domenica 20 maggio 2012

Affari condominiali: sesto piano, appartamento A



38 anni, amico di Domenico Ciccarelli, col quale andava fuori a bere, spesso. Con lui viveva la mamma di quasi settant'anni e un gatto di nome Rododendro, per tutti Rodo. Il fratello maggiore era migrato in Germania da tempo, subito dopo la maturità, mentre il padre se n'era andato per un'embolia quando i due fratelli erano ancora piccoli. Non era una famiglia triste, ma nemmeno troppo felice. Sembrava una famiglia dell'Ottocento, di quelle che vivevano giorno per giorno senza farsi troppe domande, accettando quasi tutte le vicissitudini che gli venivano imposte dal fato, convinti della necessità di dover soggiacere a un disegno divino che non sempre era comprensibile. Questa era la cornice esistenziale riguardante Sergio Perego, inquilino dell'appartamento A del sesto piano. Non gli dispiaceva vivere con la madre, anche se aveva ormai un'età tale da doversi arrangiare da solo. Di fatto, si arrangiava da solo, visto che guadagnava bene e non doveva chiedere niente in casa… Lavorava come operaio presso una ditta della zona industriale agratese che fabbricava porte e serramenti. Lavorava sodo, senza mai lamentarsi. Aveva tutte le mani ruvide e tagliuzzate. Aveva cominciato a lavorare presto, a sedici anni, dopo due anni di nullafacenza, indeciso se continuare con gli studi o meno. E già da qualche mese cominciava a fare il conto alla rovescia per andare in pensione. Lavorava da ventisei anni e gliene mancavano praticamente una ventina. Aveva superato il giro di boa e nonostante non fosse più un ragazzino, si autocompiaceva del traguardo raggiunto. Non aveva nessuna intenzione di lasciare l'appartamento materno perché, in sostanza, gli conveniva. Trovava sempre tutto ciò di cui aveva bisogno, non doveva rifarsi il letto, né prepararsi da mangiare, viveva come un pascià, chi gliel'avrebbe fatto fare di cambiare aria? Le scuse per il popolino che lo assillava erano numerose. La prima riguardava la necessità di stare vicino alla madre anziana, che avrebbe sicuramente avuto presto bisogno di aiuto; anche se, al momento, godeva di ottima salute. La seconda concerneva il fatto che si sarebbe accasato altrove solo se avesse trovato l'amore della vita. Altrimenti non concepiva la necessità di dover cercare un'altra soluzione abitativa. Non era nel suo DNA. Tutti i suoi avi, brianzoli veraci, s'erano comportati nello stesso modo. O si erano sposati, o erano rimasti ancorati alle sottane materne. Uno era lo zio Gino, il fratello della madre. In realtà più volte era stato vicino all'idea di andarsene, ma poi tutto era naufragato senza ritegno. In ogni suo tentativo di volgere lo sguardo oltre le mura di casa, c'era sempre la stessa persona, forse l'unica ragazza della sua vita, potenzialmente disposta a legarsi a lui. Uscivano spesso insieme e in certi momenti il loro rapporto pareva idilliaco; poi, però, all'improvviso si rompeva qualcosa e non si vedevano più per settimane, dovendo rincorrersi qualche mese più tardi. Andava avanti così da circa quindici anni. Lei era Elisabetta Brunelleschi, veniva dalla Toscana e non si era mai completamente adattata alla realtà locale. Tuttavia aveva incontrato proprio in Sergio, un alleato ideale col quale trascorrere i pomeriggi festivi e alcune serate. I primi tempi le cose funzionavano. Ed Elisabetta non avrebbe escluso la possibilità di potersi fidanzare ufficialmente. Più tardi, però, passati i trent'anni, qualcosa s'era irrimediabilmente perso. Forse c'era di mezzo anche l'aspetto sessuale. Non erano mai stati a letto insieme, ma si erano più volte baciati. Sergio, però, baciava malissimo, e ogni volta che si mettevano all'opera, versava nella bocca della partner quintali di saliva, convinto che si dovesse fare così per risolvere al meglio l'atto affettuoso. Così gli aveva raccontato un amico alle medie, e con questa assurdità s'era portato alla maturità. Elisabetta non era così sicura delle sue qualità d'amatore, in ogni caso era andata avanti a frequentarlo, in fondo anche lei non era una molto sveglia sotto quell'aspetto. Andavano al cinema, fuori a cena, o a vedere qualche spettacolo teatrale. I discorsi erano quasi sempre scontati e banali, ma c'era della sana genuinità nel loro vedersi, che poche coppie dell'epoca, molto più spregiudicate, condividevano. Poi le cose s'erano raffreddate del tutto e lei era stata categorica con Sergio.
«Siamo amici da tanto tempo, e così vorrei che rimanessero fra noi le cose», gli aveva detto una sera in un locale di Vimercate.
Non era un caso. Da un po' di giorni, infatti, aveva cominciato a frequentare Tony Martucci, un tipo strano che abitava a Verano e che bazzicava spesso nel vimercatese, dove usciva con amici che conosceva da una vita. Si ritrovavano in un bar del centro, poco distante dal budello storico della cittadina, nel quale, una sera, s'era recata anche Elisabetta con la sorella. Desideravano bere qualcosa in compagnia, dopo parecchio tempo che non si vedevano, e alla fine erano state tampinate da Tony e il suo amico Virgilio Tabucchi. Tony s'era avventato sulla più piccola delle sorelle, con un piglio lontano mille miglia da quello sornione di Sergio. Non c'era paragone. Nel giro di mezz'ora erano già in qualche modo affiatati e pronti per approfondire la conoscenza. Di lì a qualche sera erano, dunque, usciti da soli, baciandosi per la prima volta. Elisabetta aveva toccato il cielo con le dita. Ora sì che poteva dire di avere baciato un ragazzo come Dio comanda. Ora sì che poteva dire con certezza che l'unico altro amore della vita non aveva nessuna dimestichezza con certe effusioni. Sergio, che aveva cominciato a credere in un futuro definitivo con lei, sapendo della decisione presa dalla ragazza, c'era rimasto malissimo. Anche perché non ne comprendeva il motivo. La ragazza non gli aveva parlato di Tony. Aveva perfino confidato alla madre che entro breve si sarebbe fatto la sua famiglia, e la madre aveva cominciato a spargere la notizia, esaltata, benché non avesse la minima idea di chi fosse la futura nuora. All'improvviso Sergio era sbiancato, abbandonato a se stesso, precipitato in una voragine che non conosceva. S'era ritrovato all'improvviso impacciato e incapace di assumere un comportamento idoneo alla situazione. Per certi versi s'era reso assai ridicolo.
«Ma dai, cosa stai dicendo? Vieni qui che ci sposiamo e...».
Erano fuori a mangiare una pizza in un ristorante di Oreno. Elisabetta non l'aveva presa bene, ormai i suoi occhi puntavano altrove.
«Cosa stai dicendo Sergio? Forse è il caso di non vederci del tutto se intendi perseguire in questo modo...».
«Perché non dovremmo vederci se ci siamo sempre visti?».
«Perché adesso le cose stanno cambiando».
«Ma cosa stai dicendo?».
La conversazione era degenerata ed Elisabetta non era riuscita a finire la pizza per via dell'agitazione. Arrivati a questo punto, pur non sapendo dove sarebbe andata con la nuova conquista, aveva deciso che forse era proprio il caso di darci un taglio definitivo. Erano rincasati con lo sguardo lungo e triste.
«Allora quando ci vediamo?», le aveva chiesto Sergio sull'uscio di casa.
«Sergio, forse non ci siamo capiti...».
Erano state le ultime parole di Elisabetta. Lo aveva lasciato come un pesce lesso a bordo della sua auto. Evidentemente non aveva capito nulla di ciò che gli aveva confidato. Si comportava come un bambino immaturo. Ma non si era posta il problema che ciò potesse essere dipeso dal fatto che non era stata sincera. Se gli avesse confidato come stavano realmente le cose, forse, avrebbe reagito in modo meno rocambolesco. Sicché da quel giorno, più o meno un mese prima dell'esplosione di Chernobyl, non si sentirono più. Sergio non era più lui. Continuava, fortunatamente, ad andare al lavoro, ma faticava a reggere il pensiero che Elisabetta non sarebbe più stata sua. Non riusciva a concepirlo. Non riusciva soprattutto a concepire il fatto che non ci fosse un motivo alla base di questa sua decisione. Cosa poteva averle fatto cambiare idea così all'improvviso? Qualcosa non quadrava. Non era da lui pedinare le persone, non lo aveva mai fatto in vita sua, tuttavia in questo frangente, dopo l'ennesima notte insonne alla ricerca di una spiegazione sull'accaduto, aveva preso l'assurda decisione: appostarsi sotto la casa di Elisabetta per capire i suoi movimenti e le sue intenzioni. Per capire se la domanda che lentamente, ma con sempre maggiore intensità s'era insinuata nella sua mente fosse vera: c'era un altro uomo nella vita della ex? Lo avrebbe scoperto lui stesso. Era la sera prima dell'esplosione del reattore di Chernobyl, venerdì 25 aprile 1986, una tiepida sera di fine aprile. Con la sua macchinetta aveva raggiunto la via di Cavenago, dove Elisabetta viveva con la madre. Si era appostato a una decina di metri dall'ingresso della sua abitazione, una distanza sufficiente a poter scrutare chi entrava e usciva dalla palazzina senza essere notati; c'era peraltro un grosso albero a mascherare la visuale, permettendo al detective di osservare senza essere osservato. Erano le 20.00. Ma non aveva voluto lasciare nulla al caso. Era venerdì sera e immaginava che se qualcuno fosse venuto a prenderla lo avrebbe fatto fra le 20.00 e le 21.00, l'orario ideale per uscire per una cena, per il cinema o per bersi una birra. Alle 20.15 era ancora tutto calmo e tranquillo. Erano passate solo un paio di persone: un signore sulla sessantina con un cane al seguito e una ragazzetta trafelata con diverse borse fra le mani, fra cui un borsone contenente presumibilmente vestiari per qualche attività sportiva. Sergio stava passando il tempo leggendo il giornale, un numero dell'Unità che gli aveva regalato un collega appena finito il lavoro. In prima pagina c'era un editoriale di Natalia Ginzburg dedicato al 25 aprile. Lo aveva letto con interesse, benché non avesse alcuna attrazione per il mondo letterario evocato dalla scrittrice italiana. Non sapeva nemmeno che avesse scritto Lessico Famigliare, libro che aveva fatto la storia del Novecento. In fondo gli piacere l'idea di tenersi aggiornato e se capitava di far sapere che era successa questa o quell'altra cosa. S'era soffermato sul seguente passaggio: “No alla guerra significa dire no a Gheddafi e no a Reagan. No al terrorismo che uccide gli innocenti e i bambini negli aeroporti, e no agli aerei che gettano bombe e uccidono innocenti e bambini nei loro letti. Oggi dire no alla guerra significa rifiutarsi di alzare un'arma contro un proprio simile…”. Non era d'accordissimo con queste parole. Lui da sempre votava DC, non gli stavano simpatici i comunisti, e per di più nutriva grande ammirazione per Ronald Reagan che, a quanto pare, la Ginzburg, non apprezzava. E invece Sergio condivideva quasi tutte le sue azioni politiche. Di sicuro tutte quelle relative agli esteri. Condivideva il fatto che Reagan promuovesse la rappresaglia militare in Libia, e che ora avrebbe puntato sulla Siria e l'Iran. Considerava l'Estremo oriente un serbatoio di pazzi dinamitardi, con una civiltà mostruosamente più arretrata della nostra. Con un occhio leggeva e con l'altro teneva sotto controllo la strada, cercando di verificare l'avvicinamento di qualche tipo sospetto ai citofoni di casa Brunelleschi. E ci aveva visto giusto. D'un tratto era sopraggiunta una fiammeggiante auto di grossa cilindrata, sconosciuta. Pareva una specie di fuoriserie, con i finestrini abbassati e dei fanali che gli erano sembrati quelli della Lamborghini del cugino Alfonso Perego. Ma non gli interessava più di tanto approfondire le caratteristiche del mezzo. Voleva inquadrare al meglio il nuovo venuto, perché con ogni probabilità era colui che gli stava soffiando la donna. Era stato attraversato da un pensiero: eliminarlo.  Ma come? No, non era da lui… Tony indossava un paio di jeans e una camicia azzurra con le maniche rimboccate, che svolazzava completamente aperta su una banalissima t-shirt bianca. Non poteva, però, non ammettere la sua avvenenza. Il ragazzo si presentava bene, aveva osato pensare con rammarico, ben meglio di lui. Erano soprattutto i capelli ad avvantaggiarlo, con un ciuffo biondo da star cinematografica. Lui non poteva competere. Da tempo aveva cominciato a perderli. Si era avvicinato con un balzo al citofono dell'amata, e aveva pigiato con sicurezza su un pulsante che dava l'impressione di conoscere già bene. Poi s'era allontanato dal cancello d'ingresso accendendosi una sigaretta e guardandosi in giro con aria soddisfatta. Fumava con grande soddisfazione emanando ampie boccate di sigaretta che si scioglievano nel cielo bituminoso della sera. A Sergio era andato il sangue alla testa. Era diventato tutto rosso, e faceva fatica a respirare. Era divorato dalla rabbia e dall'incapacità di fare qualcosa di concreto come scendere e tiragli un cazzotto sul muso. Senza rendersi conto aveva accartocciato il giornale, gettandolo ai piedi del sedile. Teneva la testa bassa per non correre rischi, con gli occhi tesi all'insù per non perdersi nulla, ma la posizione gli stava provocando un principio di mal di testa. Ma doveva, voleva, resistere. Se era quello il tipo di Elisabetta c'era da stare freschi. Con uno così sarebbe stata davvero dura. Per un attimo aveva incrociato le dita, invocando il nonno in paradiso che potesse cambiare le carte in tavola, facendo sì che quel ragazzo non fosse altro che il nipote di una nonnina della stessa scala di Elisabetta. Speranza vana, visto che Sergio sapeva benissimo che lungo la scala di Elisabetta non abitava alcuna nonnina, né altre ragazze che potessero spiegare l'arrivo baldanzoso di un aitante trentenne. Sicché il nonno di Sergio dall'alto dei cieli non aveva potuto fare granché, e dopo cinque minuti di attesa Elisabetta era comparsa di fronte al giovane amante con una minigonna vertiginosa, il rossetto sulle labbra e un decolletè che Sergio non le aveva mai visto nemmeno col binocolo. Era sbigottito, divorato dalla tristezza e dall'ansia. Perché con lui non s'era mai abbigliata così? E adesso, conciata in quel modo, cosa avrebbe combinato con quel bellimbusto? Mica ci sarebbe finita a letto... con lui non era mai andata a letto, non poteva farlo prima con qualcun altro... Era divorato dai dubbi. Lui le aveva aperto garbatamente la porta facendola accomodare come se stesse servendo una principessa, poi aveva lanciato il mozzicone ancora acceso in direzione di un tombino, prima di infilarsi lui stesso nell'abitacolo, ingranare la prima e partire verso chissà quali lidi. Sergio per un quarto d'ora era rimasto come un automa a osservare le macchine correre avanti e indietro di fronte alla casa di Elisabetta. Non voleva credere ai suoi occhi. Non era vero... e invece era verissimo. Era l'unica donna della sua vita... e adesso non era più niente. S'era messo a fare il detective e incredibilmente aveva azzeccato la peggiore delle sorti. Non voleva crederci. Cercar di essere ottimisti era un'utopia. Alla fine s'era rimesso in moto. Aveva vagato per mezza Brianza con la testa calda e pesante e le lacrime che sembravano sgorgare da un momento all'altro, ma non sgorgavano mai. Era la collera a trattenerle, una rabbia che a tal punto avrebbe volentieri sfogato sulla faccia della sua ex, che lo aveva abbandonato così, dopo anni di sentimento e passione, come un verme, come un animale qualsiasi. Era arrivato fino a Renate, un paesino dopo Monticello Brianza. Era sceso dalla macchina e s'era messo a girare su se stesso come una trottola cercando un valido motivo per rincasare. Ma un motivo non arrivava. Aveva così pensato che potesse sedare la sua malinconia in un solo modo: bere. S'era accorto di avere un assoluto bisogno di bere. Alcol. In passato era già stato ricoverato per un'ulcera fulminante dovuta al troppo bere, ma non era certo, adesso, il caso di soffermarsi su questo tipo di problema. Essere di nuovo ricoverato per un'ulcera, per certi versi, gli pareva addirittura una benedizione. Era, dunque, tornato sui suoi passi, verso Vimercate, con gli occhi luccicanti e un magone mai provato. S'era fermato in un baretto lungo lo stradone per Casatenovo e aveva ordinato senza tentennamenti un Negroni. L'aveva scolato in cinque minuti e ne aveva ordinato subito un altro. La testa aveva cominciato a vacillargli con il terzo, reggeva bene, ma fino a un certo punto. Lo stomaco dava già degli strani segnali dopo mezz'ora che era arrivato al bar. Era forse il caso di andare in bagno. Aveva liberato la vescica appoggiando come un disperato la mano sopra la tazza del water, per reggere il peso di un corpo che non gli apparteneva più. Poi s'era guardato allo specchio, notandosi con due occhiaie profonde e un senso di sbandamento incipiente. Da tempo non era conciato così. Ma era quello che voleva. Ora che i fumi dell'alcol cominciavano ad avere il sopravvento, aveva avuto l'impressione di sentirsi, se non altro, più leggero. Tornato al suo posto al bancone, aveva osservato malignamente una coppia che si scambiava calde effusioni, incauta di fronte ai tanti presenti. Sembrava una coppia felice. Ciò che non sarebbe stata la sua, ora naufragata per colpa di un possessore di Lamborghini con il ciuffo spavaldo. Alla fine di questa laconica digressione metafisica, s'era scolato in un sol colpo il mezzo Negroni che ancora gli rimaneva. E con questo erano tre. Una bella media, in nemmeno un'ora. Aveva avuto uno strano capogiro mentre andava a pagare alla cassa. La titolare del bar l'aveva osservato con aria accondiscendente. Capitavano spesso tipi del genere, per sua fortuna, ma quello che aveva davanti pareva davvero conciato male. Sergio s'era rimesso in moto osservando intorno a sé un paesaggio che gli pareva estraneo. Le luci della sera si fondevano fra loro, creando orizzonti cubisti, inframezzati da lampi di luce che correvano a folle velocità. Erano le macchine che gli passavano di fianco e gli suonavano sollecitandolo ad andare dritto e a schiacciare un po' sull'acceleratore, visto che non passava i trenta chilometri  all'ora in una strada dove in media si raggiungono gli ottanta chilometri all'ora. Non si sa come, però, era riuscito a tornare da dove era venuto. A Vimercate s'era dunque fermato in un altro bar. Sentiva di non essersi ancora espresso al meglio. Aveva ancora sete. Sete di alcol. S'era così nuovamente rifocillato in zona Piazza Marconi, nello squallido locale che dava sulla file di pensiline del pullman, dove due millenni prima dei romani avevano scelto di ubicare una zona dedicata al culto degli dei. Era il caso di darci dentro con ulteriore foga, se voleva davvero spegnere i sussulti dell'anima. Erano così arrivati uno in fila all'altro altri due Negroni. In totale facevano cinque. Nemmeno un cammello avrebbe retto un simile apporto di sostanze alcoliche. A questo punto chiunque avrebbe rischiato il coma etilico, ma non lui. Con un sangue chissà come avvezzo da anni a certe esagerazioni. S'era rimesso in macchina mezz'ora dopo, con lo stomaco gonfio come una cisterna. S'era fermato a fare pipì in mezzo alla strada, dalle parti della cascina San Paolo. Non finiva più. Gli sembrava che non pisciasse da una vita. Come aveva fatto la sua vescica a trattenere così tanta urina? Se l'era domandato mentre ricuciva il membro nel suo reparto stagno. A questo punto poteva dirsi sazio e soddisfatto. Il suo pensiero era pari a zero, e l'idea di Elisabetta ridotta a un lumicino incolore. Era così che voleva stare, era così che era riuscito ad arrivare. Gli mancavano pochi chilometri per arrivare a casa. Ma a destinazione s'era reso conto di non essere perfettamente in grado di infilare la macchina nel box. Così l'aveva lasciata in strada, dietro a quella di Fabiano Sirtori che rimaneva quasi sempre fuori. Erano quasi le due di notte e non c'era in giro un cane. Perfino attraversare la strada a piedi non era stato facile, ma alla fine era riuscito a raggiungere il cancello del condominio omatese. Regnava il silenzio più assoluto. Infilata la chiave nella serratura era stato colto da un brivido di freddo. Poi era sopraggiunto un picco di angoscia inaspettato, prima di vedere tutto nero e sentire la pressione sanguigna precipitargli sotto le scarpe. Sergio aveva superato di mezzo metro il cancello, ma non aveva fatto in tempo a rendersi conto che le sue gambe non lo reggevano più. In una frazione di secondo era crollato su se stesso, impattando con il suolo senza avere nessuna coscienza di ciò che stava accadendo. Era finito col muso per terra, impiastrando le mattonelle di sangue: il naso grondava come una fontana, ma lui era in un altro mondo. In quella miserabile posizione era rimasto per tre ore di fila, prima che, allo scoccare delle cinque del mattino, il signor Tresoldi guadagnasse l'uscio di casa per andare con un amico a pescare alla cava di Cavenago, diletto che spesso, al sabato, si concedeva. Non aveva creduto ai suoi occhi. Quello era Sergio Perego e in vita sua non l'aveva mai visto conciato in quel modo. S'era seriamente spaventato. Gli si era avvicinato e trovandolo esanime s'era preoccupato che potesse essere morto e che se l'avesse toccato poi avrebbero potuto incolpare lui dell'omicidio. Non aveva fatto in tempo a ragionare sull'assurdità del suo timore, che già stava pigiando come un ossesso il citofono di casa Perego.
«Signora, la prego, corra dabbasso, c'è suo figlio che...».
Non era servito andare oltre. La signora Perego, con le croste agli occhi e i capelli arruffati come una megera, s'era infilata la prima camicia che le era capitata a tiro e indossate le ciabatte s'era precipitata verso l'ingresso del condominio. Non sapeva nemmeno chi l'avesse contattata, ma, come pervasa da un presentimento malato, sapeva che non poteva far altro che rotolare per le scale per vedere cosa fosse accaduto al figlio. Lo aveva trovato in una pozza di sangue raggrumato, tipo le scie di rossore che si lasciano dietro le vittime di qualche agguato mafioso. Il suo Sergio lo avevano ammazzato.
«Sergio!!! Santa Maria...».
La donna stava per svenire. Non riusciva a capacitarsi di quel che i suoi occhi stavano mettendo a fuoco. Gli avevano ammazzato il figlio davanti a casa. S'era piegata su Sergio, alzandogli la testa, e gridando come una forsennata, aveva svegliato l'intera famiglia Vismara del primo piano.
«Me l'hanno ammazzato!! Me l'hanno ammazzato!!».
Il signor Tresoldi era attonito, con le canne da pesca in mano, sembrava un burattino da condurre al macero. Gli sembrava di essere stato catapultato all'improvviso in un film di fantascienza. Da quando in qua venivano commessi dei delitti così efferati a Omate? Mai s'era sentito parlare di una cosa del genere. Era talmente esterrefatto che non aveva nemmeno trovato il coraggio di confortare la povera donna, rannicchiata su se stessa come una cagna morente.
«Sergio! Figlio mio!».
La donna era distrutta, le lacrime le avevano invaso il volto, trasformato in una maschera gonfia e irriconoscibile. Biascicava. Ma mentre si era alzata per cercare un aiuto, per supplicare il signor Tresoldi di fare qualcosa, di chiamare qualcuno, la polizia, il pronto intervento, il padreterno, s'era accorta che dalla bocca del figlio erano uscite delle bollicine. Subitaneamente aveva riflettuto sul fatto che a un cadavere non sarebbero dovute uscire delle bollicine. Così s'era riaccovacciata sul corpo immobile del figlio cercandolo di osservare con maggiore discernimento. Il corpo, di fatto, nonostante la temperatura frizzante dell'aria, era caldo. Sergio era caldo o era ancora caldo? Una differenza abissale sulla quale era necessario indagare per capire cosa fosse realmente accaduto al trentottenne.
«Sergio! Sergio!».
La madre aveva riprovato a sollecitare il figlio, pian piano sempre più convinta del fatto che forse era solo svenuto. A tal punto, come in un miracolo, Sergio aveva aperto mezzo occhio destro, storcendo la bocca come se fosse rimasta immobilizzata per un'eternità e fosse necessario ridarle un po' di vigore con un esercizio fisico.
«È vivo! È vivo!», aveva gridato l'anziana donna, come in preda a un'estasi mistica. «Sergio! Sergio! Mi senti?».
Udendo queste parole, Sergio aveva ripreso vita tutto d'un colpo e cercato di farsi forza sulle braccia per riacquistare la stazione eretta. Tresoldi, sempre più annichilito, osservava la scena con gli occhi sbarrati.
«Non le può dare una mano, lei che sta lì impalato come un ciuccio?».
Tresoldi non sapeva nemmeno cosa fosse un ciuccio, ma si rendeva conto che forse era proprio il caso di intervenire a dare una mano al vicino di casa.
«Forza, si aggrappi a me», gli aveva detto Tresoldi, che finalmente cominciava a realizzare quel che fosse realmente successo. Gli era bastato incappare per caso in un'alitata del giovane, pesante come un macigno e fetente come una latrina a cielo aperto.
In piedi, Sergio, s'era guardato intorno come se vedesse il mondo per la prima volta. Aveva le labbra viola e il naso pennellato di rosso. Respirava male e aveva la vista annebbiata. I fumi dell'alcol non se n'erano ancora andati. Non era riuscito a dire granché, se non a tranquillizzare la madre.
«Mamma, che ci fai qui? Io sto bene. Ma tu che ci fai qui? Dai andiamo a casa…».
La signora Perego aveva preso sottobraccio il figlio e ancora agitatissima s'era diretta verso casa. Era la prima volta che vedeva suo figlio devastato in quella maniera. Sergio barcollava, ma in qualche modo era riuscito ad arrivare all'ascensore, dove la madre l'aveva sottoposto a un pesante interrogatorio, benché ormai avesse ben in mente ciò che era accaduto al figlio: Sergio era ubriaco fradicio, al punto da non riuscire più a reggersi in piedi.
«Ma ti sembra questo il modo di conciarti? Senza contare lo spavento che mi hai fatto prendere… Hai quasi quarant'anni e ti comporti ancora come un bambino. Ma si può sapere cosa t'è saltato in mente?».
Sergio non fiatava.
«Pensa alla gente... a quello che dirà la gente. Ma non ti vergogni?».
«Non ci ha visti nessuno, dai mamma».
Si era guardato allo specchio trovandosi raccapricciante, ma non aveva ancora realizzato esattamente i trascorsi delle ore prima. Si ricordava di essere stato a bere in un locale della Brianza, dopo aver visto la sua Elisabetta accomodarsi sulla Lamborghini di un biondo che avrebbe voluto maciullare con le sue stesse mani. E invece era lui che, seppur metaforicamente, era stato maciullato dal nuovo spasimante, vedendosi costretto a rifugiarsi in un covo di ubriachi e a meditare su un sogno che non si sarebbe più avverato. A casa s'era dato una sbrigativa lavata del capo, trovando pressoché impossibili da liberare le tracce di sangue che gli impiastravano ancora tutto il naso, e dopo essersi scolato mezza bottiglia di acqua, era filato in camera addormentandosi come un sasso fino alle quattro del pomeriggio. Nemmeno le urla della madre e i guaiti famelici di Rododendro verso mezzogiorno erano riusciti a ridestarlo. Per l'ora di cena, però, era in qualche modo riuscito a tornare in vita, anche se aveva un dolorosissimo cerchio alla testa e gli occhi ingialliti da un fegato che reclamava pietà. S'era accomodato al suo posto – un tempo il posto del padre - aspettando di essere servito dalla madre, ormai quasi rientrata nei gangheri. L'importante, aveva pensato, era che il figlio stesse bene, che non fosse ferito, né tantomeno morto come le era tragicamente sembrato vedendolo la prima volta, sbattuto a terra come un sacco di letame. Alle 20.00 era partito il telegiornale di Rai Uno. Si seguiva sempre in casa Perego, da quando la Rai era stata inventata; anche perché Rai Due era socialista e Rai Tre comunista; non c'erano molte altre chance per ottenere valide informazioni, non influenzate dai poteri forti: si dia infatti il caso che secondo i Perego fossero tutti poteri forti, tranne l'unico vero potere forte di cui erano vivi sostenitori, vale a dire la DC, che dal loro punto di vista era immacolato. Era partito lo speaker parlando di un disastro nucleare in Ucraina, della fuga di veleni radioattivi e del pericolo che avrebbero corso gli abitanti di Kiev. E gli italiani, in un secondo tempo. Gli piaceva l'idea di visitare Kiev, semmai fosse capitato, in futuro... Sergio ascoltava, ma aveva la testa da tutt'altra parte. Pensava ancora alla sua Elisabetta. Pensava ancora al rivale che al posto suo l'aveva caricata in macchina ed era fuggito chissà dove. Vigliacco. Cane vigliacco. Erano le uniche parole che riuscivano a prendere forma nel suo cervello. Era esploso un reattore nucleare, notizia che in qualche modo era riuscito a stuzzicarlo, ma non più di tanto. Da sempre, del resto, amava le notizie caratterizzate da retroscena scientifici, leggere i giornali di scienza, la tecnologia, gli sviluppi ingegneristici… Non che ci capisse granché - avendo la terza media non poteva ambire a chissà quali risultati - ma conservava una certa curiosità e un buon entusiasmo che spesso valgono di più di qualunque titolo accademico. Per questo almeno una minima fiammella s'era accesa nel suo cuore, ancora tronfio di dolore e “assenza”, ma per poco. Quando anche la madre s'era unita a lui per consumare un piatto di maccheroni col sugo – non a caso uno fra i piatti preferiti dal ragazzo ormai cresciuto – Sergio s'era alzato per girare canale. Ne aveva abbastanza. Ne aveva abbastanza di notizie negative. La sua vita era già stata fin troppo negativa, non era il caso di peggiorare la situazione. La sua Elisabetta era altrove, lontana da lui, se anche fosse scoppiato il reattore nucleare più potente della Terra, non gliene sarebbe fregato niente. Questa era la verità.
«Perché giri canale? Fammi sentire cosa stanno dicendo», aveva reclamato la mamma, più preoccupata di non potere vedere l'intero telegiornale com'era solita fare da quando avevano inventato la televisione, che non per la reale gravità del fatto che veniva reso pubblico.  
«Dai mamma, sono sempre le solite cose. Fammi vedere se dicono qualcosa di sport».
«Io voglio vedere il telegiornale. Poi dicono le cose importanti e noi non sappiamo mai niente…».
Sergio aveva squadrato la madre con tono malinconico e aveva ripristinato il primo canale. C'era ancora alle spalle dello speaker un gigantesco sarcofago grigio, una specie di bomba atomica, tipo quella che era appena esplosa nel suo cuore.

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