sabato 16 giugno 2012

Affari condominiali: sesto piano, appartamento D

 

Il giorno in cui Alessandro Martini aveva messo inconsapevolmente il becco nelle sue faccende non era la prima volta che si vedeva con Maurizio, giungendo a risolvere amplessi che aveva in serbo da una vita ma non era ancora riuscito a concretizzare. Fabio Valenti s'era sempre sentito un diverso, non solo psicologicamente, ma anche fisicamente. Si sentiva una donna, una femmina, anche se madre natura aveva ideato per lui un destino diverso. Ma lui fin da piccino aveva provato attrazione per gli individui del suo stesso sesso, non per le bimbe. Le piccole della sua età non gli interessavano, se non per i giochi con le quali si accompagnavano: bamboline, collanine, orecchini, scarpette a punta, Barbie e via dicendo. Non aveva mai familiarizzato con i giochi per maschi, soldatini, macchinine e robot... ché lui si sentiva una lei a tutti gli effetti. Cosa fare? Nulla. Non aveva, del resto, mai avuto difficoltà a confidare a se stesso un'indole in antitesi coi programmi apparenti della natura, ritenendola una cosa normalissima, che poteva riguardare milioni di persone. Anche se nel 1986 non era così per tutti, anzi. C'era chi con i gay ce l'aveva a morte, e non perdeva occasione per prenderli in giro. Per questo motivo, semmai, e non per il disagio di vivere in un corpo che non era il suo, Fabio aveva veramente patito. Tutti i giorni sentirsi dare pubblicamente della checca e perciò essere addirittura tenuto a debita distanza... non era stato facile. Quando passava per strada era sempre accompagnato da risate e sfottò.
«Arriva Fabiola, chiamate un bel maschione», gridavano i ragazzotti del circondario vedendolo varcare con la sua andatura dinoccolata la piazza del paese.
Fra questi c'erano anche dei compagni delle scuole medie con i quali non aveva più rapporti da anni, e con cui, anche al tempo, non era mai andato d'accordo. Luca Biffi rideva come un idiota tutte le volte che se lo trovava nei paraggi e non perdeva occasione per tirargliene dietro di tutti i colori, gratuitamente. Tuttavia erano soprattutto i più grandi a deriderlo, persone da cui ci si sarebbe dovuto aspettare un po' più cognizione. Figure come Filippo Fumagalli e Amedeo Tabucchi che veleggiavano verso i quaranta, quasi sempre a casa a fare niente. Campeggiavano per l'intera giornata di fronte al tabacchino di Ernesto Barazzetta, sperando nella manna dal cielo, o nel passaggio di qualche personaggio atipico come Fabio, su cui vomitare le proprie frustrazioni. Ma in qualche modo era riuscito a farsi grande e ad apprezzare la vita per quel che gli aveva dato, nel bene e nel male; nonostante il suo agnosticismo, seppur inconsciamente, aveva un approccio religioso all'esistenza, convinto che ogni forma di vita dovesse avere un suo significato e che ogni essere vivente dovesse meritare rispetto e riverenza. Col sesso era stato un po' più difficile capire il proprio ruolo e godere dei piaceri ad esso legati, ma alla fine era giunto anche in questo caso a far valere le sue ragioni. I primi esperimenti non erano stati tanto gratificanti, finché non s'era accorto che poteva sbizzarrirsi con ragazzi, più o meno della sua età, non sempre omosessuali, ma in qualche modo lieti di cedere alle sue lusinghe. Come Maurizio. Maurizio non era gay, ma ogni tanto non disdegnava farsi cullare morbosamente dall'amico di condominio. Al contrario di Guido, l'altro compagno fidato del rione, che era all'oscuro di tutto e che, in ogni caso, delle tendenze sessuali di Maurizio e di chi lo frequentava, non gliene interessava nulla. Si nascondevano in cantina per dare il meglio di sé, dopo i primi test puberali, estivi, mimetizzati da qualche balla di fieno o rinchiusi nel casolare abbandonato di qualche contadino locale. Le cantine del palazzone omatese facevano al caso loro. Erano lugubri e buie quanto basta per poter nascondere anche un pachiderma. Non erano solo le tenebre a proteggere eventuali manifestazioni lussuriose altrove impossibili da gestire, ma anche il dedalo di cunicoli che si snodava sotto il portico di ingresso contribuiva a rendere pressoché invincibile il nascondiglio. L'architetto che aveva costruito l'edificio più mastodontico della frazione brianzola non aveva badato all'aspetto esteriore dei sottoscala, ma solo a quello pratico; in effetti, così distribuiti i vani nello scantinato, davano modo ai singoli proprietari di raggiungere nel minor tempo possibile il proprio covo; in alternativa si sarebbe dovuto trapanare un lungo tunnel che sarebbe andato oltre le fondamenta della chiesa di San Zenone. Cosa alquanto improbabile e assurda. D'ogni modo, qualche nuovo visitatore, con una punta di ironia, aveva sottolineato che sarebbe stato necessario seguire un corso accelerato per capire come muoversi agilmente nel labirinto sotterraneo, per non correre il rischio di perdersi.
«Ci vorrebbe il famoso filo di Arianna», avevano commentato i genitori della Gariboldi prima di acquistare l'appartamento della figlia.
Fabio e Maurizio si rifugiavano soprattutto nella cantina del primo, che si trovava in fondo a un lungo corridoio, zeppa di cianfrusaglie e damigiane di vino vuote; dopo la sua c'era solo quella di Alessandro. Qui i due amanti erano sicuri di non essere colti in flagrante. Se non, appunto, da qualche membro della famiglia Martini. Di fatto – nonostante le numerose scappatelle - solo Alessandro era incappato per puro caso nel pieno di un loro incontro concupiscente, uscendone esterrefatto e conturbato da non riuscire nemmeno a raccontarlo nel suo romanzo popolare che avrebbe presto iniziato a redigere. Ma era stato molto prima dell'esplosione di Chernobyl. Fabio era ancora un pivello. Ora, invece, s'era fatto grande, gli erano cresciuti i baffi e la sua statura era ormai di gran lunga superiore a quella di tutti i suoi familiari. Era un adulto a tutti gli effetti e, a tal punto, di esperienze ne aveva avute più di tutti i suoi coetanei. Li aveva superati tutti, come in una gara di atletica. Erano bastati un paio di anni e rimettere le carte in gioco. In questo arco temporale aveva vissuto numerose storie, dimenticandosi completamente dei primi amanti, con i quali non aveva più rapporti nemmeno dal punto di vista verbale. Nemmeno con Maurizio che cercava da mesi di evitarlo. L'ex amico si vergognava di avere pasticciato con lui e ora che aveva messo a fuoco di essere interessato solo alle donne, aveva escluso con rabbia Fabio da qualunque sua iniziativa. E pensiero. Dannava quei giorni in cui s'era lasciato incantare da servigi che oggi gli risuonavano obbrobriosi e in qualche modo peccaminosi. Ma il vecchio amante era ben lontano dalle sue paturnie, avendo goduto di vicende ben più intriganti di quelle vissute con Maurizio e non avendo motivo di rinnegare il passato. Era finito in un giro di omosessuali particolarmente vivace, dove bazzicavano persone di ogni tipo e di ogni età. L'appuntamento era per ogni venerdì notte, dalle 24.00 in poi, nella zona periferica compresa fra i comuni di Agrate e Carugate, dove non c'erano che fabbriche e campi rinsecchiti. Era una zona malfamata, ma non per questo particolarmente pericolosa. Saltuariamente si verificavano dei furti, da ladri di primo pelo come Antonello e la sua banda. Era capitato che i banditi si avventassero su qualche omosessuale sopraggiunto prima dell'ora nel posto di ritrovo, per minacciarlo con una pistola e soffiargli la macchina. Terrorizzandolo, ma lasciandolo senza un graffio. Dalle 2.00 c'era il pienone. Era incappato in tantissimi ragazzi e signori adulti, concedendosi spesso non solo in qualità di amico e confidente. Li incontrava auspicando futuri sentimentali che non ci sarebbero mai stati, ma che in qualche modo lo facevano sentire membro di una comunità che poteva toccare con mano e nella quale gli altri lo consideravano per quello che era umanamente e non per le sue inclinazioni sessuali. Il che è tutto un dire… Era il ritrovo doc per i gay del monzese e del vimercatese, nato per via di un vecchio locale – ormai in disuso – gestito da due individui che, si diceva, amassero ospitare nel retro bottega tresche di ogni genere. In via Talete si conoscevano tutti e tutti, dunque, avevano presto iniziato a frequentare uno degli ultimi arrivati: Fabio, appunto. Lo avevano preso sotto la propria protezione, come si protegge un bambino impaurito, ed era diventato il coccolo dell'estemporanea comunità. Così come era precedentemente accaduto per gli altri novizi, succedutesi negli anni. Ma il ragazzo si era velocemente stancato di donarsi al primo che gli capitasse per strada senza il minimo sentimento. Non gli piacevano certe combutte maliziose, attuate solo per poter dare sfogo alla propria libidine. Crescendo aveva evoluto un suo pensiero, sensibile e profondo. Voleva dare un senso al suo essere “diverso”, partendo dall'amore puro, che non solo e non necessariamente avrebbe dovuto trovare compimento dal punto di vista fisico. Si riferiva, pertanto, all'amore del cuore, quello che nasce dall'anima, e viene innanzitutto benedetto da azioni che solo apparentemente possono apparire scontate, come un abbraccio sentito o un bacio inaspettato. Il sesso, dal suo punto di vista, doveva venire dopo. Sicché, in occasione dell'esplosione del reattore di Chernobyl, poteva ormai dirsi un “uomo” felice a tutti gli effetti, essendosi lasciato alle spalle rapporti malati e per molti versi meschini e inconcludenti, per dare spazio all'amore che diceva lui. Da vari mesi, infatti, aveva intrapreso una storia con un ragazzo di qualche anno più grande, proveniente dal lecchese. Si chiamava Gaudenzio Borgia e studiava storia moderna alla statale di Milano. Si erano conosciuti in un locale del capoluogo, abitualmente frequentato da gay, in zona Isola. I due s'erano per caso trovati vicini al bancone del bar e – complice la caduta per terra del borsellino di Gaudenzio che aveva spinto Fabio a raccoglierlo – avevano attaccato bottone, piacendosi immediatamente.
«Oggi avevo voglia di stare solo, ma poi ho incontrato te e i miei piani sono andati a quel paese», gli aveva detto timidamente Fabio, dopo i primi convenevoli.
Gaudenzio gli aveva fatto forza tirandogli una pacca sulle spalle e chiedendogli cosa ci fosse che non andava nella sua vita e quali potessero essere i presupporti per ridare vigore al suo avvenire. Lo aveva trovato stanco e provato, più grande della sua età, e con chissà quali pene da dover sopportare. Era forse anche per via delle luci del bancone che imitavano il gelo dei neon e che descrivevano volti più abbattuti di quelli che erano veramente.
«Non so, sono arrivato a un punto della vita in cui credo di sapere ciò che voglio, ma non so come ottenerlo. E non so se sarò in grado di ottenerlo. I rapporti umani sono, a volte, così complicati. Quando credi di avere capito tutto di una persona, è il momento giusto per patire la peggiore delusione della tua vita... Non so se sia corretto usare il termine cattiveria, ma spesso ho l'impressione che taluni la utilizzino gratuitamente, dando l'impressione di provare piacere a fare del male a qualcuno. È una cosa che non riesco a concepire...».
Gaudenzio gli aveva sorriso dolcemente, colpito dalla profondità del ragazzo:
«So di cosa parli, ci sono passato anch'io. Anch'io ho patito i tuoi stessi dubbi, con persone che, poi, si sono, in effetti, rivelate diversissime da quelle che erano nella realtà. Tu la chiami cattiveria. Io ho provato a chiamarla cinismo. Ma è sempre la stessa cosa. Le incomprensioni è giusto che ci siano finché non subentra la volontà di voler assoggettare un'altra persona, in nome dell'intelligenza, del potere o di chissà quale altra scusa... Eppure basterebbe poco per migliorare i rapporti umani: basterebbe solo che esistesse il rispetto. Se tutti si rispettassero vicendevolmente, anche in caso di torto subito, le cose migliorerebbero in modo esponenziale. Ma finché esisterà la legge della vendetta e il livore dell'orgoglio... le cose non potranno per forza migliorare. Adesso, però, non è il caso che ti lasci affossare da questi pensieri. È una bella serata e ci sono io al tuo fianco, se ti va…».
Fabio per poco non si scioglieva in una pozzanghera di fronte ai suoi occhi, percependo di non avere mai trovato un ragazzo così in linea con il suo spirito e il suo fabbisogno di certezze e... amore puro. L'aveva dunque trovato in Gaudenzio che aveva cominciato a frequentare con tutte le sue forze, avviando una storia d'amore come non ne aveva mai vissute. Ma non si era certo soffermato sull'aspetto esteriore, bensì su quello più intimo, che – aveva quasi sempre pensato - doveva veramente fornire i connotati di una persona. Gaudenzio era così affabile e premuroso che i suoi difetti fisici – evidenziati da un naso sproporzionato e da una muscolatura flaccida – sbiadivano dinanzi alle qualità di una persona unica e inimitabile. S'erano accordati per la prima uscita insieme in occasione di una serata di gala a Milano, fra vip e artisti del giro milanese. Erano intervenuti anche Donatella Milani, divenuta celebre con il singolo “Su di noi” cantato da Pupo e i Canton che durante il festival di Sanremo del 1984 avevano interpretato “Sonnambulismo” di Enrico Ruggeri. Gaudenzio, per lavoro, bazzicava spesso nel mondo televisivo e musicale, e sovente veniva invitato a incontri di questo tipo. Aveva, peraltro, parecchie conoscenze nel mondo dello spettacolo, fra cui i vari Alberto Camerini, Eugenio Finardi e Roberto Colombo, storico collettivo meneghino a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta. Avevano bevuto insieme tutta la sera per poi finire abbracciati nel letto di Gaudenzio e, di fatto, inaugurare a trecentosessanta gradi la loro avventura sentimentale. Le settimane successive le avevano trascorse rincorrendosi al telefono, dormendo insieme e dedicando sempre più spazio alle conversazioni a sfondo filosofico che, s'era capito fin dal primo incontro, avrebbero caratterizzato gran parte dei loro discorsi. Analizzavano la loro natura al cospetto dei vari contesti sociali accavallatesi nel tempo, facilitati dall'ampia cultura che contraddistingueva Gaudenzio.
«La nostra frustrazione esistenziale deriva dall'ostilità e l'ignoranza che permeano i sentimenti dell'uomo moderno», aveva sintetizzato l'acculturato della coppia.
«Eppure nel corso della storia in numerosi momenti l'omosessualità ha avuto la sua grande occasione», aveva ribattuto il compagno.
«Appunto...».
Il riferimento era perlopiù all'epopea greca e alla filosofia ellenica, che trovavano perfettamente in linea con il loro modo di pensare. Laddove era del tutto lecito rincorrere la necessità di poter scegliere liberamente con chi accompagnarsi nella vita, compresi gli individui dello stesso sesso. Andavano sempre più a fondo nei loro ragionamenti, fino a domandarsi perché durante i fasti della Magna Grecia l'omosessualità fosse un aspetto della società normale, a differenza della situazione attuale, teoricamente più modernista e lungimirante, in concomitanza con l'epilogo della Guerra Fredda e l'imminente crollo del Comunismo. Per risolvere alcuni loro tentennamenti ne avevano anche parlato con uno studioso di Vimercate che insegnava all'Università di Milano. Diceva che ai tempi di Ulisse ed Ettore l'abnegazione nei confronti del diverso era fuori luogo perfino dal punto di vista etico e morale; perché, a loro modo di vedere, paradossalmente, il vero amore era ascrivibile proprio al mondo omosessuale, l'amore con la A maiuscola... Il resto, l'amore eterosessuale, non era vero amore, perché compromesso da questioni legate all'eredità, alle combine matrimoniali e ad altri affari quasi sempre concernenti più il materialismo che non il cuore. Sicché i gay erano visti come gli uomini più virili, che amavano chi era uguale a sé, dal punto di vista psicologico e, naturalmente, fisico. E dunque per via dell'importanza che rivestivano nella società, erano anche coloro che venivano più facilmente designati a coprire le cariche più importanti e prestigiose richieste dallo stato. Il fenomeno, in realtà, non era solo appannaggio degli ellenici pre-cristiani ma anche di altre civiltà, compresa quella romana. Qui perfino i rapporti pederastici – da non confondersi in ogni caso con la pedofilia - erano visti di buon occhio, giustificando l'azione del cosiddetto erastes, l'uomo adulto, e l'eromenos, il ragazzo, spesso un apprendista del primo. Non per niente lo sperma veniva considerato come il vettore del sapere, tale per cui un rapporto sessuale fra il maestro di una certa età e il giovane alunno, era anche il pretesto per tramandare virtù e conoscenze. L'omosessualità veniva accettata anche in contesti più moderni, riconducibili, per esempio, a culture del Pacifico. In questo ambio, nelle popolazioni etoro e marindi, l'omosessualità risultava addirittura più morale che non l'eterosessualità. Ragionavano altresì sul fatto anche il mondo animale fosse rappresentato da specie in cui i rapporti fra individui dello stesso sesso erano all'ordine del giorno.
«Succede, per esempio, nelle scimmie», sentenziava Gaudenzio, lasciando a bocca aperta Fabio, che letteralmente pendeva dalle sue labbra colme di sapere. «Complessivamente il fenomeno riguarda più di mille specie, fra cui delfini, pecore, giraffe, elefanti e numerosi uccelli».
L'omosessualità era, dunque, un peccato solo per l'uomo, in particolare per il cristiano e il musulmano, mentre negli animali era un fenomeno conclamato, e privo di vergogna. Tuttavia non c'era solo il problema di giustificare - se non altro ai propri familiari che ancora vivevano con angoscia l'idea di avere un figlio “dell'altra sponda” - una natura che, alla luce delle numerose considerazioni fatte pareva del tutto normale; era anche trovare le energie per far capire a chi ancora aveva da ridire sui gay, che l'aspetto più bello di una relazione omosessuale non era il rapporto fisico, come la maggior parte pensava, ma la reciproca connivenza, la bellezza di poter stare insieme per vivere il magico sentimento dell'amore, proprio come fanno un uomo e una donna. Era l'amore, punto, e l'amore più elevato - per definizione - non poteva e non avrebbe potuto dipendere dal sesso. Mentre la massa abdicava a questi intendimenti ritenendo gli omosessuali dei pervertiti, degli schifosi, che non si dedicavano ad altro che a erotismi sfrenati in antitesi con qualunque morigeratezza umana.
«E invece non è così», sentenziava malinconicamente Fabio, sapendolo ora con certezza, dopo l'esperienza maturata con Gaudenzio.
D'altra parte proponevano di riflettere anche sul fatto che lo stesso osannato amore eterosessuale non era incentrato solo sul sesso, anzi; ne era solo la componente in più, o semmai quella legata alla volontà di concepire, di mettere al mondo dei figli. Possibile che l'amore dovesse esistere solo fra uomini e donne e non in senso universale? Possibile che l'amore, il voler tanto bene a qualcuno, dovesse obbligatoriamente dipendere dalla necessità di procreare?
«In fondo», ponderava Gaudenzio con piglio saccente, «due coniugi di una certa età stanno bene insieme, forse addirittura meglio di quando erano giovani, anche se da tempo non si dedicano più a certe pratiche... in sostanza non hanno bisogno di fare l'amore per poter donare tutto se stesso all'altro. E così può benissimo accadere fra due uomini. O no? Il problema è che, mentre nelle coppie canoniche tutto ciò è tollerato e compreso, nei gay... nei gay non viene nemmeno supposto, fomentando ulteriori intolleranze e preconcetti».
Sicché l'amore doveva trascendere da ogni cosa, specialmente dai pregiudizi. E a questo punto tiravano inevitabilmente in ballo i motivi dei tanti stereotipi attecchiti nel corso della storia: il bigottismo clericale, l'oscurantismo della chiesa, il moralismo immorale di chi era capace solo di sentenziare senza mai scrutare se stesso per indagare le mostruose magagne che lo rappresentavano. Gaudenzio era un frequentatore assiduo delle attività pastorali e per un certo periodo aveva anche dato lezioni di catechismo, ma riconosceva questo ruolo ambiguo nei capi che da sempre, in qualche modo, riveriva e condivideva. C'era qualcosa di marcio sotto, l'aveva sempre supposto, ma non lo riteneva comunque un motivo per sputare in faccia nel piatto in cui aveva sempre mangiato. Semplicemente riconduceva buona parte dell'ostracismo nei confronti dei gay ai preconcetti di un clero che aveva reso tutto più difficile e innaturale, compromettendo la libertà di azione di tantissime persone in nome di un credo e di una fede ancora tutte da diagnosticare. Secondo il loro pensiero, nel nome di Dio, s'era, dunque, fatto molto più male che bene.
«Un'assurdità», reclamava un giorno Fabio, a passeggio per le strade di Monza, «visto che è proprio la religione cattolica a predicare solidarietà e benevolenza».
«Un paradosso, se vogliamo», aveva ribattuto il compagno.
Dove si era sbagliato? Non riuscivano a spiegarlo, ma era evidente che nel corso della storia erano state fraintese troppe cose. Troppe leggi, limiti giurisdizionali e pretese moralistiche avevano reso schiavo l'uomo di una realtà che non gli apparteneva. Tutto, in effetti, tornava nel momento in cui radiografavano le tante azioni perpetrate dagli occidentali nel corso della storia, quasi mai sensate dal punto di vista umano; come quella colombiana in cui s'era avuto un autentico sterminio delle popolazioni autoctone... nel nome di quale Dio? Del Dio cristiano onnipotente, magnanimo e integerrimo? E così era successo in Australia, nei paesi arabi e ovunque il popolo di Gesù avesse posto piede. I cristiani predicavano bene, ma, evidentemente, razzolavano male, spesso contraddicendosi in modo spudorato. Il dilemma, dunque, andava sottolineato, non era Gesù e ciò che aveva predicato – dove spesso si andava erroneamente a parare - ma quel che era stato estrapolato dal suo pensiero e come era stato messo in pratica. Gesù diceva di vivere il vangelo, ma i cristiani parevano fare esattamente il contrario; uccidendo con la spada... e qual che è peggio, con le parole, il biasimo, lo stigma. Qualcosa non tornava. E continuava a non tornare anche col progresso e la modernizzazione, considerato che gli indiani di oggi erano, in sostanza, gli omosessuali e, in generale, tutte le altre “categorie” di diversi, compresi raggruppamenti etnici come i rom che da mille anni venivano bollati dai giudizi più infingardi, senza alcun reale motivo. Tuttavia, le loro giornate da innamorati, non erano scandite solo da profonde riflessioni sulla società e le difficoltà incontrate da chi viveva in modo “alternativo”. Erano, in fondo, ragazzi come tutti gli altri, e come tali, al di là delle oggettive difficoltà che vivevano per farsi strada in un mondo che non era tarato per loro, amavano fare ciò che facevano tutti gli altri della stessa età. Per esempio ascoltare la musica. Ne ascoltavano parecchia, confidandosi gusti e nuove tendenze. Fra i loro miti di sempre c'era Morrissey, che insieme avevano potuto notare su una maglietta indossata dal batterista del condomino omatese, Fabiano, che sapevano suonasse in una rock band. Amavano all'impazzata Morrissey e la sua musica. Erano capaci di ascoltare per ore anche un solo brano della band, come “The Boy With The Torn In His Side”, con un testo che rimandava all'amore universale al quale ambivano. La canzone era uscita il 23 settembre 1985, come apertura del disco “The Queen Is Dead”, con la foto di Truman Capote. E aveva fatto il botto soprattutto in Inghilterra, raggiungendo la ventitreesima posizione della UK Singles Chart. In Italia non la conosceva quasi nessuno, per cui era ben difficile per essi poterla condividere con qualcuno. Ma andava bene così; erano abituati a non condividere nulla della propria esistenza. Ascoltavano anche gli Housemartins, i Velvet Underground e i Pet Shop Boys... Il giorno dell'esplosione di Chernobyl Fabio e Gaudenzio si trovavano all'oratorio di Vimercate. Fabio era andato a fare visita all'amico che aveva appena terminato un incontro sull'importanza della solidarietà nella società moderna. Gaudenzio l'aveva accolto con gli occhi luccicanti, particolare che non era sfuggito a don Albino Pracchi, che, però, non aveva nutrito alcun sospetto. Ma il suo occhio non era così affinato. Durante la sua attività oratoriana non gli era mai capitato di affrontare problemi inerenti il mondo gay. L'unico, indiretto, aveva riguardato un tal Luciano Parenti, quando ancora era in servizio a Busto Arsizio. In quell'occasione s'era fatto avanti uno dei suoi catechisti più dotati per fargli presente che all'interno della struttura donboschiana c'era chi si divertiva ad attirare su di sé attenzioni morbose; chiedeva ai ragazzini di seguirlo in qualche posto sperduto della campagna varesina, per poi cercare il pretesto giusto per solleticargli qualche parte intima; le vittime sbigottivano e chiedevano di essere riaccompagnate a casa al più presto; a tal punto Parente non opponeva resistenza riuscendo, verosimilmente, a vincere la sua voglia di perseguitare i ragazzetti senza sfociare nella violenza sessuale. Sicché i giovani risucchiati dall'amicizia ambigua di Luciano s'erano confidati con il braccio destro di don Albino, il quale aveva poi riferito tutto al capo della chiesa locale, che non aveva potuto far altro che prendere provvedimenti. Don Albino, dunque, aveva richiamato in disparte la persona sospettata, proponendogli un'alternativa alle attività con i più giovani. Parente era sceso dal pero, non immaginando che la sua condotta poco ortodossa fosse giunta alle orecchie del prete. Ma da buon cristiano quale credeva di essere non aveva obiettato alle richieste del sacerdote, e senza battere ciglio era finito a pulire il deretano degli anziani di Casa Nobile, a Rovello Porro. Per quella sera, dunque, l'intenzione di Fabio e Gaudenzio era stata quella di andarsi a mangiare una pizza da qualche parte e, magari, sul tardi assistere a qualche concerto: da poco avevano aperto un locale a Sesto San Giovanni dove si esibivano band provenienti dagli USA e dalla gran Bretagna. C'era nell'aria l'ipotesi che potessero presto venirvi a suonare anche i Siouxie and the Banshees, altro gruppo cult della coppia. Era iniziato il telegiornale e il piccolo nugolo di anime presenti in oratorio a quell'ora, s'era assiepato intorno al tubo catodico, con uno spirito ben diverso da quello che li contraddistingueva quando c'era da seguire le partite di calcio della domenica pomeriggio. L'aria truce del conduttore aveva stuzzicato anche la curiosità di Gaudenzio e Fabio che avevano per un attimo dimenticato la pizza e si erano affiancati agli altri per ascoltare da vicino ciò che lo speaker andava blaterando. Non era una bella situazione. A quanto pare era saltato in aria un grosso reattore nucleare in Ucraina, poco distante da Kiev. S'era sollevato un mormorio sommesso e incredulo, mentre Gaudenzio e Fabio si squadravano inarcando le sopracciglia, e indicando l'un l'altro che il disastro doveva essere ben grave, ma non avrebbe certo impensierito la loro ormai prossima serata d'amore. Don Albino aveva sentenziato che anche quello potesse essere un segnale di Dio.
«L'uomo sta perdendo tutti i suoi valori, il mondo è davvero vicinissimo alla fine. Anche questa disgrazia ci suggerisce che l'Apocalisse possa essere dietro l'angolo. Lo dice anche la Madonna. Sapete, vero, cosa sta succedendo da cinque anni a Medjugorje? Ebbene, è evidente che...».
«Dai don, non dire così, che quest'anno ho voglia di andare in campeggio...».
L'aveva incalzato Piero Benaglia, un ragazzotto di quasi trent'anni, spesso preso di mira dagli oratoriani per la sua incapacità di capire quando e come farsi avanti per esprimere un'opinione o un concetto; in un'occasione, per mettere a tacere la sua boria insulsa, gli avevano addirittura fatto credere di essere un eletto, poiché la peluria sul suo torace ricordava la sagoma di un'aquila reale; ma c'era solo un modo per esserne certi: non doveva aprire bocca per il resto dei suoi giorni. Pietro s'era eccitato a tal punto da evitare qualunque intervento inopportuno per almeno un paio di mesi.
«Caro Piero», aveva riattaccato il sacerdote, «probabilmente in campeggio riusciremo comunque ad andare, il problema sarà dopo, gli anni a venire, la fatica che faremo a dare un senso alle nostre banali e invereconde esistenze, sempre più lontane dal desiderio di lodare Dio e tutte le sue creature...».
Fabio, udendo queste parole, aveva storto la bocca, sormontato da una rabbia che ormai non riusciva più a gestire con padronanza. Proprio lui parlava, un prete, un portavoce di moralismi obsoleti e antiquati, il primo che avrebbe guardato con maligna compassione un suo catecumeno colpevole solo di amare incondizionatamente una persona del suo stesso sesso. Un altro fesso convinto che le apparizioni mariane avvenissero davvero e che il sole potesse ruotare su se stesso provocando improvvisi terremoti, perscrutabili in un raggio di pochi metri. Avrebbe voluto dirgliene quattro e ammutolire la sua spocchiosa ipocrisia, ma s'era contenuto, anche per non creare imbarazzo al compagno che in quell'oratorio ci bazzicava da quando era nato. Ed era stato proprio Gaudenzio ad accorgersi di questa insofferenza dell'amato, dedicandogli un sorriso di comprensione e solidarietà; avrebbe voluto abbracciarlo, stringerlo a sé e ancora una volta confidargli che le sue pene, con la sua vicinanza, sarebbero presto passate. Fabio gli aveva risposto strizzando gli occhi e indicando col mento il prevosto, come a sottolineare un tipo privo di ogni virtù. Un motivo in più per odiare chi già odiava da tempo e contro il quale non avrebbe mai smesso di lottare, in onore del bene comune e... Dopo l'uscita di Piero nessuno aveva più fiatato fino alla fine del notiziario, che si era protratto fino alle 20.40. Chernobyl suonava all'unanimità come una parola astrusa, mai conosciuta, insignificante, perduta nel tempo e nello spazio. Ma non era poi così lontana, avrebbero presto imparato i giovani dell'oratorio san Maurizio: fra Milano e Chernobyl, in fondo, c'erano appena duemila chilometri, duemila fottutissimi chilometri che ora stavano per essere attraversati da una nuvola di veleno mortale.

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