venerdì 29 giugno 2012

Affari condominiali: settimo piano, appartamento B


Erano i due architetti ai quali tutti gli omatesi e buona parte degli agratesi si appellavano per risolvere questioni di ogni genere: progetti per nuove case, permessi per edificare lungo il corso del Molgora, idee per migliorare un cascinotto mezzo diroccato risalente agli albori del secolo e via dicendo. Negli anni avevano accumulato prestigio, notorietà e naturalmente un bel gruzzolo da spartire fra le rispettive famiglie. Tarcisio Cornolti aveva due figli: un maschio di ventinove anni e una femmina di ventisei; Gaspare Flaminio ne aveva quattro: due femmine, la più grande di venticinque anni, la seconda di diciotto; e due maschi, il primo di vent’anni, il più piccolo di quindici. Erano un bello squadrone e quando si muovevano tutti insieme – cosa che accadeva spesso, specialmente durante le vacanze estive – sembrava si mettesse in moto un reggimento. Peraltro, a essi, andavano aggiunti due splendidi esemplari di collie, comprati dagli stessi architetti in un allevamento in Cecoslovacchia, durante un lavoro che avevano svolto pochi anni prima del disastro di Chernobyl, per conto del Giambelli, vero magnate della realtà economica e imprenditoriale locale. Al palazzone omatese erano arrivati per caso. Da tempo lo studio presso il quale avevano avviato l’attività non era più idoneo ai loro numerosi traffici. Erano partiti subito dopo aver finito l’università e per una decina d’anni era stato perfetto. Poi, però, erano bastati gli incartamenti, riguardanti l’amministrazione e gli aspetti burocratici dell’impresa, a far strabordare il bilocale. Gli amici che li andavano a trovare, fra cui le due future mogli, avevano iniziato a dire che il loro studio sembrava una specie di discarica. Non era bello per l’immagine e i potenziali clienti che avrebbero varcato la loro soglia. Si trovava, sempre a Omate, lungo la strada che conduce al cimitero, alla base di un caseggiato risalente alla fine della Prima guerra mondiale. Non c’era stata altra scelta. Se volevano proseguire lungo la loro fortunosa carriera, dovevano per forza cambiare locazione. E questa nuova base di appoggio l’avevano individuata proprio nel condominio omatese - un gigante ideato da un team di architetti modenese, all’avanguardia soprattutto per ciò che concerneva i materiali antisismici - che secondo i piani, avrebbe dovuto sbalordire mezza Lombardia. In realtà si sarebbe poi dimostrato un palazzone né più né meno simile a molti altri del circondario, sorti come funghi all’indomani del boom economico. Ma ormai i due architetti del posto vi avevano gettato l’occhio ed è lì che avevano deciso di andare a parare per dare vita al loro superufficio, nel quale poter ospitare chiunque e dare a chiunque l’impressione di avere a che fare con due figure di primo piano, dal tiro tipicamente americano. Contattato infatti il legittimo proprietario – il novarese padrone anche dell’asilo di Vanessa -  non si erano accontentati di sapere che l’appartamento B dell’ultimo piano sarebbe stato a loro completa disposizione: sarebbe stato necessario rimaneggiarlo completamente, conferendogli l’aria più newyorkese possibile.
“Siamo stati nella Grande Mela diversi mesi fa”, aveva raccontato Gaspare, il più borioso dei due, “e ci hanno ospitati in una specie di attico, su Park Avenue: vedevamo mezza America. Ecco, il nostro ufficio vorremmo che rispondesse a questa idea: un immenso open space, circondato da finestroni dai quali rimirare il panorama dall’alto e dare ai nostri ospiti l’impressione, appunto, di trovarsi in USA, che ne so... a Wall Street!”.
“Capisco benissimo ciò che volete dire”, aveva risposto il novarese, entusiasta di trovarsi davanti a tipi del genere, per i quali ogni cosa pareva possibile; “sono stato anch’io negli States e so bene a cosa vi riferite. Io ho visto qualcosa di analogo nella sede di una radio a Dallas: toccavamo letteralmente il cielo con un dito... In ogni caso tutto si può fare... dovete solo spiegarmi nei dettagli come volete realizzare il progetto, così da affrontare un preventivo e...”.
“Beh, per quello possiamo accordarci senza problemi”, aveva proseguito Gaspare, con un sorriso decisamente idiota. “Per quest’occasione abbiamo deciso di non badare a spese. Vero collega?”
Tarcisio aveva annuito, anche lui visibilmente eccitato, ma con la tipica morigeratezza che lo contraddistingueva. Tuttavia, nel breve volgere di un mese, ogni cosa era andata a buon fine, con la rivisitazione, da cima a fondo, della planimetria dell’appartamento B del settimo piano; l’ingaggio di una super impresa di costruzioni che avrebbe consentito di portare a termine i lavori nel minor tempo possibile; la pattuizione della cifra necessaria a coprire ogni spesa; e addirittura il saldo delle prime tre rate dell’affitto. Più di così non si poteva fare. Dopo qualche settimana, dunque, c’era stata l’inaugurazione del superufficio, avvenuta quando gli altri condomini erano già quasi tutti sistemati (e perfino la casa dei Vismara pareva una dimora signorile). I vari nuclei familiari avevano seguito con curiosità l’andirivieni di personaggi più o meno noti dell’establishment locale, un po’ come accade durante i matrimoni. Era arrivato perfino Giuseppe Bergomi, il terzino dell’Inter, coinvolto in funzione di uno sponsor che si sarebbe dovuto esibire in un nuovo villaggio sorto dalle parti di Besana Brianza, riportante anche la firma dei due geniali omatesi. Nel vederlo qualcuno aveva gridato dalla finestra di “cambiare squadra”. Beppe aveva regalato al misterioso interlocutore un sorriso indulgente. Durante una pausa di silenzio il novarese aveva preso la parola, ribadendo pubblicamente il piacere di poter chiudere affari con persone di grande spessore umano e imprenditoriale come i due inquilini del settimo piano.
“Gli architetti Tarcisio e Flaminio dello Studio Cinque!”, aveva esclamato, avviando uno dei tanti brindisi. Aveva stretto vigorosamente la mano entrambi, invitando i presenti a congratularsi con essi per l’ottima scelta fatta, sottintendendo che, nel cuore della Brianza, un ufficio del genere, non avrebbe potuto far che bene all’attività di due architetti già piuttosto in voga, ma non meno all’immagine del territorio. Le cose, in effetti, erano partite egregiamente, con un incremento subitaneo dei lavori e, dunque, un ulteriore aumento dei guadagni. Nel giro di pochi mesi Tarcisio e Flaminio avevano dovuto ingaggiare una sorta di passacarte, un garzone. Era un ragazzetto, con i capelli ricci e le lentiggini, da poco divenuto geometra, che avrebbe dovuto, in pratica, assolvere tutti i lavori più ingrati, fra cui quello di rispondere alle numerose telefonate che arrivavano allo Studio Cinque. Non era durato molto. Dopo un anno avevano dovuto cercarne un altro, che era resistito ancor meno, fino ad assoldare definitivamente Maria Grazia Pulella, una factotum tanto laboriosa e silenziosa, quanto piacente e con un seno da maggiorata al quale in pochi avrebbero saputo resistere: certi privati danarosi arrivavano a firmare quasi a scatola chiusa, pur di potersi trovare periodicamente davanti a tutto quel ben di dio. Erano giornate lunghissime, si partiva alle nove, e si finiva quando capitava. Spesso anche dopo cena. 
“Le giornate dovrebbero durare quarantotto ore”, reclamava Maria Grazia.
Con l’esplosione di Chernobyl, però, il superufficio non era più quello di un tempo; era invecchiato insieme ai suoi inquilini, benché non avesse smesso di produrre palate di quattrini. Si dia infatti il caso che, con gli anni Ottanta e la Milano da Bere, era stato ancora più facile raggiungere accordi per elaborare i progetti più sofisticati, lunghi da realizzarsi, ma anche più remunerativi. Giravano un sacco di soldi e - anche se il mondo sembrava sempre più sul punto di una nuova guerra mondiale - vigeva la convinzione che chiunque volesse farcela, ce l’avrebbe potuta fare: bastava solo un po’ di classe, abilità e... quel sano cinismo che a partire dagli anni Novanta avrebbe assunto un significato ben più spiccio: stronzaggine. Rispetto agli esordi erano state fatte pochissime modifiche per cui, entrando nel superufficio, l’impressione era sempre quella di compiere un viaggio negli anni Settanta, se non addirittura nei Sessanta. Il tutto era ampliato dal fatto che, di sottofondo, andava spesso qualche disco leggendario con cui i due capi erano cresciuti, e proprio in riferimento a quell'epoca aveva fatto furore. Tarcisio era un patito di Neil Young, Flaminio dei Pink Floyd. A entrambi andavano i Fleetwood Mac e Bob Dylan. Maria grazia non faceva testo: si piegava al volere dei principali senza mai controbattere, anche perché i suoi gusti erano di un’altra galassia. L’unica reale aggiunta degli ultimi tempi era stato il televisore, che era stato posizionato all’ingresso del superufficio, davanti al divano per gli ospiti e i clienti più in vista. Grazie a esso avevano potuto assistere in diretta alla notizia del patatrac ucraino. Era partita la sigla delle 20.00, mentre i tre stavano compiendo le ultime operazioni prima di far ritorno a casa. Ma lo sguardo funereo dello speaker, e la frase “disastro nucleare”, aveva bloccato tutti. Flaminio aveva rimesso la ventiquattro ore sulla poltrona; Tarcisio aveva indossato di nuovo gli occhiali del lavoro; Maria Grazia s’era lasciata alle spalle l’idea di dover correre dall’amica del cuore, Katia Riccobono, per dedicare tutta se stessa a quella che sembrava una notizia a dir poco inusuale. Per i primi dieci minuti non aveva fiatato nessuno, ritrovandosi impotenti davanti alla sciagura. Non ricordavano di avere mai assistito a uno scempio del genere nel corso della propria vita.
“E’ pazzesco”, aveva sibilato Tarcisio.
“Scandaloso”, aveva ribattuto il socio.
“Dal dopoguerra credo che non si sia mai verificato un evento di questa portata”.
“E se escludiamo le bombe atomiche...”.
Maria Grazia era la più spaventata.
“Speriamo di non finire contaminati dalla nube di veleno. Le onde radioattive possono uccidere in pochi secondi...”.
Tarcisio e Flaminio s’erano guardati strabuzzando gli occhi. Forse la loro subalterna stava un po’ esagerando; ma era una donna, si poteva capire.
“Non credo ci siano i presupposti perché la nube tossica possa giungere fino a noi”, aveva detto Flaminio.
“In effetti, l’Ucraina non è proprio dietro l’angolo”, gli aveva dato man forte Tarcisio.
“Non è così lontana”, aveva detto Maria Grazia. “Sarà né più, né meno, come andare a Palermo”.
Non aveva tutti i torti. Ma i due soci non le avevano dato retta.
“Puttana Eva”, era stato l’unico altro commento rilasciato dal duo di architetti. Poi, però, insieme avevano riflettuto sul fatto che, per dei figli della guerra quali erano, non sarebbe stato il caso di preoccuparsi oltre il dovuto. Loro erano ancora piccoli, ma si ricordavano molto bene, quando a Milano dovevano fuggire nelle cantine per salvarsi dai bombardamenti. I grandi piangevano disperati, e pregavano tutti i santi del paradiso per scampare agli attacchi dal cielo. Se erano scampati alle bombe dei tedeschi, voleva dire che sarebbero scampati a ogni altra cosa. Per Flaminio la cosa era finita lì e nel giro di pochi minuti aveva già riacquistato il sorriso, pronto a riabbracciare le strade di Omate per il rientro. Ma per Tarcisio non era stato lo stesso. L’esplosione di Chernobyl l’aveva stuzzicato nel profondo, lasciandolo per un attimo senza aria. La sua mente, stanca per la giornata lavorativa, era ritornata attiva, per ragionare sulla caducità umana, e sul fatto che basta un niente, un pulsante pigiato innocentemente, per ridurre in briciole ogni cosa. S’era messo a pensare al suo futuro sempre più risicato, al tempo che passa come un siluro, alle stagioni che se ne vanno, alle belle stagioni che non tornano più... Di fatto, ormai, non erano più dei ragazzini. Non lo erano già da parecchio tempo. Aveva l’impressione di avere vissuto più vite. Il passato non era più il passato, ma una dimensione parallela. Come se da qualche altra parte nel cosmo, nell’etere?, il passato avesse potuto continuare a essere passato, sottoforma, però, di presente. Un’ipotesi suggestiva, ma la realtà era ben diversa. Non erano più i leoni di una volta, forti, sicuri, decisi, come quando avevano incontrato il novarese (che nel frattempo era scomparso e aveva lasciato tutto in eredità ai figli), dando vita a un’esperienza professionale invidiabile. Aveva anche lui i suoi acciacchi, come prima di lui li avevano avuti suo padre e suo nonno.
“E’ una ruota che gira”, diceva sempre il vecchio di casa.
E ora, dunque, era arrivato il suo turno. L’uomo, sopraffatto dalla malinconia, s’era accomodato sul divano per dedicare la massima attenzione alla notizia. Voleva capire dal punto di vista tecnico come una centrale nucleare potesse saltare in aria all’improvviso; quali fossero i presupposti perché un reattore non funzionasse più come si deve, al punto da provocare un danno di simile portata, con l’emissione di ondate di atomi radioattivi. Voleva capire se il circuito di un reattore atomico potesse concettualmente essere assimilato alle coronarie del suo cuore; se, in entrambi i casi, sarebbe bastato così poco per...Voleva capire, ma non capiva, forse perché non c’era molto da capire... o ce n’era fin troppo; come troppo era interrogarsi su qualunque mistero riguardante la vita e l’universo, misteri per i quali non ci sarà mai risposta o, semplicemente, per i quali i nostri cervelli non sono tarati. Più prosaicamente domandava a se stesso perché a un certo punto le cose, come le persone, perdono la loro funzionalità e non ripartono più come prima. Chi si nascondeva dietro agli ingranaggi di una centrale nucleare e chi dietro a quelli di un banale respiro? Dopotutto anche l’uomo era una specie di macchina, una specie di... centrale nucleare. A un certo punto faceva “clic”, e saltava per aria. Non era una prospettiva così accattivante. Chernobyl diventava così la metafora della vita degli uomini, della sua stessa vita. Flaminio, però, sembrava del tutto lontano da simili ragionamenti. D’altronde lui non s’era mai preoccupato veramente di certi aspetti filosofici dell’esistenza. Era una mente brillante come quella del socio, ma molto meno propensa a fantasticare su sogni così lontani e impalpabili. S’era quindi congedato dall’amico di sempre e dalla segretaria con uno sbrigativo, quanto drammatico, commento:
“Beh, ragazzi, io vi saluto. Spero di non beccarmi un’ondata di radiazioni...”.
Maria Grazia, invece, nonostante la seria possibilità che l’amica Riccobono per via dell’attesa la potesse mandare a quel paese, aveva deciso di rimanere ancora un po’, per tentare di alleviare l’agonia del suo capo preferito. Gli si era seduta accanto fissandolo di traverso, cercando di capire se fosse il caso o meno di stringergli affettuosamente la mano. Alla fine aveva lasciato perdere. Arrivati alla loro età... Non voleva essere fraintesa o addirittura fraintendere se stessa. Erano rimasti a guardare la tv per tutto il tempo dedicato alla notizia su Chernobyl: lo speaker aveva spiegato che i russi avevano fatto di tutto per ridimensionare il problema, ma le indagini satellitari condotte anche dagli americani non lasciavano dubbi sulla drammaticità dell’accaduto. Alla fine Tarcisio, apparentemente indifferente alla presenza di Maria Grazia, aveva abbandonato il sofà per raggiungere l’immenso finestrone che si apriva sul vimercatese, offrendo una specie di spettacolo cinematografico a tre dimensioni. Tarcisio aveva l’aria pensierosa, mentre fissava la radura del principe Trivulzio e il verde che con stoicismo ammantava il corso del Molgora. Maria Grazia, ancora una volta, l’aveva raggiunto per vedere se poteva essergli di conforto. Ma l’uomo era, visibilmente, altrove.
“Signor Tarcisio, va tutto bene?”.
L’architetto non aveva risposto subito, volendo prima finire il ragionamento sul quale si era inerpicato. Si stava domandando chi sarebbe stato se non fosse diventato il ricco e intraprendente professionista che tutti conoscevano. In pratica, per la prima volta in vita sua, si stava guardando dentro per scoprire se si piaceva veramente o se si era semplicemente innamorato dell’idea che gli altri s’erano fatti di lui. Crescere circondato da persone dalla lusinga facile e gratuita, del resto, non doveva essere stata sempre una buona cosa. Poteva essere finito col credere in una realtà fittizia, costruita ad arte da individui intenti solo a ricavare il proprio tornaconto. Era così dalla notte dei tempi, sarebbe potuto essere così anche per lui. Peraltro le cose gli erano sempre andate bene, era sempre stato fortunato, aveva sempre avuto tutti i soldi che voleva e non aveva mai sofferto di problemi di salute. Davanti a tanta benevolenza poteva non essere lontano il rischio di precipitare dall’oggi al domani, senza più avere i mezzi per rialzarsi; giacché l’esperienza insegnava che questi stratagemmi potevano essere a esclusivo appannaggio di chi la vita l’aveva sempre subita, nelle ristrettezze, o in condizioni familiari o salutari penose. Era, dunque, possibilissimo che lui non fosse il grande uomo che tutti immaginavano e in cui lui stesso credeva; così come era del tutto plausibile che, ormai entrato nella terza età, fosse davvero giunto il momento di dover fare i conti con la provvisorietà umana e col fatto che, in fondo, ogni cosa, compresa la più bella opera d’arte, compresi i più intriganti progetti dello Studio Cinque, non fossero che un minuscolo e velleitario tentativo di strappare alle stelle un barlume di eternità. Alla fine, però, rimirando il verde trivulziano e ormai dimentico del motivo che l’aveva spinto fin lì, si era dovuto arrendere, conscio del fatto che non sarebbe mai riuscito a dare un senso a certe elucubrazioni.  Ma avrebbe almeno trovato il coraggio di rivelare a Maria Grazia un segreto che da sempre teneva in serbo e che solo ora, davanti alla tragedia di Chernobyl, perdeva la sua aria compromettente. 
“Sa che non le ho mai confidato una cosa...”, aveva attaccato.
Maria Grazia l’aveva guardato con aria compassionevole.
“Di che si tratta architetto?”.
“Da quanti anni è che lavoriamo insieme?”.
“Parecchi anni. Temo di aver perso il conto... non ho mai fatto il conto...”.
“Non ha importanza... ma lo sa che da quando s’è presentata nel nostro ufficio...”.
Tarcisio aveva ritratto lo sguardo dall’orizzonte del vimercatese, ponendolo con vivido coinvolgimento sul volto della dipendente.
“Da quando s’è presentato nel nostro ufficio non ho mai smesso di desiderarla”.
Maria Grazia aveva tirato un grosso sospiro e per sedare l’imbarazzo s’era sistemata la gonna con una manata goffa. Aveva gli occhi lucidi, ma non per quel che le era appena stato rivelato, bensì per il fatto che anche per lei era sempre stata la stessa cosa. Anche lei, infatti, l’aveva da sempre amato in silenzio e nel riserbo più totale. Anche lei avrebbe mille e mille volte voluto fermarsi da sola con lui, per inventarsi una nuova storia d’amore, e immaginarsi un avvenire diverso da quello previsto: completamente dedito alla famiglia e al marito, per il quale ormai non provava che semplice affetto, alla stregua di quello nutrito per il fratello che abitava in meridione e che a costo di migrare al nord, come aveva fatto la sorella, si sarebbe fatto accoltellare dal primo malavitoso incontrato per strada.
“Io e mio marito ci siamo messi insieme quando eravamo ancora ragazzini”, era partita Maria Grazia, abbandonando la sua postazione e mettendosi a camminare avanti e indietro di fronte al divano, lasciando intuire che il racconto non sarebbe stato breve. “Mi veniva a prendere in motorino a scuola. Aveva solo un paio d’anni più di me, ma mi sembrava così grande e così sicuro di sé. Me ne innamorai all’istante. Ci siamo sposati che avevo appena compiuto diciannove anni. Al matrimonio c’erano più di duecento persone, per i tempi, un vero record. La tavolata dei miei parenti era quella più casinista. Mio padre, alla fine della cerimonia, era completamente ubriaco, e con lui, tutti i suoi fratelli: erano in dieci. Mio marito mi guardava colmo di gioia, e anche a me sembrava di vivere il giorno più bello della mia vita. Non avevo mai ricevuto così tante attenzioni e vestivo uno degli abiti più belli che si potesse immaginare. Ero al settimo cielo. Ma ero giovane, troppo giovane”.
Tarcisio la inseguiva con curiosità, del tutto impreparato a quella replica verbosa. Non capiva cosa c’entrasse tutto ciò con la dichiarazione che le aveva appena fatto. Ma non avrebbe dovuto aspettare molto per capire.
“Da lì a poco abbiamo avuto Simone e nei tre anni successivi, gli altri due, Aristide e Calimero. Non è stata una scelta. Sono capitati. Evidentemente era giusto che capitassero. Facevano tutti così. Si sposavano, mettevano al mondo due o tre pargoli, e stop. La vita finiva. Ma io non volevo che finisse, avevo ancora tante energie e tanta voglia di... divertirmi. Ma mi sono ritrovata vecchia senza nemmeno accorgermi e, a tal punto, lo spazio per recuperare il tempo andato non c’era più. Erano passati gli anni del divertimento. Sarei stata ridicola mettermi a fare quello che non avevo fatto quand’ero giovane: prima erano stati i pannolini, i ciucci, i seggioloni, il passeggino... poi le borse della spesa, i quaderni di scuola, le corse in farmacia, il bucato, la messa della domenica... finché non ha iniziato a prendere consistenza nel mio animo la convinzione, il rammarico, di essere stata defraudata, derubata... derubata della mia giovinezza, delle corse in bicicletta con le cugine, delle gite al parco con le amiche, delle letture femministe con le compagne di scuola: da bambina ero diventata donna, senza mai essere stata una ragazza. Avevo completamente saltato una fase dell’esistenza. E il colmo... il colmo era che non potevo incolpare nessuno, se non me stessa. Nessuno mi aveva obbligato a sposare Sandro; nessuno mi aveva obbligata a mettere al mondo tre figli. Le cose potevano andare diversamente, ma io non ho fatto nulla per contrastare il destino. Ho subito. Ho subito l’esistenza... finché non ho incontrato lei”.
Maria Grazia aveva alzato gli occhi al soffitto, mimando un’espressione di beatitudine.
“Finché non ho incontrato lei...”.
“Me?”, aveva domandato eccitato Tarcisio.
“Lei non si è mai accorto di nulla, ma... è proprio lavorando al suo fianco che ho ritrovato quella ragazza che non sono mai stata. Amandola in silenzio, nel riserbo più assoluto, non vedendo l’ora che arrivasse il lunedì mattina per tornare in ufficio, osservando le tante camicie che alternava, commentando fra me e me quelle che le stavano meglio, odorando il suo profumo ogni volta che mi affiancava per un lavoro, immaginando... immaginando come sarebbe stata la mia vita al fianco di un uomo come lei, forte e sicuro, ma altrettanto dolce e profondo. Con lei sono ridiventata ragazza, vestendo i panni di una giovane timida che non trova il coraggio di confessare il suo amore al compagno di scuola; e che per questo motivo soffre, romanticamente, nel mutismo più assoluto, e sogna, sogna di poter stare tutta la vita col suo principe azzurro, di andare a letto con lui, di accarezzarlo, curarlo, lavargli i vestiti... Grazie a lei sono stata quella che non ero mai riuscita a essere”.
Tarcisio era allibito dal fatto di non essersi mai accorto di niente. Aveva notato, sì, qualche volta, delle attenzioni nei suoi riguardi, più di quanto non capitasse con il socio, ma da qui a pensare che Maria Grazia potesse essersi innamorata di lui... gli pareva pura follia. E invece era quel che era accaduto. Si sentiva da una parte orgoglioso e felice, ma dall’altra si chiedeva se non si fosse perso qualcosa di davvero importante. Per lui Maria Grazia aveva soprattutto un valore di natura carnale; l’aveva sempre apprezzata come donna, segretaria: era gentile, affabile, intelligente; ma Tarcisio amava sua moglie e i suoi figli, non li avrebbe sostituiti con nessun altra. Per Maria Grazia nutriva un sentimento perlopiù di natura fisica: insomma, ci sarebbe andato a letto più che volentieri, era questo in fin dei conti ciò che le aveva appena confidato; pur senza aggiungere che nei suoi sogni più intimi l’evento si fosse già verificato innumerevoli volte. Però non si capacitava del fatto che questo ardore reciproco potesse essere rimasto in sordina per così tanti anni. Non gli pareva credibile. Con tutte le cose che avevano fatto insieme, con tutte le volte che avevano fatto tardi uno di fianco all’altro... con tutte le volte che lui l’aveva accompagnata a casa. Porca miseria: l’aveva accompagnata a casa un mucchio di volte!
“Perché non mi ha mai detto niente?”, aveva domandato.
“Forse per lo stesso motivo per cui lei non ha mai confidato a me il suo desiderio”.
Per un attimo era calato il silenzio, più o meno in corrispondenza con la fine del telegiornale e i saluti laconici dello speaker. I loro pensieri non avevano più nulla da spartire con il disastro ucraino, che ormai era finito nel dimenticatoio. Le loro vite avevano avuto il sopravvento. Erano entrambi sbalorditi per ciò che si erano appena confidati. Erano rimasti per anni e anni innamorati l’uno dell’altro - seppur in modo diverso, con diverse finalità - senza, però, avere mai avuto il coraggio di aprirsi, farsi avanti per tentare di risolvere una situazione oggettivamente imbarazzante. Solo ora avevano chiarito ogni cosa, e c’era voluto un disastro nucleare e la percezione della provvisorietà umana a gettare la carne sul fuoco. Ma non era stato un caso. Solo ora, infatti, potevano ritenersi al sicuro; sicuri che non ci sarebbe stato più alcun pericolo di innescare chissà quali tumulti del cuore. I bei tempi, per entrambi, erano finiti: iniziare alla loro età una storia fedifraga avrebbe fatto soltanto ridere e non sarebbe valsa la pena disintegrare in pochi istanti tutto ciò che, nel bene e nel male, era stato costruito fino a quel momento; era un'accettazione palese, come palese era l’annuale palio degli asini a Omate, con la sfida delle quattro contrade e la necessità di trovare all’ultimo dei fantini disposti a gareggiare e farsi prendere in giro da migliaia di persone. Tarcisio continuava a fissare la sua interlocutrice che, nel frattempo, aveva smesso di agitarsi come una tarantolata ed era tornata ad accomodarsi sul divano; la osservava con un piglio diverso dal solito: un misto fra gioia, malinconia... e commiserazione. L’aveva trovata ancora bellissima, proprio come il primo giorno che s’era presentata per il colloquio di lavoro. Certamente non era più una giovinetta, aveva messo su diversi chili, i fianchi e le caviglie erano tutt’altro che filiformi, sulle mani cominciava ad avere le tipiche macchie scure della senilità; ma il suo viso sensuale era sempre lo stesso, dolce, espressivo, con la pelle liscia e chiara di una ventenne. Aveva fatto caso anche al seno prosperoso sul quale, col socio, ironicamente, tante volte s’era soffermato in privato, sottolineando che senza “quel bel panorama” i clienti sarebbero stati la metà. Quel giorno, peraltro, era messo particolarmente in risalto per via di un bel vestito a fiori che dal busto scendeva fino ai piedi, conferendole un fascino naif, gitano. Non era la prima volta che lo indossava e ogni volta che gli dava sfoggio, era per l’architetto come ascoltare una musica fresca e sconosciuta. Ancora, quindi, era tornato allo stupore di non essersi mai accorto che la donna che aveva avuto di fianco tutti i giorni potesse amarlo. E che se avesse pertanto voluto andare a letto con lei, non avrebbe dovuto far altro che schioccare le dita. Come aveva fatto a essere cieco fino a quel punto? In fondo ne aveva avute tante di donne che gli avevano fatto la corte, non tutte in modo plateale; sapeva quando una donna voleva qualcosa da lui, indipendentemente dall’atteggiamento... Ma s’era sorpreso a ragionare sul fatto che, tutto sommato, era un bene che fosse andata a finire così. Se avessero ceduto alle tentazioni della carne, poi cosa sarebbe accaduto? Dove sarebbero finiti? Quanto e come avrebbero patito e rispettivi partner? E i figli? Era stato bello così...
“Mi viene da pensare che gli amori platonici possano essere i migliori... lei non crede?”.
“Non so”.
“Io dico di sì”.
“Può essere architetto, può essere...”.
Tarcisio s'era mangiucchiato il labbro inferiore.  
“Ormai quel che è stato è stato...”, aveva detto Maria Grazia, “io, certo, non rinnego nulla, ma se potessi tornare indietro...”.
“Cosa?”.
“Non so se mi risposerei”.
“L’avevo intuito dal suo discorso di prima... però ha tre bei ragazzi”.
“Sono tutta la mia vita, è vero, ma... non è stato facile”.
“Non lo è stato neanche per me”.
Maria Grazia e Tarcisio s’erano guardati con le lacrime agli occhi, ma una contentezza nell’intimo che raramente avevano provato. Entrambi avevano i brividi e tremavano come dei teenager alla loro prima uscita. Tarcisio era addirittura agitato e non sapeva bene come sistemare le mani, muovendosi goffamente. Non si capacitavano di poter provare ancora certe emozioni alla loro età. E invece era stato proprio in quel frangente che si erano resi conto dell’inganno del trascorrere delle stagioni: i sentimenti, le gioie e probabilmente anche i dolori, non dipendevano in nessun caso dal trascorrere del tempo, ma solo dalla predisposizione dell’animo, dai singoli approcci esistenziali. Per quanto banale potesse sembrare, si poteva essere molto più giovani a ottanta anni che non a venti. O si poteva essere allo stesso tempo bambini e adulti. La segretaria s’era alzata dal divano, s’era ravviata i capelli come una scolaretta, e dopo aver raccolto la borsetta, s’era avviata alla porta, sperando ancora una volta che il lunedì potesse arrivare in fretta. Una minuscola parte di Tarcisio avrebbe voluto sbarrarle la strada, per stamparle un meraviglioso bacio sulla bocca; poi, però, ancora una volta, il raziocinio aveva avuto il sopravvento su un desiderio tutt’altro che sopito. Per quanto difficile fosse stato, per quanto difficile fosse, sarebbe stato un amore platonico anche dopo quel giorno di luce, il giorno in cui le tenebre calarono su Chernobyl.

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