L'appartamento B del sesto piano era l'unico privo di abitanti. Gli ultimi se n'erano andati da sei mesi. Non era però, di loro proprietà. Apparteneva, infatti, a una famiglia di Ornago che aveva possedimenti sparsi in mezza Brianza, compresi numerosi alloggi. Erano i signori Cavenago, benestanti da tempo. Gli ultimi ad aver preso dimora dell'appartamento B del sesto piano erano stati, dunque, due napoletani, di passaggio in Brianza per un lavoro a tempo determinato. Due napoletani, tanto simpatici, quanto furbi, scaltri e con un solo obiettivo: vivere a sbaffo. Ciro Borrelli aveva la faccia larga come un neandertaliano, le sopracciglia folte e i bicipiti da pesista; il suo volto si configurava in un ghigno perenne, in grado di spaventare anche sua madre. Biagio Marotta era un po' più carino, ma basso di statura e con due piedi completamente sproporzionati all'altezza, a mo' di un hobbit. Sarebbero potuti andare d'accordissimo con la banda di Antonello del quarto piano, se solo avessero avuto modo di incontrarsi e fare amicizia. In realtà le loro strade s'erano incrociate qualche volta in locali malfamati di Vimercate, ma nessuno dei due gruppi s'era reso conto di abitare nel raggio di pochi metri e che avrebbero potuto unire le loro forze per mettere a soqquadro la Brianza. Prestavano il loro servizio per una ditta di costruzioni, la Belotti Spa, che stava realizzando un pontile dalle parti di Calusco d'Adda, con l'idea di fornire un'alternativa al famoso traghetto di Leonardo Da Vinci, a Imbersago. Il sindaco della cittadina, Augusto Prosperi, per anni aveva cavalcato la proposta, giungendo infine ad averla vinta grazie all'unanime approvazione del consiglio comunale. Si alzavano alla mattina alle cinque e tornavano alla sera non prima delle 20.00. Gestivano degli orari assurdi e per tale motivo nessuna persona del circondario li conosceva; quasi nessuno aveva scambiato con essi qualche parola o confidenza se non per qualche caos relativo al quieto vivere condominiale, concetto che, ai due campani, evidentemente sfuggiva. Andavano e venivano come zingari, senza mai salutare nessuno, ridendo sotto i baffi, come iene, senza dare mai la possibilità a qualcuno di capire cosa avessero in serbo. Semmai la loro presenza era notata nel week end, quando per qualche astruso motivo non uscivano e stavano in casa a ubriacarsi fino all'alba. Era un'eventualità piuttosto remota, ma poteva capitare e per i vicini era la fine. Di fatto amavano troppo andare in giro a fare baldoria, a strafarsi e rimorchiare prostitute ovunque capitasse. Amavano vivere il fine settimana all'insegna dell'eccesso; rincorrevano l'eccesso con tutte le loro forze, con l'unico obiettivo di strafare senza freni, anche se significava creare problemi ad altre persone. Rischio e sconsideratezza erano il loro pane quotidiano. Non stupisce, pertanto, sapere che più volte avevano corso il pericolo di finire dietro le sbarre. L'ultima volta era capitata a Ciro che era stato beccato con una pallottola di hashish nei pantaloni. Era accaduto qualche mese prima che approdassero in Brianza, dalle parti di Pistoia. Era finito al commissariato di polizia della cittadina, e da lì al fresco per una notte. Ma aveva vissuto l'esperienza con gioia. Una volta che il secondino l'aveva abbandonato come un mentecatto dietro le sbarre, s'era sentito orgoglioso di aver sfidato i poteri forti e di non avere provato alcun timore. Le indagini avevano evidenziato che non c'erano i presupposti per il carcere, e l'indomani Ciro aveva, quindi, riguadagnato le polveri del cielo; con l'amico pronto a riprenderselo al di là della casa circondariale, alla stregua di un Dan Aykroyd, tutto pastasciutta e mandolinate. Allo stesso modo correvano il pericolo di finire all'ospedale, per l'ennesima bagordata. Biagio, una sera di autunno del 1984, aveva vomitato l'anima per il troppo bere, ma aveva continuato a darci dentro come un satanasso, finché, presso il nosocomio di Pistoia, non l'avevano rimesso in sesto con una potente lavanda gastrica, dalla quale era riemerso come uno straccio per pavimenti inzuppato di candeggina. Nei momenti di massima rilassatezza, successivi magari a una sera meno devastante del solito, andavano all'Adda o al Ticino a pescare. Entrambi amavano questo diletto, che avevano concretizzato in pompa magna, con l'acquisto di due canne da pesca di tutto riguardo, in pratica l'unico bene materiale significativo di cui disponevano. Condividevano l'hobby con il signor Tresoldi, ma non sapevano nemmeno che esistesse. Semmai s'erano accorti della figlia, carina e dannata quanto basta per suscitare le loro turpi voglie. Sicché si sdraiavano a prendere il sole lasciando che le esche compissero il loro mestiere. Ma difficilmente tornavano a casa col pesce da cucinare. Il più delle volte, contro qualunque logica comportamentale, sfilavano il pesce dall'uncino mortale e lo rilasciavano in libertà. Nel frattempo si ammazzavano di canne e se la giornata doveva proseguire durante la notte, pure di cocaina. I soldi non gli mancavano, anche se erano tragicamente in arretrato con l'affitto. Semplicemente non volevano pagarlo, sapendo che nel giro di qualche mese avrebbero cambiato aria. Come sempre. Si rifornivano di hashish e cocaina da uno spacciatore di Milano. Lo chiamavano il portaborse. Nessuno sapeva il perché. Era un malavitoso di quelli con la M maiuscola. Spacciava nel week end, nascondendosi fra le fronde dei platani che scorrono verso viale Brianza, mortificati dal lugubre incedere delle gallerie ferroviarie. Aveva tutto per ogni occasione. Durante la settimana frequentava il Leoncavallo, dove si divertiva a tampinare qualche bella ragazza in vena di esperienze estreme. Non si sapeva molto della sua vita. Non si sapeva nemmeno dove dormisse e vivesse. Ma c'è chi asseriva che si fosse ritagliato un angolo in un ex rifugio della Stazione centrale, dove aveva ricavato un misterioso pertugio nel quale aveva nascosto un fantomatico tesoro. Erano le voci che circolavano fra i numerosi tossicodipendenti che ruotavano intorno alla sua losca attività, e sulle quali ci si concentrava per vivere con meno angoscia la consapevolezza di essere finiti in un tunnel senza via d'uscita.
«Il portaborse, fra qualche anno, tirerà fuori il suo malloppo e se ne andrà ai Caraibi a fare la bella vita». Così si raccontavano i vari scappati di casa, in attesa di essere riforniti dal boss dello spaccio locale. Ciro e Biagio intuivano la sua presenza da lontano, per via della sua andatura tipica, a scatti. Chi lo conosceva, infatti, non poteva sbagliarsi sul suo conto. Era come scorgere all'orizzonte la sagoma della Statua della Libertà. Recuperata la dose quotidiana, puntavano la loro Lancia metallizzata - dopo anni di incuria ridotta a un colabrodo, ma in qualche modo sempre funzionante - verso i lidi più disparati. Se avevano qualche soldo in esubero, sceglievano di far cagnara in un night, se avevano qualche soldo in meno, si accontentavano di inseguire qualche minigonna lungo le strade del sud di Milano che si perdono nell'umidità campestre della Bassa. Stando ai loro racconti, in un episodio recente, avevano creduto di avere rimorchiato due fra le più belle ragazze della zona; ma s'erano presto resi conto che, quelle che avevano fra le loro sudice mani, erano tutt'altro che donne. Erano scoppiati in una risata isterica, prima di finire tramortiti da un conato di vomito, mettendosi a bestemmiare e a imprecare come pazzi.
«Porca puttana!! Porca puttana!! Che cazzo è sta roba!! Che cazzo è!!».
Ridevano per non piangere. Ma passata una curva dalle parti di Baggio, vicino al Quartiere degli Olmi, s'erano accostati e avevano letteralmente scaraventato le due creature giù dal mezzo, non prima di aver loro sfilato i pochi spiccioli che avevano raggranellato nelle ultime ore. Erano sotto l'effetto di qualche stupefacente e non s'erano resi conto che gli avrebbero potuto fracassare l'osso del collo, andando incontro a guai più che seri. Erano dei veri balordi, fieri di esserlo. Ma fra loro, ed i loro simili, vigeva una fratellanza quasi commovente. Un giorno, per esempio, che si trovavano al bar di Jimmy, a Omate, poco distante dal condominio della frazione, un ragazzo muovendosi maldestramente per recuperare un boccale di birra, aveva fatto cadere gli occhiali di Biagio. Il ragazzo s'era scusato e Biagio, quasi, non gli aveva fatto nemmeno caso, considerando del tutto involontaria l'azione del giovane. Ma Ciro non era riuscito a mandarla giù. Che fosse volontario o meno quel gesto andava punito, perché Biagio era il suo amico fraterno e nessuno poteva avere il diritto di torcergli un capello, tantomeno fargli cadere gli occhiali. In verità era pieno di cocaina fino all'ultima cellula del capo, e anche il motivo più banale sarebbe stato il pretesto giusto per sfogarsi su qualcosa o qualcuno, infierendo senza pietà. Sicché, senza alcun preavviso, aveva preso la testa del ragazzo e l'aveva immobilizzata davanti a sé, prima di sferragli una bocciata violenta sul naso. La gente intorno era costernata e ammutolita. Il poveraccio s'era accasciato al suolo in un mare di sangue, cercando di trattenere con le mani quel poco di naso che ancora gli era rimasto. Perfino Ciro era sbigottito dalla furia dell'amico, al punto da prenderselo sottobraccio e accompagnarlo fuori a prendere un po' di aria, convincendolo a stare calmo che era tutto sotto controllo e che nessuno voleva fargli del male. Dal modus vivendi della coppia si poteva intuire, dunque, il motivo per cui l'appartamento B del sesto piano non era ancora stato venduto: era semplicemente fatiscente e tutti quelli che andavano a visitarlo se ne andavano con le mani nei capelli. Sembrava che per un anno vi avessero abitato dei maiali, non degli esseri umani. Il proprietario, riprendendone visione dopo quasi due anni dall'ultima volta che gli aveva messo piede, non aveva potuto credere ai suoi occhi. Regnava la desolazione più totale. Il mobile della sala era piegato su se stesso, con i piedi della parte destra spariti. Un'anta era divaricata e conteneva una pila di giornaletti pornografici, bottiglie di rum vuote e pacchetti di sigarette usati come portacenere pieni di mozziconi spenti. Il tavolo della cucina era scomparso, le sedie abbandonate in malomodo in ogni angolo dell'appartamento: una si trovava addirittura dentro la vasca da bagno, con un paio di chew-in-gum appiccicati. Sui muri c'erano delle scritte a biro e poster di automobilismo e donne con abiti succinti. In un angolo della cucina pullulavano gli scarafaggi. Al proprietario era venuto un colpo. L'avevano fatto sedere, perché gli mancava l'aria. Gli avevano procurato un bicchiere di acqua, per poco non s'era messo a piangere. Alcuni dei mobili maciullati dalla furia napoletana erano l'ultimo ricordo che gli rimaneva della madre scomparsa da pochi anni. Non era stato facile mandare giù il boccone amaro. Era riuscito a pronunciare una sola parola:
«Bestie».
S'era interrogato con chi gli faceva la corte, chiedendosi come potessero esistere delle persone di questo tipo, del tutto disinteressate al rispetto delle cose degli altri; gente che, dovendo soggiacere a un contratto, con delle regole ben precise, poi faceva tutt'altro, appropriandosi in modo indebito delle case altrui e non rispettando gli impegni presi: primo fra tutti quello di saldare regolarmente la rata dell'affitto. Filiberto Cavenago non aveva tutti i torti. Alla fine i due guappi se n'erano andati senza lasciare traccia e solo a questo punto s'era reso conto che i documenti in suo possesso erano completamente falsi. Travolto dal dispiacere, s'era affrancato alla moglie, arrivando a stilare un ritratto piuttosto vergognoso del duo. Dovevano essere tipi che, probabilmente, si sapevano destreggiare agilmente in simili situazioni, seguendo un copione ben rodato che non lasciava trapelare margini di errore. Prendevano in affitto una casa, lavoravano in prossimità di essa per un breve periodo, e poi sparivano nel nulla come se niente fosse, riproponendosi altrove con lo stesso iter, e facendola sempre franca. A Ottobre del 1985 Ciro e Biagio, dopo avere ricevuto l'ultimo stipendio dalla ditta del pontile e aver lasciato furtivamente il condominio omatese, nel corso di una notte buia e piovosa, avevano trovato sistemazione da un amico, a Paullo, che aveva libero un grosso locale a pianterreno, nel quale per anni aveva accumulato la merce che vendeva ai mercati. Si chiamava Marco Piccinini e dacché aveva abbandonato il commercio all'ingrosso, s'era dato al lavoro di guardiano notturno, in una piccola ditta di Peschiera Borromeo. Avevano preso contatti con lui un paio di mesi prima di lasciarsi la Brianza alle spalle, proponendogli un affare che non avrebbe mai preso piede, concernente il contrabbando di un piccolo arsenale destinato all'esercito italiano. S'erano sistemati con due sacchi a pelo sgualciti sotto una grossa finestra, che di mattina fungeva da sveglia elettronica e passavano tutto il giorno a bere e a fumare. Quando non si dedicavano ai bagordi giocavano a carte, puntando pochi spiccioli e coinvolgendo anche Marco e i suoi amici, in dispute che in un paio di occasioni erano finite a cazzotti. Poi, però, i risparmi avevano cominciato a scarseggiare e non avevano avuto altra alternativa, se non quella di rimettersi in cerca di un posto tranquillo, dove riproporsi alla maniera del “mordi e fuggi”, che fino a quel momento non li aveva mai traditi. Avevano, dunque, riflettuto sul fatto che, per la prima volta, avrebbero potuto puntare all'estero. Da anni sognavano di girare l'Europa a caccia di esperienze e femmine con un background genetico ed esistenziale diverso da quello incontrato girovagando per l'Italia e, quindi, teoricamente più eccitante. Non era necessario andare chissà dove. La Svizzera andava benissimo. Avevano individuato una specie di cascina, dove allevavano polli e altri capi di bestiame. Si trattava di ripulire le gabbie degli animali e somministrare quotidianamente il cibo necessario al loro sostentamento. Puzzavano da fare schifo, ma tutto sommato si guadagnava bene e non c'era da faticare più di tanto. La soffiata era arrivata da un parente dell'amico che li aveva ospitati a Paullo.
«Lì c'è, letteralmente, un bel pollo da spennare», gli avevano detto.
«Cercano stagionalmente dei manovali per chiudere dei lavori improvvisi e poi li lasciano andare. Pagano in nero...».
Avevano trovato alloggio presso un appartamento squallido alla periferia di Annemasse, nel dipartimento dell'Alta Savoia, lungo il corso del fiume Arve. Era un casermone grigio, edificato negli anni Sessanta, per certi versi riconducibile al palazzone omatese. Il covo, però, era più piccolo e fatiscente, con i muri corrosi dall'umidità. Anche lì avevano, dunque, messo in atto la solita tiritera. E anche in questo ambito datore di lavoro e locatore non avevano minimamente percepito la malafede dei nuovi venuti, giudicandoli addirittura simpatici e disponibili. Non si davano più, però, agli appuntamenti di strada, avendo preso a frequentare assiduamente un night della zona, dove il mondo della prostituzione pareva più affascinante e idoneo al loro fabbisogno sessuale. La prima volta vi erano andati una sera che tornavano da un ristorante con alcuni altri lavoratori della zona, single, con alle spalle vari reati legati soprattutto al mondo della ricettazione. Aveva insistito un teppistello locale, Augustin Masson, abituato a far visita al Poivre rose dopo la giornata lavorativa. Appena superato l'ingresso, una bionda di vent'anni s'era letteralmente aggrappata al collo di Ciro per dirgli che aveva voglia di bere qualcosa. Gliel'aveva detto nella sua lingua, di origine slava, che l'uomo non comprendeva, ma erano bastati pochi e semplici gesti a fare quadrare immediatamente le cose. Ciro non se l'era fatto ripetere due volte, ben conscio del fatto che dietro a quella normale richiesta si celasse un intero mondo da esplorare. Al bancone del locale, circondato perlopiù da sessantenni bavosi con la sigaretta che pendeva dalle labbra, avevano ordinato un superalcolico a base di rum e s'erano accomodati ai bordi di una specie di ring, dove sfilavano ragazze completamente nude, che si contorcevano su se stesse mimando amplessi apocalittici. Una giovane con i capelli colorati d'azzurro e un piccolo seno appuntito, s'era sdraiata sul pavimento, lasciandosi accarezzare in ogni sua parte intima da una collega con un piglio assatanato. Ciro non sapeva più dove guardare, trovandosi a mezzo millimetro dalle tette più belle del creato e non tanto distante da due maestre di kamasutra. Finito di bere s'era trovato completamente in braccio la ragazza che l'aveva accolto con tanto entusiasmo al suo arrivo, distogliendolo definitivamente dallo spettacolo pornografico. La ragazza s'era data da fare accarezzandogli con grande malizia i pettorali e molleggiando i seni sul suo volto che in breve s'era fatto paonazzo. Ciro godeva come un matto, accorgendosi dopo pochi minuti che nel mezzo del ring stava accadendo qualcosa di assai curioso. L'aveva capito dallo scalpore sollevato dai presenti che s'erano messi ad applaudire con forza e da una serie di bestemmie in francese che avevano conquistato con prepotenza l'aere del locale a luci rosse. Aveva quindi spostato la giovane che gli faceva compagnia sulla sola coscia destra, aprendosi un varco visivo in tutto quel ben di dio che troneggiava davanti ai suoi occhi. C'era la giovane di prima con i seni appuntiti che fustigava come una matta un ragazzotto che conosceva molto bene: era Biagio. Non aveva capito come fossero arrivati a quel punto e cosa ci facesse lì il suo amico, fatto sta che la scena lo aveva intrigato all'inverosimile, colmandolo di gioia. Ciro sospettava che il campare dovesse avere accettato senza remore, visto che era lì che mimava il verso di un cane bastonato, sfilandosi piano piano tutto ciò che lo copriva, come se fosse la cosa più divertente e naturale del mondo.
«Sei bello!! Sei bellissimo!!», gli aveva gridato Ciro, in estasi.
Biagio aveva mandato un bacio al socio, alzando il braccio e mimando una smorfia di dolore, soccombendo all'ennesima sferzata della donna di costume. Sicché la serata era proseguita con questo andazzo, con i due che s'erano, in seguito, imboscati in un privè con le rispettive escort, che avevano mostrato loro i gioielli di cui erano padrone e su cui sapevano di poter contare per spillare quattrini ai poveri cristi come i due italiani. Si erano ridati appuntamento per un'altra nottata off-limits, quando le luci dell'alba erano già spuntate; ed erano andati avanti a frequentarsi per un paio di mesi. Ma il giorno dell'esplosione del reattore di Chernobyl, i due uomini erano di nuovo senza lavoro e senza fissa dimora, con le due ragazze ormai relegate al mondo dei ricordi. Con l'ultimo datore di lavoro le cose erano finite prima del previsto, per via di una leggerezza da parte di Biagio, che – in un momento di assenza del responsabile – s'era avventato sulla cassa. Sapeva che alla fine di ogni giorno si accumulava un bel gruzzoletto e aveva inscenato una specie di rapina. S'era intascato l'intera somma di denaro, gridando ai quattro venti che c'erano stati i ladri. Ma non s'era accorto che la moglie del proprietario, da un pertugio dell'ufficio di fronte al locale principale dell'azienda, aveva visto tutto. In ogni caso, all'arrivo dei carabinieri, Ciro e Biagio avevano già fatto perdere le loro tracce, evitando di finire ancora una volta dietro le sbarre. Da quel giorno avevano iniziato a peregrinare senza sosta, di paese in paese, nei dintorni del ginevrino, in attesa di poter, di nuovo, darla a bere a qualcuno. Tutto sommato gli piaceva l'idea di fermarsi ancora un po' all'estero, tanto che avevano cominciato a masticare perfino un po' di francese. Faceva ridere la loro parlata, un incrocio fra l'idioma transalpino e il napoletano verace, ma in qualche modo riuscivano a farsi capire con sempre maggiore facilità. Con la primavera del 1986, però, stava facendosi impellente la necessità di trovare un nuovo disgraziato da spolpare, per poter racimolare qualche quattrino e tornare alla vita di sempre. Per un po' di notti avevano dormito in macchina, calando i rispettivi sedili e stendendo due materassi recuperati in una specie di centro sociale a Bellerive, un borgo affacciato sul lago di Ginevra. Anche se le cose cominciavano a mettersi maluccio, amavano andare avanti con questa vita randagia e continuavano a sentirsi liberi e padroni dell'universo; una sensazione che veniva amplificata quando riuscivano a consumare qualche sostanza stupefacente, recuperata per pochi franchi da qualche scappato di casa come loro. Iniziavano a ridere come idioti e non c'era nulla che potesse creargli scompiglio o dolore. Era il loro paradiso artificiale al quale non avrebbero mai e poi mai rinunciato. Avevano assistito alla deflagrazione di Chernobyl in un bar di Ginevra. Era un localino misero e malandato, nella zona periferica della città. Era preso d'assalto soprattutto da brutti ceffi che amavano tirare tardi mangiando schifezze e organizzandosi in risse e giocate d'azzardo. C'erano anche molti extracomunitari che avevano trovato lavoro nelle tante fabbriche che circondavano la metropoli. Ciro e Biagio avevano ordinato un hamburger senza tante pretese, con una pigna di cipolle e maionese. E una birra a testa.
«Non male questa birra», aveva tartagliato Ciro, godendo di un sorso più convinto degli altri.
«Ha un buon sapore... deve essere una birra belga, quelle che vengono dal Belgio hanno un sapore più marcato e dolciastro delle altre...».
«Ma tu che cazzo nei sai?».
«Sono stato in Belgio con mio cugino quando avevo vent'anni e le birre di là, me le ricordo molto bene. Fidati, questa è una birra belga».
«Excusez-moi, est une bière belge?», aveva chiesto al volo Ciro, al cameriere che gli passava di fianco con un vassoio pieno di bicchieri sporchi.
«No, No. Cela vient d'une brasserie à Clermont-Ferrand», aveva specificato il cameriere.
Ciro aveva guardato l'amico con aria di rimprovero e compassione, mandandolo virtualmente a quel paese; ma Biagio non era affatto convinto di quel che aveva appena detto l'inserviente ed aveva ripreso con la sua tiritera:
«Secondo me ha sparato a caso. Questa birra viene dal Belgio. Cazzo, te lo giuro...».
Ciro, però, non aveva avuto voglia di assecondarlo una seconda volta e aveva mollato la disputa andando avanti ad addentare il suo panino, con un pezzo di cipolla che gli era finito sui pantaloni facendolo imprecare. Era già una serata poco felice, non valeva la pena peggiorare la situazione. Anche l'aria familiare del locale non era servita più di tanto a ridargli morale. Le cose, di fatto, erano precipitate in men che non si dica, ribaltando le carte in tavola nel giro di una decina di giorni, e neanche la canna più tosta or ora avrebbe potuto rendere meno faticoso il momento in cui il mondo veniva a conoscenza del disastro di Chernobyl. I loro volti erano emblematici. Entrambi tirati ed emaciati, per le troppi notte passate all'addiaccio e il cibo scadente col quale s'erano accompagnati da una bagordata all'altra, alla fine s'erano persuasi che qualcosa stava cambiando, che il vento aveva cambiato rotta, e che, quindi, questa volta non sarebbe stato facile trovare una nuova sistemazione ideale, come era sempre accaduto senza problemi negli ultimi tempi. La cercavano da giorni, ma senza successo. C'erano andati vicino in un panettiere che cercava un commesso; ma loro erano in due e nessuno dei due era piaciuto al proprietario. In effetti, s'erano presentati con un'aria da prendi schiaffi che nemmeno offrendosi gratis avrebbero avuto chance. Avevano pertanto in più di un'occasione rimuginato sul fatto che avrebbero potuto giocare meglio le opportunità che gli si erano presentate fino a quel momento. Si sarebbero potuti tenere stretti i lavori incontrati e ora non avrebbero patito la sempre più evidente assenza di quel minimo che possa rendere degno di chiamarsi tale un uomo. Fra di essi cominciava a serpeggiare dell'astio, se non altro a livello subliminale. Non erano ancora arrivati a rinfacciarsi l'inettitudine reciproca, ma era chiaro che non sarebbe mancato molto al triste epilogo. In parte davano colpa alla sfortuna. Al fatto che all'improvviso gli astri si fossero messi contro di loro. Erano molto superstiziosi, come ogni buon napoletano che si rispetti. Tutti e due conservavano nel portafogli un'immagine di San Gennaro e un gingillo riproducente un peperoncino, caro all'immaginario di chi proviene dalle pendici vesuviane. Erano anche arrivati a pensare che il vecchio datore di lavoro potesse avergli lanciato il malocchio. O forse era stata la moglie, con quell'aria da strega e gli occhi da gatta selvatica.
«Brutta puttana», la chiamava Ciro.
Tuttavia c'era stato ben poco da imprecare. Questa volta se l'erano voluta. La colpa era solo loro. Specialmente di Biagio e della sua bravata. Che motivo c'era di mettersi a rubare dal piatto in cui stavano mangiando? Bisognava proprio essere fessi. Ciro non vedeva l'ora di poterglielo rinfacciare. Aspettava solo il momento opportuno. Al primo attacco, avrebbe detto la sua, lasciandolo senza parole. In effetti, il 26 aprile del 1986 avrebbero ancora avuto una casa e un lavoro se Biagio non si fosse messo in testa di ottenere più di quel che un onesto stipendio era in grado di assicurargli. C'era già stato qualche alterco fra i due compari, ma niente di serio. Alla fine riuscivano sempre a buttarla sul ridere. La peggior cosa s'era verificata nel momento in cui Biagio aveva puntato un coltello al collo di Ciro, recitando la parte di un efferato assassino. Ciro era sbiancato perché sembrava che l'amico stesse facendo sul serio. Nei suoi occhi aveva letto il terrore. In realtà erano le pupille dilatate da un'assunzione smodata di droghe e alcol. Alla luce di tutte queste considerazioni piuttosto malinconiche e rassegnate, nelle loro menti aveva cominciato a farsi largo l'ipotesi che presto non avrebbero potuto far altro che arrendersi all'evidenza e tornare da dove erano venuti. Non volevano tornare in Italia, perché sapeva di resa, ma si rendevano conto che se le cose non fossero girate per il verso giusto nei prossimi giorni, non avrebbero avuto molte altre alternative. Sarebbero dovuti rientrare in Italia con la coda fra le gambe e la testa bassa. La cosa peggiore sarebbe stato ritrovarsi in una situazione così difficile da dover bussare alle porte dei familiari. Proprio loro che s'erano presi gioco di tutti, pavoneggiando la loro superiorità e intraprendenza... non sarebbe stato facile. E non solo per l'orgoglio. C'erano parenti che li avrebbero lasciati volentieri per strada, e ciò precludeva la necessità di dover supplicare i consanguinei per ricevere una mano, prima di poter di nuovo decollare per altre avventure professionali. C'era da strisciare come vermi, e la cosa non li allietava per niente. Nel bar insieme ad essi c'erano vari turisti che parlavano in tedesco. Era un capofamiglia con i suoi due pargoli, un improbabile zio over-size e una moglie biondissima, con un musino da cerbiatto che non aveva lasciato indifferenti Ciro e Biagio. Avevano l'aria preoccupata e seguivano la trasmissione con grande coinvolgimento. A un certo punto lo zio era scoppiato in una risata fragorosa, del tutto fuori luogo. Gli altri l'avevano guardato con viva disapprovazione. Ciro e Biagio avevano dedotto che avesse fiondato qualche stupida battuta, che evidentemente non era stata condivisa, trovandolo il più simpatico di tutti. Il primo commento di Ciro alle immagini spettrali del reattore di Chernobyl era stata una bestemmia. Biagio non aveva battuto ciglio.
«Guarda che è successo qualche casino. Speriamo che non sia qui vicino», aveva detto Ciro, più per una sorta di pragmatismo esistenziale che non per una reale ansia.
Biagio continuava nella sua attività masticatoria, apprezzando con particolare godimento una salsa che non avrebbe saputo riconoscere. Al limite, aveva assaggiato qualcosa del genere una volta che, per caso, s'era trovato a prendere parte a una cena di vip a Milano, sul finire degli anni Settanta, dopo aver fatto un favore a un tipo dell'entourage di Pillitteri. Qualunque cosa stesse succedendo non gliene importava nulla. L'unica cosa che gli importava in quel momento era mangiare e bere, continuare a mangiare e bere in santa pace.
Se anche fosse scoppiata una bomba atomica, non si sarebbe dato grandi pene, in fondo viveva la vita più per dovere che altro... e non aveva grandi amori di cui preoccuparsi.
«Comunque, secondo me, ci conviene tornare in Italia».
Ciro l'aveva buttata lì, consapevole di non esserci arrivato per caso, dopo averci riflettuto per almeno una settimana. Ma aveva trovato impreparato l'amico, che all'improvviso era rinsavito dimostrando tutto il suo scetticismo.
«Che cazzo dici?».
Ciro aveva temporeggiato per qualche secondo, fissando come un beota il tubo catodico, maledetto dalla notizia proveniente dall'Ucraina.
«Le cose si stanno mettendo male. Non possiamo più fare finta di niente».
Biagio s'era addolcito.
«Mai tu stai a guardare le puttanate della televisione? Non hai ancora capito che sparano solo cazzate?».
Ciro era zittito, lasciando il campo libero al socio che aveva colto il disappunto dell'amico.
«Magari fra un anno o due. Qui si sta da dio. Che cazzo torniamo a fare in Italia? Siamo scappati per levarci dai coglioni... e adesso...».
«E col lavoro come la mettiamo?».
Era partita un'altra bestemmia, mentre il proprietario del locale alzava il volume del televisore per capire nei dettagli cosa stesse capitando. Ciro e Biagio lo avevano guardato con aria accondiscendente, prima di ordinare un'altra birra, l'ultima della triste serata. Una coppia di quarantenni, nel frattempo, era entrata e s'era accollata con gli occhi sgranati all'unico tubo catodico presente nel misero locale, affiancando la famiglia di tedeschi, sempre più calata nella parte di futuri sopravvissuti. Gli italiani non avevano proferito parola, sorpresi da un malessere che non conoscevano, ma che lasciava intendere tante cose: forse era davvero arrivato il momento di tirare i remi in barca e tornare da dove erano venuti.