giovedì 30 maggio 2013

Laila # 6


6.

Tempo da lupi

La pioggia di oggi è terrificante. Sembrano aghi di ghiaccio, taglienti e affilati, che perforano come frammenti meteorici la pelle del volto e delle mani. Perfino le creature delle pozzanghere se ne stanno rintanate, per paura di finire falcidiate da scariche di mitra inusitate. Si è peraltro levato un vento gelido, forse Maestrale, che fa dondolare con vigore le piante del mio piccolo giardino e quelle del mio vicino. A proposito di vicino… ieri sera, dopo una lauta cena, ho assaggiato la sua torta. Sarei un infame se dicessi il contrario: era davvero squisita. Ne ho divorato tre fette come un famelico abitante di un paese del terzo mondo. Quando lo rivedrò, se la luna mi assisterà, potrei anche fargli i complimenti. Lui mi dirà che è tutto merito della moglie e io gli risponderò di portarle i miei omaggi. Com'è vero che la vita degli uomini, a volte, è così dannatamente prevedibile e scontata. Ma non quella di un uomo che ama disperatamente una donna e poi, impazzito di dolore, decide di tagliare qualunque ponte con il passato, facendo perdere ogni traccia di sé, dimenticandosi di tutto e di tutti. Il sottoscritto, appunto. Laila era Laila, non ce ne saranno altre e…

Il divano di Freud

Ho appena finito di pranzare, un pranzo parco e leggero, un risottino e via. Non ho toccato la torta, che riservo per questa sera e per la colazione di domattina. Mi sdraio sul divano fissando il soffitto e pensando al sofà che per tanti anni ha servito Freud. Me lo vedo di fronte agli occhi, foderato, coperto di mille fiori colorati. Penso a quanto sarebbe bello se il divano di Freud potesse rivelare i suoi segreti; tutte le storie udite, le malefatte, gli impulsi omicidi, i disagi sessuali, le nevrosi fobiche, l'acrofobia, la claustrofobia, l'isteria. Sarebbe un modo diverso di leggere la vita del grande psicanalista. Lui stesso si sarà pur coricato su quel divanetto, raccontandogli qualche personale difficoltà, qualche turbamento, magari, addirittura, il desiderio di conquistare una ragazza. Ora che fine avrà fatto? Resterà qualcosa di lui, o l'avranno macerato in qualche discarica? Magari l'ha ritirato un parente, e starà giacendo in un salotto privato o in una mostra. Anna Freud, la figlia dello scienziato tedesco… potrebbe averlo ereditato lei, per poi nasconderlo in un buco sperduto della casa, in soffitta, in cantina, in solaio. Ma Anna Freud è scomparsa proprio l'anno scorso, dunque… dalle sue mani potrebbe essere passato chissà dove, non so se avesse figli, credo di avere letto che fosse lesbica…
Mi addormento pensando a Freud e a quanto mi sarebbe piaciuto conoscerlo. In un momento di ritiro e fuga dal mondo saprebbe, di certo, darmi qualche dritta, qualche consiglio. Magari troverebbe il senso delle mie pene in un trauma infantile che ho rimosso; ammesso che non basti la faccenda legata a Laila a giustificarle, il che non mi meraviglierebbe; penso che chiunque al mio posto, dopo quello che è accaduto, non starebbe di sicuro per strada a saltellare come un grillo; magari non si sarebbe allontanato dalla sua quotidianità, tuttavia starebbe soffrendo come un cane. Sicché, a volte, ci penso; all'ipotesi di aver patito un trauma quand'ero piccolo. Rivivo momenti dell'infanzia in cui una sorta di paura primordiale ha il sopravvento, senza sapere bene da dove derivi e che connotati abbia. Non so nemmeno se possa essere definita paura. E' più un senso di abbandono, di distaccamento che altro. Rivedo una parte di me stesso che aleggia nell'aria, senza angoli a cui aggrapparsi, come se fossi stato sradicato da qualcosa o da qualcuno. Dovrei forse analizzare meglio il rapporto avuto con mia madre, o con mio padre, interrogando proprio gli studi di Freud.
Ma se volessi per forza trovare reconditi messaggi dal mondo dell'infanzia, l'unica cosa certa di cui sono al corrente è che, per i primissimi anni di vita, ho vissuto un po’ dai nonni e un po’ con le balie, perdendo forse qualche riferimento affettivo; i miei genitori erano sempre in combutta fra loro e spesso lontani dall'Italia per lavoro. Mio padre era un industriale famosissimo nel suo campo e molto ricercato; mia madre una mezza artista, amica di alcuni grandi pittori esponenti dell'arte informale, movimento sorto a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta, prendendo spunto dall'espressionismo e dal surrealismo, correnti assai in voga anche adesso. Più volte ho sentito dire che i primissimi anni di vita sono fondamentali per un sano sviluppo psicofisico e che condizioni di simil abbandono patite nell'infanzia possono poi ripercuotersi pesantemente durante l'età adulta.
Potrebbe essere questo il motivo della mia ritirata dalle consuetudini del vivere quotidiano e in generale della mia vaga propensione alla solitudine, delle difficoltà che sovente incontro a interagire con il prossimo… Di sicuro alla Vian temevo i colleghi come si temono le belve della foresta africana, un aspetto comportamentale non proprio in linea con l'idea di un carattere equilibrato, dal quale mi difendevo esibendo con chiunque un atteggiamento freddo e distaccato. Solo Francesco e Filomena erano riusciti a stuzzicare la mia introversione, rendendomi un uomo più appetibile e simpatico. Poi Laila, certo Laila ha tirato fuori il meglio (e il peggio) di me. Ma quella è tutta un'altra storia. Dormo.

Messaggi onirici

Mi sono addormentato pensando di sognare Freud e invece ho sognato una ballerina di danza classica che mi faceva un po’ di moine. Non so dove sono andato a pescarla. Non ho mai avuto a che fare con le ballerine. Ha tentato più volte di baciarmi sulla bocca. Ne ero lusingato, ma il fatto che ci trovassimo in mezzo a tanta gente mi impediva di potermi fare avanti come volevo. Peraltro sembrava che dovessi nascondermi da qualcosa o qualcuno. Laila?
La ballerina insisteva e alla fine siamo riusciti a guadagnarci un angolino dove poter gestire i nostri comodi. Ma anche in quel frangente ero bloccato. Mi sentivo inibito, fuori luogo, era come se stessi compiendo qualcosa di sbagliato. Tuttavia provai un grande senso di piacere quando, alla fine, riuscimmo a baciarci profusamente, con ardore e compiacimento.
Era una ragazza bionda, con i capelli di media lunghezza, un bel viso delicato, un bel nasino all'insù e le sopracciglia trasformate in sottili tangenti sopraorbitali. Aveva anche un bel fondoschiena, messo in risalto da un paio di pantaloni attillati che lasciavano immaginare tutto. Il risveglio, grazie a questo sogno, è stato dolce e sereno e mi ha permesso di trovare la voglia e il desiderio di rituffarmi del mondo civile.

I tipi del bar

Innanzitutto il bar… Si trova in una vietta vicino all'edicola, poco distante da una bella area verde che non ho mai visitato, ma che dall'esterno pare assai ampia. Non sono ancora riuscito a capire come si chiami. Forse è un circolo proletario, o un'associazione di uomini liberi appassionati di carte, o una semplice bocciofila, con annesso sala ristoro e sala giochi. Dall'esterno non gli si dà due lire, è un insignificante parallelepipedo di cemento con un'insegna illeggibile e una lunga rastrelliera destinata ai clienti ciclisti. All'interno, però, si presenta piuttosto bene, è pulito e ordinato, l'arredamento è sobrio e delicato. Non escludo che ci possa essere di mezzo la curia. C'erano vari crocefissi appesi qua e là e un paio di giornaletti legati a qualche parrocchia o santuario. Ho incontrato dei tipi davvero buffi, come in un film di Fellini. Me ne sono stato in disparte osservandoli mentre bevevo il mio caffè.
Il più grosso è un omone di oltre cento chili presumo, con la faccia larga, la mascella da uomo primitivo e ciuffi di capelli bianchi. Fumava come un turco, una sigaretta dopo l'altra, dando l'impressione di masticare il filtro con rabbia e accanimento, come se avesse avuto fra le labbra un bastoncino di liquirizia da fare a pezzi. I suoi avambracci erano enormi, la circonferenza simile alla plafoniera che troneggiava sopra al bancone del bar. Su quello di destra era impressa una lunga cicatrice che, in prossimità del gomito, si aggrovigliava su se stessa come un serpente a sonagli. Più che parlare mugugnava, come il canto di un urside appena uscito dal letargo. Ecco a quale animale assomigliava… a un orso, era così dannatamente simile a un orso. Ogni tanto rideva di gusto, liberando un sentimento che pareva essere stato represso, nascosto in qualche recondito angolo della sua anima, forse anche nel suo caso, qualcosa che rimandava all'infanzia. I suoi occhi erano tristi, velati di striscioline rosse. Indossava a una maglietta a maniche corte, con le righe bianche e nere orizzontali, un paio di jeans di una taglia spropositata e un paio di scarpe che sembravano ciabatte. Si capiva che era di casa, e perfettamente a suo agio. Forse non stava tanto bene di salute. In uno dei suoi numerosi interventi mi pare di avere percepito che era da poco rientrato dall'ospedale per un problema cardiaco. Non mi stupirebbe con tutto il fumare che fa.
Con lui c'era un piccoletto, estremamente ridicolo, alto poco più di un metro e mezzo, con una giacchetta improponibile e un paio di pantaloni di velluto scuri che gli coprivano le scarpe; la sua corporatura ricordava quella di un ragazzetto, di un adolescente, ma era evidente che fosse un uomo: diverse rughe solcavano il suo volto e i capelli brizzolati lasciavano intendere il resto. Credo di aver capito che si chiamasse Giorgio. Sentii pronunciare il suo nome dalla cameriera, una bella ragazza di nemmeno trent'anni che con fare leggiadro andava e veniva per la sala, sistemando tavoli e sedie rimaste in disordine per la giornata appena trascorsa. Ogni tanto il nanerottolo mi guardava come se volesse ricevere da me un'approvazione a un suo ennesimo commento a proposito di questa o quell'altra cosa. Mi fece ridere di gusto quando suppose - esprimendosi ad alta voce, indifferente al fatto che non fosse necessario sforzare tanto l'ugola per farsi sentire, visto che eravamo in quattro gatti - che sarebbe potuto andare e tornare da Milano a piedi nel cuore della notte solo per far contenta la sua ragazza. Sosteneva di averlo già fatto in passato, e di non essere nuovo a trovate del genere. La sua voce era sottile e vibrante, tipo quella di un maschio castrato. Tirava spesso in ballo la sua ipotetica dolce metà, dicendo che spesso andava in giro con lei a fare compere o a visitare qualche città. L'orso non lo degnava di alcuna considerazione, ritenendo ciò che diceva un mucchio di balle utili solo a far passare la sera. Sembrava assuefatto dai suoi gorgoglii.
L'avrebbe inteso anche un bimbo dell'asilo che nessuno dei due avesse una donna o una famiglia propria. Lo spiegava peraltro il fatto che si trovassero lì a quell'ora della sera, quando ogni buon padre avrebbe dovuto essere a casa con i figli a chiacchierare o a giocare. Erano troppo sgraziati e apparentemente stupidi per avere una famiglia, mi dettero l'impressione di essere individui un po’ abbandonati a loro stessi, che si trovavano in quel posto dimenticato da dio solo perché non c'era un'altra realtà dove avrebbero potuto guardare in santa pace la televisione, autoconvincendosi di avere una vita sociale di tutto riguardo.
C'era anche un terzo elemento della compagnia, altrettanto pittoresco, ancorato allo stesso tavolo spoglio con la tovaglietta punteggiata da gocce di vino. Il suo sguardo sembrava quello di un pesce che si guarda intorno con gli occhi a mezz'asta, alla ricerca di un paradiso perduto, nascosto chissà dove, abitato da meravigliose vergini. Se il primo mugugnava e il secondo parlava come la raffica di un mitra, quest'ultimo si può asserire che boccheggiasse più che discorrere. Era il più silenzioso dei tre e in alcuni momenti sembrava che parlasse da solo. Muoveva le labbra come se stesse chiacchierando con un fantasma. A volte gesticolava, dando l'impressione di voler scacciare le zanzare. Lo trovai molto ridicolo, ma probabilmente era un parere soggettivo, visto che gli altri non davano grande peso alla sua eccentricità. Aveva una faccia rotonda, rubiconda, e un sorriso disegnato sul volto, come in uno stato di beatitudine perenne o benedetto da una droga in grado di cancellare ogni patema; e vestiva elegantemente, benché avesse abbinato i colori senza alcuna cognizione: il marrone dei pantaloni con il nero della t-shirt e le scarpe da ginnastica fra l'arancione e il giallo. Anche di lui non riuscii a intendere il nome, pur avendolo visto scambiare un bel po’ di battute con la cameriera, con la scusa di ordinare l'ennesima birra.
Rimasero al bar tutta la sera, fumando e bevendo senza ritegno, assistendo a una trasmissione sul calcio, forse l'unico argomento sul quale si sentivano un po’ ferrati. Un presentatore che non avevo mai notato prima commentava i risultati dell'ultima giornata di serie A e soprattutto la fortunata campagna acquisti della Juventus. Dirottare Brady alla Sampdoria per poi ingaggiare Platini e Boniek si era rivelata una mossa vincente; con la fantasia del francese e la volontà del polacco, tutte le altre squadre non avrebbero avuto vita facile nella lotta al titolo contro la Signora. Il cammino della Juve, di fatto, andava a gonfie vele, anche se la squadra più in forma pareva essere la Roma. L'orso ne era consapevole e, da juventino convinto, in più occasioni aveva picchiato il pugno sul tavolo sostenendo che i romanisti fossero tutti "delle merde". Il piccoletto azzardò una bestemmia, ma fu immediatamente redarguito dallo sguardo indiavolato della barista, evidentemente poco avvezza al linguaggio scurrile. Li lasciai che erano ancora al loro posto, con la faccia ingrugnita e un gran bisogno di sonno.

La seconda volta

Non amo dover fare per forza le ore piccole, ma se non mi addormento subito, non insisto, faccio altro. Peraltro non dovendo alzarmi per andare a lavorare potrei perfino scambiare il giorno con la notte senza alcun problema. Questa è una di quelle notti, piuttosto frequente del resto, negli ultimi tempi, in cui non c'è verso di abbandonarmi a Morfeo. Mi alzo e mi preparo una tisana ai mirtilli. La tisana ai mirtilli… proprio quella che mi faceva spesso Laila, quando dormivo da lei, calda e confortante come la carezza di una madre.  
La seconda volta l'incontrai una settimana più tardi. Dal momento in cui l'avevo vista in quell'occasione di ritorno dal rivenditore di oggetti di laboratorio per la Vian non me l'ero più scordata. Dopo una settimana senza alcun reale motivo, fui spinto a passare di nuovo dalle sue parti. Un'energia proveniente da chissà dove mi mise in marcia verso il suo nido infuocato. Era una giornata di sole splendente, il cielo azzurro e il sole enorme, illuminavano ogni cosa, come il sogno di un paradiso terrestre. Perfino lo smog sembrava meno imperante del solito e il canto degli uccelli libero dal frastuono del traffico. Mentre parcheggiavo la macchina nei pressi del chioschetto fui pervaso dallo stesso sentimento patito la volta precedente, un misto fra l'euforia e l'agitazione, fra la gioia più sopraffina e un'intransigente malinconia. Non capii il motivo di sensazioni così antistanti, ma era un sentimento di cui andai comunque fiero, mi gongolava, mi teneva vivo, sveglio, presente; era proprio quello che volevo, qualcosa che mi potesse sconvolgere, strappandomi dal placido tran tran della multinazionale, non importa se conservava e lasciava trapelare qualcosa di vagamente sinistro. Quel pomeriggio avevo perfino detto di no a una cena con Filomena per poter tornare a fare visita alla ragazza del chiosco. La mia amica era rimasta basita, per la prima volta avevo rimbalzato una sua proposta. Sono certo che, già in quell'istante, aveva fiutato che le cose fra me e lei (e Francesco) sarebbero cambiate.
Laila stava smanettando con un marchingegno a cui non seppi dare il nome. Sembrava un attrezzo per vaporizzare l'acqua, ma non ne fui per nulla sicuro e, in ogni caso, non m'interessò più di tanto razionalizzare la sua ingegneria. La vidi di spalle, con un grembiule nero e i soliti capelli raccolti dietro la nuca, che lasciavano scoperte due orecchiette da ragazzina. Non intervenni subito proprio per potermela gustare in quel modo, presa dalla sua attività, calata nei suoi panni tradizionali. Si voltò dopo un paio di minuti dal mio arrivo, dandomi l'impressione di sapere già che ero lì ad aspettarla. Pensai che potesse avermi intravisto per via di qualche riflesso, ma non individuai superfici brillanti di fronte a lei.
«Sapevo che saresti tornato».
Ancora una volta mi mise alle corde con un'uscita del tutto imprevedibile. Sapeva che sarei tornato? In che modo? Sentii una vampata di calore avvolgermi capo e membra, provocandomi una specie di capogiro. Allungai una mano verso il bancone per reggermi con maggiore forza, mascherando la defaillance. Fui vago, fingendo di non volere dare retta al suo micidiale esordio.
«Come va?».
Non mi rispose subito. Sorrise. E fu il sorriso più dolce che avessi mai visto. Notai ancora i suoi occhi scuri e profondi e il suo sguardo che, benché meraviglioso, aveva un non so che di… lontano e pericoloso. Possedeva dei lineamenti delicati e la pelle candida, priva di qualunque bizzarria epidermica, quasi quanto quella di un neonato. Percepii le stesse sensazioni della volta prima, quel senso di distanza, come se provenisse da chissà dove, da chissà quale luogo e tempo. Per un attimo pensai al tipo che avevo incontrato alla cappelletta degli appestati e che mi aveva raccontato dei tanti malati di peste che perirono nel milanese e in Brianza. Non so per quale motivo finii per collocare idealmente la mia interlocutrice a quella lontana realtà. In effetti, a uno sguardo più attento, dava l'impressione di essere caratterizzata da un volto all'antica, appannaggio di storie d'altri tempi. O almeno questo era ciò che mi suggeriva, avendola studiata solo per pochi minuti.  
«Perché non mi domandi come facevo a sapere che saresti tornato?».
Continuava a spiazzarmi, rendendomi difficoltosa qualunque replica. Capii che se volevo davvero tenerle testa dovevo per forza lasciarmi andare, stare al suo gioco, trattenere la mia goffaggine, dimenticando il fatto che stessi interagendo con una persona indubbiamente originale, che mi avrebbe potuto stendere senza pietà. Lei era Laila.
«Sentiamo». 
Mi congratulai con la mia veemenza.
«La verità è che ti stavo aspettando».
«Sul serio?».
Mi guardò con aria sbarazzina. 
«Fin dalla prima volta che ci siamo visti ho capito che ci saremmo incontrati di nuovo, che presto o tardi ci saresti stato tu lungo il mio cammino. Oggi, domani, dopodomani, non avrei saputo dire quando i nostri occhi si sarebbero rivisti, ma ero sicura che prima o poi avresti bussato ancora alla mia porta».
Parlava come un'indovina.
«Sai perché lo sapevo?», incalzò, disturbata dallo stridio acuto e fastidioso dei freni di un autocarro.
La buttai sul ridere senza troppo successo.
«Hai il dono della preveggenza?».
Mi fulminò, esibendo di nuovo quegli occhi di sfida che colsi anche la settimana prima mentre consumavo il mio panino, osservandola di sbieco.
«Perché certe cose si sentono…».
«Forse capisco quello che vuoi dire».
Mi sorrise di nuovo.
«Si sentono prima che accadono; o è come se accadessero da sempre, e non fanno che riconfermarsi di volta in volta, coinvolgendo anime diverse; non hai anche tu la stessa sensazione?».
Mi sconvolse il suo parlare forbito.
«Forse», mi limitai a dire.
«Se così non fosse, perché allora saresti venuto qui?».
Aspettai qualche secondo prima di rispondere, dicendomi che tanto valeva essere il più schietto possibile.
«Perché avevo semplicemente voglia di vederti…».
Andammo avanti a disquisire del più e del meno, fortunatamente con un tiro decisamente più rilassato, come due persone normalissime, senz'altro scopo se non quello di potersi conoscere meglio. Parlammo della sua attività, che conduceva da un paio d'anni, con un socio che non avevo capito bene in che rapporti fosse, e della voglia che aveva di poter un giorno cambiare aria, per andare a vivere in un paese lontano dove brilla sempre il sole. Pensai volesse riferirsi ai Caraibi o a qualche isola polinesiana, ma anche in questo frangente finì per lasciarmi a bocca aperta.
«Non è detto che sia un paese di questo pianeta, e non è detto che appartenga a questo mondo».
Tacqui, riflettendo che su certi argomenti avrei solo rischiato di fare la figura del fesso. Alla fine ci accordammo per trascorrere il dopolavoro insieme, forse la più bella serata che abbia mai trascorso in tutta la mia vita.

Serial killer

Più tardi, saranno state, forse, le tre, mi sono messo a pensare alla cattiveria, riflettendo, probabilmente, anche su me stesso e su quel che è successo con Laila. Mi sono domandato senza mezzi termini: io posso dirmi buono o cattivo? Mah. E da qui sono partito per un lungo giro di perlustrazione nei meandri della mia coscienza…
Sicché non saprei indicarmi né in un modo, né nell'altro. C'è chi dice che esistono buoni e cattivi; personalmente non ne sono molto convinto. Credo piuttosto che esistano sistemi educativi differenti che predispongono alla bontà o alla cattiveria. Nessuno nasce già forgiato a livello comportamentale, con l'intrinseca volontà di essere buono o cattivo, lo diventa col tempo, in base ai paradigmi che gli vengono imposti: la genetica è vera solo fino a un certo punto; lo dimostrano gli animali, che oggettivamente, obbedendo esclusivamente all'istinto e non conoscendo la ragione, non possono essere considerati buoni o cattivi. Se un tale diventa buono o cattivo è solo perché cresce in un determinato ambiente che lo porta a comportarsi seguendo un certo rigore. Alla luce di ciò si comprende perché - dal mio punto di vista almeno - concetti come inferno e paradiso siano del tutto arbitrari e fuorvianti. Evidentemente un tale che è destinato all'inferno lo è solo perché ha la sfortuna di capitare in una famiglia dominata dalla maleducazione, dall'insofferenza, dalla malattia, e non di certo perché magari ha fatto del male a qualcuno… L'inferno e il paradiso valgono solo per giustificare l'ignoranza dell'uomo.
Se si studiano le biografie di tutti i più grandi criminali, degli stupratori e dei serial killer, c'è sempre una devastante zona d'ombra nel loro passato; è da lì che parte tutto, non dalla loro cattiveria. Lo stesso vale per i pedofili: nella stragrande maggioranza dei casi hanno loro stesso subito abusi quand'erano piccini. Si può, dunque, definire qualcuno cattivo se a farlo diventare cattivo è stata semplicemente la iella di avere avuto a che fare durante l'infanzia con persone sostanzialmente malate e perverse? Seguendo lo stesso criterio logico, di fatto, non si è mai sentito parlare di santi partoriti da ambienti dove l'ateismo domina sovrano, o madonne che appaiono a persone che non abbiano mai visto un'immagine della santa vergine. E chi diventa prete o suora, guarda caso, è quasi sempre membro di una famiglia bigotta, clericale, e non di sicuro di un clan che organizza rapine alle banche o sequestri di bambini. Siamo in sostanza quel che siamo stati addestrati a fare e a diventare, senza avere la possibilità di cambiare il corso degli eventi, perlomeno degli eventi legati al metabolismo del nostro cervello. Il nostro libero arbitrio, quindi, è vero solo in parte, ed è del tutto falso ciò che ci hanno impartito durante le ore scolastiche di religione, secondo cui Dio lascia ai suoi figli la libertà di scegliere, scegliere il bene e il male, come se ci concedesse un lusso per privilegiati. La libertà di scelta è in realtà subordinata a un retroscena su cui non abbiamo alcun potere; sarebbe come dire a uno storpio che gli si lascia l'opportunità di scegliere quale strumento a corde suonare, dimenticandosi, però, che è privo di mani e piedi. Dio, dunque, se proprio ci volesse concedere la "facoltà del libero arbitrio", dovrebbe concedercela prima della nascita, dandoci l'opportunità di scegliere il grembo materno dal quale venire alla luce, un grembo possibilmente di proprietà di una bellissima, intelligentissima e buonissima signora, affiancata da un uomo dalle stesse mille virtù. Allora sì che avrebbe tutto molto più senso. A meno che, come indicano alcune religioni orientali, la vita terrena altro non sia che la piccola parentesi di un lungo e salvifico viaggio verso la redenzione. Ma gente di scienza come il sottoscritto, difficilmente potrebbe accontentarsi di simili risposte.

Sì, lo so, qualcuno potrebbe pensare che io voglia affrontare certi discorsi per sentirmi alleviato di un peso che mi porterò appresso per sempre; per potermi, in sostanza, discolpare; ma questa ipotesi è inverosimile. Di ciò che vado affermando, infatti, ne sono sempre stato convinto, anche prima di conoscere Laila e dar seguito alla vicenda che mi ha portato a cercare casa a Concorezzo, il più lontano possibile dai pochi affetti che avevo. Ribadisco che cattiveria e bontà non ci appartengono, ci sono imposte dalle vicissitudini, dall'evoluzione e dall'imprinting. Siamo e rimaniamo animali, con semplicemente solo una rete neuronale un po’ più complessa (che non vuol dire migliore) degli altri. 

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