martedì 7 maggio 2013

Laila # 3


3.

Colori diversi

Diversamente potrei riflettere sulla mia vita prima e dopo il 1983. L'avevo già considerato l'altro dì. Prima del 1983 ero, infatti, una storia normale, poi… poi è cambiato tutto, delle spine hanno perforato la mia anima rendendomi una larva e obbligandomi a un'unica soluzione: andarmene, fuggire, nebulizzare. Così sono arrivato fin qui, a Concorezzo, in questo posto dimenticato da dio, insignificante, isolato, perfetto per nascondersi, per far perdere le tracce, eclissarsi, sbiadire. Non ci ho messo molto a trovarlo…
Il 1983 è un segno indelebile, un anno che non potrò mai cancellare, l'anno della svolta, del silenzio, della volontà di giocare la mia ultima carta, la più azzardata, quella di cambiare identità. Ma il 1983 è già oltre; se volessi continuare nei miei esercizi spirituali dovrei considerare il prima, il prima del 1983, quando Laila era ancora una cometa a zonzo nel cosmo. Erano gli anni Settanta. E il sole, bene o male, splendeva come oggi, benché qualcuno avesse già iniziato a parlare di una forma d'inquinamento in grado di smorzare perfino la potenza, il clamore dei suoi raggi. Qualcuno stigmatizzava il tutto con un'astrusa frase: "buco dell'ozono". Gli anni Settanta erano ben altra cosa; tutta un'altra vita. Amavo gli anni Settanta… ero un uomo perfettamente integrato nella cultura politica e spirituale degli anni Settanta. Non per niente mi sentivo, mi sono sempre sentito, un uomo del settimo decennio del ventesimo secolo, e non di certo di quello che abbiamo da poco inaugurato. Anni Ottanta mi sa di qualcosa di pericolosamente arbitrario: il tutto e il niente; il passato che si apre su un futuro che non mi appartiene, un luogo comune sfalsato dal mio desiderio di respirare come ho sempre respirato, dandomi delle gran pacche sulle spalle, ma beneficiando di un'energia che col nuovo decennio è venuta inesorabilmente a mancare. Chissà, forse, un domani, anche gli anni Ottanta avranno qualcosa da suggerirmi, quando i tempi saranno maturi, e avranno preso una certa piega nuove esperienze di vita. Chissà. Intanto eccomi qua, a vivere questo preludio agli anni Ottanta, in un modo che, nemmeno se mi avessero pagato, avrei potuto immaginare.
L'inizio della mia nuova vita coincide con i primi gelidi mesi del 1983. Fa freddo in questi giorni, almeno… così dice il telegiornale. Io, in verità, non ho ancora avuto modo di rendermene conto. Sono uscito solo una volta e non mi sono accorto di nulla, se non delle solite formine che sguazzavano in ciò che rimaneva di pozzanghere in via di estinzione, le uniche realtà in grado in questo momento di catturare la mia attenzione. Ma se anche facesse tanto freddo da farci congelare in un batter di ciglia, non me ne importerebbe più di tanto. Non farei quasi nulla per proteggermi dal freddo. Uscirei in giacchetta come l'altro giorno, inconsapevole del rischio di potermi buscare un accidente. Dopo Laila non esiste qualcosa che possa davvero preoccuparmi. Vivo in un limbo, senza emozioni, senza sogni, senza… niente. Gli anni Ottanta…
Ridacchio innanzi a ciò che potrei raccontare degli anni Ottanta se in un mio prossimo pellegrinaggio in questa terra di nessuno dovessi imbattermi in un extraterrestre. Cosa potrei dirgli degli anni Ottanta? Ben poco, evidentemente, gli anni Ottanta sono appena iniziati (e non di certo nel migliore dei modi). Potrei semmai raccontargli qualcosa della fine degli anni Settanta, poco prima che le mie forze venissero meno, sopraffatte da un episodio che è ancora presto per poter rivangare, ma che, di certo, non avrei mai voluto si potesse verificare. Mi faccio coraggio dicendomi che non è dipeso tutto da me, ma mento a me stesso. Troppe cose, lo so bene, vicende, vicissitudini, rincorse da innamorati, si finisce per cercarle; se si evitano gli incontri più inopportuni, i più rischiosi, ogni cataclisma può essere tenuto a debita distanza. Vorrei discolparmi, ma non mi riesce, se ci fossi riuscito sarei rimasto dov'ero. Provo allora a razionalizzare, ma anche in questo caso, invano, fatico a trovare un nuovo modo di giudicare ciò che mi circonda, un diversivo per provare a osservare le cose da un punto di vista… trasversale. La trasversalità. Se imparassi a guardare trasversalmente potrei arrivare a giustificarmi, a comprendermi e a vincere i fantasmi che mi divorano? Forse. Ma se si possiede una coscienza, una vera coscienza, si può davvero arrivare a tanto? Sono perplesso. Davvero perplesso. L'intelligenza e la coscienza non sono congetture, pulsano nella nostra materia cerebrale, e dinanzi alle incombenze più assurde e inaspettate dell'esistenza, non si può granché. Sarebbe stato meglio nascere stupidi. La stupidità è la vera rivoluzione. Fossimo tutti stupidi, il mondo sarebbe molto più allegro e spensierato. In ogni caso la mia nuova vita mi regala una speranza inusitata. In qualche modo mi tiene con i piedi per terra e mi fa guardare al futuro con un briciolo di… colore.

La primavera di via Fani

Penso a prima, allora. Per esempio al 1978. Cosa è successo nel 1978? Sono ancora in grado di ricordare? Oh, sì, certo, basta fare mente locale, per un attimino… in fondo è l'altro ieri. A quei tempi andavo ancora in giro con Filomena e Francesco, un po’ con uno, un po’ con l'altro, erano diventati la mia famiglia, inutile negarlo. Seppur in maniera diversa e con intenzioni diverse, eravamo soli tutti e tre e vivendoci affrontavamo meglio il nostro divenire, appassionandoci delle stesse cose e trascorrendo ore spensierate e gaudenti. Naturalmente, non c'era ancora Laila. Se ci fosse stata Laila fin dall'inizio, non ci sarebbero mai stati Filomena e Francesco. Laila non me li avrebbe fatti vedere. Laila mi aveva trasformato, rimbambito, reso incapace di valutare con raziocinio ciò che mi aveva sempre circondato.
Chiudo gli occhi per un istante, li strizzo fino a sentire male, e torno al 1978…
Accendo la televisione, il bianco e nero sta tramontando, ma resta il bianco e nero, il dubbio, i misteri del rapimento Moro. Sembra passata un'era geologica, e invece, sono solo su per giù cinque anni. Con il rapimento Moro il mondo parve fermarsi. Non ricordo un altro episodio così sentito. Pinochet al confronto fu una sciocchezzuola. Perfino la tragedia del piccolo Alfredino Rampi fece meno clamore. Ci fu grande cordoglio nel Paese, fu un'ecatombe emozionale, gli italiani erano sgomenti e increduli. Che fosse un momento caldo lo sapevano tutti, ma da qui a pensare che potessero toccare uno dei più amabili politici... Anch'io rimasi colpito, ma non tanto per la sofferenza dei familiari di Moro e dello stesso statista, quanto dalle reazioni dei miei simili. Il rapimento Moro diede una scossa al Paese, che pareva intorpidito dalla fine della seconda guerra mondiale. Era su per giù metà marzo, il 16 marzo, forse, lo stesso giorno in cui molti anni prima era nato mio nonno, il cavaliere, così chiamato per la sua straordinaria attitudine a cavalcare per le praterie del modenese. Era un giorno tiepido, tipicamente primaverile, con il cielo azzurrognolo, e piccole nubi filamentose. In via Fani, a Roma, un commando delle Brigate Rosse individuò il cammino di Moro e… accadde il finimondo. Rapirono il presidente della Dc con un'azione gravosa e spietata, sterminando cinque uomini della scorta, come se fossero piccole mosche da spiaccicare sul muro. Passò un mese di sofferenza, dopodiché i terroristi comunicarono al mondo che il tempo del "processo Moro" s'era chiuso con la sua condanna: condanna a morte. Era il 1978. Primavera. Le strade di Roma e di Milano erano, suppongo, le solite strade di sempre, il grigio dell'asfalto agonizzava ovunque, come aghi di ginepro stesi sul bagnasciuga.
Neanche un mese dopo i brigatisti chiusero i giochi, mostrando al governo la pasta assassina di cui erano fatti. Il cadavere di Aldo Moro fu ritrovato accartocciato su se stesso a bordo di una Renault 4 rossa, in via Caetani, equamente distante dalla sede Dc e Pci. Un'immagine che avrebbe segnato l'immaginario collettivo tanto quanto quella del primo passo di Armstrong sulla luna. La Dc e il Pci… se non ci fossero stati, oggi magari Aldo Moro starebbe ancora baciando sua moglie e chissà quante volte avrebbe ancora potuto soffermarsi sulla sua cristianità, ritrovando e non ritrovando il se stesso di quei tempi avulsi. E forse anch'io potrei ancora stringere fra le braccia Laila; da lì, infatti, sarebbero cambiate tante cose, il Paese avrebbe reagito in modo diverso, e di conseguenza la sua plebe, i destini di tutti noi avrebbero intrapreso percorsi differenti. Ma lo diceva anche il più stupido che lavorava alla Vian, il passacarte Ivo Masseroli: con i se e i ma non si fa la storia, al massimo si possono scrivere dei bei libri di fantascienza. Ricordo che c'era di mezzo anche Francesco Cossiga, che non avevo mai sopportato per il suo lirismo incespicante, per la sua parlata sarda; Francesco Cossiga che ancora non si capisce in che termini fosse immischiato nella vicenda, si dimise da Ministro degli Interni immediatamente dopo il ritrovo del corpo esanime dell'amico. Ma saranno stati veri amici? O soffiavano l'uno contro l'altro per portare a casa la pagnotta più grossa? Non mi stupirei se fosse vero. Comunque resta bella quell'immagine che li ritrae insieme, non so a quale comizio, una foto in bianco e nero, sono entrambi sorridenti, come, presumibilmente, non lo sarebbero più stati.

La Ford del vicino

Fastidio. Provo un senso di fastidio e una vaga nausea. Abbandono lo scrittoio e percorro avanti e indietro il corridoio di casa, soffermandomi davanti allo specchio. E' lo stesso che mi porto dietro da quando ero bambino. Il regalo di qualche parente ormai appannaggio degli spiriti. A suo tempo dimorava sopra il mio letto puerile, in un punto in cui era impossibile utilizzarlo comodamente, se non rimanendo distanti da esso almeno un paio di metri. Un miope non si sarebbe mai potuto vedere... Ma queste erano le disposizioni di mia madre: doveva regnare l'ordine più assoluto, non importa se alcuni oggetti perdevano completamente la loro funzionalità.
Osservo il mio capo sempre più ingrigito e la barba che non faccio già da qualche giorno. Anche la barba s'è ingrigita. Sto diventando grigio come la carrozzeria metallizzata della macchina del mio vicino di casa. E pensare che quando stavo con Laila non avevo nemmeno l'ombra del brizzolato… Certo, è l'età che avanza, tuttavia penso che le ultime vicende personali abbiano contribuito non poco al mio imbruttimento; anche la mia pelle non è più la stessa. Pare ingiallita, flaccida, cadente, con delle macchie rossastre che compaiono e scompaiono. Un dottore incontrato per caso facendo la coda al supermercato mi ha detto che avrei bisogno di qualche settimana di riposo. Se solo sapesse che sto pensando di dedicare l'intera vita al riposo… forse, non sarebbe più dello stesso parere…
Il mio vicino di casa… in realtà non so nemmeno che faccia abbia. E chi l'ha mai visto? Sono qui da pochi giorni e non ho visto altro che qualche donnetta affaccendarsi con le borse della spesa, uno spettacolo per nulla intrigante. Il mio vicino abita in una villetta carina, accogliente, circondata da un giardinetto pulito e ordinato; noto la sua automobile parcheggiata nella stessa stancante posizione, come un soprammobile pieno di polvere, dimenticato in qualche angolo perduto della casa. Nutro il sospetto che da quando ho messo piede in questo covo di ghiri, non l'abbia ancora spostata. Anche adesso scommetto che si trova nello stesso punto di prima… voglio proprio andare a vedere.
Percorrendo a ritroso il corridoio, raggiungo la finestra della cucina, da cui s'inquadra efficacemente la casa del mio vicino e la strada che serve entrambi, fortunatamente pochissimo battuta. Infatti… eccola lì, sempiterna e sorniona, nella stessa posizione di ieri e dell'altro ieri… Suppongo che non la usi mai o, forse, la utilizza solo quando io sto dormendo, magari fa i turni per qualche azienda dei paraggi. E' una Ford grigio metallizzata, non saprei dire il modello esatto, non ci capisco granché di motori, e dalla mia posizione non posso risalire alle scritte rivelatrici poste anteriormente. E' l'ideale, comunque, per una famiglia di tre, quattro persone. Probabilmente dovrei parlare di vicini.

Il fantasma di don Sturzo

Ma tornando a Moro e al mio scrittoio, ora che la nausea s'è sopita e il fastidio se n'è andato (in effetti, è bastato poco), c'è anche la faccenda della seduta spiritica che non ho mai capito. Anche perché mi parve così ridicolo che certi uomini di spessore e potere potessero davvero convergere intorno a un tavolo per interrogare gli spiriti. Perfino io non avevo mai avuto a che fare con certe cose, quand'ero bambino e c'era chi sosteneva di poter trascorrere interi pomeriggi in compagnia di esseri terrificanti che guardavano oltre i fumi dello Stige, il fiume ammaestrato da Caronte; una sola volta, di fatto, partecipai a una seduta spiritica, con un paio di compagni delle medie, qualcosa si mosse, ma di fantasmi nemmeno l'ombra. E non ci misi molto a sospettare che ci fosse di mezzo lo zampino del mio amico arrapatissimo che puntava con ardore alla pupa quindicenne che aveva di fronte. Eppure le cronache parlarono proprio di questo centro di gravità permanente in provincia di Bologna, Zappolino, se non sbaglio, dove un gruppo di super esperti, professori e quant'altro, si misero a interrogare l'aldilà per capire in quale buco fosse rintanato Moro, risalendo alla parola magica: "Gradoli". Anche Gradoli non l'avevo mai sentito nominare. Gradoli… Proprio così, è un piccolo comune nella provincia di Viterbo. Saltò fuori che Aldo Moro era rintanato lì, come un pericoloso assassino o stupratore, a Gradoli. Incredibilmente, si seppero perfino le generalità dei fantomatici spiriti guida che si misero in contatto con degli umili mortali facendo luce sulle proverbiali coordinate geografiche del rifugio segreto: don Sturzo e La Pira. Colui che ne fece parola si chiamava Prodi, Romano Prodi, oggi a capo dell'Istituto per la Ricostruzione Industriale. Mi feci delle sane risate quando lessi il servizio pubblicato da Oggi, tuttavia il retroscena mi stuzzicò parecchio. Dunque don Sturzo, grande politico italiano, fondatore del partito popolare italiano e sacerdote d'imprescindibile charme, e La Pira, politico e terziario domenicano... erano loro i mandanti, coloro che proteggevano il segreto di stato, il luogo in cui giaceva lo statista in attesa di una liberazione che non ci sarebbe mai stata.
Il governo e le forze dell'ordine si fecero avanti per perlustrare da cima a fondo Gradoli, dimentichi del fatto che Moro era stato rapito a Roma e che proprio nella capitale sorgeva via Gradoli. Interrogati a riguardo varie persone coinvolte nella boutade, dissero che non esisteva nessuna via Gradoli, ma i fatti smentirono le loro affermazioni. Poco dopo, infatti, gli investigatori si resero conto che in provincia di Viterbo non c'era un bel niente da scovare e che non avrebbero, quindi, avuto altra chance se non quella di puntare i loro occhi sulla contrada della capitale. Ma ormai era troppo tardi. Moro con i suoi aguzzini era già altrove, chissà dove, destinato al sacrificio.
Giunse una chiamata anonima per dire che in via Gradoli una tubatura stava perdendo. Le forze dell'ordine e i pompieri arrivarono come marines a destinazione scoprendo che era tutta una farsa: qualcuno aveva chiamato apposta per fare vedere allo Stato che i brigatisti gliel'avevano fatta sotto il naso e che era proprio in quel punto che Moro era rimasto prigioniero per tot giorni. In seguito, però, emerse in tutto il suo splendore che la seduta spiritica era stata una bufala. Non ci fu nessuna invocazione di santi, madonne e demoni, ma molto più prosaicamente erano intervenuti in gran segreto fantomatici uomini del Kgb, i servizi militari segreti russi. Va da sé che oggi brancoliamo ancora nel buio. A cinque anni di distanza, infatti, fin troppe cose rimangono nebulose e poco chiare; e innumerevoli sono i quesiti non risolti. Ci vorrebbe un abile scrittore, che possa mettere insieme tutte queste considerazioni e congetture per elaborare una bella spy story… oppure… ci potrei pensare io stesso, con tutto il tempo libero che avrò a disposizione…

Metri di giudizio

Grande come il mare, piccolo con una capocchia di spillo… Rifletto sulle grandezze, ci pensavo anche l'altro giorno, mentre mi lasciavo cullare sulla poltrona da un timido raggio di sole, appannaggio di una stagione ancora lontana. Elucubravo sul fatto che, oggettivamente, l'uomo non è che un esserino ragionevolmente minuscolo, un nulla, anzi, un meno del nulla, confrontato alla magnificenza dell'universo, ai suoi colori, alle sue freddure siderali, al suo crogiolo di stelle e pianeti che nemmeno Asimov potrebbe immaginare. Una briciola di pane in tutto il Sahara. Mi sono trovato così a girare intorno all'ennesimo valido presupposto per declassare l'uomo e la sua insipida avidità intellettuale… e intanto arrivavo alle scale di grandezza.
Se ragioniamo sulle grandezze, infatti, vediamo che ogni cosa da noi giudicata è semplicemente in funzione del nostro occhio critico; e non di certo di un ipotetico occhio universale, verosimilmente ben più potente e lungimirante del nostro ammasso di coni e bastoncelli. E' l'uomo che, di fatto, ha stabilito "a sua immagine e somiglianza" le grandezze: le distanze galattiche sono enormi, mentre gli elettroni sono separati dai nuclei da grandezze infinitesimali. Ma chi può affermare che spetti proprio a noi giudicare la maestosità dei cieli e degli oceani? Perché non credere che esistano altri esseri tali per cui il mordi e fuggi delle galassie sia riconducibile a quello che è per noi il microsistema di un complesso subatomico?
Per restare più vicini alla nostra quotidianità, si può, per esempio, tornare agli amati batteri, gli stessi scomodati l'altro dì relativamente al loro potenziale evolutivo. Per noi, infatti, sono siderali le distanze stellari, ma per un batterio, probabilmente, varrà altrettanto l'immensa latrina in cui si crogiola, essendo evidentemente del tutto indifferente a ciò che si cela oltre i suoi confini… Sicché, seguendo questa disanima, perché non dovrebbe essere lecito domandarsi, il motivo per cui l'universo non può essere la nostra latrina? E ciò che è veramente grande qualcosa che non possiamo nemmeno supporre?
Io non posso certo dire di avere la verità in tasca - men che meno ora che Laila non è più al mio fianco e ho esaurito ogni aspettativa per il domani - tuttavia chi può confutare questa ipotesi, visto che non abbiamo nemmeno i mezzi per verificare se esistono o meno pianeti extrasolari? Chi può, pertanto, affermare che l'universo è grande e il culo di un paramecio piccolissimo, ipotizzando che infiniti cosmi possano essere retti nel palmo di una mano di un super super gigante ai nostri occhi del tutto indecifrabile?  

La finale di Buenos Aires

L'estate del 1978, in ogni caso, al di là Moro e tutto il resto, la ricordo con piacere e nostalgia, come un retaggio dell'infanzia. Era il periodo dei mondiali di calcio, di figure leggendarie come Ardiles. Amavo Ardiles come una donna, bastava il nome a farmelo amare, era qualcosa di meravigliosamente esotico, floreale, profumato di dopoguerra, quando tutto sembrava risorgere. Per la prima volta in vita mia mi appassionavo a un torneo internazionale; avevo sempre amato il calcio di seria A, ma non gli europei e i mondiali. Mi sembravano una perdita di tempo, qualcosa di già scritto, una scusa per proseguire l'idea di campionato oltre i limiti canonici. La mia stupidità in tal senso era eclatante: non sapevo nemmeno quanti mondiali avesse vinto l'Italia, i due proverbiali degli anni Trenta con la guida di Vittorio Pozzo.
L'estate del 1978 inaugurò i mondiali in Argentina. Mi risuona ancora perfettamente nella mente il fischio, il leitmotiv Argentina '78, come il titolo di una poesia imparata alle elementari. Non fu però la nazionale argentina a entusiasmarmi più di tanto, né l'Italia. Mi presi, infatti, una cotta per la nazionale olandese, non saprei dire per quale particolare motivo. Di certo l'Italia non mi galvanizzava, anche se raggiunse la semifinale; era perlopiù composta da juventini che detestavo per la loro boria (anche se ho sempre nutrito grande stima per figure come Scirea e Cabrini). Al contrario amavo quasi tutti i giocatori olandesi. C'erano giocatori che da anni facevano faville e raccontavano pagine di storia calcistica indimenticabili. Gli olandesi erano stati sconfitti in finale nel mondiale del '74, contro una fortissima Germania; e due anni dopo, in Jugoslavia, erano stati eliminati in semifinale dalla Cecoslovacchia. Benché non avessero vinto, non si erano mai piazzati così bene nelle competizioni di grido.
In seguito cambia qualcosa, se ne va il grandissimo Johann Cruijff, ma rimangono pilastri come Rep, Krol, Jansen, sui quali Happel, l'allenatore, costruisce il nuovo ensemble sportivo, pronto per volare alla conquista del Sudamerica. Anche Francesco la vedeva come me: gli anni Settanta, in ambito calcistico, dovevano essere ricordati per lo strapotere degli arancioni e la super classe dell'Ajax. L'Olanda faceva parte del quarto gruppo, quello comprendente anche Perù, Scozia e Iran. Squadrette; ma l'avvio non fu così promettente. Gli arancioni vinsero contro il povero Iran, ma presero tre pappine dalla Scozia (finì 3 a 2) e pareggiarono 0 a 0 con il Perù. Giocarono la finale che era quasi luglio. La partita clou si disputò allo Stadio Monumental, di Buenos Aires. L'estate era esplosa in tutto il suo fragore, ed era un periodo per me particolarmente florido e felice, anche se non era accaduto niente di particolarmente significativo. Capitavano, del resto, periodi in cui, senza un motivo reale, finivo per sentirmi più in forma del solito, con un'inaspettata forza di guardare avanti con coraggio e risolutezza; come se il mondo fosse stato creato appositamente per me e le mie intenzioni. Mi sentivo bene, un leone, in pace con me stesso e con gli uomini; godevo di buona salute, dormivo senza problemi e, a parte il fumo, non avevo vizi. Era, forse, anche la consapevolezza che, di lì a poco, sarei volato a New York per un mesetto, un viaggio che avevo programmato da tempo, per provare nuove emozioni, fosse anche solo quella di prendere l'aereo per un volo transoceanico che non avevo mai compiuto prima d'ora. Ritenevo New York la capitale del mondo, e mi sembrava impossibile non esserci ancora andato, considerato che, dall'alto delle mie potenzialità economiche, avrei potuto vivere nella metropoli americana senza badare a spese.
L'arbitro italiano fischiò il calcio d'inizio e già trepidavo. Ero con Francesco in un bar del centro, entrambi con un ridicolo cappellino dell'Inter; le strade erano deserte; gli italiani se ne stavano rintanati in casa per assistere alla grande finale. Ottantamila i presenti sugli spalti del Monumental.
Le cose per gli olandesi si misero male fin dall'inizio; troppo nervosismo in campo procurò quattro ammonizioni di fila agli arancioni, e nessuna per i padroni di casa. Pensammo che l'arbitro non stesse facendo bene il suo dovere, tuttavia furono soprattutto gli olandesi ad attaccare con maggiore audacia, dando prova di essere la squadra più compatta e tecnicamente più preparata. Il 38esimo del primo tempo, però, la festa finì: non era la prima volta che Mario Kempes sfondava la retroguardia olandese, ma questa volta insaccò il pallone alle spalle di Jongbloed. Fu l'inizio della fine. Io e Francesco ci fissammo affranti.
«Lo sapevo», mugugnò il mio amico, inarcando le sopracciglia e sollevando le spalle in segno di resa.
Ma la ripresa fece sognare i sostenitori degli arancioni. Gli olandesi per nulla intimoriti dall'exploit di Kempes insistettero come forsennati, alla ricerca di un goal che potesse rimettere la partita in gioco. Era evidente che non volevano farsi scappare l'occasione della vita. E, infatti, di lì a poco il loro impegno fu premiato. Il pareggio arrivò all'81esimo, grazie a Nanninga che aveva fortunosamente preso il posto di Rep. Gli argentini dovettero iniziare daccapo.
Gli arancioni continuano ad affondare e a un minuto dalla fine Rensenbrink colpì il palo; quando si dice il destino avverso: pochi millimetri e sarebbe stato goal, con la vittoria mondiale nelle tasche dei principi di Amsterdam. Con i supplementari, di fatto, si entrò in una nuova era. Gli argentini credettero come non mai nella vittoria e nel giro di pochi minuti cambiarono drasticamente le carte in tavola, infilando due sberle agli arancioni che si videro condannati al secondo posto e a dire addio alla Coppa del mondo. Francesco ed io rimanemmo insieme per un'ora fissando lo schermo immalinconiti, patendo gli sfottò del gestore del locale schierato con Ardiles e soci.
«Dai ragazzi, è andata bene comunque», ci disse. «Vedrete che vincerete anche voi il mondiale fra qualche anno… magari quello del 2006».
L'avremmo ucciso.  

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