareva un uomo d'altri tempi, forse dei tempi bellici, con quell'aurea solida, invincibile e possente. Anche Bettini, il giornalista segretamente innamorato della Gariboldi, ne era affascinato. Più volte aveva tentato di strappargli di bocca qualcosa, qualche informazione segreta, ma lui era andato avanti per la sua strada, eclissando ogni argomento. Gli buttava l'esca, ma questi non abboccava mai:
«Gorbacev è meglio di Cernenko, non trova?».
«Non mi interesso di politica internazionale. Sono troppo preso a tirare grande i miei figli».
Ma ritentava la volta successiva cercando di aprirsi un varco in quella mente diabolica.
«José Sarney, però, è il presidente giusto per il Brasile».
«Non vorrei apparirle ingrato, ma non so davvero a cosa si riferisce. Non sono cose di mia competenza. Però se desidera qualche informazione sulla Formula Uno, saprei esserle di aiuto».
Bettini dava in escandescenza. Ammirava la pacatezza del vicino di casa, ma pensava che non fosse altro che uno stratagemma per nascondere la sua vera identità: quella di un membro dello spionaggio italiano. Credeva che fosse immischiato in qualche retroscena legato alla Propaganda due, più nota come P2, la loggia massonica aderente al Grande Oriente d'Italia, risalente al 1877. Una volta s'era convinto di averlo sentito mormorare con il Sangalli di Licio Gelli. Si riferiva a un'intervista del Corsera, nella quale Gelli sintetizzava gli obiettivi del cosiddetto Piano R. L'aveva rivelato a un redattore della sua rivista, con l'idea di poter un giorno venire a conoscenza di macchinazioni politiche insperate. Ma ogni volta che incrociava il suo cammino, se ne andava più disilluso di prima.
«Non si sta male qui a Omate. L'aria è fresca e pulita».
Battute del genere lo annichilivano del tutto. A Bettini non restava quindi che salutare e tornare a chiudersi nel suo covo, rimuginando sugli enigmi che circondavano il Plummer omatese. Di fatto nessuno sapeva che lavoro facesse il padre di Olimpio e Tiberio. Ma era noto che tutte le mattine partiva prestissimo in macchina per non si sa quale meta. E a volte nemmeno rincasava per sera. Tornava dopo qualche giorno, lasciando immaginare che potesse affrontare periodicamente delle trasferte professionali. I figli, dunque, li gestiva la moglie. Li portava a scuola quando il marito era già via di casa da un'oretta e li andava a riprendere alle 16.30. La signora Piffer faceva orario continuato presso un grande magazzino di vestiti sulla strada per Busnago. Vendevano all'ingrosso. Finiva alle 15.00 e aveva quindi tutto il tempo per dedicarsi ai figli e alla casa. In realtà non aveva alcun bisogno di andare al lavoro. La famiglia non aveva problemi economici. Ci andava perché la faceva sentire più viva. Il pensiero di dovere stare tutto il giorno fra le mura condominiali, circondata da persone che non conosceva, la mandava in delirio. Anche lei era piuttosto enigmatica. Aveva spesso lo sguardo severo e pensoso, come chi è perennemente preoccupato per qualcosa. Ma anche in questo caso nessuno dei vicini era riuscito a scoprire cosa si celasse dietro a quella sua maschera misteriosa. Così come non era stato possibile sapere qualcosa di più del suo passato e delle dinamiche familiari di casa Piffer, che incuriosivano un po' tutti. Si limitava a salutare con garbo, ma non dava confidenza a nessuno; per certi versi era peggio del marito. Per alcuni condomini provava una vivida indifferenza, per non dire fastidio. Il riferimento era per esempio alla moglie di Zanetti, a quella del Vismara e alla madre di Domenico Ciccarelli, che non riteneva donne nel vero senso della parola, ma burine campagnole indegne di poter colloquiare con lei. Odiava il loro modo di vestire e di viversi addosso, senza ambizioni, nella desolazione più assoluta, che in fondo rappresentava la quotidianità omatese dalla notte dei tempi. Nessuno capiva che intenzioni avesse la signora Piffer, ma sicuramente non aveva capito un'acca della realtà locale. A Omate si viveva così, non si stava mica parlando dei giardini di Versailles. Forse se l'era dimenticato. Dava così l'aria di una con la puzza sotto il naso. Ed era per questo malvista un po' da tutti i condomini. Si sprecavano i commenti sul suo conto:
«Caga merda come tutti gli altri», era stata la frase più acida espressa dalla signora Vismara, in effetti, non un campione di raffinatezza.
Qualche pomeriggio più insofferente degli altri, scendeva a passeggiare lungo i sentieri che si snodano nel parco Molgora. Arrivava fino alla cascina Morosina, dopodiché rientrava seguendo il tragitto che sbuca presso la zona di San Martino. Qualche volta si portava appresso i figli. Altre volte ci andava da sola, magari quando Olimpio e Tiberio dovevano fermarsi a scuola più del tempo previsto. Dava l'impressione di volere così sfogare certe ansie represse e di voler masticare nella solitudine della campagna pensieri inappuntabili. Camminava per una o due ore e, in qualche modo, rincasava rinata e desiderosa di dare il meglio di sé ai piccoli e alla casa. Sicché i Piffer, nella loro squallida normalità, erano i più anormali di tutti. E lo avevano dimostrato anche il giorno dell'esplosione del reattore di Chernobyl, assiepati intorno al televisore. Non s'erano ancora seduti a tavola che il padre, sentendo del dramma ucraino, aveva richiamato i familiari all'ordine, per dedicare la massima attenzione alla notizia che veniva diramata da uno speaker costernato. In casa Piffer era calato un magistrale silenzio, come può accadere solo nel corso di eventi straordinari. E infatti questo era un evento straordinario. Così, almeno, doveva essere stato per il capofamiglia che aveva scongiurato ogni altra iniziativa che stava per essere condotta fra le mura di cui era il principale rappresentante. I ragazzi avevano abbandonato la Rolls Royce radiocomandata sulla quale erano concentrati da un paio d'ore, per assecondare la richiesta di papà; la moglie di Piffer aveva lasciato dietro sé tre fornelli accesi per correre anche lei di fronte al tubo catodico. Per cinque minuti nessuno aveva fiatato. Si parlava di reattori nucleari. Argomento che il signor Piffer sembrava conoscere molto bene. Dondolava la testa a ogni digressione del giornalista, dando l'impressione di essere d'accordo su quasi tutto; ma già si rendeva conto che le stime rilasciate dai sovietici non potevano essere attendibili. Se si diceva che era stato un grave incidente, allora significava che stava avvenendo un'immane tragedia. La signora Piffer aveva ascoltato abbastanza.
«Sarà meglio che vada a scolare la pasta, sennò la mangiamo stracotta».
Piffer aveva temporeggiato. Doveva capire bene ciò che era successo. E perché. Un occhio di riguardo l'aveva dedicato ai suoi due bimbi, al suo fianco come appendici di un grosso albero.
«Ragazzi, capite anche voi adesso il significato dell'energia atomica?».
Silenzio.
«Vi rendete conto dei disastri che può provocare? Noi viviamo in una società, dove non si può fare a meno dell'energia, ma dobbiamo anche pensare al modo più adatto per ottenerla e preservarla. È ciò su cui sta lavorando vostro padre. Non sempre con facilità».
I due piccoli avevano seguito con accondiscendenza il papà, benché non avessero capito perfettamente ciò a cui si stesse riferendo. In fin dei conti i loro programmi preferiti continuavano a essere i cartoni animati che tutte le sere guardavano insieme appiccicati sul divano come sardine. Soprattutto al più piccolo, il concetto di energia atomica, era qualcosa di assolutamente impercettibile. Energia che? Era già tanto se avesse compreso l'idea di energia, ossia la capacità di un corpo o di un sistema di compiere lavoro; non proprio quisquilie per un bimbo di quinta elementare. Gli avessero anche parlato di energia Goldrake o Mazinga, sarebbe stata la stessa cosa. Ma per il più grande era un po' diverso. Un mese prima avevano studiato proprio il funzionamento e le caratteristiche di una centrale nucleare. Si erano aiutati con uno speciale apparso sulla nota rivista di natura intitolata Natura Oggi. Aveva dunque letto che la prima fissione nucleare era stata ottenuta da un italiano, tal Enrico Fermi, bombardando l'uranio con neutroni opportunamente rallentati con un blocco di paraffina. Sapeva, inoltre, che le centrali nucleari venivano refrigerate da flussi continui di acqua, e che c'erano già stati altri incidenti “atomici”: a Three Mile Island, in America, nel 1979 e a Windscale, in Gran Bretanga, nel 1957. La professoressa Nadia Contini, grande sostenitrice dell'energia nucleare, aveva spiegato ai suoi alunni che in Italia erano attive tre centrali, fra cui quella di Caorso, poco distante dal capoluogo lombardo. Erano perfino andati insieme a visitarla. Olimpio ne era stato entusiasta, benché gli fosse rimasto impresso soprattutto una cosa non proprio fondamentale: che chi lavorava in una centrale nucleare era come se fumasse cinque sigarette al giorno. Ma alla notizia divulgata da Rai Uno e accolta con tanta enfasi dal padre, gli si era accesa una scintilla nel cervello. Si rendeva conto che era in corso un disastro di abominevole portata – a tredici anni aveva ormai preso coscienza delle cose che lo circondavano, compresi il dolore e la provvisorietà dell'esistenza - e comprendeva bene il significato che potesse avere una notizia del genere per papà. Il signor Piffer, infatti, non era una persona qualunque, lavorando al soldo di un'organizzazione pressoché segreta, tesa alla salvaguardia del pianeta dai disastri causati dall'uomo e da figure dittatoriali lontane dai principi democratici. Viveva sotto la generica sigla PCA. In realtà non aveva alcun significato nominale. Era solo una copertura. La vera azienda per cui prestava servizio il signor Piffer era la New Haven Project, con sede nel New Hampshire, in Inghilterra, dove spesso si recava quando spariva da Omate. Chi ne faceva parte viveva sotto mentite spoglie, poiché l'organizzazione era malvista da tutti i principali governi mondiali, che nella sua azione, scorgeva pericolose ritorsioni a livello economico. Molti gruppi industriali, quasi sempre spalleggiati da amministrazioni nazionali e azioni politiche non sempre trasparenti, agivano senza troppi scrupoli e, dunque, è contro questi “colossi” che la New Haven si muoveva. Tuttavia erano numerosi anche i misteri che circondavano la società inglese. Di fatto era impossibile capire da dove provenissero i fondi necessari a dare battaglia a multinazionali potentissime, tendenzialmente in grado di soddisfare ogni proprio desiderio, anche a costo di massacrare persone innocenti. Qualche dubbio lo aveva avuto lo stesso Piffer che talvolta aveva come l'impressione di fare parte di un gigantesco ingranaggio del quale, però, non si intravedeva la fine e il vero scopo per cui l'avessero collaudato. In ogni caso la New Haven era contraria alle centrali nucleari e si batteva con tutte le sue forse perché questi mostri pensati per soddisfare il fabbisogno energetico non vedessero mai la luce. Coinvolgevano poteri forti apolitici, strutture indipendenti che non si sa bene come concorrevano ai pil nazionali, ma senza mai scendere a compromessi con lo stato di appartenenza. Ce n'erano molti di più di quanto si potesse immaginare, e anche in questo caso, non era ben chiaro come potessero reggersi sulle proprie gambe. Ma in questo colabrodo di dinamiche politico-economiche, Piffer, in realtà, rientrava minimamente. Per fortuna, verrebbe da pensare, tenuto conto del fatto che, chi gestiva in prima persona le relazioni più calde fra le varie parti coinvolte in questo o quell'altro progetto, spesso non aveva fatto una bella fine. Un paio di dipendenti dell'azienda anglosassone erano spariti nel nulla. Di Alan Boss era stata trovata solo la sua automobile, sul ciglio di una strada secondaria che conduceva a Londra; all'interno dell'abitacolo gli agenti della scientifica avevano trovato tracce di sangue microscopiche e un dossier relativo a fantomatiche operazioni gestite dalla mafia russa. Alan aveva un figlio di diciotto anni e una moglie. Robert Cunningham era stato visto l'ultima volta in un bar di Rio De Janeiro. Non era nemmeno in giro per lavoro, essendosi recato con la famiglia in Brasile per un paio di settimane di vacanza; i suoi tre figli lo stanno cercando ancora oggi, convinti che sia stato rapito da un'organizzazione malavitosa, atta a gestire le sorti industriali di mezzo mondo. Del tutto tragica, invece, l'esperienza di Adam Smith Junior, che anche il signor Piffer aveva più volte incontrato durante i ritiri in Gran Bretagna. Adam era stato trovato stecchito in un casolare del Kent, con una pallottola conficcata nel cuore. I graffi presenti sulle sue braccia erano il chiaro segno che si fosse difeso prima di soccombere all'azione di un sicario. Ecco per quale motivo la famiglia Piffer si faceva gli affari propri, evitava contatti, e ogni tre o quattro anni cambiava abitazione. Ecco perché la signora Piffer non dava confidenza a nessuno e pur di sembrare la donna più antipatica del creato, non si concedeva nemmeno alle donne che avrebbero potuto condividere qualcosa con lei, se non altro in virtù dei figli, che offrivano sempre qualche argomento da mettere in comune. Insomma, era indispensabile mantenere questo rigore – per certi versi assai triste - per proteggere al meglio il capofamiglia, e naturalmente tutti coloro che vivevano con lui. Così si spiega il motivo per cui, sovente, la signora Piffer veniva colta girovagare come una mentecatta, rapita da chissà quali pensieri, per i campi omatesi: doveva in qualche modo scaricare l'angoscia di ritrovarsi un giorno con per l'altro vedova, con due creature da tirare grandi. Il signor Piffer viaggiava spesso, ma normalmente si recava presso un ufficio milanese, in zona Città Studi, dove convergevano tutte le informazioni relative alle principali opere industriali ordite dal Belpaese e dai numerosi imprenditori che, a metà anni Ottanta, nascevano come funghi, al grido di un capitalismo sfrenato. Aveva contatti con tutto il mondo e da tempo lottava contro l'installazione delle centrali nucleari, ritenendole alla stregua di bombe atomiche vaganti. Sapeva che dietro a questo tipo di operazioni, si celavano messinscene disdicevoli, molto più predisposte ad arricchimenti personali, che non alla genesi di strutture delle quali l'umanità potesse oggettivamente usufruire. Per lui erano tutte montature. Se un progetto veniva varato, solo il 10% di ciò che veniva detto presentandolo, poteva considerarsi verità. Il resto erano balle. Frottole raccontate in grande stile per ingannare i cittadini e convincere l'opinione pubblica che per un progresso vivo e vincente, erano necessarie scelte specifiche e oculate, in favore di ben precise prese di posizione, curiosamente disallineate da qualunque logica sensata. Conosceva molto bene il mondo delle centrali nucleari. Le aveva studiate per anni. Sapeva tutto di esse. A partire dalla fine degli anni Cinquanta, poteva dirsi un'enciclopedia vivente. Dava indicazioni perfino a gran parte dei suoi colleghi, più concentrati su altri aspetti professionali, che discernevano dal punto di vista storico. La prima centrale nucleare era stata varata nel 1956 a Sellafield, in Inghilterra. Piffer l'aveva visitata più volte, valutando con attenzione gli aspetti prettamente burocratici e amministrativi, compreso quello relativo al fatto che il suo smantellamento non sarebbe avvenuto prima del 2115, 160 anni dopo l'inaugurazione. Dove sarebbero finite le scorie radioattive di centrali come Calder Hall? Il dilemma era palese anche per chi sosteneva le centrali nucleari, figuriamoci per chi si batteva ogni giorno contro di esse. Piffer giudicava terribilmente superficiali coloro che appoggiavano simili attività, non informandosi adeguatamente. Diceva che anche chi era in buona fede, in realtà, non valutava con ponderazione il problema. Trascurava soprattutto l'impatto che tutto ciò avrebbe potuto avere sull'ambiente negli anni a venire. E i rischi che ci sarebbero potuti essere per le nuove generazioni. Il nucleare non era una cosa facile da gestire, ma diventava facilissima se pensata solo per una o due generazioni. Piffer era, dunque, disgustato dall'idea che gran parte dell'intellighenzia dell'epoca potesse non aver riflettuto nemmeno per un attimo sull'ipotesi che chi sarebbe venuto dopo di noi si sarebbe trovato a vivere in un mare di scorie radioattive. In un mondo cosparso di veleni. Che diritto aveva l'uomo del ventesimo secolo di conciare così il mondo? Sentendo, dunque, dell'esplosione in Ucraina, Piffer s'era quasi detto felice; dopo una simile tragedia non sarebbe stato più facile sollecitare i governi ad abbandonare l'energia nucleare, ma qualcosa si sarebbe mosso in favore di scelte più consapevoli e morigerate. Forse. Perlomeno non si sarebbe più guardato all'energia nucleare come all'unica speranza per il futuro dell'uomo. Sperare in tal senso era più che lecito. E si sarebbero potute considerare nuove fonti energetiche, come quella derivante dal vento. Piffer, del resto, fra le sue tante occupazioni, era anche un pioniere dell'energia eolica, e da sempre accarezzava l'idea di creare nelle regioni più ventose del mondo, strutture atte all'ottenimento “naturale” di energia. Ma le sue proposte non sempre venivano prese in considerazione. Venivano giudicate avveniristiche e inattuabili. Ma non era vero. Era perché in alternativa al nucleare si voleva puntare su qualcosa di più conosciuto, riguardante per esempio la potenza delle acque o dell'irraggiamento solare. Si accarezzava perfino l'energia geotermica. Ma Piffer era sicuro che prima o poi l'energia del vento avrebbe avuto il sopravvento, anche se la maggior parte dei suoi collaboratori non la vedeva come lui. Piffer era un ingegnere e aveva le idee chiare su come rifornire il mondo di questo tipo di energia. Sottolineava che non fosse passato nemmeno un anno dacché i cosiddetti generatori eolici avevano migliorato drasticamente il rendimento, passando da una produzione di pochi kilowatt di potenza a punte di tre megawatt. Generatori di questo tipo entravano in azione con una minima quantità di vento, di tre, cinque metri al secondo. Alla luce di ciò si poteva pensare di installare strutture eoliche in quasi tutte le parti del mondo, comprese le zone non particolarmente ventose. Era questa la strada da seguire. Nel tempo libero studiava, dunque, le dinamiche del vento, cercando il sistema più redditizio per trasformare la potenza eolica in energia. Lui stesso aveva elaborato dei progetti. Uno di questi stava per essere brevettato. L'aveva battezzato Wind I. Il riferimento era a una turbina eolica ad asse verticale, dotata di alternatore e magneti per recuperare l'energia dispersa. Era un'idea rivoluzionaria che però non aveva ancora trovato validi acclamatori. Come per tutte le cose nuove, c'era anche in questo ambito una vivida diffidenza. E rivalità. Il problema, in effetti, era soprattutto di natura economica. Una turbina del genere sarebbe costata circa venti milioni di lire. Sarebbe valsa la pena? Un costo del genere avrebbe compensato una valida produzione energetica? Non era sicuro nemmeno lui, tuttavia era convinto che bisognasse concentrarsi in questa direzione per poter offrire al mondo un valido prodotto per sostituire il nucleare. Era convinto che prima o poi si sarebbe giunti a sviluppare materiali facilmente riproducibili e poco costosi, in grado di rubare aria al cielo dirottandola in forza lavoro. Piffer puntava anche sul fatto che esistono venti che non ci riguardano direttamente, essendo appannaggio delle alte quote. Ed era qui, quindi, che pensava un giorno di poter andare a catturare la sua “materia prima”. Come? Ci stava pensando con forza proprio nei giorni precedenti lo scoppio del reattore di Chernobyl. Intendeva sfruttare particolari “paracaduti” ancorati a terra con lunghe funi. Pensava di poter testare un sistema del genere in montagna, non appena avesse chiuso con l'approvazione di Wind I. Per alcuni colleghi e conoscenti le sue proposte parevano fantascienza, in ogni caso tutti ammiravano la sua fantasia e il suo ingegno, che talvolta suscitavano sentimenti di invidia. Qualcuno aveva auspicato che un giorno potesse vincere il Nobel per i suoi studi sull'aerodinamica. Non l'avrebbe mai vinto, è evidente, non essendo un accademico, ma un tecnico in forza a una misteriosa organizzazione, tuttavia non era da escludere che potesse contribuire in futuro a qualche interessante rivelazione di natura scientifica.
«E adesso, papà, dovremo cambiare ancora casa?», aveva chiesto al padre il più piccolo della famiglia, cercando in qualche modo di entrare nella discussione, non avendo ben chiari i disastri che avrebbe potuto provocare un'esplosione nucleare. Il padre l'aveva guardato con un sorriso dolce, ma severo, com'erano tipiche tutte le sue espressioni sentimentali.
«Non dovremo cambiare casa. Ma vorrei che questo episodio vi consentisse di comprendere meglio, magari quando sarete più grandi, l'importanza del lavoro di vostro padre».
«Anch'io da grande vorrei fare il tuo mestiere papà; vorrei visitare il mondo, le centrali nucleari del mondo e studiare il vento...», aveva ribattuto il piccolo Tiberio.
Sul volto di Piffer era calata un'espressione affranta, mentre il suo pensiero volava ai colleghi spariti chissà dove, combattendo una battaglia paradossalmente priva di vinti e vincitori. Non osava pensare che i propri figli potessero correre certi rischi.
«Quando tu sarai un uomo... vedrai che ci saranno tante altre belle possibilità di lavoro. Ora non te le puoi nemmeno immaginare», gli aveva risposto il padre.
A tavola la famiglia Piffer aveva lasciato perdere l'energia nucleare e il disastro di Chernobyl, affrontando argomenti decisamente più futili, come la gita che avrebbero fatto l'indomani nel piacentino. Da tempo desideravano visitare le sponde del fiume Trebbia, dove sussistono numerosi tragitti segnalati, ideali per portare a spasso una famiglia. C'era peraltro nei dintorni, nei pressi di Gragnano Trebbiense, un vecchio amico del capofamiglia, un ingegnere con cui aveva studiato per anni negli Stati Uniti, prima che venissero al mondo i suoi due piccoli. Non era esclusa, quindi, la possibilità di andare a visitare il conoscente, con cui s'era sempre trovato bene, se le condizioni – legate soprattutto al sentiero che avrebbero deciso di impiegare - lo avessero permesso. Piffer sapeva della nube tossica, che nelle prossime ore avrebbe valicato le Alpi per diffondersi soprattutto nell'area padana, e cementarsi agli strati erbosi del suolo, tuttavia non gli era sembrato  il caso di rimandare la gita. I suoi studi gli suggerivano che il veleno radioattivo non sarebbe giunto nel Belpaese prima dello scadere delle quarantotto ore dal disastro, un tempo ampiamente sufficiente a farli rincasare. Aveva, dunque, confidato alla moglie che il pericolo sarebbe stato del tutto esiguo per non dire inesistente e che, in ogni caso, anche stando a casa, si sarebbe incappati negli stessi inconvenienti. Mentre il padre ragionava su queste dinamiche legate ai flussi meteorologici, Olimpio e Tiberio mangiavano in silenzio, stuzzicandosi coi piedi sotto il tavolo e dedicandosi sorrisi vivaci. Anche la madre era complice di questa loro ilarità. Stranamente non stava vivendo alcun patema, ma solo la gioia intima di poter passare con i suoi tre caporali una giornata felice e spensierata. La vita glielo doveva.

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