giovedì 27 gennaio 2011

Short stories: "Diario africano" (I)

I

2 agosto

Mi trovo nel Continente Nero da sette ore. Sono partito ieri mattina da Milano per Zurigo e da lì, alle 19.00, per Dar Es Salaam, capitale della Tanzania. Una sosta intermedia a Jedda, in Arabia Saudita, di cui non ricordo che l'andai e rivieni di uomini vestiti di bianco con un grosso turbante in testa. Non sono solo. Mi affiancano in questo nuovo pellegrinaggio Roberta, Alessia, Enrico, Loredana. Roberta è della mia età. È piuttosto alta per essere una ragazza, ha gli occhi e i capelli castani e un seno conturbante. Ci conosciamo molto bene, in passato abbiamo vissuto molte esperienze insieme: gite dell'oratorio, feste di compleanno, party della leva. Alessia ha un anno in più. L'anno scorso il nostro primo incontro in occasione di capodanno: dovevamo preparare un pezzo di Tracy Chapman per il concerto di San Silvestro che ogni anno si tiene al cineteatro Duse di Agrate Brianza, il paese da cui proveniamo. Io alla chitarra, lei al canto. Anche lei è ben messa davanti, ma è nel complesso molto meno intrigante di Roberta.
Agrate? No, non è un gran paese, ma in qualche modo ci sono affezionato. Ad Agrate ci vivono tutti i miei amici. Ho vissuto gran parte delle mie storie. Ad Agrate mi faccio appena posso chilometri e chilometri di tour in bicicletta: l'unico modo per vivere in profondità la realtà locale, di cui nonostante tutto mi abbevero con piacere. In inverno si muore dal freddo, ma le nebbie sono molto suggestive; in estate c'è il problema opposto: l'afa è devastante, ma è compensata da temporali che sembrano strascichi di apocalisse. Di Enrico e Loredana non posso dire molto, li ho appena conosciuti: lui ha i capelli nero corvino e una faccia da geometra, lei i capelli ricci tendenti al rosso e gli occhi da lupa. Ci siamo presentati all'aeroporto.
"Piacere".
"Piacere".
"Ciao".
"Ciao".
"Andiamo a fare il check-in?".
"All'accettazione?".
"Appunto".
Pare che fra loro ci sia del tenero. Staremo a vedere. Innamorarsi in Africa deve essere fantastico…
Di me posso dire che arrivo da un periodo piuttosto duro, ma soddisfacente. Ho sostenuto con successo un paio di esami all'università, il che mi ha consentito di imbarcarmi per l'Africa senza troppe paranoie. Senza troppe ansie. Ho dato zoologia e citologia. In zoologia mi raccapezzo con discreta facilità. In citologia ho incontrato qualche problema con la cellula vegetale. Nulla di difficile, ma se non si sanno le cose, se non si sono afferrate a tempo debito durante i corsi, c'è ben poco da inventare. I vacuoli sono i vacuoli. E capire il funzionamento cellulare non è certo come scrivere una canzone. O comporre una poesia. La biologia non è un'opinione. A proposito di canzoni, prima di partire ho avuto il piacere di esibirmi davanti a parecchie persone, a Monza, in occasione di una festa popolare. Ho suonato cinque pezzi appena sfornati, fra cui "The Long Road". Quando la finirò di scrivere in inglese? Vedremo. Ma ci sto già pensando.
Per il congedo ho festeggiato con la solita combriccola di amici, a casa di Andrea Pagani. Abbiamo fatto baldoria per tutta notte, suonando, fumando e bevendo. Alle 2.00 mi sono appartato con Gilda. È da un po’ che ci frequentiamo. Nel soppalco abbiamo dato il meglio di noi, mentre la gente cominciava a sfollare.
"Mi mancherai".
"Anche tu mi mancherai".
"Mi chiamerai?".
"Dalla giungla? Ci proverò".
Poi, oggi, l'arrivo a Dar Es Saalam.
Viene a prenderci in aeroporto padre Silvestro, responsabile della missione di Kigamboni, lembo di terra parzialmente distaccato dal cuore della metropoli centrafricana. Ci carica su un camioncino scassato, bagagli compresi, prima di intraprendere un viaggio di circa un'ora, necessario per raggiungere il quartiere operativo del distaccamento dei padri della Consolata, la nostra futura base di appoggio.
"Starete un po’ scomodi, ma non abbiamo niente di meglio".
"Non si preoccupi padre", dice Enrico.
A destinazione sbarchiamo dal mezzo di trasporto come marines. Istantaneamente ci circonda una moltitudine di bimbi, che ci fissa come extraterrestri. Io sono il più impacciato. Il più anarchico. Non so bene come comportarmi. Più per timidezza che altro. Un piccolo comincia a strattonarmi la camicia con un ghigno assatanato, messo ulteriormente in risalto da una dentatura spaventevole. È coperto di stracci. Il sole è una palla di fuoco d'immani dimensioni. Da noi non è così mordace. L'equatore?
L'ora di pranzo non è lontana.
Gli altri si muovono più disinvoltamente. Roberta ha già in braccio due nanetti seminudi che gongolano di felicità, rimbalzando sul suo seno. Dopo un po’, però, anch'io mi lascio andare. Il ghigno assatanato cambia destinatario, viene sostituito dal sorriso dolce di una bambinetta che mi prende per mano e mi porta a vedere un fiore rosso che cresce in un'aiuola vicina. È tutta un'altra vita. Mi smollo definitivamente. Loredana mi regala una smorfia di accondiscendenza. Con Enrico mi metto a giocare a calcio con i ragazzi della missione. Alcuni di loro sono fenomenali, hanno una classe innata che, probabilmente, molti di noi possono solo sognare. Giocano a piedi nudi. Sono dei fuoriclasse. Poi tutti a tavola belli sudati.
Isolati dal resto del villaggio.
Delle cuoche ci servono riso, gallina a lesso, mandarini. Padre Silvestro, a capotavola, ci illustra il lavoro che ci attenderà: faremo gli imbianchini, per migliorare le condizioni architettoniche di alcune strutture pubbliche, fra cui una scuola.
"Nulla di complicato", blatera il reverendo. "E in ogni caso io sarò sempre a vostra disposizione".
Dopo pranzo non c'è tempo per la digestione: facciamo un giro per la missione constatando di persona ciò di cui ci dovremo occupare.
Scorgo per la prima volta una realtà che avevo solo vagamente intravisto in qualche documentario del National Geographic. Mi colpisce l'incredibile povertà delle persone, l'arretratezza, la sporcizia, l'odore pungente proveniente da chissà quale fonte. E mi metto a pensare a Lucy, l'Australopithecus di Leakey, compagna di tante mie letture. E a tutto ciò che ne consegue. Deformazione professionale? Forse. Eppure è proprio da queste parti che è partito il genere umano, per il suo interminabile cammino intorno al mondo, qualcosa su cui non posso fare a meno di soffermarmi. Siamo dalle parti della Gola di Olduvai, dove sono stati rinvenuti i più antichi resti umani, dove è iniziato tutto, e dove - mi permetto di dire con piglio patriottico - ognuno di noi dovrebbe periodicamente tornare per rendere omaggio ai nostri avi. Non vedo l'ora di sostenere l'esame di antropologia…
Qui il mondo s'è fermato, o forse non è mai partito. Ma il sorriso degli abitanti è il più bel sorriso che abbia mai scorto. È un sorriso più profondo, vero e sublime, del miglior sorriso che sia mai sbocciato dalle nostre parti, dove il progresso batte ciglio. È una magia. Un incantesimo. Impossibile non accorgersi. Parlo poco durante il tour. Roberta se ne accorge e mi chiede se va tutto bene. Io le rispondo che va alla grande.
"Sei sicuro?".
"Sicurissimo. Non ti preoccupare".
Rientriamo in missione per la messa officiata in lingua locale. Non si capisce un accidenti, ma il folclore che si respira compensa ogni perplessità.
Swahili.
In serata dei giovani ci allietano con alcuni balli. Anche qui, i numeri.
"Gli africani nascono calciatori e ballerini", dico euforico, senza curarmi del fatto che l'interlocutore al mio fianco parla solo l'idioma del posto.
Si accompagnano al canto, offrendoci melodie mai sentite. Sono molto più belle di quelle che mi è capitato di ascoltare a casa su qualche nastro. A un certo punto, una bimba, alta sì e no un metro, con mille ricciolini in testa, mi si avvicina, cerca la mia mano, e vi lascia cadere delle monetine. Io rimango senza parole. Non dovrei essere io a darle qualcosa? Mi guardo intorno vagamente stordito, nessuno ha visto nulla. Che faccio? Faccio finta di niente e rimango immobile come una statua con quelle monetine che mi lasciano con l'amaro in bocca? Perché me le ha date? Vacillo.
Finita la cena. È da ieri mattina che non dormo e posso tranquillamente ammettere di sentirmi piuttosto provato.

3 agosto

Un'ottima giornata, preannunciata ieri notte quando, prima di coricarci, siamo rimasti per qualche minuto a contemplare la volta celeste. Qui non è come in Italia: l'inquinamento acustico non esiste ed è possibile rimirare un cielo incredibilmente stellato. Peraltro le stelle sono diverse da quelle con cui siamo soliti confrontarci. Da questo angolo di mondo, infatti, abbiamo a che fare con gli astri dell'emisfero australe, che non c'entrano nulla con quelli, tanto per intenderci, che caratterizzano le note Orse, maggiore e minore. Qui non c'è la stella polare e verosimilmente i marinai utilizzano altri riferimenti per puntare correttamente le loro prue. In un punto del cielo m'è parso di intravedere il Cigno, da una posizione molto particolare, schiacciatissima, ma è probabile che abbia preso un granchio. La costellazione del Granchio? Non sono un grande astronomo. Sarà in ogni caso difficile recuperare una cartina del cielo per risolvere i miei dubbi, avrei dovuto pensarci prima.
Il sonno, però, è stato difficile. Ci sono troppi rumori, stillicidi, cigolii, a cui non siamo abituati: animali, persone, mister x, che chissà cosa combinano mentre noi ci abbandoniamo a Morfeo.
Io sono finito in camera con Enrico, era palese, in una missione gestita da cristiani non si accettano camere miste. Enrico, però, non è molto loquace, così, spesso, i momenti di attesa, si trasformano in dolorose noie quotidiane.
La nostra camera è piuttosto disgraziata. Ci sono due letti, in pratica due brandine, e una specie di scaffale contraddistinto da mensole traballanti, sulle quali abbiamo sistemato in qualche modo vestiti e oggetti personali. Ai piedi dello scaffale è già venuto a farci visita un biscione lungo mezzo metro. Enrico ha tirato un urlo disumano, sedato dal tempestivo arrivo di un abitante locale con in mano un badile. L'animale è stato smembrato senza pietà sul posto. Le sue viscere hanno tappezzato parte del muro d'ingresso.
La luce è garantita da una fioca lampadina che penzola dal centro soffitto con aria minacciosa.
La camera delle ragazze non è molto diversa dalla nostra, ma è molto più spaziosa e dispone anche del lavandino: noi il lavandino non ce l'abbiamo, tantomeno il wc. Per ogni necessità l'indirizzo di riferimento coincide con una turca maleodorante, che risiede a circa venti passi dalla nostra stanza, oltre un lungo muro colonizzato dai gechi.
Alle sette la sveglia. Alle otto la messa. Mi sa che ho ormai capito l'antifona: ogni giorno dobbiamo sorbirci un'affascinante celebrazione eucaristica.
"Siamo in una missione cristiana e dobbiamo dare il buon esempio", raccomanda padre Silvestro.
Io la penso in maniera leggermente differente, ma non sono certo qui per polemizzare, e dunque pedalo senza fare storie. Ma alzarsi così presto per andare a sentire un tale che bofonchia sermoni in una lingua incomprensibile è tutt'altro che facile.
Dopo la colazione ripartiamo per la capitale, mossi dalla necessità di chiamare casa per far sapere com'è andato il viaggio. Per andare avanti e indietro da Kigamboni è necessario servirsi di un traghetto arrugginito, pericolante, stracolmo di merci, persone e animali. M'è parso di capire che in varie occasioni sia perfino affondato, provocando anche qualche vittima. Il braccio di mare che separa la città dal sobborgo è minimo, tuttavia potenzialmente in grado di creare non pochi problemi a chi non sa nuotare. Da anni si parla di costruire un ponte, ma i lavori non sono mai cominciati.
Abbiamo trascorso l'intera mattinata a Dar Es Salaam. La città è davvero affascinante, ma ci sono troppe contraddizioni. Le favela affiancano hotel di lusso frequentati perlopiù da europei e americani. Non ho mai visto così tanti storpi in vita mia. Camminare per le strade di Dar Es Salaam dà probabilmente una buona idea delle tragicità umane narrate nella Bibbia, cose che a Milano - e in tutti i paesi civilizzati - verosimilmente non si vedono più da secoli. Paralitici, lebbrosi, ciechi, persone devastate da morbi sconosciuti, occupano ogni angolo della metropoli, nell'indifferenza più totale. È un pugno allo stomaco mica da ridere. Non credevo che potessero esistere ancora, negli anni Novanta, genti ridotte in questo stato pietoso. Suscitano forti emozioni. Emozioni che, però, non saprei a quale aspetto della sensibilità umana poter ricondurre: pietà? Commiserazione? Pena?
Di ritorno da Dar Es Salaam, con Enrico, mi metto all'opera seguendo le indicazioni di padre Silvestro. Ci sono delle finestre da pitturare, di un nuovo edificio ancora privo del tetto. Montiamo in cima a un'impalcatura traballante e via col pennello. Le ragazze rimangono in missione a lavare i piatti e a sistemare la cucina. Per questo tipo d'incombenza abbiamo comunque stabilito che ci daremo i turni. Benché, alla fine, non sappia dire se è peggio pennellare o lucidar stoviglie col detersivo, ammesso che ci sai il detersivo. Dopo il lavoro, in compagnia di Charles, Samson e Joseph, giovani brillanti e intraprendenti che operano nella missione di padre Silvestro, abbiamo il piacere di visitare per la prima volta l'oceano Indiano. Le spiagge dell'oceano Indiano. Un'autentica meraviglia.
La spiaggia di Dar Es Salaam è particolarmente nota anche ai turisti, la chiamano "Blue beach". In realtà non c'è mai nessuno, se non i pescatori locali o gruppi di giovinetti che si tuffano fra le onde. La spiaggia è bianca, finissima, il cielo si staglia dal mare, azzurrissimo, il sole si riflette sulle acque creando paesaggi sublimi, intorno svettano imponenti le palme, e qualche raro baobab. Lungo la riva ci sono parecchie barche, molto artigianali. Non hanno nulla in comune con quelle dei nostri porti. Paiono ricavate da grossi tronchi scavati nel mezzo, privati del midollo. Sono simili alle piroghe polinesiane, caratterizzate da due lunghi bracci che servono a mantenere in equilibrio l'imbarcazione. Poi il nostro primo bagno ufficiale.
Lungo la riva ho avuto modo di raccogliere e analizzare molte conchiglie. Hanno dimensioni enormi e si trovano con grande facilità. Complice l'alternanza fra bassa e alta marea che a queste latitudini è davvero impressionante. Ho raccolto cipree, tridacne, murex e lambis. Mi sono imbattuto anche in una grossa farfalla, una colonia di ragni grandi una spanna, in grado di tessere tele resistentissime, scimmie, bovidi, ovini, rettili, zanzare… Domani, salvo imprevisti, recupererò anche qualche specie vegetale.
Durante il tragitto fra la missione e la spiaggia ho avuto l'opportunità di osservare attentamente le capanne in cui vivono gli abitanti di Kigamboni. Sono strutture molto semplici, rudimentali, per nulla accoglienti; caratterizzate da pareti di fango cementate fra loro da lunghe travi di legno. I tetti sono ricoperti di paglia. È un viaggio a ritroso agli albori della civiltà. Un'autentica lezione di paleontologia umana.
La giornata è passata in un baleno.
In questo momento abbiamo da poco finito di cenare. Ci stiamo organizzando per tornare a rimirare le stelle, accompagnati dal suono della chitarra.

4 agosto

Drin, drin. La sveglia è alle 8.00. L'ennesima levataccia… Peraltro la serata di ieri sera s'è rivelata ben più lunga di quanto potessimo immaginare. Alla fine ci siamo messi a parlare di politica e siamo andati avanti ad libitum. Risultato: siamo finiti sotto le lenzuola dopo le 2.00. Colpa nostra. Ci ha tenuti svegli il Muro di Berlino. Secondo Enrico la caduta del Muro rappresenta uno dei momenti più brillanti e toccanti della storia moderna.
"Solo in questo modo, infatti, si può aspirare alla vera libertà".
Io non ho un grande parere in merito - anche se la professoressa di lettere in quinta superiore ci ha fatto il lavaggio del cervello, appoggiando veemente la causa per l'abbattimento della barriera di protezione antifascista - mi limito ad ascoltare, così le mie due compaesane. Ma interviene Loredana a dire che per lei era meglio se rimaneva tutto come prima, in fondo la Guerra Fredda ha un suo perché.
"La DDR ha il suo fascino".
Enrico non è d'accordo. I due bisticciano mostrando palesemente l'interesse reciproco che emerge sempre più. Io e Roberta ci guardiamo sottecchi, prima di sostenere la causa dei palestinesi. Non sappiamo esattamente di cosa si tratti ma fa fico, e continuiamo quindi per la nostra strada sollevando un putiferio di affermazioni seriose che Enrico e Loredana sono ben felici di cavalcare.
Alle 10.00 la messa. Cantata. In swahili stretto. Un'ora e mezza, totale. Ma nonostante l'incredibile prolissità del reverendo, passa in fretta, complice i canti davvero coinvolgenti, nulla a che vedere con i nostri Sequeri-Chieffo. Da noi i canti religiosi sono un'agonia.
Da noi chi canta in chiesa non ha un minimo di groove. Canta strozzato, come se avesse un palo della luce infilato nel didietro; qui, invece, osannano gli dei col corpo, con l'anima, è tutto un altro viaggiare. Un vero inno al Signore. (Se io, dunque, fossi il Signore, farei di tutto perché gli occidentali in chiesa la smettessero di cantare: gli spiriti anziché intercedere per noi, scappano). Con i cantori c'erano anche dei musicisti: un organista, dei percussionisti, dei suonatori di strumenti sconosciuti, locali. Uno strumento dovrebbe chiamarsi "kora". È caratterizzato da una cassa di risonanza ricavata da una zucca ricoperta di pelli di animali, e da un manico da cui dipartono una ventina di corde che s'inseriscono in due file parallele su un ponticello. Molto curioso. Molto misterioso. Mi piacerebbe sentirlo suonare da solo.
Alle 14.00 finiamo di pranzare e ci concediamo un attimo di relax. Riprendiamo a vivere mezz'ora più tardi, in occasione di una nuova capatina alla "Blue beach". I miei compagni si tuffano, mentre il sottoscritto, con alcuni ragazzi della missione, si dedica alla raccolta e alla ricerca di nuove conchiglie. Mi sento Charles Darwin. Ce n'è l'imbarazzo della scelta. Raccolgo una decina di cipree, due lambis, una murex, e varie specie che aspetto di classificare col rientro in Italia. Qui non esistono i libri di sistematica e filogenesi animale, sono considerati fantascienza alla Asimov. Molti africani non sanno neppure leggere. Probabilmente molte specie non sono mai state classificate.
Poi raggiungiamo il campo di calcio, dove è in corso un match fra due squadre di Kigamboni. Enrico fa l'arbitro. Io approfitto del momento di tranquillità per scattare qualche foto. C'è una cosa, però, che mi lascia perplesso. All'improvviso un padre si avvicina al figlioletto, un magrolino con varie ecchimosi sul corpo, ai bordi del campo, concentrato sulla partita, e apparentemente senza motivo, lo prende a frustate, con un fuscello tagliente. Rimango impietrito, mentre Roberta interviene con veemenza per allontanare il genitore dal piccolo. L'uomo, stupito dalla presa di posizione della straniera, desiste senza fare storie e torna al suo posto. Io squadro dubbioso Roberta:
"Che hai?", mia fa.
"Sei sicura di aver agito correttamente?".
"Scherzi? Non vedevi cosa gli stava facendo?".
"Sì, ma…".
"Lo stava frustando! Ti pare normale?".
Io rimango sulle mie, ma alla fine arrivo a concludere che Roberta non sarebbe dovuta intervenire. Cosa ne sa lei delle dinamiche famigliari locali? Cosa ne sa lei di cosa ci sia sotto e di cosa possa aver spinto l'uomo ad agire così? Come possiamo noi, dopo solo pochi giorni di permanenza in Africa, giudicare e influenzare le azioni di chi vive qui da millenni? Presuntuosità.
Poi la mia amica tira in ballo il discorso dell'infibulazione, dicendomi che su certe cose gli africani andrebbero severamente redarguiti.
"Come?".
"Hai idea delle sofferenze che devono patire certe ragazze?".
"Sì, ma tu trascuri troppi aspetti. Come spieghi, per esempio, il fatto che siano proprio alcune ragazze a chiedere di subire delle mutilazioni genitali, in virtù di tradizioni e costumi che noi occidentali non possiamo assolutamente comprendere?".
Roberta rimane zitta per un po’ e forse si rende conto di aver agito con troppo impeto. Le donne vanno troppo spesso in tilt senza motivo.
Prima di cena faccio un po’ di cabaret, scimmiottando alcune canzoni di Bob Dylan, che qui non conosce nessuno. I ragazzi della missione spalancano gli occhi sbalorditi, come se avessero davanti a sé un extraterrestre. Sono le 20.30. E la notte ha già avvolto da un pezzo le case e le radure di Kigamboni.

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