sabato 5 maggio 2012

Affari condominiali: quinto piano, appartamento C


Parlava ogni tanto col Vismara del primo piano e con il De Santis del quarto, ma il più delle volte si rivolgeva a se stesso, inseguendo fantasmi che poteva percepire solo lui. Da poco gli avevano diagnosticato una malattia strana, a metà strada fra la demenza senile e la mania di persecuzione. Il male era emerso in tutta la sua drammaticità il giorno in cui la moglie, Cesira Magnaghi, era rientrata da una riunione dell’Avis trovandolo in uno stato disdicevole.
“I ladri! Ci sono i ladri! Cesira! Chiama i pompieri!”.
Non aveva idea di ciò che stava dicendo. Ma nella sua mente si susseguivano quadri onirici terribilmente vividi e precisi. Riguardavano volanti della polizia che stavano circondando il palazzone per stanare la coppia di malavitosi che, armata fino ai denti, s’era introdotta clandestinamente nel palazzone, e ora stava mettendo a soqquadro proprio il suo covo, rubando tutto ciò che gli capitava a tiro. Ogni tanto si affacciava alla finestra per gridare ai quattro venti le coordinate idonee a raggiungere al più presto l’appartamento svaligiato; bisognava agire in fretta, prima che i ladri facessero una strage. Era meglio non usare l’ascensore, che si poteva bloccare; era meglio aprire tutte le finestre e urlare da ogni polo il tragitto più felice da seguire per difendere l’abitato. Entrando in casa, Cesira, aveva incontrato un marito che non sapeva di avere; con i capelli all’aria, arruffati all’inverosimile, come se fosse passato sotto una galleria del vento, o le spazzole di un autolavaggio, la faccia spiritata, gli occhi fuori dalle orbite, iniettati di sangue e pus giallo. Era mezzo nudo. Con le mutande che gli arrivavano fin sopra l’ombelico, con la canottiera macchiata di sudore e tappezzata di buchi; e un sigaro fra le dita, mezzo mangiucchiato, che agitava senza cognizione come se stesse impugnando un mitra. Gridava come un pazzo, nel silenzio di una notte omatese straordinariamente mesta e pacata, con gran parte dei condomini ormai prossimi al sonno. 
“I ladri, ci sono i ladri! Cesira! Ci sono il ladri! È la fine!”.
La moglie era costernata. In quasi cinquant’anni di matrimonio non le era mai capitata una cosa del genere. Suo marito non era mai stato all’ospedale e non era mai stato seriamente malato. Tutto ciò le sembrava un film d’orrore. Da un po’ di tempo, a onor del vero, il partner aveva cominciato ad accusare strani malesseri, legati a una lenta digestione e a stati di costipazione inusuali, ma di fatto nulla che potesse davvero impensierire a tal punto da chiamare in causa qualche medico. Erano cose che andavano a posto da sole. Ma ora la situazione sembrava davvero precitata. C’era qualcosa che non andava secondo programma. C’era qualcosa di assolutamente anomalo che era sfuggito ai più della famiglia e del circondario; anche gli amici, in effetti, non l’avrebbero mai immaginato in questa salsa da pazzo squinternato. Il marito di Cesira era sempre stato un uomo a posto; forse un po’ orso e sornione, ma nulla di atipico. Nessuna paturnia particolare aveva mai impensierito il suo divenire. Di che razza di ladri stava parlando se il palazzo era avvolto nelle tenebre e non c’era in giro anima viva? Chiaramente tutto stava avvenendo nella sua mente. Bacata. I suoi occhi o il suo sesto senso pareva stessero incontrando l’inferno, e fra le fiamme dell’apocalisse c’erano, evidentemente, due brutti ceffi con il passamontagna che avevano appena immobilizzato Cesira e ora si stavano occupando di Ernesto Casiraghi, per rubargli tutti i suoi averi, accumulati dopo anni di sacrifici e rinunce.
“Figli di cagne! Andatevene da casa mia! Barboni, siete solo dei barboni!”.
Brandiva intanto il sigaro mandando cenere per ogni dove.
“Ernesto, cosa stai dicendo? Guarda che in casa non c’è nessuno se non io e te... te ed io”.
Ma Ernesto non sentiva.
“Vieni via! Nasconditi! Stanno arrivando. Sono qui, i ladri, figli di puttana, ci vogliono rubare tutti i soldi! Ci vogliono rubare il frutto di decenni di lavoro!”.
Cesira era sbigottita. Non lo riconosceva più, colui col quale da decenni condivideva il letto e col quale aveva messo al mondo due creature: Donata e Giorgio. La primogenita faceva la commessa in un negozio di Vimercate; il secondo, il maschio, lavorava come elettricista in uno stabilimento della Parini Spa, dalle parti di Masate. La situazione sembrava davvero essergli sfuggita di mano. Ernesto era totalmente fuori di sé, non connetteva, sembrava finito a mietere tristezze e disillusioni in un mondo misterioso, popolato da mostri assurdi, col sottofondo di sirene spiegate, l’agonia di esseri metà uomo metà bestia che la quotidianità non contempla. Sì e no gli incontri che aveva provato a fare, a sua insaputa, lo stesso figlio Giorgio, l’unica volta che si era fatto tentare da una pasticca di LSD. Cesira, dopo aver provato per mezz’ora di riportare un po’ di ordine, non aveva potuto fare altro che chiamare in causa i figli. C’era da portare il marito di corsa al pronto soccorso. Non vedeva altre vie d’uscite. Donata, però, la più vicina e affidabile, non aveva risposto.
“Giorgio, Giorgio, il papà è impazzito, dice che ci sono i ladri, vieni qui, io non so cosa fare!”.
Giorgio s’era trasferito da un po’ a Brugherio, dopo essere stato piantato in asso da un amore conosciuto in Belgio per via di una trasferta della squadra del cuore, la Juventus. Percepiva la voce nauseabonda della madre, ma era letteralmente sceso dal pero e di primo acchito aveva creduto che fosse la mamma ad avere bisogno di aiuto.
“Cosa stai dicendo? Sei sicura di stare bene? Passami papà...”.
“Giorgio, papà non capisce più niente! Bighellona per la casa. Adesso ha preso il bastone della scopa e si è messo a inseguire dei ladri che non esistono. Ho tentato di chiamare tua sorella, ma non risponde nessuno. Devi correre subito qui, sennò va a finire male!”.
Giorgio era pronto a infilarsi sotto le coperte, ma aveva dovuto cambiare subitaneamente programma, rivestirsi e guadagnare l’uscio di casa per soccorrere i genitori moribondi. Così, alla fine, s’era messo a macchinare: i genitori, settantacinquenni, dovevano entrambi avere perso la testa. Forse avevano mangiato dei funghi velenosi. A ciò aveva pensato Giorgio, mentre era già in macchina, diretto a Omate, valutando il fatto che i suoi non avevamo mai dato segni di squilibrio, benché negli ultimi tempi avessero preso il vizio di aggirarsi nei boschi della zona a caccia di prodotti miceliari non facili da classificare. Qualcuno gli aveva detto che valeva la pena procacciarli, prima che se ne accorgessero tutti e potesse fiorire un mercato tale da arricchire solo i più lungimiranti. C’era un boschetto alle spalle dell’SGS, dove lavorava Delphine, la francesina del palazzone, facile da raggiungere e setacciare, che faceva proprio al caso loro e che avevano cominciato a battere come boyscout. In realtà non avevano mai trovato granché, se non carcasse di animali morti e un sottobosco rigoglioso come quello di una foresta tropicale. Qualcosa non tornava... ma la voce disperata della madre aveva suggerito a Giorgio che fosse davvero il caso di intervenire. In una decina di minuti era già ai piedi del palazzone omatese. Ma tutto sembrava assolutamente normale. Imperava un silenzio spettrale e nessun condomino pareva muoversi tallonato dall’ansia di poter essere derubato da un momento all’altro. Aveva notato, però, le finestre spalancate dell’appartamento dei genitori e le luci tutte accese; non faceva così caldo e non serviva illuminare l’appartamento a giorno. Qualcosa, effettivamente, non quadrava. Nell’atrio aveva incrociato Domenico Ciccarelli, con un sorriso smagliante, stava uscendo per andarsi a bere una birra con un amico di Agrate. S’erano salutati apostrofandosi con il mento, prima di prendere  l’ascensore e puntare al quinto piano. Sbarcato sul pianerottolo aveva sentito subito papà dare i numeri.  
“Ah, Ah, i ladri! I ladri! Dite ai poliziotti di salire, i ladri sono già in casa mia! Puntate le rivoltelle verso il più grasso, quello con la pancia, è la mente, è lui l’assassino!”.
Blaterava. Giorgio non aveva saputo se ridere o piangere. Ma s’era quasi messo a piangere ritrovandosi di fronte il genitore, abbigliato come un profugo afgano e con un oftalmo da far invidia al peggior ipertiroideo della Terra. La madre con le mani spiegate sulle guance, dondolava la testa sconsolata, pregando Dio che finisse presto questa inaspettata pantomima. La venuta di Giorgio era stata accolta come una benedizione.
“Giorgio, Giorgio, grazie a Dio sei arrivato! Guarda come è conciato tuo padre! Non sa più quello che dice, io non l’ho mai visto così, non capisco cosa gli sia accaduto!”.
“Papà, papà, che succede!”.
Giorgio aveva abbracciato il padre, cercando di calmarlo, ma senza esito. Ernesto lo guardava come se avesse davanti uno sconosciuto, un nemico, forse uno dei ladri che volevano privarlo di ogni bene. Rendendosi conto dell’apocalisse in corso, Giorgio aveva sollecitato la madre a chiamare un’ambulanza. Intanto il capofamiglia continuava nella sua farsa, aizzando la scopa e blaterando frasi senza senso.
“Forza, muovetevi!”, gridava dalla finestra ai poliziotti, vivi solo nella sua mente. “Mi stanno svaligiando la casa. Muovetevi farabutti!”.
Giorgio non credeva alle sue orecchie. Quello non era suo padre. E invece era proprio lui, suo papà, Ernesto Casiraghi, che fino a ieri gli era sembrata la persona più mite e innocua del pianeta, in pensione da quindici anni, cordiale con chiunque.
“Mamma, cosa gli hai dato da mangiare?”.
“Niente di che. Un piatto di spaghetti...”.
“Non i funghi che andate in giro a cercare per insaporire le vostre pietanze...”.
Ma la madre era già oltre.
“Giorgio, non dire fesserie. Tuo padre sta male, sta male veramente, non sta capendo niente. È da un’ora che cerco di calmarlo. Appena sono arrivata era un delirio, urlava come un disperato. Ha la testa in completo subbuglio, sono esterrefatta. Sbrighiamoci a fare qualcosa... non l’ho mai visto conciato così”.
Era oggettivamente il caso di agire. Al più presto. Finalmente anche Giorgio se n’era reso conto. Aveva così impugnato la cornetta del telefono e chiamato l’ospedale di Vimercate, rispondendo all’interlocutore che al padre era partita una rotella e che ora era necessario intervenire quanto prima per rimediare una situazione che i familiari non potevano certo risolvere. L’ambulanza era arrivata in un quarto d’ora. Vedendo le luci delle sirene, Ernesto aveva dato ancor di più in escandescenza, credendo che stessero arrivando i rinforzi dei ladri, che gli stavano distruggendo l’appartamento, ora in cerca della cassaforte. Erano invece tre medici che vedendolo non avevano potuto fare altro che immobilizzarlo, piantandogli nell’avambraccio una siringa con un calmante in grado di piallare un cavallo, che lo aveva ribaltato nel giro di dieci minuti. Trasformato da toro scatenato in agnello, era stato accompagnato al pronto soccorso, scortato dal figlio e dalla moglie che non avevano smesso di fissarlo, adagiato sul lettino, chiedendosi cosa potesse averlo ridotto in quello stato. Presso il nosocomio era stato sottoposto a una serie di esami, dai quali non era emersa nessuna particolare patologia. Il problema era di natura puramente psichica. Il direttore del pronto soccorso s’era avvicinato alla moglie di Ernesto, suggerendole di riportare a casa il marito, in attesa di conoscere la cura più idonea per ridargli speranza.
“Signora, suo marito, con ogni probabilità, soffre di uno stato delirante. Possiamo ricoverarlo, ma il ricovero nel reparto di psichiatria non è mai troppo simpatico. Se lo dimettiamo seduta stante, dobbiamo, però, sincerarci che verrà sottoposto immediatamente a una visita psichiatrica...”.
Cesira era incredula.
“Stato delirante? E da cosa può essere provocato? Mio marito non ha mai avuto problemi del genere…”.
“Sono cose che possono capitare. Ora, però, va indagata l’entità della malattia e impedire che si ripetano crisi di questo genere”.
In accordo con il figlio Giorgio, e la figlia Donata, che nel frattempo aveva raggiunto i familiari, dopo l’ennesima chiamata della madre, Cesira aveva dato retta al medico responsabile e riportato a casa il marito in attesa di una visita specialistica. Dal nosocomio erano stati congedati con una cura massiccia a base di valium che avrebbe tenuto a bada Ernesto fino al momento della panacea definitiva. Dopo tre giorni dalla dimissione avevano fatto visita alla dottoressa Pierina Trevisan, una veneta che lavorava da anni con gli anziani colpiti da malanni cerebrali, con un Ernesto che era tornato (quasi) il solito di sempre, anche se non mangiava quasi da settantadue ore e la cura di valium l’aveva reso più simile a un ghiro in letargo che non a un essere umano. Tuttavia l’incontro con la Trevisan s’era rivelato provvidenziale. Dopo una serie di test psichiatrici era, infatti, stato possibile stilare la disgrazia accorsa alla famiglia Casiraghi. Ernesto soffriva di una forma particolare di demenza senile, legata a manie persecutorie. Più prosaicamente, i suoi neuroni non funzionavano più a dovere, ma anziché fargli perdere la memoria, come accade spesso negli ultrasettantenni, s’erano messi a fargli credere in cose del tutto insensate e assurde. Il fenomeno poteva essere dovuto a un restringimento di alcuni vasi cerebrali, tale per cui la scarsa ossigenazione dell’encefalo porta a un malfunzionamento dei centri cognitivi.  Le crisi duravano da qualche minuto a qualche ora, ma erano sempre devastanti, con una compromissione molto seria della coscienza e l’innesco di effetti secondari come incontinenza urinaria, respiro affannato e fibrillazione atriale. Ernesto Casiraghi soffriva di un male che andava tenuto a bada, anche se non esistevano cure in grado di risolverlo completamente. Le aspettative di vita, però, non erano delle migliori. Nella peggiore delle ipotesi sarebbe sprofondato in uno stato di perenne apatia, associato a un forte deperimento organico. Avrebbe passato sempre più tempo a letto, fino a perdere del tutto i contatti con il mondo esterno. La Trevisan aveva dato tutte le istruzioni necessarie a curare il marito a casa, tramite la somministrazione costante e periodica di pasticche in grado di impedire il sopravvento di crisi particolarmente violente, come quella che aveva fatto precipitare la situazione. L’esplosione del reattore di Chernobyl era dunque avvenuta un mese dopo il fattaccio e venti giorni dopo l’inizio ufficiale della cura. Ernesto era sul divano, aveva finito di cenare e alle 20.00, come tutti gli altri giorni, era pronto per il telegiornale di Rai Uno. La cura pareva funzionare bene, ma da un mese a questa parte aveva già perso dieci chili, e la sua mente era spesso annebbiata. Vedendo del disastro ucraino s’era, però, eccitato, come non accadeva da tempo. Aveva chiamato Cesira al suo fianco e aveva cominciato a baciarla profusamente. All’improvviso sembrava essere tornato l’Ernesto di sempre, lo stesso che Cesira aveva incontrato da ragazza e del quale s’era innamorata perdutamente. Cesira vedendo il marito con un’espressione beata se n’era rallegrata; ma non aveva capito bene quale fosse il motivo di questo piccolo miracolo. Non aveva capito che c’era di mezzo un fattaccio del quale non c’era proprio nulla di che rallegrarsi.
“C’è stato un disastro nucleare in Ucraina”, aveva detto alla moglie.
“Un che?”.
“Un disastro in Ucraina. È scoppiata una centrale nucleare”.
Sembrava stesse affidandosi a una lingua straniera. Centrali nucleari? Ucraina? Non aveva mai sentito il marito parlare così, menzionare nomi simili... Cesira s’era concentrata sulla trasmissione televisiva per capire il motivo dell’ilarità di Ernesto, logicamente inconciliabile con l’esplosione di una centrale nucleare. Poi, però, aveva compreso che si trattava davvero di una catastrofe... non gliene importava granché; se non capire perché l’esplosione di una centrale nucleare avesse potuto far rinsavire il partner sempre più chiuso in se stesso.
“Caro, ti interessa così tanto questo avvenimento?”.
“Moltissimo”.
“Non ti turba?”.
“Non mi turba per nulla, amore mio. Non se ne sentono spesso di notizie di questo genere. È una meraviglia…”.
A tal punto Cesira aveva drizzato le orecchie, allarmandosi: era possibile che il marito non avesse capito nulla di ciò che stava accadendo? Era possibilissimo. Altrimenti non si spiegava come potesse ridere di un avvenimento in grado di contaminare mezza Europa in un sol colpo e che aveva presumibilmente già causato una moltitudine di vittime. Ahia. L’aveva lasciato nel suo brodo per un po’, tornando in cucina per sistemare i piatti e preparare il sugo per l’indomani. Ma dopo un quarto d’ora s’era insospettita percependo un tonfo strano proveniente dalla sala; sembrava il colpo che derivava da un grosso sacco che cade per terra. Era, infatti, il tappeto persiano che stava in cima all’armadio, avvolto su se stesso, che il marito aveva recuperato per non si sa bene quale motivo. Tornando in sala aveva dunque trovato Ernesto in uno stato molto simile a come l’aveva incontrato il giorno che era rincasata dall’Avis. Aveva i capelli in piedi, come aculei di un riccio, e lo sguardo allucinato, la cintura dei pantaloni che penzolava e un misterioso taglio sul braccio. Questa volta però non erano i ladri a occupare i suoi pensieri, bensì misteriose spore radioattive che avevano già invaso tutta la casa e che ora cercava di tenere a bada agitando il tappeto come un grosso ventilatore.
“Presto, dobbiamo recuperare delle maschere antigas! Presto, dobbiamo fare in fretta! Sennò moriamo tutti... Dove sono i bambini? Dove sono i piccoli?”.
Ci risiamo, aveva pensato Cesira, sconsolata più che mai. Aveva cominciato a piangere. Il marito stava male, di nuovo, come la volta prima, i fantasmi della mente lo avevano già catturato e si stavano prendendo gioco di lui. Abbandonato il tappeto s’era messo a correre avanti e indietro per la sala, tenendosi un fazzoletto alla bocca, ossessionato dall’idea di morire avvelenato. Pensava che tutt’intorno si respirasse veleno e morte. La radioattività aveva colpito il suo paese, la sua città, le sue quattro mura. La radioattività, come la peste bubbonica, s’era insinuata nel suo cuore e nella sua anima e stava fagocitando i suoi pensieri. Aveva sigillato le finestre con il nastro adesivo, terrorizzato da ipoteche infiltrazioni. Aveva serrato anche le tapparelle, trasformando l’appartamento C del quinto piano in un bunker. Così si sarebbe potuto salvare. Salvarsi altresì dalla reincarnazione di Adolf Hitler e Josef Stalin… Cesira non si era ancora accorta che non una mosca sarebbe riuscita a vincere i confini dell'abitazione, essendo troppo impegnata a decifrare il nuovo declino del capofamiglia. 
“Cesira! Cesira! Non aprire porte e finestre che il morbo potrebbe divorarci! Non c’è da scherzare. L’ha detto anche la televisione. L’apocalisse sta arrivando dall’Ucraina, dall’Unione Sovietica, dalle nevi del Kilimangiaro…”.
Ernesto s’era completamente rimbambito. E come qualche settimana prima, Cesira non aveva individuato altra soluzione per affrontare il dramma, se non quella di scomodare i due figli. Questa volta s’era fatta trovare pronta Donata che, abitando a un tiro di schioppo dai genitori, era giunta presso la dimora paterna in un batter di ciglio. Il telegiornale non era ancora finito. Raggiungendo l’uscio della casa genitoriale aveva notato il Vismara, meditabondo di fronte all’ingresso principale del palazzone omatese, con un sasso fra le mani, come se avesse voluto scagliarlo verso il cielo per abbattere un uccello. Non sapeva che la sua intenzione era, invece, quella di liberarsi di un gatto che faceva le fusa al vento e che pareva molto più contento e soddisfatto di lui. Donata aveva trovato la casa di mamma e papà sotto sopra, con tutte le luci accese, le finestre tappate, un tappeto persiano gettato senza criterio in mezza alla sala... Papà sembrava un agente al soldo di un’azienda per la disinfestazione; non l’aveva nemmeno riconosciuta. La madre, completamente rassegnata, era seduta sul divano e tremava come una foglia. Cosa ne sarebbe stato del suo futuro? Per quanto si potesse parlare di futuro? Che futuro poteva avere un uomo come Ernesto Casiraghi, completamente disorientato e ormai prossimo alla demenza più assoluta? Donata s’era presa prima di tutto cura di lei, cercando di rassicurarla, con un braccio intorno al collo, e una serie di carezze misurate, mentre il padre seguitava nelle sue peregrinazioni mentali, muovendosi come un automa radiotelecomandato.
“Mamma non ti preoccupare. Chiamiamo l’ambulanza e lo portiamo al pronto soccorso. Non vedo alternative. Vedrai che si aggiusterà tutto”.
“Non chiami Giorgio?”.
“Chiamiamo anche lui, poi vediamo cosa fare”.
Giorgio aveva risposto al volo, dicendo che non avrebbe tardato un attimo. I dubbi, d’altronde, erano lontani, l’esperienza della volta prima gli aveva insegnato che con papà era finito il tempo di scherzare. Durante il tragitto dalla sua casa a Omate, aveva pensato teneramente al padre, a quando stava bene e lui e la sorella erano ancora piccolini. Per poco non si commuoveva. Trascorrevano le vacanze lungo la costa romagnola, e durante i weekend andavano in gita presso località brianzole come la Madonna del Bosco e Montevecchia. C’era molta allegria, trent’anni prima. Erano gli anni Cinquanta. Il mondo era assai diverso dal 1986, anno in cui la caduta del Muro di Berlino e il rasserenamento dei rapporti USA e URSS parevano distanti anni luce, benché fossero dietro l’angolo. Il boom economico aveva creato nella popolazione italiana un senso di speranza enorme, un senso di onnipotenza: se le bombe non avevano fatto nulla alla maggior parte delle persone, c’era il valido sospetto che il destino dell’umanità potesse conoscere un solo avvenire, prospero e felice. Suo papà non era mai stato spavaldo, ma questa vivace atmosfera di rivincita post bellica, aveva contagiato anche lui, che in più di un’occasione s’era proposto di introdurre per casa nuove diavolerie della scienza e della tecnica, spesso non proprio parsimoniose, e per compiere avventure – come partire all’improvviso tutti e quattro per un soggiorno a Londra – che con i suoi genitori poteva solo sognare. In venti minuti era al cospetto dei familiari con la faccia trafelata e le guance rosse per la corsa.
“Che succede ancora?”.
“Vedi tu”, gli aveva detto Donata, indicando il genitore di nuovo alle prese con i suoi personaggi immaginari.
Poi rivolgendosi alla mamma: “Ma non aveva cominciato a stare meglio?”.
“Stava meglio fino a un paio d’ore fa. Poi, però...”.
“Però cosa?”, aveva incalzato il figlio.
“Però ha sentito dell’esplosione nucleare e non ha capito più niente”.
Giorgio aveva guardato i due parenti ancora sani di mente con un gigantesco interrogativo. Lui non aveva visto alcun notiziario. Era stata la sorella a dargli ragguagli in merito.
“È scoppiata una centrale nucleare in Ucraina e sembra che tutto il mondo corra seri rischi. Papà non deve averla presa bene”.
Giorgio era sbigottito.
“Come? Una centrale...”.
“Giorgio lascia stare, noi non corriamo, per il momento, alcun pericolo. Ora c’è da capire cosa fare con papà. Non vedi? Sembra peggio dell’altra volta”.
“Vedo”, aveva mugugnato Giorgio, sempre più sconvolto. “Cosa dite di fare?”.
“Aspettavamo te per decidere”, aveva detto Donata.
“Magari fra un po’ si calma”, aveva ribattuto Giorgio. “Potrebbe non essere necessario chiamare l’ambulanza. In fondo anche l’altra volta se avessimo aspettato...”.
“E se non si calma?”, aveva domandato angosciata la madre. “Io non mi fido. Non me la sento di stare con uno che non è più padrone delle sue azioni. Se ne sentono di tutti i colori. Non vorrei che...”. 
“Mamma, ma cosa stai dicendo?”, aveva reclamato Donata. “Papà sarà anche un po’ fuori, ma togliti dalla testa che possa fare del male a te o a qualcuno di noi. Papà è sempre papà”.
Stava per avere uno scatto isterico; non poteva accettare che papà potesse addirittura perdere la facoltà di intendere e volere, e per questo arrivare a compiere azioni sconsiderate.
“Mamma, ti prego”, aveva rincarato la dose Giorgio, “papà non farà del male a una mosca. Devi solo stare tranquilla. E poi adesso ci siamo qui io e Donata. Non ti lasciamo sola. Se non si riprende nel giro di poco, chiamiamo il pronto soccorso...”.
Ma Ernesto non dava alcun segno di ripresa. Esattamente come il blackout della volta precedente. In quest’occasione, però, era stracolmo di medicinali che avrebbero dovuto tenerlo a freno, inibendo ogni sua condotta dinamitarda. Se perfino con i farmaci arrivava a patire delle crisi di questo tipo, significava che il problema era decisamente grave. E se il dimagrimento fosse proseguito in questo senso... se il dimagrimento fosse direttamente proporzionale all’intensità delle crisi... Ernesto continuava nella sua pantomima, del tutto indifferente alla preoccupazione dei suoi cari che lo osservavano come si osserva un mendicante senza braccia per le strade di Milano, muovendosi come un tarantolato per la stanza, zigzagando senza cognizione. Sembrava un pazzo di prima categoria. Parlava con il muro. Si fermava a mezzo metro da esso, quello che dava sulle camere, decorato con un pendolo degli anni Trenta, confidandogli che per un tempo indeterminato sarebbe stato impossibile uscire di casa, se non correndo il rischio di finire contaminati da elementi sconosciuti chiamati radio, uranio e lo sa solo Dio cos’altro; Giorgio s’era stupito di verificare che il padre sapesse dell’esistenza di astrusi elementi della tavola periodica che ignorava pure lui. Raccontava alla parete che era necessario andare al supermercato per recuperare più provviste possibili, e barricarsi in casa, in attesa di ricevere dal Ministero della Sanità il permesso di rimettere piede oltre i confini delle proprie dimore. Vedendolo così fuori di sé, i tre parenti s’erano, per l’ennesima volta, interrogati sul da farsi. Passavano i minuti, ma Ernesto proseguiva nella sua scenata. Finché, d’un tratto, non s’era bloccato davanti al televisore. Non sapeva nemmeno lui cosa stesse dicendo lo speaker, ma vedeva la sagoma del reattore di Chernobyl completamente sventrato. S’era messo a fissarlo con uno strano luccichio degli occhi, come se avesse avuto una visione. E aveva, quindi, cominciato a ridere senza ritegno, lasciando sgomenti e increduli i familiari che – abbarbicati al divano – non avevano ancora smesso di seguire le sue inspiegabili mosse. Poi s’era girato di scatto verso i figli e la moglie, come se niente fosse accaduto, chiedendogli cosa ci facessero lì tutti e tre insieme con quella faccia da spaventapasseri. I parenti avevano fatto fatica a replicare. La situazione era a dir poco surreale. Il comportamento di Ernesto era inammissibile. In pochi secondi era passato dalla defaillance più totale, alla normalità più assoluta. Non poteva essere vero.
“Perché tutto questo disordine?”, aveva domandato Ernesto. “E perché c’è in giro questo tappeto e... le finestre toppate? Qualcuno può dirmi cosa sta succedendo? Perché siamo barricati in casa?”.
Ernesto sembrava ora l’uomo più saggio e perspicace del pianeta. Nessuno, però, dei presenti aveva avuto il coraggio di prendere in mano la situazione. Continuavano a guardarlo con la faccia inebetita. 
“Ma perché mi state fissando così? C’è qualcosa che non va? Non sta bene la mamma?”.
Ernesto s’era affiancato alla moglie per controllarle la fronte.
“Non mi sembra calda”.
A questo punto s’era fatto avanti Giorgio:
“Papà...”.
“Che c’è?”.
“Non è la mamma che non sta bene...”.
“E allora cosa?”.
“Sei tu”.
“Io? Ma io sto benissimo. Perché insinui queste cose? Come ti permetti di dire certe cose a tuo padre? Non mi sono mai sentito così bene...”.
Giorgio aveva nicchiato senza replicare.
“E ora fatemi spazio che devo vedere il telegiornale”, era andato avanti Ernesto. “Sono quasi le otto ed è l’ora del telegiornale...”.
Nessuno aveva fiatato. 
“Per favore, fatemi un po’ di spazio”, aveva ribadito, seccato, il capotribù.  
Sicché Cesira e Donata avevano creato un varco fra i loro corpi per poter accogliere quello di Ernesto. Sembrava, davvero, che non si fosse reso conto di essere precipitato nell’oblio, che fosse passata più di un’ora da quando aveva finito di cenare e da quando il suo cervello era andato in cortocircuito. Pareva che non avesse percepito il trascorrere del tempo, come se quel tempo l’avesse trascorso in un universo parallelo. Aveva lottato contro fantasmi di un’altra dimensione, infami e pericolosi, dei quali però non ricordava più nulla; se lo avessero interrogato, avrebbe risposto che lui non ne sapeva nulla e che troppe volte le persone immaginano strane realtà, forse per colpa di turbe psichiche, molto più frequenti di quanto si possa credere. Al risveglio aveva quindi creduto che fosse tutto nella norma e che curiosamente erano venuti a trovarlo i suoi due figli, che in contemporanea giungevano di rado. Nel suo ritorno alla normalità, s’era pertanto accorto di sentirsi molto bene, come non gli accadeva da parecchio tempo. Era molto soddisfatto di vedere la sua famiglia al completo. Aveva bisogno della sua famiglia, come l’acqua per la pasta ha bisogno del sale e... accomodandosi fra le sue due signore, aveva regalato all’una e all’altra un sorriso delicato, prima di baciarle, entrambe, sulla fronte. Ma non aveva fatto in tempo a seguire il telegiornale che non ci sarebbe mai stato, perché nel giro di pochi secondi era, infatti, già caduto addormentato come un bambino sulle ginocchia di Cesira, che per la disperazione aveva guaito come un cucciolo bastonato. Donata e Giorgio s’erano guardati indossando una maschera di stupore: con ogni probabilità, la cura del padre, aveva bisogno di una rettifica quantomeno provvidenziale.
“Domani chiamiamo la Trevisan”, aveva bofonchiato Giorgio. “Ci sono un po’ di cose che dobbiamo farci raccontare, o forse saremo noi a doverle dire qualcosa...”.
“Non vedo altre possibilità”, aveva ribattuto la sorella, mentre Cesira, faceva scivolare la sua mano calda fra i pochi capelli rimasti del marito.

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