venerdì 4 maggio 2012

Affari condominiali: quinto piano, appartamento B


Prima di prendere possesso dell'appartamento B del quinto piano, Maria Greco abitava in un minuscolo centro del cremonese, in una casa mezza diroccata prospiciente il cimitero. Non era il massimo, anche perché il suo fidanzato era un tipo particolarmente sensibile, che ogni volta che l'andava a trovare veniva colto da strane sensazioni, auto-convincendosi che le anime dei perduti potessero in qualche modo veleggiare per la casa, osservando ogni suo movimento, e analizzando ogni suo pensiero. Tutte le volte che dovevano fare sesso era una tragedia. Lui si contorceva su se stesso per verificare che non ci fosse nessuno alle sue spalle, pronto ad attanagliargli la schiena.
«Mi sento osservato».
«Ma non c'è nessuno, finiscila».
«In questa casa ci sono i fantasmi».
«Non avrai paura degli spiriti...».
Lei non lo sopportava più e in varie occasioni aveva preferito evitare in partenza di abbandonarsi ai piaceri della carne; pur di non ritrovarsi in rocambolesche situazioni in cui, col sopraggiungere dell'ansimo più sentito, c'era da farsi cadere le braccia nel vedere il partner esibirsi con gli occhi a palla e un'espressione da beota. In seguito, per via di un'offerta di lavoro in Brianza, che le avrebbe consentito di chiudere l'esperienza al soldo di un avvocato della zona, tirchio e compassato, era stata costretta a raggiungere Omate. Una migrazione in piena regola. Ma non le era dispiaciuto volgere il suo sguardo oltre i cascinali della Bassa, visto che, praticamente, dalla morte della madre avvenuta nel 1981, non aveva alcun parente a cui fare riferimento. Gli unici consanguinei che le rimanevano erano un paio di zii – fratelli del defunto padre, scomparso quando lei era appena una bambinetta – che vivevano, però, nei dintorni di Palermo; entrambi in una casa di cura, per via di vari problemi mentali che si portavano dietro da una vita e che non gli avevano consentito di costruirsi una famiglia e condurre un'esistenza regolare. Per Maria, in fin dei conti, un posto valeva l'altro; e se era nuovo, meglio ancora, avrebbe potuto vivere entusiasmanti avventure: lei amava le avventure e non aveva paura a buttarsi anche nelle vicende più assurde. Nel minuscolo centro sotto la giurisdizione di Vimercate s'era trovata bene fin dall'inizio, familiarizzando, seppur in modo superficiale, coi vicini, in particolare con Fabiano del terzo piano e Domenico del secondo. Erano due pazzi come lei, degli outsider, del tutto disinteressati a quello che la gente potesse pensare sul loro conto. Il suo ragazzo, però, non l'aveva seguita; impaurito dall'idea che dietro al trasferimento si celasse qualche oscuro presagio, legato agli influssi esercitati dai fantasmi di un tempo. Peraltro la ragazza gli aveva fatto notare che anche la nuova dimora sarebbe stata a un tiro di schioppo dal camposanto; era stato come sparare sulla croce rossa.
«Temo che non ti seguirò», le aveva detto Beniamino Gigli, preannunciando senza troppi patemi la fine della relazione.
Lei non aveva fatto una piega.
«Non ci perderai né tu, né io. Per come vanno le cose è un bene per tutti se ci dividiamo».
«Non te ne dispiacere, ma io non ce la faccio più a vivere di fianco ai cimiteri...».
Maria aveva fatto una faccia buffa e si era congedata dal vecchio spasimante, con un laconico addio.
«Ma perché ti preoccupi? Ci lasciamo in armonia; possiamo sempre rivederci da qualche altra parte... possiamo sempre rimanere amici...».
Beniamino aveva nicchiato. Tuttavia non era stata solo l'ipotesi di una nuova vicinanza a un camposanto a travagliare i suoi sensi, portandolo a salutare definitivamente Maria. Era anche il fatto che – solo ora riusciva a metterlo bene a fuoco - la ritenesse un po' troppo eccentrica per la sua indole, per il suo animo garbato e semplice. All'inizio non s'era accorto di certe sue manie, di certe sue attitudini a dir poco stravaganti, che in alcune circostanze arrivava ad assimilare all'esacerbazione di autentiche turbe psichiche; ma dopo qualche mese di pseudo-convivenza, non era più stato possibile sorvolare su molti aspetti della quotidianità della coppia. Con la scusa del dover cambiare casa e lavoro aveva, quindi, preso la palla al balzo, proponendo la separazione. C'è un particolare che Beniamino non riusciva proprio a mandare giù della partner: la sua passione viscerale per l'ufologia. La prima volta che gliene aveva parlato era sceso dal pero.
«Ufo che?».
«L'ufologia, amore mio... lo sai, vero, cosa sono gli ufo?».
«Quali ufo, gli extraterrestri?».
«Appunto, spero tu sappia di cosa stiamo parlando».
«Ma gli ufo non esistono».
«Esistono».
«Gli ufo? Ma la smetti di dire cazzate?».
«Sei anche tu un ingenuo come tutti gli altri».
«Ma cosa racconti... come fai a dire che ci sono gli ufo? Vuoi smetterla, per favore?».
Beniamino non voleva credere alle sue orecchie. Ma Maria era assolutamente certa del fatto che gli ufo fossero fra i terrestri, che si divertissero alle nostre spalle, forti di un'intelligenza senza eguali; pensava a forme altamente evolute che controllavano il pianeta a nostra insaputa, muovendoci come pedine perché soddisfacessimo i loro comodi. Riteneva gli ufo delle vere e proprie entità, fisiche, materiali, ma anche plasmatiche, invisibili, che potevano mostrarsi a noi sotto-forma di persone comunissime, nei panni di un bambino, di un adulto, di una donna incinta... di un fiore. In realtà potevano cambiare la propria immagine in un battibaleno, trasformandosi in ogni cosa immaginabile, comprese realtà eteree, un raggio di luce, un'onda sonora, il vibrato di un cantante, un soffio di vento... C'era altresì l'ipotesi che i terrestri fossero delle sottospecie di ufo giunte sulla Terra migliaia di anni fa, per via di un misterioso esperimento ordito da esseri superiori. I terrestri erano, di fatto, ufo di serie B, ideali, in pratica, da sfruttare per test e studi approfonditi sulla natura delle cose. C'era di mezzo anche il DNA. Il DNA dell'uomo – secondo le tesi accarezzate da Maria e dagli amici che frequentava - era in realtà il DNA di un essere primordiale, asessuato, che vagava per lo spazio e per il tempo e che, di tanto in tanto, compariva qua e là nei vari punti del cosmo abitati, per dettare le sue leggi: sulla Terra era venuto l'ultima volta nel 4569 a.C., su per giù in corrispondenza del diluvio biblico. Per Beniamino, ogni volta che saltava fuori l'argomento, era il delirio. Passeggiavano beati, mano nella mano, e poteva per esempio capitare che Maria si mettesse a fissare qualcosa, come in preda a un'estasi mistica, e che cominciasse con le sue farneticazioni. Beniamino non la reggeva, l'angoscia lo divorava, non poteva capacitarsi di dare un senso a cose che razionalmente riteneva delle boiate immani, ma che comunque avevano il potere di provocargli un profondo disagio esistenziale. Era anche l'enfasi che ci metteva Maria nel raccontarle a mandarlo in subbuglio: sembrava una strega. Una volta era capitato che si soffermassero su un cespuglio battuto dal vento, sul limitare di una roggia, mezzo coperta dai platani.
«Lo vedi?».
«Vedi cosa?».
«Lì, dove si muovono quelle foglie. Come fai a non vederlo?».
«Oh cazzo, non iniziare, ti prego».
Maria aveva un sorriso a metà strada fra la beatitudine e il terrore.
«Ma non lo vedi?».
«No, non vedo, non insistere, non vedo nulla! Non vedo nulla!!».
Beniamino era fuori di sé, avrebbe voluto eclissarsi, come già altre volte era accaduto, tirandosi fuori da congetture che non gli appartenevano, che non gli erano mai appartenute... e che ormai odiava con tutte le sue forze. Ma non aveva potuto fare molto: l'epifania della consorte era qualcosa di prorompente, impossibile da darle un significato oggettivo. Passava la ragione. Qui Maria si riferiva alla presenza di un angelo che, a suo dire, si muoveva a velocità supersonica davanti ai loro occhi. Dal cespuglio era finito sulla cima a un albero, e di lì era corso dabbasso, sdraiandosi sulla superficie della roggia, a pelo dell'acqua, pur senza correre alcun pericolo di bagnarsi. Poi era volato via, all'improvviso, lasciando la sua interlocutrice con gli occhi e la bocca spalancati e Beniamino con lo sguardo di una cupezza insostenibile. Era solo uno dei tanti casi. Ne avevano passati molti altri simili. Ma per Beniamino, ora, non c'era più spazio e tempo per assecondare scemenze del genere. Sicché uno da una parte e una dall'altra. Ma Maria, sopraggiunta a Omate, aveva ricominciato tutto daccapo con vivo stoicismo, felice di essersi lasciata alle spalle una persona alla quale continuava a volere bene, ma che, in fondo, riteneva una colossale palla al piede. Paurosa di tutto e di tutti. Salutare il cremonese le aveva conferito un'energia superlativa, le aveva fatto bene al corpo e allo spirito. I tanti brufoli che contraddistinguevano il suo volto erano spariti; e così le strane macchie che di tanto in tanto le comparivano sul dorso e che i medici imputavano allo stress. Aveva arredato la casa in modo a dir poco originale. Era sicuramente l'appartamento più eccentrico del palazzone omatese. Come metratura, disposizione dei locali e delle stanze, delle porte e delle finestre, corrispondeva ai sottostanti appartamenti dei Vismara, dei Ciccarelli, dei Sirtori, del de Santis. Ma l'arredamento, ovunque, era qualcosa di assolutamente mai visto, di abominevole. Innanzitutto le pareti... erano nere. Le aveva pitturate lei stesse di nero, con l'aiuto di un ragazzetto conosciuto in un bar della zona, in cerca di qualche lavoretto per non dover continuare a chiedere mance ai genitori. Era un tipo che ci sapeva fare, avendo più volte dato una mano allo zio imbianchino. Vernice nera, non ci credeva nemmeno lui... Certo, chiunque avrebbe potuto gestire a proprio piacimento la fantasia, tuttavia, in questo caso, i limiti della decenza e del buongusto, sarebbe stato evidente a tutti, erano stati ampiamente superati. Sembrava di entrare in una tomba.
«Ma sei sicura di voler fare proprio tutto nero? Non c'è il rischio che tu possa andare a sbattere il naso da qualche parte?», le aveva chiesto il ragazzino, ridendo sotto i baffi.
Lei l'aveva guardato come si guarda un puledrino appena venuto al mondo, bisognoso di affetto e cure.
«Sei troppo giovane mio caro per capire il mio stile... pensa a fare bene il tuo lavoro, poi ne riparliamo».
Ma il ragazzo non aveva tutti i torti. Non era, infatti, da escludere la possibilità che si dovesse accendere le luci anche in pieno giorno per rischiarare un ambiente tanto lugubre. La sala era il locale più confusionario, il primo che si incontrava una volta varcato l'uscio. C'erano libri, vestiti, bottiglie di vino, sparsi per ogni dove, dando più l'impressione di essere un grande magazzino che non il vano più ampio di un appartamento, dove accomodarsi su un divano e guardare la tv. Su una parete erano appesi degli strani oggetti, di natura esoterica. C'era una stella a cinque punte, un triangolo con un puntino in mezzo, il disegno di un candelabro e dei ceri non ancora utilizzati. Gli altri locali ricalcavano lo stesso stile, ma con maggiore sobrietà, il che è tutto un dire... In bagno, di fronte al water, c'era un gigantesco poster del film Incontri ravvicinati del terzo tipo, lavoro di Spielberg del 1977, che aveva già visto un milione di volte, perfino con Beniamino; sotto allo specchio, una lunga fila di profumi, compresi vari campioni omaggio. In cucina risaltava una mensola bianca, strapiena di piccole sculture riproducenti gnomi, folletti, e fatine, realizzate da un artigiano della bergamasca, conosciuto in seguito a un incontro di ufologia tenutosi a Milano poche settimane dopo il suo approdo a Omate. In sgabuzzino, all'interno di quattro robusti scatoloni, c'erano pile e pile di giornali riguardanti la sua materia preferita, molti numeri di Ufologist, rivista inglese ritenuta la Bibbia degli ufologi. Una volta terminati i lavori in casa, era stata ben lieta di concentrare tutte le sue forze sul nuovo lavoro, in una piccola casa editrice di Concorezzo, la Edil. Realizzava fascicoli dedicati alla casa, all'edilizia e all'architettura. Era stata assunta in qualità di segretaria – lavoro che faceva anche prima di traslocare - ma piano piano era riuscita a ritagliarsi un po' di spazio in veste di giornalista: componeva, a onor del vero, con eccessiva verbosità, rubriche incentrate sui prodotti forgiati da varie aziende del circondario, specializzate in design. Del resto il suo obiettivo era proprio questo: trasformarsi in una giornalista per poter pubblicare qualcosa su Ufo & Misteri, mensile di ufologia con sede a Milano, al quale era abbonata da anni. Sapeva che qualche piano più in basso del suo appartamento abitava il signor Bettini, giornalista ben rodato, che avrebbe voluto conoscere, con la speranza di poter essere raccomandata al magazine meneghino; c'era anche la moglie di Fabiano Sirtori che lavorava in una casa editrice, ma non ne era al corrente. Ma per bussare alle porte dei vicini c'era, comunque, sempre tempo; ora le bastava farsi la sua sana gavetta, le ossa, come si suol dire, di fianco a casa. Andava al lavoro con la sua solita macchinetta, una vecchia Opel Kadett, presa a rate anni prima, di seconda mano; andava benone, era comoda, e non l'aveva mai lasciata a spasso, nonostante l'aria trasandata che l'accompagnava. Maria, in ogni caso, non era un'amante delle belle automobili e degli agi, in generale; a lei, un'automobile, bastava che la portasse in giro e la tenesse al riparo della pioggia. Alla Edil lavorava al primo piano di una palazzina rossa, appena costruita dalle parti di Cascina Giuseppina, poco prima di immettersi sulla strada che porta al Malcantone. Con lei in ufficio c'era il direttore Michele Canfora, un omone di cento chili, sempre col sigaro in bocca; la petulante redattrice Alessandra Di Nardo e l'austero redattore Flavio Ornaghi. Stava bene con loro, anche se il suo carattere altalenante e lunatico faceva spesso perdere le bizze ai colleghi che non ci capacitavano di avere assunto una tipa così bizzarra. Si confrontavano in gran segreto sulla sua stravaganza, arrivando talvolta a prenderla esplicitamente per i fondelli. Era anche per via della sua passione per l'occulto - che dopo appena due settimane era scaturita in tutto il suo splendore; in svariate occasioni non potevano fare a meno di dedicarle commenti biasimevoli.
«Ma questi omini che dici di vedere... sono qui anche adesso fra di noi?», domandava il direttore con tono sarcastico.
Lei sogghignava, palesando una saccenza difficilmente perscrutabile e del tutto indifferente all'ironia del capo.
«Possono esserci e possono non esserci...Tutto dipende dal nostro modo di vedere le cose. Noi crediamo di sapere tutto, ma in realtà non sappiamo nulla. Brancoliamo nel buio più totale convinti della nostra onnipotenza. E invece non siamo altro che insignificanti briciole».
Alessandra si congedava con una smorfia di disapprovazione; Flavio la mandava mentalmente a quel paese, mentre il direttore affondava sempre di più la lama, subliminalmente attratto dal fascino sinistro emanato dalla nuova subalterna.
«Perché parli sempre per indovinelli? Non puoi essere chiara una volta per tutte? Questi esserini sono o non sono qui con noi?».
«Questi che tu chiami esserini, non sono semplici esserini, ma possono essere qualunque cosa. Possono anche essere le parole che tu hai appena pronunciato».
E sorrideva. Ma arrivati a questi limiti, Alessandro e Flavia non la reggevano più e cambiavano aria, andando a prendersi un caffè. Con il direttore che li raggiungeva di lì a poco, perché non c'era speranza di ricavare qualche informazione dalla ragazza della reception, sempre più ripiegata su se stessa e su tesi pressoché incomprensibili. Si riferiva anche a figure umane definite “gli eletti” che avevano il potere di comunicare con gli ufo e con la miriade di entità che, secondo Maria, circondavano la nostra quotidianità. Lei evidentemente era un'“eletta”, non lo aveva mai reso pubblico, ma lo si capiva dalla risolutezza con cui affrontava i suoi argomenti preferiti. Non sempre era facile assecondarla. Spesso cadeva nel patetico. Era come se volesse far sudare ogni sua dichiarazione, come se tutto ciò che avesse in serbo dovesse essere a esclusivo appannaggio di “mostri sacri”... come lei. Figure che, comprensibilmente, i suoi colleghi non condividevano e non potevano che giudicare alla stregua di un'accolita di menti bacate. Per fortuna, per Maria s'intende, dopo qualche mese che prestava servizio presso la Edil, s'era ritrovata a tu per tu con uno dei principali ufologi italiani. Per fortuna c'era anche chi era in grado di darle ascolto, rendendola in qualche modo orgogliosa del suo destino e di una professione maturata inseguendo chimere ben lontane dell'immaginario collettivo. Era Simon Vega III, al secolo Simone Galbiati, un tipo col cranio completamente rasato, due occhi giganteschi, le labbra che disegnavano una U al contrario, rappresentante per una ditta di assicurazioni durante il giorno, cacciatore di ufo durante la notte; raggranellava qualche soldo anche partecipando a trasmissioni televisive presso emittenti private, canali quasi del tutto sconosciuti trattanti temi quantomeno borderline. Era il tipo ideale di Maria, strambo come lei e come lei ultra-convinto di vivere sotto lo sguardo attento e vigile di misteriose realtà aliene. L'incontro era avvenuto nel corso di un convegno a Milano organizzato dalla rivista Ufo & Misteri. C'erano stati vari interventi fra cui quello di Simon Vega III che aveva parlato della possibilità di far interagire anche le persone normali (dotate però di un certo 'sesto senso') con queste forze extraterrestri, sfruttando particolari campi magnetici. Aveva spiegato che il magnetismo è un requisito indispensabile per poter confrontarsi con gli alieni, considerato che essi stessi erano in grado di alterare i campi magnetici, con il solo sforzo del pensiero.
«Con determinate apparecchiature si può misurare il livello di magnetismo dell'aria e capire se nei dintorni ci possa essere qualche anomala presenza», spiegava l'ufologo. «Ci sono corpi magnetici e anime magnetiche che interagiscono con noi a nostra totale insaputa e che aspettano solo di essere inquadrate nel verso giusto, dandoci modo di creare i presupposti per ampliare le nostre conoscenze, a suffragio di un mondo dove esista solo pace e amore».
Maria aveva voluto saperne di più. Alla fine dell'incontro s'era, dunque, presentata a Simon Vega III, rimanendo abbagliata dal luccichio dei suoi occhi penetranti, chiari come quelli di un albino.
«Piacere, se vuole possiamo vederci in separata sede, e parlare per tutto il tempo che vuole di magnetismo. Sono felice che abbia compreso l'importanza di questa realtà...».
Maria era trasalita. Quale onore... stava parlando con Simon Vega III in persona.
«Quando vuole lei. Io posso solo ringraziarla della sua gentilezza e disponibilità».
S'erano dati appuntamento un sabato pomeriggio in un bar di Gallarate dove abitava il prode Simon Vega III in un bilocale che era una specie di tugurio, e per almeno un paio d'ore erano andati avanti a parlare con grande trasporto di magnetismo, passando senza tanti convenevoli dal lei al tu. Lui le aveva raccontato che con questo termine si intendeva un fenomeno fisico, tale per cui alcuni materiali sono in grado di attrarre il ferro. Poi aveva tirato in ballo la magnetostatica, l'elettrostatica, e molti altri concetti che Maria diceva di aver capito, benché li stesse sentendo per la prima volta in vita sua. Ma non era più molto importante, perché subitaneamente, al desiderio di comprendere i misteri della fisica, s'era sostituita una nuova impellenza: amoreggiare al più presto con Simon Vega III, un uomo giudicato dal fascino assolutamente irresistibile. Dopo quell'incontro i due avevano, quindi, preso a frequentarsi con sempre maggiore assiduità, dando modo di conoscersi approfonditamente e mettere in piedi le farneticazioni più assurde. Per Maria era stato come vivere una favola. Si sentiva una regina, la regina del re degli ufologi. Non ci poteva credere... ripensava ogni tanto al suo Beniamino e non poteva che provare un profondo senso di compassione, riferendo di lui anche al nuovo amante, sottolineandone l'innocente stupidità, tipica di tutti i “non eletti”. Al lavoro, alla Edil, non la riconoscevano più. Arrivava con la faccia stravolta, ma una verve fuori dall'ordinario. Non parlava più di ufo, ma solo di sesso. Sesso anticonvenzionale. I colleghi la guardavano sbalorditi, ma si erano decisamente preoccupati la volta in cui aveva rivelato che non le sarebbe dispiaciuto accoppiarsi con un rettiliano, un ibrido rettile-uomo, decantato da David Icke nelle sue varie e deliranti ipotesi aliene. Il capo della struttura concorezzese non aveva mai sentito parlare di David Icke, ma il suo sconcerto s'era ulteriormente accresciuto venendo a sapere che, stando alle spiegazioni della segretaria, fosse una specie di sedicente predicatore, convinto che le persone vivessero all'interno di una coscienza multidimensionale, soggetta ai capricci del cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale:
«Sei sicura di sentirti bene?», le aveva chiesto il capo della ragione sociale brianzola. «Io non credo che sia possibile parlare seriamente di certi argomenti, se non chiedendo un consulto a qualche esperto in psichiatria...». Ma lei l'aveva guardato con un'aria da prendi schiaffi, che aveva portato il suo superiore a congedarsi definitivamente dall'idea di poter esserle di aiuto.
Da lì a pochi giorni era esploso il reattore di Chernobyl; ma mentre Rai Uno diramava la notizia, Maria e Simon Vega III, stavano perlustrando un'area dalle parti di Missaglia, dove sorgeva un cucuzzolo roccioso, ricoperto di alberi e arbusti, che a un'attenta analisi non aveva nulla di naturale, bensì pareva proprio il risultato di un volontario accumulo di materiale terroso in una ben precisa area, con la presumibile idea di assecondare un progetto architettonico specifico. Secondo i due ufologi era la prova che nel passato gli antichi brianzoli avevano avuto contatti con gli alieni: l'altura era, dunque, stata realizzata per consentire l'atterraggio delle navicelle straniere. Attendibilissima ipotesi, per i due, tenuto conto del fatto che nel circondario c'era chi asseriva ci fossero tre piramidi scambiate per colline, edificate per segnalare la posizione a visitatori spaziali. Riproducevano, peraltro, la cintura di Orione, leggendaria costellazione invernale. Stavano pertanto cercando le prove di ciò con un metaldetector, da poco acquistato da un rivenditore anglosassone di passaggio da Milano, dove aveva contribuito all'allestimento di un nuovo telescopio per il planetario della città. Con esso erano a caccia di metalli in grado di confermare la loro tesi: se ne avessero trovato traccia, in un luogo dove oggettivamente non avrebbe avuto senso di esistere del materiale metallico, era la conferma che lì in epoche passate era accaduto qualcosa di oscuro. Erano giunti sul luogo durante il tardo pomeriggio e per schivare le ire dei contadini locali, accaniti con chi non era un viso conosciuto, s'erano addentrati con fare furtivo per i campi che circondavano la prominenza geologica, piegandosi all'occorrenza per non mettersi troppo in mostra. Avevano percorso un strada rettilinea, sterrata, piena di polvere, che circondava due ampie piantagioni di frumento: le spighe erano ancora piccole, da far pensare che si trattasse di una piantagione di frumento marzuolo; facile, considerato che l'autunno del 1985 era stato piuttosto inclemente e poco idoneo alla semina dei cereali. Dopo una curva a gomito s'erano ritrovati di fronte all'enigmatica montagnola. Simon Vega III sudava come un lottatore di sumo alla fine dell'incontro più spossante della sua vita. Notando la cima del panettone, aveva avanzato l'ipotesi altamente suggestiva che il rilievo potesse essere in qualche modo riconducibile ad Ayers Rock, il più imponente massiccio roccioso dell'outback australiano e alla Torre del Diavolo, in Wyoming. In parte era – pur inconsciamente – dovuto all'influenza subita dal film Incontri ravvicinati del terzo tipo, nel quale si fa esplicitamente riferimento al “monumento” statunitense. Alle pendici della collina avevano cominciato le loro ricerche. Simon Vega III procedeva lentamente con il metaldetector lungo le falde della collina, strabuzzando comicamente gli occhi ogni volta che l'attrezzo suggeriva la presenza di qualche tesoro; mentre la prode collega/amante/concubina con un bastoncino ricurvo cercava di fare luce su eventuali anfratti di dubbia natura. Sembrava una rabdomante. Fortunatamente non c'era in giro un'anima viva che potesse vederli e stigmatizzare il loro ridicolo comportamento. Di questo passo erano arrivati in cima al minuscolo promontorio sul quale si erano accomodati l'uno accanto all'altro fumandosi una sigaretta. Avevano l'aria stravolta.
«Nessuna traccia di metalli», aveva mugugnato, sconsolata, Maria.
«Non temere, mia cara».
«Sono un po' delusa».
Lui l'aveva guardata con fare tutt'altro che rassegnato.
«I rettiliani sono molto in gamba. Non si fanno scappare certe tracce. Vivono da molto più tempo di noi e sanno come nascondersi. Ma noi saremo più furbi di loro. Questo cucuzzolo è del tutto inverosimile...».
Una pausa di silenzio aveva provocato un cambiamento di temperatura nel corpo di Simon Vega III, che all'improvviso era stato assalito da un desiderio del tutto inappropriato alla situazione.
«Ho voglia di fare l'amore».
«Come, scusa?».
«Dai, così attraiamo verso di noi energie positive... e con più facilità riusciremo a far luce sul mistero di questa sommità».
Era un'immensa fesseria, e lo sapeva. Ma Maria, ormai, era così abituata ai suoi saliscendi umorali che, ancora una volta, s'era donata senza reticenza al suo uomo; benché nel giro di una decina di minuti fosse già tutto finito, con lei che – per ciò che riguarda il soddisfacimento personale - era rimasta del tutto scontenta. S'era in compenso messa a riflettere sul fatto che sembravano ormai lontani i brividi delle prime volte, quando poteva anche capitare che rimanessero a letto per ore e ore, instancabili di fronte a qualunque nuovo proponimento di abbandonarsi a fantasmagoriche posizioni di kamasutra. Simon Vega III s'era tirato su i pantaloni, rischiando di finire per terra, sbalestrato da una radice particolarmente rigogliosa che s'era insinuata fra i suoi due piedoni, e pervaso da una rinnovata energia s'era messo a girovagare intorno alla cima, calpestando un piccolo cerchio, con un raggio non più ampio di una quindicina di metri. Dimentico di qualunque romanticheria con la partner appena posseduta, s'era poi messo a fissare le nubi all'orizzonte che cominciavano a imbrunire, con l'occhio di un consumato ranger della prateria statunitense, all'epoca della guerra di secessione. Non sapeva il motivo di un atteggiamento simile, del tutto inappropriato ai fini dell'indagine, ma riconosceva a se stesso che potesse averlo messo in campo per mostrare il lato più spirituale di sé, di colui che è anche capace di interrogare le nuvole e il cielo. Il suo pretesto, dunque, non era stato più quello di indagare ciò che veniva celato dalla suola delle sue scarpe, ma solo quello di mostrarsi ancora una volta invincibile e perfetto agli occhi della spasimante. D'altronde era stata la stessa atmosfera che li circondava a suggerigli l'idea di poter essere in qualche modo indomabile, tanto da proporsi senza remore in modo così triviale e fondamentalmente trash. Si percepiva un buonissimo profumo di natura selvaggia, di prati in fiore, di muschi e argille gravide di minuscole essenze vitali, pronte a raccontare i fasti di una nuova indimenticabile bella stagione. Si potevano immaginare alcuni abitanti del posto – ricci, volpi e allocchi – puntare i loro palati verso nuovi sapori e i loro olfatti verso nuovi effluvi, celebrando come un incanto la rinascita primaverile. Era, del resto, la fine di aprile: durante il giorno si stava bene, ma con le ore notturne il freddo e l'umidità, specialmente in campagna, si facevano sentire con forza. L'aria, all'improvviso, s'era fatta più frizzante e nel cielo si intravedeva già il luccicare di Venere. La notte era alle porte. Il silenzio della radura era rotto solo dal canto di misteriosi uccelli, che producevano un fischio sordo, a tratti, terrifico. Maria, infreddolita, aveva estratto dalla borsetta un maglioncino di lana leggero che aveva indossato con un agile movimento del bacino.
«È tutto chiaro», aveva detto Simon Vega III. «Questa era la piazzola di atterraggio, e poco più in basso, evidentemente sorgevano delle mura per proteggere...».
Maria aveva sbadigliato senza ritegno, allargando la bocca come una babbuina durante la fase post prandiale.
«Sei d'accordo mia cara?».
Maria s'era stropicciata gli occhi prima di dare una banalissima risposta al suo ufologo preferito.
«Sì, sì, sono d'accordissima...».
Era stanca. Arrivati a quel punto della giornata non desiderava altro che correre a casa, farsi un bel bagno caldo e andare a letto a dormire. Qualcosa doveva essere trapelato dal suo viso, considerato che, lo stesso Simon Vega III, s'era accorto, con un vago senso di imbarazzo, che forse era giunto il momento di chiudere il capitolo Missaglia.
«Vuoi andare a casa, tesoro?».
«Sì».
«Non trovi magnifica questa sera?».
«Sì, però, non abbiamo trovato nulla di ciò che cercavamo...».
«Lo so mia cara, ma non devi averne a male. L'ufologia è una scienza che richiede grande sacrificio e grande passione...».
A casa erano giunti in un battibaleno, sfrecciando a grande velocità lungo strade deserte. La nube tossica proveniente da Chernobyl era già in marcia verso le loro dimore, ma ne erano totalmente all'oscuro. Lo avrebbero saputo l'indomani dalla prima pagina del Corriere della Sera. Ma al domani mancavano ancora parecchie ore, c'era tutto il tempo perché qualche rettiliano potesse cambiare le carte in tavola, facendo sì che Chernobyl non fosse mai esistita.

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