3.
Colori
diversi
Diversamente
potrei riflettere sulla mia vita prima e dopo il 1983. L'avevo già considerato
l'altro dì. Prima del 1983 ero, infatti, una storia normale, poi… poi è
cambiato tutto, delle spine hanno perforato la mia anima rendendomi una larva e
obbligandomi a un'unica soluzione: andarmene, fuggire, nebulizzare. Così sono
arrivato fin qui, a Concorezzo, in questo posto dimenticato da dio,
insignificante, isolato, perfetto per nascondersi, per far perdere le tracce,
eclissarsi, sbiadire. Non ci ho messo molto a trovarlo…
Il 1983 è un
segno indelebile, un anno che non potrò mai cancellare, l'anno della svolta,
del silenzio, della volontà di giocare la mia ultima carta, la più azzardata,
quella di cambiare identità. Ma il 1983 è già oltre; se volessi continuare nei
miei esercizi spirituali dovrei considerare il prima, il prima del 1983, quando
Laila era ancora una cometa a zonzo nel cosmo. Erano gli anni Settanta. E il
sole, bene o male, splendeva come oggi, benché qualcuno avesse già iniziato a
parlare di una forma d'inquinamento in grado di smorzare perfino la potenza, il
clamore dei suoi raggi. Qualcuno stigmatizzava il tutto con un'astrusa frase:
"buco dell'ozono". Gli anni Settanta erano ben altra cosa; tutta
un'altra vita. Amavo gli anni Settanta… ero un uomo perfettamente integrato
nella cultura politica e spirituale degli anni Settanta. Non per niente mi sentivo,
mi sono sempre sentito, un uomo del settimo decennio del ventesimo secolo, e
non di certo di quello che abbiamo da poco inaugurato. Anni Ottanta mi sa di
qualcosa di pericolosamente arbitrario: il tutto e il niente; il passato che si
apre su un futuro che non mi appartiene, un luogo comune sfalsato dal mio
desiderio di respirare come ho sempre respirato, dandomi delle gran pacche
sulle spalle, ma beneficiando di un'energia che col nuovo decennio è venuta
inesorabilmente a mancare. Chissà, forse, un domani, anche gli anni Ottanta
avranno qualcosa da suggerirmi, quando i tempi saranno maturi, e avranno preso
una certa piega nuove esperienze di vita. Chissà. Intanto eccomi qua, a vivere
questo preludio agli anni Ottanta, in un modo che, nemmeno se mi avessero
pagato, avrei potuto immaginare.
L'inizio della
mia nuova vita coincide con i primi gelidi mesi del 1983. Fa freddo in questi
giorni, almeno… così dice il telegiornale. Io, in verità, non ho ancora avuto
modo di rendermene conto. Sono uscito solo una volta e non mi sono accorto di
nulla, se non delle solite formine che sguazzavano in ciò che rimaneva di
pozzanghere in via di estinzione, le uniche realtà in grado in questo momento
di catturare la mia attenzione. Ma se anche facesse tanto freddo da farci congelare
in un batter di ciglia, non me ne importerebbe più di tanto. Non farei quasi
nulla per proteggermi dal freddo. Uscirei in giacchetta come l'altro giorno, inconsapevole
del rischio di potermi buscare un accidente. Dopo Laila non esiste qualcosa che
possa davvero preoccuparmi. Vivo in un limbo, senza emozioni, senza sogni,
senza… niente. Gli anni Ottanta…
Ridacchio
innanzi a ciò che potrei raccontare degli anni Ottanta se in un mio prossimo
pellegrinaggio in questa terra di nessuno dovessi imbattermi in un
extraterrestre. Cosa potrei dirgli degli anni Ottanta? Ben poco, evidentemente,
gli anni Ottanta sono appena iniziati (e non di certo nel migliore dei modi).
Potrei semmai raccontargli qualcosa della fine degli anni Settanta, poco prima
che le mie forze venissero meno, sopraffatte da un episodio che è ancora presto
per poter rivangare, ma che, di certo, non avrei mai voluto si potesse
verificare. Mi faccio coraggio dicendomi che non è dipeso tutto da me, ma mento
a me stesso. Troppe cose, lo so bene, vicende, vicissitudini, rincorse da
innamorati, si finisce per cercarle; se si evitano gli incontri più inopportuni,
i più rischiosi, ogni cataclisma può essere tenuto a debita distanza. Vorrei
discolparmi, ma non mi riesce, se ci fossi riuscito sarei rimasto dov'ero.
Provo allora a razionalizzare, ma anche in questo caso, invano, fatico a
trovare un nuovo modo di giudicare ciò che mi circonda, un diversivo per
provare a osservare le cose da un punto di vista… trasversale. La
trasversalità. Se imparassi a guardare trasversalmente potrei arrivare a
giustificarmi, a comprendermi e a vincere i fantasmi che mi divorano? Forse. Ma
se si possiede una coscienza, una vera coscienza, si può davvero arrivare a
tanto? Sono perplesso. Davvero perplesso. L'intelligenza e la coscienza non
sono congetture, pulsano nella nostra materia cerebrale, e dinanzi alle
incombenze più assurde e inaspettate dell'esistenza, non si può granché.
Sarebbe stato meglio nascere stupidi. La stupidità è la vera rivoluzione.
Fossimo tutti stupidi, il mondo sarebbe molto più allegro e spensierato. In
ogni caso la mia nuova vita mi regala una speranza inusitata. In qualche modo
mi tiene con i piedi per terra e mi fa guardare al futuro con un briciolo di…
colore.
La
primavera di via Fani
Penso a prima,
allora. Per esempio al 1978. Cosa è successo nel 1978? Sono ancora in grado di
ricordare? Oh, sì, certo, basta fare mente locale, per un attimino… in fondo è
l'altro ieri. A quei tempi andavo ancora in giro con Filomena e Francesco, un
po’ con uno, un po’ con l'altro, erano diventati la mia famiglia, inutile
negarlo. Seppur in maniera diversa e con intenzioni diverse, eravamo soli tutti
e tre e vivendoci affrontavamo meglio il nostro divenire, appassionandoci delle
stesse cose e trascorrendo ore spensierate e gaudenti. Naturalmente, non c'era
ancora Laila. Se ci fosse stata Laila fin dall'inizio, non ci sarebbero mai
stati Filomena e Francesco. Laila non me li avrebbe fatti vedere. Laila mi
aveva trasformato, rimbambito, reso incapace di valutare con raziocinio ciò che
mi aveva sempre circondato.
Chiudo gli occhi
per un istante, li strizzo fino a sentire male, e torno al 1978…
Accendo la
televisione, il bianco e nero sta tramontando, ma resta il bianco e nero, il
dubbio, i misteri del rapimento Moro. Sembra passata un'era geologica, e invece,
sono solo su per giù cinque anni. Con il rapimento Moro il mondo parve
fermarsi. Non ricordo un altro episodio così sentito. Pinochet al confronto fu
una sciocchezzuola. Perfino la tragedia del piccolo Alfredino Rampi fece meno
clamore. Ci fu grande cordoglio nel Paese, fu un'ecatombe emozionale, gli
italiani erano sgomenti e increduli. Che fosse un momento caldo lo sapevano
tutti, ma da qui a pensare che potessero toccare uno dei più amabili
politici... Anch'io rimasi colpito, ma non tanto per la sofferenza dei
familiari di Moro e dello stesso statista, quanto dalle reazioni dei miei
simili. Il rapimento Moro diede una scossa al Paese, che pareva intorpidito
dalla fine della seconda guerra mondiale. Era su per giù metà marzo, il 16
marzo, forse, lo stesso giorno in cui molti anni prima era nato mio nonno, il
cavaliere, così chiamato per la sua straordinaria attitudine a cavalcare per le
praterie del modenese. Era un giorno tiepido, tipicamente primaverile, con il
cielo azzurrognolo, e piccole nubi filamentose. In via Fani, a Roma, un commando
delle Brigate Rosse individuò il cammino di Moro e… accadde il finimondo.
Rapirono il presidente della Dc con un'azione gravosa e spietata, sterminando cinque
uomini della scorta, come se fossero piccole mosche da spiaccicare sul muro. Passò
un mese di sofferenza, dopodiché i terroristi comunicarono al mondo che il
tempo del "processo Moro" s'era chiuso con la sua condanna: condanna
a morte. Era il 1978. Primavera. Le strade di Roma e di Milano erano, suppongo,
le solite strade di sempre, il grigio dell'asfalto agonizzava ovunque, come aghi
di ginepro stesi sul bagnasciuga.
Neanche un mese
dopo i brigatisti chiusero i giochi, mostrando al governo la pasta assassina di
cui erano fatti. Il cadavere di Aldo Moro fu ritrovato accartocciato su se
stesso a bordo di una Renault 4 rossa, in via Caetani, equamente distante dalla
sede Dc e Pci. Un'immagine che avrebbe segnato l'immaginario collettivo tanto
quanto quella del primo passo di Armstrong sulla luna. La Dc e il Pci… se non
ci fossero stati, oggi magari Aldo Moro starebbe ancora baciando sua moglie e
chissà quante volte avrebbe ancora potuto soffermarsi sulla sua cristianità,
ritrovando e non ritrovando il se stesso di quei tempi avulsi. E forse anch'io
potrei ancora stringere fra le braccia Laila; da lì, infatti, sarebbero
cambiate tante cose, il Paese avrebbe reagito in modo diverso, e di conseguenza
la sua plebe, i destini di tutti noi avrebbero intrapreso percorsi differenti.
Ma lo diceva anche il più stupido che lavorava alla Vian, il passacarte Ivo
Masseroli: con i se e i ma non si fa la storia, al massimo si possono scrivere
dei bei libri di fantascienza. Ricordo che c'era di mezzo anche Francesco
Cossiga, che non avevo mai sopportato per il suo lirismo incespicante, per la
sua parlata sarda; Francesco Cossiga che ancora non si capisce in che termini
fosse immischiato nella vicenda, si dimise da Ministro degli Interni
immediatamente dopo il ritrovo del corpo esanime dell'amico. Ma saranno stati
veri amici? O soffiavano l'uno contro l'altro per portare a casa la pagnotta
più grossa? Non mi stupirei se fosse vero. Comunque resta bella quell'immagine
che li ritrae insieme, non so a quale comizio, una foto in bianco e nero, sono
entrambi sorridenti, come, presumibilmente, non lo sarebbero più stati.
La
Ford del vicino
Fastidio. Provo
un senso di fastidio e una vaga nausea. Abbandono lo scrittoio e percorro
avanti e indietro il corridoio di casa, soffermandomi davanti allo specchio. E'
lo stesso che mi porto dietro da quando ero bambino. Il regalo di qualche
parente ormai appannaggio degli spiriti. A suo tempo dimorava sopra il mio
letto puerile, in un punto in cui era impossibile utilizzarlo comodamente, se
non rimanendo distanti da esso almeno un paio di metri. Un miope non si sarebbe
mai potuto vedere... Ma queste erano le disposizioni di mia madre: doveva
regnare l'ordine più assoluto, non importa se alcuni oggetti perdevano
completamente la loro funzionalità.
Osservo il mio
capo sempre più ingrigito e la barba che non faccio già da qualche giorno.
Anche la barba s'è ingrigita. Sto diventando grigio come la carrozzeria
metallizzata della macchina del mio vicino di casa. E pensare che quando stavo
con Laila non avevo nemmeno l'ombra del brizzolato… Certo, è l'età che avanza,
tuttavia penso che le ultime vicende personali abbiano contribuito non poco al
mio imbruttimento; anche la mia pelle non è più la stessa. Pare ingiallita,
flaccida, cadente, con delle macchie rossastre che compaiono e scompaiono. Un
dottore incontrato per caso facendo la coda al supermercato mi ha detto che
avrei bisogno di qualche settimana di riposo. Se solo sapesse che sto pensando
di dedicare l'intera vita al riposo… forse, non sarebbe più dello stesso
parere…
Il mio vicino di
casa… in realtà non so nemmeno che faccia abbia. E chi l'ha mai visto? Sono qui
da pochi giorni e non ho visto altro che qualche donnetta affaccendarsi con le
borse della spesa, uno spettacolo per nulla intrigante. Il mio vicino abita in
una villetta carina, accogliente, circondata da un giardinetto pulito e
ordinato; noto la sua automobile parcheggiata nella stessa stancante posizione,
come un soprammobile pieno di polvere, dimenticato in qualche angolo perduto
della casa. Nutro il sospetto che da quando ho messo piede in questo covo di
ghiri, non l'abbia ancora spostata. Anche adesso scommetto che si trova nello
stesso punto di prima… voglio proprio andare a vedere.
Percorrendo a
ritroso il corridoio, raggiungo la finestra della cucina, da cui s'inquadra
efficacemente la casa del mio vicino e la strada che serve entrambi,
fortunatamente pochissimo battuta. Infatti… eccola lì, sempiterna e sorniona, nella
stessa posizione di ieri e dell'altro ieri… Suppongo che non la usi mai o,
forse, la utilizza solo quando io sto dormendo, magari fa i turni per qualche
azienda dei paraggi. E' una Ford grigio metallizzata, non saprei dire il
modello esatto, non ci capisco granché di motori, e dalla mia posizione non
posso risalire alle scritte rivelatrici poste anteriormente. E' l'ideale,
comunque, per una famiglia di tre, quattro persone. Probabilmente dovrei
parlare di vicini.
Il
fantasma di don Sturzo
Ma tornando a
Moro e al mio scrittoio, ora che la nausea s'è sopita e il fastidio se n'è
andato (in effetti, è bastato poco), c'è anche la faccenda della seduta
spiritica che non ho mai capito. Anche perché mi parve così ridicolo che certi
uomini di spessore e potere potessero davvero convergere intorno a un tavolo
per interrogare gli spiriti. Perfino io non avevo mai avuto a che fare con
certe cose, quand'ero bambino e c'era chi sosteneva di poter trascorrere interi
pomeriggi in compagnia di esseri terrificanti che guardavano oltre i fumi dello
Stige, il fiume ammaestrato da Caronte; una sola volta, di fatto, partecipai a
una seduta spiritica, con un paio di compagni delle medie, qualcosa si mosse,
ma di fantasmi nemmeno l'ombra. E non ci misi molto a sospettare che ci fosse
di mezzo lo zampino del mio amico arrapatissimo che puntava con ardore alla pupa
quindicenne che aveva di fronte. Eppure le cronache parlarono proprio di questo
centro di gravità permanente in provincia di Bologna, Zappolino, se non
sbaglio, dove un gruppo di super esperti, professori e quant'altro, si misero a
interrogare l'aldilà per capire in quale buco fosse rintanato Moro, risalendo
alla parola magica: "Gradoli". Anche Gradoli non l'avevo mai sentito
nominare. Gradoli… Proprio così, è un piccolo comune nella provincia di
Viterbo. Saltò fuori che Aldo Moro era rintanato lì, come un pericoloso
assassino o stupratore, a Gradoli. Incredibilmente, si seppero perfino le
generalità dei fantomatici spiriti guida che si misero in contatto con degli
umili mortali facendo luce sulle proverbiali coordinate geografiche del rifugio
segreto: don Sturzo e La Pira. Colui che ne fece parola si chiamava Prodi,
Romano Prodi, oggi a capo dell'Istituto per la Ricostruzione Industriale. Mi
feci delle sane risate quando lessi il servizio pubblicato da Oggi, tuttavia il
retroscena mi stuzzicò parecchio. Dunque don Sturzo, grande politico italiano,
fondatore del partito popolare italiano e sacerdote d'imprescindibile charme, e
La Pira, politico e terziario domenicano... erano loro i mandanti, coloro che proteggevano
il segreto di stato, il luogo in cui giaceva lo statista in attesa di una
liberazione che non ci sarebbe mai stata.
Il governo e le
forze dell'ordine si fecero avanti per perlustrare da cima a fondo Gradoli,
dimentichi del fatto che Moro era stato rapito a Roma e che proprio nella
capitale sorgeva via Gradoli. Interrogati a riguardo varie persone coinvolte nella
boutade, dissero che non esisteva nessuna via Gradoli, ma i fatti smentirono le
loro affermazioni. Poco dopo, infatti, gli investigatori si resero conto che in
provincia di Viterbo non c'era un bel niente da scovare e che non avrebbero,
quindi, avuto altra chance se non quella di puntare i loro occhi sulla contrada
della capitale. Ma ormai era troppo tardi. Moro con i suoi aguzzini era già
altrove, chissà dove, destinato al sacrificio.
Giunse una
chiamata anonima per dire che in via Gradoli una tubatura stava perdendo. Le
forze dell'ordine e i pompieri arrivarono come marines a destinazione scoprendo
che era tutta una farsa: qualcuno aveva chiamato apposta per fare vedere allo
Stato che i brigatisti gliel'avevano fatta sotto il naso e che era proprio in
quel punto che Moro era rimasto prigioniero per tot giorni. In seguito, però, emerse
in tutto il suo splendore che la seduta spiritica era stata una bufala. Non ci
fu nessuna invocazione di santi, madonne e demoni, ma molto più prosaicamente erano
intervenuti in gran segreto fantomatici uomini del Kgb, i servizi militari
segreti russi. Va da sé che oggi brancoliamo ancora nel buio. A cinque anni di
distanza, infatti, fin troppe cose rimangono nebulose e poco chiare; e innumerevoli
sono i quesiti non risolti. Ci vorrebbe un abile scrittore, che possa mettere
insieme tutte queste considerazioni e congetture per elaborare una bella spy
story… oppure… ci potrei pensare io stesso, con tutto il tempo libero che avrò
a disposizione…
Metri
di giudizio
Grande come il
mare, piccolo con una capocchia di spillo… Rifletto sulle grandezze, ci pensavo
anche l'altro giorno, mentre mi lasciavo cullare sulla poltrona da un timido
raggio di sole, appannaggio di una stagione ancora lontana. Elucubravo sul
fatto che, oggettivamente, l'uomo non è che un esserino ragionevolmente
minuscolo, un nulla, anzi, un meno del nulla, confrontato alla magnificenza
dell'universo, ai suoi colori, alle sue freddure siderali, al suo crogiolo di
stelle e pianeti che nemmeno Asimov potrebbe immaginare. Una briciola di pane
in tutto il Sahara. Mi sono trovato così a girare intorno all'ennesimo valido
presupposto per declassare l'uomo e la sua insipida avidità intellettuale… e intanto
arrivavo alle scale di grandezza.
Se ragioniamo
sulle grandezze, infatti, vediamo che ogni cosa da noi giudicata è semplicemente
in funzione del nostro occhio critico; e non di certo di un ipotetico occhio
universale, verosimilmente ben più potente e lungimirante del nostro ammasso di
coni e bastoncelli. E' l'uomo che, di fatto, ha stabilito "a sua immagine
e somiglianza" le grandezze: le distanze galattiche sono enormi, mentre gli
elettroni sono separati dai nuclei da grandezze infinitesimali. Ma chi può
affermare che spetti proprio a noi giudicare la maestosità dei cieli e degli
oceani? Perché non credere che esistano altri esseri tali per cui il mordi e
fuggi delle galassie sia riconducibile a quello che è per noi il microsistema
di un complesso subatomico?
Per restare più
vicini alla nostra quotidianità, si può, per esempio, tornare agli amati
batteri, gli stessi scomodati l'altro dì relativamente al loro potenziale
evolutivo. Per noi, infatti, sono siderali le distanze stellari, ma per un
batterio, probabilmente, varrà altrettanto l'immensa latrina in cui si
crogiola, essendo evidentemente del tutto indifferente a ciò che si cela oltre
i suoi confini… Sicché, seguendo questa disanima, perché non dovrebbe essere
lecito domandarsi, il motivo per cui l'universo non può essere la nostra
latrina? E ciò che è veramente grande qualcosa che non possiamo nemmeno supporre?
Io non posso
certo dire di avere la verità in tasca - men che meno ora che Laila non è più
al mio fianco e ho esaurito ogni aspettativa per il domani - tuttavia chi può
confutare questa ipotesi, visto che non abbiamo nemmeno i mezzi per verificare
se esistono o meno pianeti extrasolari? Chi può, pertanto, affermare che l'universo
è grande e il culo di un paramecio piccolissimo, ipotizzando che infiniti cosmi
possano essere retti nel palmo di una mano di un super super gigante ai nostri
occhi del tutto indecifrabile?
La
finale di Buenos Aires
L'estate del
1978, in ogni caso, al di là Moro e tutto il resto, la ricordo con piacere e
nostalgia, come un retaggio dell'infanzia. Era il periodo dei mondiali di
calcio, di figure leggendarie come Ardiles. Amavo Ardiles come una donna,
bastava il nome a farmelo amare, era qualcosa di meravigliosamente esotico,
floreale, profumato di dopoguerra, quando tutto sembrava risorgere. Per la
prima volta in vita mia mi appassionavo a un torneo internazionale; avevo
sempre amato il calcio di seria A, ma non gli europei e i mondiali. Mi
sembravano una perdita di tempo, qualcosa di già scritto, una scusa per
proseguire l'idea di campionato oltre i limiti canonici. La mia stupidità in
tal senso era eclatante: non sapevo nemmeno quanti mondiali avesse vinto
l'Italia, i due proverbiali degli anni Trenta con la guida di Vittorio Pozzo.
L'estate del
1978 inaugurò i mondiali in Argentina. Mi risuona ancora perfettamente nella
mente il fischio, il leitmotiv Argentina '78, come il titolo di una poesia
imparata alle elementari. Non fu però la nazionale argentina a entusiasmarmi
più di tanto, né l'Italia. Mi presi, infatti, una cotta per la nazionale
olandese, non saprei dire per quale particolare motivo. Di certo l'Italia non
mi galvanizzava, anche se raggiunse la semifinale; era perlopiù composta da
juventini che detestavo per la loro boria (anche se ho sempre nutrito grande
stima per figure come Scirea e Cabrini). Al contrario amavo quasi tutti i
giocatori olandesi. C'erano giocatori che da anni facevano faville e
raccontavano pagine di storia calcistica indimenticabili. Gli olandesi erano
stati sconfitti in finale nel mondiale del '74, contro una fortissima Germania;
e due anni dopo, in Jugoslavia, erano stati eliminati in semifinale dalla
Cecoslovacchia. Benché non avessero vinto, non si erano mai piazzati così bene
nelle competizioni di grido.
In seguito
cambia qualcosa, se ne va il grandissimo Johann Cruijff, ma rimangono pilastri
come Rep, Krol, Jansen, sui quali Happel, l'allenatore, costruisce il nuovo
ensemble sportivo, pronto per volare alla conquista del Sudamerica. Anche
Francesco la vedeva come me: gli anni Settanta, in ambito calcistico, dovevano
essere ricordati per lo strapotere degli arancioni e la super classe dell'Ajax.
L'Olanda faceva parte del quarto gruppo, quello comprendente anche Perù, Scozia
e Iran. Squadrette; ma l'avvio non fu così promettente. Gli arancioni vinsero contro
il povero Iran, ma presero tre pappine dalla Scozia (finì 3 a 2) e pareggiarono
0 a 0 con il Perù. Giocarono la finale che era quasi luglio. La partita clou si
disputò allo Stadio Monumental, di Buenos Aires. L'estate era esplosa in tutto
il suo fragore, ed era un periodo per me particolarmente florido e felice,
anche se non era accaduto niente di particolarmente significativo. Capitavano, del
resto, periodi in cui, senza un motivo reale, finivo per sentirmi più in forma
del solito, con un'inaspettata forza di guardare avanti con coraggio e risolutezza;
come se il mondo fosse stato creato appositamente per me e le mie intenzioni. Mi
sentivo bene, un leone, in pace con me stesso e con gli uomini; godevo di buona
salute, dormivo senza problemi e, a parte il fumo, non avevo vizi. Era, forse,
anche la consapevolezza che, di lì a poco, sarei volato a New York per un
mesetto, un viaggio che avevo programmato da tempo, per provare nuove emozioni,
fosse anche solo quella di prendere l'aereo per un volo transoceanico che non
avevo mai compiuto prima d'ora. Ritenevo New York la capitale del mondo, e mi
sembrava impossibile non esserci ancora andato, considerato che, dall'alto
delle mie potenzialità economiche, avrei potuto vivere nella metropoli
americana senza badare a spese.
L'arbitro
italiano fischiò il calcio d'inizio e già trepidavo. Ero con Francesco in un
bar del centro, entrambi con un ridicolo cappellino dell'Inter; le strade erano
deserte; gli italiani se ne stavano rintanati in casa per assistere alla grande
finale. Ottantamila i presenti sugli spalti del Monumental.
Le cose per gli
olandesi si misero male fin dall'inizio; troppo nervosismo in campo procurò
quattro ammonizioni di fila agli arancioni, e nessuna per i padroni di casa. Pensammo
che l'arbitro non stesse facendo bene il suo dovere, tuttavia furono
soprattutto gli olandesi ad attaccare con maggiore audacia, dando prova di essere
la squadra più compatta e tecnicamente più preparata. Il 38esimo del primo
tempo, però, la festa finì: non era la prima volta che Mario Kempes sfondava la
retroguardia olandese, ma questa volta insaccò il pallone alle spalle di
Jongbloed. Fu l'inizio della fine. Io e Francesco ci fissammo affranti.
«Lo sapevo»,
mugugnò il mio amico, inarcando le sopracciglia e sollevando le spalle in segno
di resa.
Ma la ripresa
fece sognare i sostenitori degli arancioni. Gli olandesi per nulla intimoriti
dall'exploit di Kempes insistettero come forsennati, alla ricerca di un goal
che potesse rimettere la partita in gioco. Era evidente che non volevano farsi
scappare l'occasione della vita. E, infatti, di lì a poco il loro impegno fu
premiato. Il pareggio arrivò all'81esimo, grazie a Nanninga che aveva
fortunosamente preso il posto di Rep. Gli argentini dovettero iniziare daccapo.
Gli arancioni
continuano ad affondare e a un minuto dalla fine Rensenbrink colpì il palo;
quando si dice il destino avverso: pochi millimetri e sarebbe stato goal, con
la vittoria mondiale nelle tasche dei principi di Amsterdam. Con i supplementari,
di fatto, si entrò in una nuova era. Gli argentini credettero come non mai nella
vittoria e nel giro di pochi minuti cambiarono drasticamente le carte in
tavola, infilando due sberle agli arancioni che si videro condannati al secondo
posto e a dire addio alla Coppa del mondo. Francesco ed io rimanemmo insieme per
un'ora fissando lo schermo immalinconiti, patendo gli sfottò del gestore del
locale schierato con Ardiles e soci.
«Dai ragazzi, è
andata bene comunque», ci disse. «Vedrete che vincerete anche voi il mondiale
fra qualche anno… magari quello del 2006».
L'avremmo
ucciso.
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