giovedì 23 maggio 2013

Laila # 5


5.

L'eresia catara

Alla fine sono giunto a Concorezzo per puro caso. Volevo scappare, isolarmi, ma in qualche modo rimanere in contatto con una grossa città, per non privarmi di comodità essenziali, come quella di andare al cinema. Di fatto Concorezzo non è molto lontano da Milano; in alternativa c'è Monza, anch'essa ben rifornita a quanto sembra di sale cinematografiche. I film sono un ottimo condimento alla solitudine. Qui, in ogni caso, sono certo che non mi verrà a cercare nessuno. So mimetizzarmi molto bene. Non ho cambiato nome e generalità, ma avrei potuto farlo. Non l'ho fatto perché, in fondo, non serve. Se anche un giorno qualcuno dovesse scoprire che mi sono rintanato a Concorezzo, chiudendomi in me stesso come una lumaca al sopraggiungere della stagione fredda, e che sono proprio io il tipo della Vian, non dovrò fare altro che rimettere mano ai bagagli e partire per qualche altro posto dimenticato, facendo perdere ancora una volta le tracce. Ho scelto Concorezzo senza alcuna premeditazione. Stavo osservando una cartina della Lombardia, una vecchia e rovinatissima mappa acquistata forse negli anni Quaranta da mio nonno, e l'occhio mi è caduto proprio su questo nome astruso: Concorezzo. Mi sono detto, cosa mai ci potrà essere in un posto chiamato con un nome così orrendo, Concorezzo? Nulla, mi sono detto: dunque, era proprio il posto ideale per sparire.
Prima di lasciare la Vian, Francesco e Filomena, scappando come un profugo afghano, ho scartabellato un volume della Treccani per vedere se si diceva qualcosa di questo postaccio. Così ho scoperto l'unica cosa per cui vale davvero la pena ricordare simili coordinate geografiche: l'eresia catara. Il catarismo riguarda l'intera Europa fra il XII e il XIV secolo, e proprio Concorezzo ha avuto un ruolo determinante nella sua genesi e diffusione. Oggi deve essere difficile intuire il punto in cui, i capostipiti del movimento, predicavano e compivano le loro azioni quotidiane. Tuttavia sarebbe interessante affrontare l'argomento con maggiore spirito critico per scoprire almeno qualche briciola del loro passaggio, cercando di riesumarne antichi umori e segni che avrebbero il potere di riportarci a epoche ancestrali, come a bordo di una macchina del tempo. Le creature delle pozzanghere sicuramente ne sanno qualcosa, ma sono sempre così defilate, che estorcerle un pettegolezzo è come chiedere al papa di girare nudo per la piazza del Vaticano. Se mi fosse venuto in mente, avrei potuto chiedere all'uomo che ieri mi ha accompagnato alla cappelletta degli appestati: di sicuro, così ferrato com'é in storia, avrebbe avuto qualcosa da dirmi, benché non si tratti del suo secolo prediletto.
Ho scoperto che proprio a Concorezzo sorgeva la più importante chiesa catara in Italia. Prendeva spunto dal bogomilismo bulgaro, setta eretica del decimo secolo riconducibile alle regioni dell'Europa sud-orientale. Credevano in due forze vive, palpabili e assolutamente contrapposte: il bene e il male, retaggio di un culto che rimandava addirittura ai messaliani, movimento religioso sorto in Mesopotamia nel quarto secolo. I catari presero, dunque, spunto da essi, dalla Tracia, terre ben lontane dall'immaginario collettivo locale, accusando la chiesa di essersi imborghesita e di vivere il vangelo senza una degna corrispondenza fra parola e azioni. Non avevano tutti i torti. A quel tempo gli stessi papi valevano più come magnaccia che figure degne di rappresentare la croce. Si macchiavano anche di orrendi delitti pur di poter raggiungere i propri obiettivi.
Sicché il cristianesimo era solo di facciata, un optional. La chiesa di Roma peraltro non ebbe remore a contrastare con violenza i catari e tutti coloro che si lasciavano influenzare dai movimenti eretici. C'erano timorati di Dio forgiati appositamente per combattere i nuovi credo, che serpeggiavano in gran parte del nord Italia e l'ipotesi che il vangelo di Gesù potesse essere mal interpretato per dare sfogo alla propria boria e ai propri egoismi. Fra questi ce ne fu uno particolarmente attivo nel nord del Paese, poi divenuto santo: Pietro da Verona, un frate francescano. Fece di tutto per debellare i virgulti catari, tuttavia alla fine fu proprio lui a rimetterci le penne, come in molti avevano predetto conoscendo la sua ferrea volontà di servire Dio. Accadde il 6 aprile del 1252. Pietro da Verona era stato avvertito del pericolo che avrebbe potuto correre raggiungendo Milano, da Como, lungo tracciati pieni di macchie forestali dove potevano tranquillamente essere tesi agguati. Ma non badò ai rischi, sapendo in cuor suo che prima o poi, qualunque strada avesse preso, l'avrebbero ucciso. Organizzò l'omicidio Stefano Confalonieri, figura eminente della chiesa concorezzese, da anni a capo del movimento e forte delle sue notevoli disponibilità economiche che gli permettevano di vivere come un pascià. Verso mezzogiorno l'inquisitore si trovò dalle parti della cosiddetta boscaglia di Farsa, presso un altro comune di queste parti, tal Seveso, se non vado errato. Quando s'accorse che qualcuno lo stava inseguendo era già troppo tardi. Si ritrovò con il cranio contuso da un oggetto contundente e istantaneamente a terra in un lago di sangue. Ma i suoi aguzzini non erano contenti, perché il povero frate respirava ancora. Si scagliarono allora sulla vittima con un lungo coltello perforandogli lo stomaco. Per Pietro da Verona ci fu ben poco da fare. Gli sciacalli se la diedero a gambe e il corpo del servo di Dio fu raccolto da alcuni passanti che lo trasportarono in un ospedale vicino. Pietro da Verona morì qualche giorno dopo senza avere più ripreso conoscenza.  
Ora non ricordo più bene i particolari, ma il primo cataro concorezzese mi sembra provenisse da Cologno Monzese, altro borgo di queste lande perdute. Fu il primo a farsi sentire come una voce fuori dal coro, e anche per questo lo fecero a pezzetti, in zona, intorno al 1180 (con le date rimango un fenomeno!). Ma ormai il seme dell'eresia era stato gettato e il dogma concorezzese sarebbe di lì a poco decollato. Ancora oggi è possibile intuire gli ipotetici discendenti degli eretici. Potrebbero, per esempio, essere i membri di famiglie che rispondono a cognomi particolari, come Paté; deriverebbero, infatti, da paterini, altro nome con cui venivano designati i catari. Oggi ho visto sullo stradario che esiste ancora una via centrale chiamata con questo nome. Non è escluso che nei prossimi giorni possa andare a fargli visita. Via Paterini…

La visita dei vicini

Cosa? Ho sentito bene? Credo che qualcuno stia suonando il campanello… troppo strano. Qualcuno deve sicuramente essersi sbagliato. Chi mai potrebbe venire a bussare alla mia porta, considerato che sono qui da pochi giorni e non conosco anima viva e non voglio conoscere anima viva? Ahia. Tiro un respiro profondo e abbandono lo scrittoio gironzolandogli intorno perplesso. Che faccio? Fingo di non aver sentito? Che faccio? Sentilo, di nuovo… e pensare che non avevo ancora udito prima d'ora il suono del mio campanello; e non avevo neanche mai riflettuto sul fatto che ci fosse. Ha un suono atipico, diverso dagli altri scampanellii sentiti finora: è un fischio, acuto e fastidioso. Al di là di quel che adesso deciderò di fare, dovrò presto o tardi trovare un modo per farlo zittire, o sostituirlo almeno con un suono più delicato. Se penso che il passaggio di un treno ha un suono più dolce, mi viene da sorridere… Ma perché insiste? Chi diavolo è che mi vuole con tanta foga? Io non sono nessuno… non esisto, che vogliono dal sottoscritto? Non so che fare. Aspetto ancora un… porca miseria nera, questo suono mi sta davvero facendo impazzire; come si fa a essere tanto insistenti? Non sarà mica qualche sbirro…
Ora che ci penso non c'è neanche il mio nome sul citofono. E' una cosa su cui non avevo mai riflettuto, non ho neanche la targhetta sulla porta a indicare lei mie generalità. Come fanno a sapere che abito qui? Ma so di essere perfettamente in regola, se anche fossero le forze dell'ordine, non ho niente di cui preoccuparmi, sono a posto, non c'è motivo di temere, sono scappato per volontà mia, niente a che vedere con la possibilità di vedermi trasformato in un ricercato, un latitante, un clandestino… Oppure… oh, già che stupido, perché non ci ho pensato prima? Probabilmente staranno cercando di mettersi in contatto con l'inquilino che viveva qui prima di me. Oddio, sicuramente starà andando così, chi vuoi che venga a cercare un quarantenne in fuga dalla società in questo buco dimenticato dagli angeli? Il suono, ancora, imperterrito. Va beh, togliamoci una volta per tutte lo sfizio e andiamo a vedere chi rompe così tanto le palle.
«Chi è?».
Ho la voce di un gallo castrato.
«Buongiorno, siamo i suoi vicini di casa».
I miei vicini di casa? Quali vicini di casa? Quelli della macchina abbandonata, di cui ho vagamente intravisto il capofamiglia, o quelli che mi stanno di fianco di cui non so nulla?
«Siamo venuti a salutarla, per conoscerla, darle il benvenuto e farle assaggiare una torta».
Mi viene da svenire. Non può essere vero. Dove deve andare una persona se vuole davvero isolarsi dal mondo, sulla Luna?
«Non dovevate».
«Ci mancherebbe».
Perché non mi lasciano in pace, cosa vogliono da me i miei vicini? Io non voglio vicini. Mi si gelano le parole in gola e ho i brividi. Cosa diamine vogliono da me? Le cose si stanno mettendo malissimo. Ho scelto di starmene da solo, non avere a che fare con nessuno, perché già dopo tre giorni dal mio arrivo mi vengono a perseguitare?
«Perché vi siete disturbati?».
«E' un piacere accogliere i nuovi venuti».
Ho capito: è inutile proseguire con la pantomima, non ho altre chance se non quella di andare a vedere che faccia abbiano. Non posso certo mandarli a quel paese. Però, un attimo… potrei anche dirgli che sto facendo la doccia… non potranno mica pretendere che esca ad accoglierli seminudo. Ma non so, così rischio che mi si presentino qui fra qualche ora, rendendomi l'imminente futuro un supplizio ancora più duro da sopportare, come quando si aspetta l'esattore delle tasse o il tipo che controlla che sei veramente a casa in malattia. Via, indossiamo le scarpe e andiamo una volta per tutte ad accogliere gli scocciatori.
Mi trovo davanti a due persone distinte, bellocce, lei con una folta chioma rossiccia, molto borghese, elegante, con un seno prosperoso; lui brizzolato, con due sopracciglia folte, e un viso da attore hollywoodiano; proprio l'uomo che ho visto dalla finestra, con la pigna di giornali sottobraccio, il tipo dell'auto parcheggiata nella solita triste posizione. La signora mi regala un sorriso splendido, mettendo in mostra una dentatura troppo perfetta per essere vera. Mi verrebbe da chiederle dove è andata a rifarsi la dentiera per farle capire che non ho alcuna intenzione di dare retta agli estranei, ma il buonsenso mi trattiene. Lui fa altrettanto, sorridendomi come una iena, stracciando vigorosamente il mio cenno del capo con un ghigno assatanato, molto imbarazzato.  Non mi fa una bellissima impressione, ma so che il primo giudizio su cose e persone non dovrebbe essere preso in considerazione. La donna mi consegna fra le mani il suo cimelio, preceduta da una vampata di profumo.
«Abbiamo visto che è arrivato qualche giorno fa e… ci è sembrato bello poterla accogliere con questo piccolo pensiero».
Sorrido per mascherare il disagio.
«Vi ringrazio signori, vi ringrazio molto, ma non dovevate, siete troppo gentili…».
Rimangono sulla soglia del mio abitato come pali della luce, come testimoni di Geova convinti di poter avere in pugno il prossimo adepto. Evidentemente si aspettano qualcos'altro.
«Lei è di queste parti?».
Ecco ciò che si aspettano, ora mi sembra tutto più chiaro, mi pare di rivivere la storia di ieri. Si parte dal tempo o da scuse stravaganti come quella di consegnare una torta appena tolta dai fornelli, per tentare di affondare il colpo e, in buona sostanza, avere nuovo materiale con cui spettegolare al prossimo incontro pubblico. Ne sono consapevole, ormai, e dunque mi ripeto seguendo bene o male lo stesso copione.
«Sono solo di passaggio».
Sembrano delusi dalle mie parole. Si capisce che vorrebbero conoscere più aspetti della mia vita, ma bado a esprimermi come vorrebbero, per non dargli troppe soddisfazioni. Me ne sto sulle mie, in fondo, posso dirmi un professionista del mestiere. Gli anni alla Vian lo possono confermare. Solo con Francesco e Filomena, e naturalmente Laila, mi lasciavo veramente andare, mostrando il mio lato più comico ed estroverso. La conversazione si blocca: io, infervorato, come uno scolaro al suo primo giorno in aula, con una torta in mano che vorrei non avere mai ricevuto e le ciabatte ai piedi, che mi fanno sembrare una specie di spaventapasseri; i miei due interlocutori con gli occhi impallati e uno sguardo da venditori di enciclopedie porta a porta, visibilmente delusi dal fatto di avere avuto a che fare con una persona tanto avara di sentimenti. Evidentemente, in questo paese, sono abituati a gestire le cose in questa maniera; ma suppongo che i nuovi venuti siano accolti con calore non tanto per un gesto di sensibilità, quanto per verificare che non siano portatori di qualche strana malattia; alla stregua di veri untori. Dalle mie parti quest'aspetto sociale pareva meno evidente, la riservatezza era più sentita e così anche i rapporti personali crescevano solo in determinati contesti, dopo essersi annusati con criterio e pudore. Anche ieri, in fondo, è andata così. I concorezzesi fanno di tutto per dare il benvenuto agli estranei, e mostrarsi accoglienti e solidali; in realtà, penso io, è solo un modo per tastare il terreno e verificare che non corrano pericoli e che la loro vita potrà proseguire tranquilla e serena con la stessa regolarità di sempre. Comunque sia mi offrono terreno fertile su cui indagare la natura umana, anche questo un tema sul quale amo soffermarmi.
«Bene, allora… grazie ancora».
Gli faccio capire che qualunque altro tentativo di proseguire nella conversazione sarebbe vano, e che tanto vale concederci ai saluti. La donna ha il viso tirato e si congeda con un sorriso di plastica; l'uomo ha il volto accigliato e sembra pentito di aver suonato alla mia porta. Pretendeva, forse, di invitarmi stasera a casa sua a giocare a Tresette? 
«Si figuri… allora, le auguriamo ancora il benvenuto e se ha bisogno di qualcosa, mi raccomando, non faccia complimenti, venga pure a disturbarci, in fondo… ci separano solo pochi metri».
La loro cordialità è rigida e forzata.  
«Lo farò, intanto molte grazie».
Sorrido di circostanza, felice di essere lasciato in pace. Non credo che si faranno rivedere molto presto.

Dinamiche condominiali

Stavo pensando… chissà perché oggi, i miei cari vicini, hanno dato per scontato che vivessi da solo. Non mi hanno fatto domande sulla mia vita privata, eppure sembrava chiaro a entrambi che vivessi senza compagnia. Anche le loro ultime affermazioni sono state palesi: mi hanno detto di farmi sentire se ho bisogno, senza minimamente supporre che potessi avere una moglie o dei figli e valutare, dunque, il discorso al plurale… eppure la casa è bella grande… chiunque supporrebbe che non ci si possa abitare singolarmente, ma con una famiglia, appunto. Che mi stiano osservando da giorni e io non mi sia ancora accorto di niente? Avendoli conosciuti non lo escluderei, in ogni caso, m'importa poco. Possono pensare quello che vogliono, io continuo nel mio imperturbabile silenzio. Peraltro anch'io ho cercato spiegazioni sul loro conto, osservandoli dalla finestra, come un membro dei servizi segreti; anche se non l'ho fatto certo per curiosità, ma solo per ammazzare il tempo fra una pausa e l'altra della giornata.
Non vorrei apparire scontroso a priori, però, desidererei mantenere le distanze con chi vive le conoscenze come un dovere, come una buona consuetudine. Dal mio punto di vista i vicini non devono per forza venirsi in contro; possono anche essere dei perfetti sconosciuti. Si fa un gran parlare delle belle abitudini trascorse, relative a famiglie che mettevano tutto in condivisione; ma è solo per giustificare il passato rendendolo più amabile di quello che fu, e così sfuggire alle angherie e alle difficoltà del presente. La verità è che si tiene solo conto delle belle cose di ieri, trascurando tutto il resto. Perché non si considera anche il fatto che si moriva giovanissimi? Si soffriva per anni di malattie banalissime come la bronchite e le conversazioni fra le coppie si limitavano a scurrili mandarsi a quel paese… Le specie di comuni che venivano a instaurarsi fra le famiglie che abitavano, per esempio, in una cascina, erano dettate dalla necessità e non dalla volontà; se avessero indetto un referendum, tutti avrebbero votato per ottenere la propria indipendenza, un po’ come è sempre accaduto per l'evoluzione storica degli stati: per una mera questione di sopravvivenza esisteva il motto "uno per tutti, tutti per uno". La realtà era molto meno affascinante. Gran parte delle famiglie che dividevano il pane quotidiano sarebbero state pronte ad azzannarsi l'una con l'altra, e non è escluso che ciò accadesse, per poi fare ricadere il tutto su orrendi tragedie figlie del fato. A volte si fa fatica a sopportarsi in famiglia, figuriamoci quando ci sono di mezzo altri nuclei, spesso numerosissimi, come se chi faceva più figli si sentisse in qualche modo più forte e potente degli altri. E' anche questo un retaggio evoluzionistico. Evidentemente guardare in cagnesco il vicino serviva a difendersi, a tenere alta la guardia, imparando da esso come comportarsi dinanzi a eventuali sinistri. Strategie comportamentali ordite da meccanismi antropologici di cui siamo precursori, ma che sostanzialmente ignoriamo.

La ragazza del chiosco

Oggi non penso di uscire. E se guardo alla voglia non ne ho neanche di scrivere. Quasi, quasi vado a citofonare al vicino… Da quando sono arrivato a Concorezzo sono stato assalito da uno strano torpore. Ho sempre sonno, ma quando decido di dormire, non riesco a chiudere occhio. E vengo assalito dagli incubi. Oggi mi manca Laila in modo spropositato e continuo a pensare a lei. Ma per fortuna non sto pensando al triste epilogo della nostra storia, bensì al giorno in cui ci siamo visti per la prima volta. Lei vendeva patatine in uno di quegli orrendi chioschi che spuntano come funghi lungo i provinciali di mezza Italia. Dall'esterno era increscioso, sembrava essere stato rimesso in sesto malamente, dopo averlo raccattato in qualche sfasciacarrozze. Dentro, però, sembrava pulito, più di molti altri dai quali pare che l'olio coli dalle pareti. Non le avevo ancora parlato e già il cuore s'era messo a sbatacchiare. Non mi era mai successa una cosa del genere con altre donne. Laila era già entrata prepotentemente nella mia vita, anche se non conoscevo nemmeno il suo nome. Lasciai che altri clienti mi passassero davanti per poterla osservare meglio, e non rompere l'incantesimo che mi aveva fatto sussultare come un ragazzetto delle medie. Ecco, semmai avessi dovuto rapportare l'impeto provato vedendola per la prima volta, potrei parlare solo delle primissime cotte giovanili, in cui ogni minuto era buono per innamorarsi di qualche ragazzetta, auspicando con lei sogni di gloria. Sentii menzionare il suo nome da un facinoroso con una lunga coda di capelli dorati. Un bel tipo, se non fosse che non gli avrei dato due lire, in termini di affidabilità: aveva i pantaloni macchiati di grasso e le mani putride e una parlata non dissimile da quella di uno scaricatore di porto. Si vedeva che aveva feeling con la ragazza del chiosco. Sorrideva con lei mentre le ordinava da mangiare.
«Laila, non dire cazzate», le disse riferendosi a dinamiche precluse agli sconosciuti.
Non udii correttamente il sillabato, e scambiai il suo nome per Linda o Leila. In realtà era Laila. Lui le aveva ordinato un hotdog e a quanto sembra aveva una certa premura, ma lei non ne voleva sapere di soddisfare le sue richieste e con aria civettuola si divertiva a indisporlo. Era circa l'una e tornavo da una visita da un rivenditore di oggetti di laboratorio, dove periodicamente mi recavo per ordinare nuovi pezzi da allestire alla multinazionale. Mi era venuta un'indicibile sete, dovuta alla moltitudine di salatini con cui mi ero rimpinzato poco prima con il proprietario dell'esercizio, e mi ero deciso a fermarmi alla prima occasione; era anche perché dovevo liberare la vescica che mi stava scoppiando, compito che assolsi prima di ordinare qualcosa da mangiare. Fu la stessa Laila a interpellarmi, vedendomi in grave defaillance.
«Signore?».
La sua voce era sublime, una di quelle voci che ti portano in alto, senza dover dare retta al resto. Era una bella e suadente voce da ragazza, dotata di una dolcezza speciale, quasi appannaggio di un'altra dimensione. Chissà quanti altri avventori avevano già provato quello che stavo provando io, mi dissi. Alla fine, non senza imbarazzo, riuscii a mugugnare due parole:
«Vorrei un panino».
Laila si sporse dalla balaustra e mi regalò un sorriso immenso. Notai il suo decolleté, che esibiva senza tanti tentennamenti e soprattutto il nero che troneggiava sul suo corpo: i capelli, gli occhi, e i vestiti. Era di una bellezza non convenzionale, come se nei suoi tratti fisionomici ci fossero rimandi al Medio Oriente, al Libano, a Israele. Vendendola la assimilai a qualche statuina del presepe, a una bellissima giovane che va a fare visita al bambin Gesù, una giovane di duemila anni fa. Ecco cos'era che mi sbalestrava: non riuscivo a collocarla nello spazio-tempo che ci rappresentava, era come se provenisse da un'altra epoca. C'era disequilibrio fra il suo mondo e le macchine che ci sfrecciavano accanto, il grigio, lo smog, le piante avvizzite. Erano i suoi occhi a suggermi tutto questo, dicendomi più di tutto il resto. Era come se nascondessero qualcosa di profondo, universale e, forse, drammatico.
«Un panino mi chiede, bene, meno male che non mi ha chiesto un cacciavite o una carriola. Mio signore, come vede qui abbiamo praticamente solo panini, ma ne abbiamo di tutti i gusti, le dimensioni, le razze. Se dà un'occhiata qui sotto se ne potrà rendere conto anche lei e così scegliere quello che gradisce di più».
Mi sentii sprofondare. La sua spigliatezza fu così travolgente che mi mise in totale sobbollimento. Ma mi resi conto che aveva perfettamente ragione, era stato come entrare in farmacia e chiedere una generica medicina. Ma come biasimarmi? Compii un rapido giro di ricognizione e individuai quasi per caso il prodotto da consumare:
«Quello».
«Questo? Mortadella e pancetta?».
«Direi di sì».
Mi fissò come si fotografa un pollo da spennare. E infatti non ci mise molto a prendersi gioco di me.
«Lei mi ricorda un tipo di animale che vive in Cina».
Non mi piacque la sua uscita, ma cercai di domare il disagio.
«Sa quei begli orsacchiotti che vivono sulle piante di bambù?».
Pensai volesse riferirsi a un panda, benché nessuno mai prima d'ora m'avesse assimilato a un animale del genere. Stetti al suo gioco.
«Cosa glielo fa pensare?».
«Ha l'aria da buono».
Mi prese in contropiede. Pensai, infatti, che intendesse riferirsi al mio aspetto fisico e alla mia tendenza alla pinguetudine e invece, a quanto sembra, considerò quello spirituale. Mi colpì anche per questo.
«Dunque non le ricordo il panda perché è cicciotto».
Rise. E per un momento parve eclissarsi. Divenne mogia tutto d'un colpo, mentre terminava di prepararmi il sandwich.
«Lei è di qui?», mi azzardai.
Mi guardò con fare minaccioso.
«Io sono di ovunque».
Mi piacque.
«Trovavo il suo accento un po’…».
«Ho vissuto in tante parti del mondo e potrei avere assimilato cadenze di ogni città e nazione».
Ebbi l'impressione che non volesse rivelare le sue vere origini, come se ci fosse qualcosa di anomalo da nascondere. La lasciai in pace, dirigendomi verso uno dei tavolini che circondavano il botteghino, dove già altri, compreso il cliente che mi aveva preceduto, s'erano accomodati. Mangiai con calma, non avendo nessuna fretta, osservando, di tanto in tanto, con la coda dell'occhio, Laila che si dava da fare per lustrare il bancone e l'affettatrice. Sfregava con grande foga, dando idea di compiere un lavoro che svolgeva di routine. Mi stupii quando, fotografandola di sbieco per l'ennesima volta, m'accorsi che mi stava guardando con gli occhi semichiusi, in tono di sfida. Provai una sensazione strana, mista eccitazione, tenerezza e… terrore. Da una parte avrei voluto gioire, dall'altra, però, mi frenò qualcosa che non riuscii a focalizzare, come se dalla sua aurea trapelasse qualcosa di troppo difficile da comprendere e analizzare. Continuai pertanto nel mio atto masticatorio, cercando di fare finta di niente e di concentrarmi su un paio di formichine che s'erano messe a gironzolare intorno a qualche briciola. Mi distrasse il vocio di un nuovo gruppo di persone che prese d'assalto il negozietto ambulante di Laila per ordinare cibo e bevande. Non ebbi il tempo di salutare Laila come avrei voluto, ma rientrando alla Vian non feci che pensare a lei, come se fossi stato sotto ipnosi. Ricordo ancora, peraltro, quel che disse Filomena vendendomi riacquistare la mia postazione usuale.
«Tutto bene?».
«Certo».
La mia collega mi aveva squadrato malamente.

«Hai una faccia…». 

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