Lo chiamavano lo scrittore, anche se non aveva mai pubblicato nulla. E un po' lo prendevano per i fondelli, per via dell'aria compassata che lo contraddistingueva, nemmeno fosse stato un novantenne con le spalle cariche di dispiaceri e tristezze. Era invece un giovane di belle speranze, da poco diplomatesi al liceo classico di Oreno e convinto, un giorno, di potere fare, appunto, lo scrittore. Amava alla follia gli scrittori russi ritenendoli dotati di una capacità di narrazione che non aveva eguali. Per la maturità i suoi genitori gli avevano per questo regalato un viaggio a San Pietroburgo. Nella metropoli aveva così potuto affrontare a piedi il tragitto compiuto dal protagonista di Delitto e Castigo di Dostovieskij, a suo dire, un'opera immensa. Aveva fatto visita al civico 5 del vicolo Stolyarny, dove a quanto sembra visse l'autore del testo; e al cortile di una casetta, luogo dell'uccisione dell'usuraia da parte del protagonista del romanzo, Raskolnikov, nei pressi del canale Griboedova, non lontano dalla chiesa del Salvatore sul Sangue Versato. Percorrendo le strade di San Pietroburgo aveva goduto di un sole autunnale gentile, al quale s'era crogiolato nella solitudine più completa, riflettendo sul fatto che l'isolamento dagli uomini e dal mondo fosse la sua dimensione ideale. Aveva già scritto qualcosa che, però, aveva esibito raramente in pubblico. Soffriva di spiccata eritrofobia. Diventava rosso e la sua diffidenza era dovuta anche al fatto che non ritenesse nessuno veramente degno di poter apprezzare e valutare correttamente i suoi lavori; tranne forse un vecchio professore del liceo che l'aveva spinto a cullare la sua fame letteraria. Non erano scritti male, per un ventenne senza esperienza; c'erano, però – avrebbe detto un qualunque critico letterario, compreso il mentore del ragazzo - dei passaggi un po' troppo arzigogolati. Possedeva una prosa eccessivamente verbosa, prolissa, talmente piena di aggettivi e di termini antiquati che certe volte non si capiva dove volesse andare a parare. Ma in qualche modo aveva stoffa, tanto che, se fosse finito in buone mani, o alla corte di qualche lungimirante editore, non è escluso che avrebbe potuto farsi strada, anche se così giovane. Ultimamente stava lavorando a una sorta di romanzo corale o saga popolare, comunque lo si voglia chiamare, e i protagonisti del racconto erano proprio gli abitanti del palazzone omatese: i suoi vicini di casa. Non li conosceva uno a uno familiarmente, tuttavia amava osservarli sottecchi, senza mai mostrarsi apertamente, riuscendo infine a elaborare dei microcosmi esistenziali affascinanti per la loro naturalezza, e per il verismo che ne scaturiva. Aveva pensato di dedicare a ognuno di essi un capitolo. In parte aveva preso spunto da Georges Perec, che aveva letto pochi mesi prima dell'esame di maturità. Certo, Perec, non era amabile come un russo, ma riconosceva la sua genialità; benché aggiungesse, ovunque gli capitasse di parlarne, che nessuno avrebbe potuto eguagliare un romanzo popolare come il grandissimo Gogol. Era partito con quelli del primo piano, vale a dire Andrea Canali e la sua famiglia. Descrivendoli minuziosamente dal punto di vista fisico, aveva sottolineato il fatto che, con molta probabilità, fra i due adulti non corresse buon sangue. Era arrivato a questa conclusione dopo aver notato per mesi e mesi la loquacità e l'ottimismo del capofamiglia; la sua tendenza a chiacchierare con chiunque gli capitasse a tiro, dando l'impressione di non avere più una moglie con cui condividere la quotidianità; di contro osservava la coniuge perennemente assorta, come in un altro mondo, rapita da preoccupazioni che solo lei avrebbe saputo evidenziare. Ma non avrebbe mai detto che la coppia fosse addirittura prossima al divorzio. E si era concentrato sui figli, con i quali non aveva il minimo rapporto. Riteneva la figlia dei Canali, Cristina, un po' stupida, leggera, sciocca, e il figlio troppo piccolo per poter essere giudicato. Dai Canali era passato ai Vismara, coi quali era stato tutt'altro che benevolo. Dall'alto della sua cultura umanistica, li considerava come delle bestie immonde, indegne di tutto e tutti. Li disprezzava. Non capiva come si potesse vivere così sciattamente, dal punto di vista fisico e mentale, senza nessun interesse per il mondo che li circondava. Gli sembravano, davvero, degli animali. Odiava, in particolare, con tutte le sue forze, la figlia Amanda, che più che a una donna associava a una specie di uomo travestito. In un passo aveva esplicitamente marcato che le sarebbero mancati solo i baffi per completare l'opera. Per Guido Sangalli, in compenso - dell'appartamento attiguo – nutriva ammirazione. Lo trovava un ragazzino a modo, studioso e timido quanto basta per potere essere assimilato a se stesso o alla biografia di qualche grande scrittore o scienziato. Non lo frequentava, anche per via della differenza di età, tuttavia s'era fermato più volte con lui a scambiare due parole in cortile, venendo a conoscenza del suo amore per le scienze naturali, e in particolare per la botanica. Non gli sarebbe dispiaciuto un domani potere uscire con lui per qualche escursione a sfondo “culturale”, ma anche semplicemente per bersi una birra. Era un tipo che rispettava la sua lunghezza d'onda e con cui si sarebbe potuto trovare bene. Dopodiché era arrivato a Cinzia Gariboldi, della quale non aveva detto molto. La conosceva pochissimo. La scorgeva andare e venire, in silenzio, dal condominio omatese, come un passerotto fragile. Si vedeva, però, che faceva parte di una famiglia aristocratica. Era sempre vestita a puntino, ordinata e pulita. Aveva dei genitori che davano l'aria di avere molti soldi. Anche per via delle automobili che possedevano. Non nutriva per lei particolare interesse, ma nemmeno avversione. A malapena si salutavano. Sapeva, in ogni caso, che da un po' di tempo a questa parte andava a farle visita un signorotto pimpante e allegro col quale, a quanto dicevano i pettegolezzi, sarebbe presto convolata a nozze; lo sospettava, l'aveva scritto, senza però avere avuto alcuna conferma, se non, appunto, da qualche voce girovagante. Su Maurizio Meroni, invece, s'era soffermato per qualche capoverso in più. Sapeva della sua amicizia con Guido e della sua famiglia incasinata. Sentiva i Meroni gridare come mandriani, specialmente d'estate, quando le finestre rimanevano aperte, per le cose più insulse. Era un'accozzaglia di donne che petulava in continuazione, per gli aspetti più assurdi e banali dell'esistenza. Se pioveva non andava bene perché pioveva, se c'era il sole non andava bene perché faceva troppo caldo. E via dicendo. Su Maurizio, però, aveva tenuto in serbo un fatto che s'era verificato un paio di anni prima dell'esplosione di Chernobyl, che l'aveva disgustato a tal punto da non riuscire a trattare l'argomento nel suo romanzo corale. Si dia, infatti, il caso che Alessandro Martini avesse scorto Maurizio in compagnia di Fabio Valenti – il ragazzo dell'appartamento D del sesto piano - nelle cantine del condominio omatese, in una posa quantomeno sospetta. Valenti era in ginocchio, mentre Maurizio si appoggiava al muro con le brache calate. Alessandro era sceso in cantina per recuperare un paio di bottiglie di vino e per caso il suo occhio era finito oltre la fessura della porta del locale privato della famiglia Meroni, scoprendo la tresca. Non aveva nulla contro i gay – anche se non si era mai posto seriamente il problema - ma scorgere due suoi potenziali amici in quelle condizioni gli aveva provocato un conato di vomito, seguito immediatamente dalla necessità di sparire il più in fretta possibile per non farsi beccare. Sicché, nella sua saga, aveva raccontato molti aspetti della vita di Maurizio e delle sue donne, ma trascurando quello forse più piccante. Era poi andato avanti con Domenico Ciccarelli e Daniele Bettini. Per il primo nutriva scarsissima stima, per il secondo, molta di più. Il primo lo trovava inutile e insignificante. Basso, tarchiatello, con gli occhi oftalmici e la sigaretta sempre accesa, gli pareva un individuo inutile e insulso. Non lo considerava alla stregua di Amanda Vismara, ma poco ci mancava. Non si fermavano mai a parlare. Lo vedeva andare a venire, vestito come capitava, con i colori abbinati in modo disastroso. Quasi sempre solo. Per questo aveva supposto che non esistessero donne nella sua vita, a parte sua madre, che fotografava quasi tutti i giorni aggirarsi trafelata per le scale del condominio, magra come una sogliola rinsecchita. Con il giornalista, invece, era diverso. Solo il fatto di vederlo così frequentemente con in mano una pila di giornali, lo portava a considerarlo una persona di assoluto rigore e intelligenza. Anche con lui, però, non era stato in grado di instaurare un rapporto, giustificandosi col fatto che l'uomo avesse quasi vent'anni in più di lui, con un temperamento taciturno e sfuggente. Non sapeva e nemmeno immaginava che potesse essere segretamente innamorato della Gariboldi. A tal punto era giunto alla famiglia Villa, senza dilungarsi più di tanto. Non era granché interessato a questo nucleo familiare. Vedeva lei sempre sorridente e con l'aria maliziosa (nonostante l'età non proprio in linea con gli atteggiamenti civettuoli) e il marito, al contrario, quasi sempre ombroso e abbacchiato. All'improvviso s'era accorto di un tipo cicciottello che andava a fare visita alla coppia, ma non era stato in grado di comprendere che relazione avesse con i due. Alessandro non aveva comunque minimamente sospettato che fra Ada e il misterioso intruso potesse esserci una storia d'amore. Non credeva, in generale, che dei settantenni potessero avere una storia d'amore, e tanto meno di sesso, ma evidentemente si sbagliava. Grande spazio aveva, invece, dato a Marina Tresoldi, per la quale provava un debole. Anzi: si può dire che gli piacesse nel vero senso del termine, ma in nessun caso le avrebbe rivelato i suoi sentimenti, che, peraltro, erano poco chiari anche a lui. Non avrebbe mai detto di amarla, ma sul suo conto s'era fatto numerosi film, specialmente di natura erotica. Si chiudeva in camera e cominciava a fantasticare – magari col sottofondo di un brano musicale tipo I Won't Let You Down, di Ph. D. - immaginandola al suo cospetto che lo obbligava a un rapporto selvaggio. Il problema è che la trovava troppo maledetta per i suoi gusti e per il suo stile. E, dato non trascurabile, era convinto che lei lo considerasse uno sfigato; un tipo col quale non avere niente a che fare. Ogni volta che la incontrava diventava rosso come un peperone e, anziché trovare un pretesto per attirarla, invitarla da qualche parte, marciava dritto per la sua strada, facendo finta di non essere interessato a lei; facendo addirittura finta che potesse essergli indifferente. In realtà sapeva molte cose di lei. Sapeva che era molto amica della Cristina del primo piano, e sapeva che le piaceva accompagnarsi con ceffi per lui disdicevoli, tipo l'ultimo della lista, che – benché di bell'aspetto – sembrava sempre che gli fosse appena passato sopra un carro armato. Non avrebbe mai sospettato che potesse dipendere gravemente dall'eroina, ma aveva supposto che fra i due ci potesse essere una passione sessuale senza freni. Nel capitolo dedicato a Marina s'era anche immaginato un amplesso fra i due, con lei gli montava sopra ansimando come una cavalla imbizzarrita. Alla fine della descrizione dell'alcova, s'era ritrovato con le mani sudate e il cuore palpitante, rendendosi conto che avrebbe voluto essere lui al posto del suo protagonista. Avanti di questo passo era arrivato a Fabiano Sirtori di cui aveva parlato con un certo distacco, soffermandosi perlopiù sul suo modo di vestire, quasi sempre sciatto e trasandato. Ma non provava per lui avversione, come per i Vismara o Domenico. In fondo gli piaceva come tipo, ma capiva di non avere alcunché in comune con lui. Non ci sarebbe stata storia fra loro. Era stato vago anche sulla sua ragazza e la loro figlioletta, della quale aveva descritto con tenerezza lo sguardo docile e malinconico, tipico di chi vive con genitori che non si sa se sarebbero arrivati insieme alla primavera successiva. Non aveva percepito se le cose non stessero effettivamente andando bene fra i due coniugi, tuttavia s'era convinto che chi andava in giro con una maglietta con incisa la faccia di Morrissey, non potesse essere protagonista di un matrimonio felice. Il distacco da una narrazione vivida e appassionata – tipo quella dedicata alla Tresoldi - s'era mantenuto anche durante i racconti dedicati a Glauco Zanetti e a Delphine Boucherie. Di Glauco s'era limitato a dire che viveva con una donna anziana quanto lui, con la quale girava spesso in bicicletta. Li vedeva partire e tornare dal palazzone con la rassegnazione di chi non si aspetta più grandi cose dalla vita, ma tira avanti per il semplice fatto di respirare, senza grandi ambizioni o desideri. Aveva notato che parlavano poco anche tra loro, dando l'impressione di vivere una storia ormai spenta. La verità è che gli Zanetti venivano da lontano, e non avevano mai familiarizzato con la realtà locale. Sul tema s'era incistato ripensando alle volte che aveva sentito i suoi genitori usare la parola “forestiero”, per designare le persone che non erano native di Omate o del circondario, ma venivano da regioni diverse. Comprendeva, dunque, le difficoltà che dovevano avere vissuto famiglie come quella degli Zanetti, costrette a farsi largo in un mondo subliminalmente ostile, con retroscena culturali e sociali differenti. Comprendeva la loro difficoltà a integrarsi, a muoversi, pensare e respirare come un brianzolo doc, qual era il futuro scrittore. Gli era anche venuto in mente di quel cartello letto da piccino in una corte milanese nel quale veniva riportata la frase “non si affitta ai meridionali”. Lui non aveva niente contro i forestieri, ma sarebbe falso ammettere che non fosse pervaso da una vivida insofferenza nei confronti di chi non veniva dalla sua zona; come se chi venisse da fuori fosse in qualche modo più stupido degli altri. Non provava intolleranza per gli Zanetti, ma per molti altri sì. E un po', di ciò, nel suo intimo, a onor del vero, si vergognava. Per Delphine, però, non provava questa idiosincrasia, anche perché, va precisato, non tutti i forestieri venivano visti come individui di serie B, ma solo quelli provenienti dall'Italia, da est come gli Zanetti, o dal sud come... i terroni. Delphine era invece francese e quindi con una marcia in più. E in ogni caso godeva della sua penna felice perché era una ragazza dolce e fascinosa, non conturbante come Marina Tresoldi, ma in ogni caso ben in grado di stuzzicare la sua fantasia non solo creativa. Di fatto, però, la riteneva una delle persone più enigmatiche del condominio. Mite, silenziosa, con lo sguardo incantato, la carnagione chiarissima, sembrava una specie di extraterrestre. Più ancora della sua alter ego del primo piano, Cinzia Gariboldi, anch'essa così delicata e parsimoniosa nell'esprimersi a livello affettivo. Da qui era passato ad Antonello Grasso e al de Santis, spendendo un mucchio di parole, soprattutto sul primo che, letteralmente, odiava. Era la persona che odiava di più in tutto il condominio. Non si trattava del semplice disprezzo provato per esempio per i Vismara, qui c'era qualcosa di più contorto. L'odio si mischiava alla paura e al cinico desiderio che potesse un giorno capitargli qualcosa di poco simpatico – per non dire tremendo – tale da strapparlo dal perenne fabbisogno di scaricare sugli altri le sue frustrazioni. Alessandro era, infatti, convinto che fosse così cattivo e violento perché nel suo animo covava una rabbia inaudita, forse dovuta ai burrascosi trascorsi familiari. Non lo salutava neanche. Quando lo vedeva, ruotava la testa da un'altra parte, augurandosi che non gli rivolgesse parola, anche per il serio timore di finire stritolato dalle sue grinfie. Bastava guardarlo in modo da fargli sembrare che si stesse parlando di lui, per mandarlo su tutte le furie, scatenando il suo istinto omicida. Con l'esplosione del reattore di Chernobyl era dunque arrivato a parlare del de Santis, prevedendo di affrontare tutti gli altri condomini e finire il libro entro dicembre. Era un lavoro lungo e metodico, che richiedeva grande pazienza e volontà d'animo; e che doveva incanalare fra i vari impegni che lo occupavano quotidianamente, ai quali non poteva per forza rinunciare, essendo gli unici che gli avrebbero concretamente assicurato un futuro. A volte scriveva di notte. Sul de Santis, però, non aveva avuto molto da dire. Come per tutte le altre persone in là con gli anni, con cui non aveva comprensibilmente terra in comune. Lo vedeva andare in giro leggermente ingobbito, fermarsi davanti alla madonnina delle corte del Forno per una preghiera, fare la spola fra il suo vetusto appartamento e il cimitero. Gli aveva dato l'impressione di essere sempre più chiuso in se stesso, mogio e triste. Si vedeva che non stava bene. Alessandro aveva ipotizzato che non gli sarebbe rimasto molto da vivere se fosse andato avanti così. Alle 20.00 era, dunque, a cena con i suoi genitori e la piccola Ginevra, nata praticamente per sbaglio tre anni prima. La madre aveva passato da un pezzo i quarant'anni, e in molti, compresi i medici, avevano temuto che non fosse in grado di portare a termine una gravidanza. E invece Ginevra era bella, stava bene ed era diventata la gioia della famiglia del sesto piano. Era comparsa l'immagine della centrale nucleare di Chernobyl deflagrata dall'esplosione che aveva immediatamente catturato l'attenzione del ragazzo. La fissava con lo sguardo attonito, domandandosi cosa fosse accaduto di preciso. Era convinto che le centrali nucleari fossero sicure e che anche in caso di incidente i problemi sarebbero stati facilmente risolvibili. Ma non era il quadro che veniva diramato dalla tv. Il quadro, in questo caso, era davvero destabilizzante. Si parlava peraltro di una nube avvelenata che avrebbe presto potuto raggiungere l'Italia e contaminare ogni cosa. L'attenzione era rivolta soprattutto ai più giovani, con una sensibilità maggiore alle radiazioni. C'era il pericolo di assorbirne in eccesso, compromettendo seriamente la salute. Ma a un certo punto, nonostante il prosieguo del tam tam televisivo, la mente di Alessandro era volata altrove, stuzzicato dall'ipotesi che la nube radioattiva avrebbe potuto fare del male non solo a lui, ma anche a tutte le persone che odiava, come Antonello e... Carmen. Carmen Giovanardi era la sua più intima compagna di università che fino a qualche giorno prima avrebbe detto di amare, o quasi. Da qualche giorno, infatti, Carmen gli aveva tolto il saluto e, in pratica, gli aveva dato la chiara impressione di non voler più avere nulla a che fare con lui. Alessandro era sceso dal pero. E aveva cominciato a stare male. Soffriva di un dolore che non avrebbe mai immaginato. Era soprattutto per via del fatto che Carmen non era stata in grado di dargli una spiegazione plausibile del suo comportamento. L'aveva lasciato marcire nel suo brodo senza pietà. Questa era l'unica cosa che lui riusciva a ponderare. I due s'erano conosciuti all'inizio dell'anno accademico, a novembre, ed avevano familiarizzato fin da subito, come accade solo fra chi è contraddistinto da un approccio simile alla vita e alle cose che ci circondano. Entrambi vedevano la possibilità di un futuro insieme ma non sapevano bene come e non se l'erano mai confidati apertamente. Forse non era nemmeno così chiaro a loro stessi questa eventualità. Peraltro Carmen aveva un ragazzo che diceva di non volere lasciare e col quale usciva da quasi quattro anni. Si chiamava Rosario Maffi, un tipo proveniente dalla bergamasca, sempre molto sicuro di sé e con la parlantina sciolta. Era un rappresentante di condizionatori, tipologia di uomo lontana anni luce dal nuovo arrivato. In ogni caso, fra Alessandro e Carmen, era palese che ci fosse del tenero. Lo avevano intuito anche tutti gli altri ragazzi con i quali erano soliti assistere alle lezioni in università. Non era stato difficile accorgersene, anche perché, per i due, ogni momento era buono per isolarsi dalla massa degli studenti e concedersi delle ore romantiche appartati, magari mangiando o passeggiando. Le cose erano andate avanti così per cinque mesi, poi, pochi giorni prima del patatrac di Chernobyl, Carmen non ne aveva più voluto sapere di Alessandro, chiudendogli, come un fulmine a ciel sereno, ogni possibilità di replica.
«Ti prego, fammi almeno capire dove ho sbagliato».
Era il pomeriggio del 21 aprile e dopo una lezione sulla storia romana, stavano percorrendo corso Europa con un gelato in mano. Carmen era dalla mattina che non spiaccicava parola. Non era da lei. Di solito era solare e felice di poter condividere le sue ore con il compagno preferito. Ma non quella mattina. Quel giorno era successo qualcosa che Alessandro non si immaginava minimamente.
«Non ho più niente da dirti», era stata la sua risposta lapidaria.
Lui l'aveva presa malissimo, ed era stato colto da un brivido di ansia. A un certo punto, sollecitato dal passo spedito dell'amica, s'era ritrovato addirittura a inseguirla correndo.
«Spiegami almeno, credo di avere il diritto di sapere. Siamo stati così bene per tutti questi mesi... perché ora ti comporti così?».
Lei era sorda e non aveva altro interesse in quel momento che salire sul pullman per fare ritorno a casa.
«Ale, vaffanculo! Non voglio più vederti! Hai capito?».
Ad Alessandro era venuto da piangere mentre guardava fuori dal finestrino nei pressi della Gobba. Il cielo era mogio, grigio, insensibile, e lui era lì che si arrovellava dal dolore: non poteva accettarlo. Nella vita nessuno era mai arrivato a farlo stare così male, senza alcun apparente motivo. Lo stomaco gli si contorceva dagli spasmi, cosa che non gli era mai accaduta nemmeno nel corso degli esami universitari. Non capiva o non voleva capire? Se lo domandava di continuo, ma non poteva far altro che giungere a rispondersi che non capiva perché, semplicemente, non aveva elementi per poter capire. Era arrivato, pertanto, a ipotizzare che Carmen si fosse all'improvviso innamorata di un altro, che non era Maffi, un tipo, forse, dell'università, un tipo che forse conosceva bene anche lui e che adesso aveva spinto la sua Carmen a liberarsi dello spasimante di troppo. Ma ammessa anche questa possibilità… lui come avrebbe fatto a non accorgersi, visto che erano sempre insieme? Qualcosa, ancora una volta, non tornava. Arrivato al parcheggio, devastato dall'ira, aveva tirato un calcio alla porta che dava sul vano ascensori, inconsapevole della presenza di un addetto alla manutenzione della struttura che aveva anche il compito di controllare che tutto andasse regolarmente. L'uomo l'aveva pesantemente redarguito e lui s'era sentito sprofondare dalla vergogna.
«Sono desolato», gli aveva detto. «Mi rendo conto di aver compiuto un gesto sconsiderato, ma non mi dia la multa. Sto passando un periodaccio, la mia ragazza...».
L'operaio l'aveva guardato con aria vagamente compassionevole ed era tornato al suo lavoro senza battere ciglio. Alessandro era rincasato con una piva di quelle mai viste. I genitori vedendolo con un broncio così pronunciato gli avevano chiesto cosa fosse accaduto in università. Al terzo intervento della madre per poco non l'aveva mandata a quel paese, circostanza che in casa Martini, dove il rispetto per i genitori era qualcosa di sacro, non s'era mai verificata.
«Mamma, ti prego, lasciami in pace. A scuola non ci sono stati problemi. I problemi sono altri».
«Ma io sono tua madre. Posso esserti di aiuto se hai voglia di...».
«Mamma, no. Ti ho detto no. Ho solo voglia di essere lasciato in pace. Mi passerà... non ti preoccupare».
La madre non aveva insistito, permettendo ad Alessandro di rifugiarsi nel suo covo, dove aveva iniziato a scrivere senza criterio, a caso, assecondando le prime parole che gli venivano in mente. Era andato avanti a scrivere senza fermarsi per un paio d'ore, saltando, di netto, la cena. Alla fine aveva riletto il tutto rendendosi conto dell'assurdità dello scritto e della sua totale incomprensibilità. Aveva pensato superficialmente ai poeti della beat generation e alla loro volontà di scrivere a getto, apparentemente senza capo né coda; aveva pensato anche a Tarantula, il libro di Bob Dylan, che gli era sembrato scritto da un analfabeta. Ma certe parole e frasi erano fin troppo eloquenti a suggerire uno stato d'animo non particolarmente felice: rabbia, noia, dolore, coltello infilato nella piaga, angoscia esistenziale, buio, sonnolenza... Alla fine della stesura, però, si sentiva un po' più leggero, sollevato da quel peso abominevole che non conosceva, rincuorato dall'ipotesi che la scrittura potesse davvero essere un toccasana. L'aveva sentito dire anche da Ray Bradbury, durante un recente intervento su Rai3. Era come se fosse rimasta solo la scorza del dolore, pregna di insofferenza, ma in qualche modo sopportabile perché marginale, prosciugata. Il resto se n'era andato, tradotto in parole e pensieri nonsense. Era riuscito in qualche modo a razionalizzare il problema. Se la sua amica del cuore aveva scelto la strada dell'oblio, era perché non aveva capito niente di lui. Questo l'epilogo del suo ragionamento post pomeridiano che gli aveva ridato coraggio e speranza. Era finita? Andava bene così. I giorni successivi erano stati meno pesanti, perché alla fine il raziocinio e la consapevolezza di non avere fatto nulla di male, avevano avuto il sopravvento. Alessandro, in aula, aveva preso a osservare da lontano Carmen, ma senza grande patimento, benché la ragazza non lo degnasse di uno sguardo. Pareva essere diventato per lui un emerito sconosciuto. Una storia allucinante, ma assolutamente reale e tangibile. Evidentemente aveva deciso di dedicare tutta se stessa a Maffi o alla fantomatica nuova fiamma, senza più prestare i suoi occhietti dolci a colui che, fino a quel momento, sembrava essere per lei la persona più importante. Anche durante la pausa pranzo i due avevano mantenuto le distanze, giocandosi luoghi e posizioni in modo da non correre il rischio di inciampare l'uno nell'altro: Alessandro aveva pranzato dalle parti di piazza Fontana, con un amico che vero amico non era, essendo un semplice “collega” di corso, interessato a socializzare con qualche altro sfigato come lui. Carmen s'era portata un panino da casa e se l'era mangiato in solitudine sotto i portici dell'ateneo, osservando il girovagare spensierato dei piccioni. Lo stesso era accaduto i giorni successivi. Ma mentre la notizia dell'esplosione di Chernobyl assumeva toni sempre più tragici e spettrali, ad Alessandro era venuto in mente un particolare che l'aveva destabilizzato: Carmen era cambiata proprio nel momento in cui lui le aveva regalato un ciondolino d'argento, per ringraziarla della sua preziosa amicizia e forse per invitarla più o meno inconsciamente a fare un passo in più nella sua direzione. Una cosa strana... Casuale? Mentre glielo consegnava, Carmen s'era commossa, un luccichio s'era sprigionato dai suoi occhi prima di chiedergli di abbracciarla con tutte le sue forze. Erano rimasti appiccicati per vari minuti, godendo entrambi del contatto fisico imprevisto. Alessandro, per la prima volta, aveva goduto del conturbante seno della compagna di corso che picchiava con forza sul suo torace. L'aveva sognato di notte e non sempre in qualità di semplice spettatore. A questo punto ad Alessandro era scattata una scintilla: e se Carmen avesse avuto ragione? E la colpa fosse realmente stata sua? Ossia quella di non avere compreso a fondo i suoi sentimenti? E se Carmen, quindi, avesse agito così solo per paura di trovarsi in una situazione più grande di lei, con un cuore che non sarebbe stato più in grado di prendere una decisione? C'erano stati, del resto, tanti episodi che avrebbero potuto fargli capire che le cose potevano effettivamente aver preso questa piega. Ma lui chissà perché non ci aveva ancora pensato con sufficiente arguzia. Come quella volta che s'erano sdraiati per un attimo sul prato dell'università in un giorno di marzo, e lei gli aveva chiesto di poterle rimanere accanto per un tempo infinito, osservando le nuvole scivolare sopra le loro teste come tante pecorelle al pascolo. O quella volta che Carmen si era prodigata girando mezza Milano per fargli avere il libro che desiderava tanto, sull'infanzia e l'adolescenza di Tolstoj. Aveva girato mezza Milano per raggiungere il suo obiettivo, per il semplice gusto di fare del bene a una persona conosciuta da poco ma divenuta in così poco tempo tanto importante. D'un tratto i colori grigiastri e foschi dell'Ucraina di Rai Uno erano sbiaditi completamente per far luce su una nuova ed entusiasmante tesi. Solo ora riusciva a metterlo a fuoco: Carmen poteva essersi innamorata di lui e lui, da autentico beota, non era stato in grado di contraccambiare adeguatamente le sue aspettative. Era una tesi assolutamente valida, reggeva, non c'erano ripensamenti... Anche lui, in fondo, poteva essersi innamorato, ma – a differenza della ragazza - non aveva pensato al modo di renderlo palese. Ecco perché Carmen aveva preferito darci un taglio, chiudere i rapporti prima che fosse troppo tardi. Perché evidentemente non aveva immaginato che Alessandro potesse tenere a lei al punto da farci una storia, come lei avrebbe voluto fare. E il regalo ricevuto, quindi, doveva averlo interpretato come un semplice e cordiale gesto di affetto, ascrivibile a qualunque rapporto amicale. Niente di più. Così Alessandro aveva capito tutto. C'era stato un terribile equivoco, che stupido non averci pensato prima ed essere arrivato perfino a odiare Carmen... Alessandro s'era lasciato travolgere da una contentezza che non registrava da molto tempo e s'era alzato da tavola, prima di raggiungere la camera per raggranellare un po' di gettoni telefonici. Non voleva avere i genitori fra i piedi mentre confidava ufficialmente alla compagna di corso ciò che veramente provava per lei: un amore sincero.
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