sabato 30 giugno 2012

ti fidi di me?


ero un outsider a venti anni, figurati adesso
cosa vuoi dire?
ma niente, nulla
spiegati
non serve che ti spieghi
dai
non serve che ti spieghi
come vuoi...
in ogni caso ho trovato il cappello che fa per te
dici sul serio amore?
certo amore, l'ho trovato da Biondini
e chi è Biondini?
un tipo che vende di tutto
cosa?
un po’ di tutto
anche cappelli?
soprattutto cappelli
ma ti prego dimmi di più
vende cappelli vintage
vintage? che vuol dire?
ti fidi di me?
insomma
vedrai che ti farò contenta
ti voglio credere
fai molto male
ma allora?
allora cosa?

venerdì 29 giugno 2012

Affari condominiali: settimo piano, appartamento B


Erano i due architetti ai quali tutti gli omatesi e buona parte degli agratesi si appellavano per risolvere questioni di ogni genere: progetti per nuove case, permessi per edificare lungo il corso del Molgora, idee per migliorare un cascinotto mezzo diroccato risalente agli albori del secolo e via dicendo. Negli anni avevano accumulato prestigio, notorietà e naturalmente un bel gruzzolo da spartire fra le rispettive famiglie. Tarcisio Cornolti aveva due figli: un maschio di ventinove anni e una femmina di ventisei; Gaspare Flaminio ne aveva quattro: due femmine, la più grande di venticinque anni, la seconda di diciotto; e due maschi, il primo di vent’anni, il più piccolo di quindici. Erano un bello squadrone e quando si muovevano tutti insieme – cosa che accadeva spesso, specialmente durante le vacanze estive – sembrava si mettesse in moto un reggimento. Peraltro, a essi, andavano aggiunti due splendidi esemplari di collie, comprati dagli stessi architetti in un allevamento in Cecoslovacchia, durante un lavoro che avevano svolto pochi anni prima del disastro di Chernobyl, per conto del Giambelli, vero magnate della realtà economica e imprenditoriale locale. Al palazzone omatese erano arrivati per caso. Da tempo lo studio presso il quale avevano avviato l’attività non era più idoneo ai loro numerosi traffici. Erano partiti subito dopo aver finito l’università e per una decina d’anni era stato perfetto. Poi, però, erano bastati gli incartamenti, riguardanti l’amministrazione e gli aspetti burocratici dell’impresa, a far strabordare il bilocale. Gli amici che li andavano a trovare, fra cui le due future mogli, avevano iniziato a dire che il loro studio sembrava una specie di discarica. Non era bello per l’immagine e i potenziali clienti che avrebbero varcato la loro soglia. Si trovava, sempre a Omate, lungo la strada che conduce al cimitero, alla base di un caseggiato risalente alla fine della Prima guerra mondiale. Non c’era stata altra scelta. Se volevano proseguire lungo la loro fortunosa carriera, dovevano per forza cambiare locazione. E questa nuova base di appoggio l’avevano individuata proprio nel condominio omatese - un gigante ideato da un team di architetti modenese, all’avanguardia soprattutto per ciò che concerneva i materiali antisismici - che secondo i piani, avrebbe dovuto sbalordire mezza Lombardia. In realtà si sarebbe poi dimostrato un palazzone né più né meno simile a molti altri del circondario, sorti come funghi all’indomani del boom economico. Ma ormai i due architetti del posto vi avevano gettato l’occhio ed è lì che avevano deciso di andare a parare per dare vita al loro superufficio, nel quale poter ospitare chiunque e dare a chiunque l’impressione di avere a che fare con due figure di primo piano, dal tiro tipicamente americano. Contattato infatti il legittimo proprietario – il novarese padrone anche dell’asilo di Vanessa -  non si erano accontentati di sapere che l’appartamento B dell’ultimo piano sarebbe stato a loro completa disposizione: sarebbe stato necessario rimaneggiarlo completamente, conferendogli l’aria più newyorkese possibile.
“Siamo stati nella Grande Mela diversi mesi fa”, aveva raccontato Gaspare, il più borioso dei due, “e ci hanno ospitati in una specie di attico, su Park Avenue: vedevamo mezza America. Ecco, il nostro ufficio vorremmo che rispondesse a questa idea: un immenso open space, circondato da finestroni dai quali rimirare il panorama dall’alto e dare ai nostri ospiti l’impressione, appunto, di trovarsi in USA, che ne so... a Wall Street!”.
“Capisco benissimo ciò che volete dire”, aveva risposto il novarese, entusiasta di trovarsi davanti a tipi del genere, per i quali ogni cosa pareva possibile; “sono stato anch’io negli States e so bene a cosa vi riferite. Io ho visto qualcosa di analogo nella sede di una radio a Dallas: toccavamo letteralmente il cielo con un dito... In ogni caso tutto si può fare... dovete solo spiegarmi nei dettagli come volete realizzare il progetto, così da affrontare un preventivo e...”.
“Beh, per quello possiamo accordarci senza problemi”, aveva proseguito Gaspare, con un sorriso decisamente idiota. “Per quest’occasione abbiamo deciso di non badare a spese. Vero collega?”
Tarcisio aveva annuito, anche lui visibilmente eccitato, ma con la tipica morigeratezza che lo contraddistingueva. Tuttavia, nel breve volgere di un mese, ogni cosa era andata a buon fine, con la rivisitazione, da cima a fondo, della planimetria dell’appartamento B del settimo piano; l’ingaggio di una super impresa di costruzioni che avrebbe consentito di portare a termine i lavori nel minor tempo possibile; la pattuizione della cifra necessaria a coprire ogni spesa; e addirittura il saldo delle prime tre rate dell’affitto. Più di così non si poteva fare. Dopo qualche settimana, dunque, c’era stata l’inaugurazione del superufficio, avvenuta quando gli altri condomini erano già quasi tutti sistemati (e perfino la casa dei Vismara pareva una dimora signorile). I vari nuclei familiari avevano seguito con curiosità l’andirivieni di personaggi più o meno noti dell’establishment locale, un po’ come accade durante i matrimoni. Era arrivato perfino Giuseppe Bergomi, il terzino dell’Inter, coinvolto in funzione di uno sponsor che si sarebbe dovuto esibire in un nuovo villaggio sorto dalle parti di Besana Brianza, riportante anche la firma dei due geniali omatesi. Nel vederlo qualcuno aveva gridato dalla finestra di “cambiare squadra”. Beppe aveva regalato al misterioso interlocutore un sorriso indulgente. Durante una pausa di silenzio il novarese aveva preso la parola, ribadendo pubblicamente il piacere di poter chiudere affari con persone di grande spessore umano e imprenditoriale come i due inquilini del settimo piano.
“Gli architetti Tarcisio e Flaminio dello Studio Cinque!”, aveva esclamato, avviando uno dei tanti brindisi. Aveva stretto vigorosamente la mano entrambi, invitando i presenti a congratularsi con essi per l’ottima scelta fatta, sottintendendo che, nel cuore della Brianza, un ufficio del genere, non avrebbe potuto far che bene all’attività di due architetti già piuttosto in voga, ma non meno all’immagine del territorio. Le cose, in effetti, erano partite egregiamente, con un incremento subitaneo dei lavori e, dunque, un ulteriore aumento dei guadagni. Nel giro di pochi mesi Tarcisio e Flaminio avevano dovuto ingaggiare una sorta di passacarte, un garzone. Era un ragazzetto, con i capelli ricci e le lentiggini, da poco divenuto geometra, che avrebbe dovuto, in pratica, assolvere tutti i lavori più ingrati, fra cui quello di rispondere alle numerose telefonate che arrivavano allo Studio Cinque. Non era durato molto. Dopo un anno avevano dovuto cercarne un altro, che era resistito ancor meno, fino ad assoldare definitivamente Maria Grazia Pulella, una factotum tanto laboriosa e silenziosa, quanto piacente e con un seno da maggiorata al quale in pochi avrebbero saputo resistere: certi privati danarosi arrivavano a firmare quasi a scatola chiusa, pur di potersi trovare periodicamente davanti a tutto quel ben di dio. Erano giornate lunghissime, si partiva alle nove, e si finiva quando capitava. Spesso anche dopo cena. 
“Le giornate dovrebbero durare quarantotto ore”, reclamava Maria Grazia.
Con l’esplosione di Chernobyl, però, il superufficio non era più quello di un tempo; era invecchiato insieme ai suoi inquilini, benché non avesse smesso di produrre palate di quattrini. Si dia infatti il caso che, con gli anni Ottanta e la Milano da Bere, era stato ancora più facile raggiungere accordi per elaborare i progetti più sofisticati, lunghi da realizzarsi, ma anche più remunerativi. Giravano un sacco di soldi e - anche se il mondo sembrava sempre più sul punto di una nuova guerra mondiale - vigeva la convinzione che chiunque volesse farcela, ce l’avrebbe potuta fare: bastava solo un po’ di classe, abilità e... quel sano cinismo che a partire dagli anni Novanta avrebbe assunto un significato ben più spiccio: stronzaggine. Rispetto agli esordi erano state fatte pochissime modifiche per cui, entrando nel superufficio, l’impressione era sempre quella di compiere un viaggio negli anni Settanta, se non addirittura nei Sessanta. Il tutto era ampliato dal fatto che, di sottofondo, andava spesso qualche disco leggendario con cui i due capi erano cresciuti, e proprio in riferimento a quell'epoca aveva fatto furore. Tarcisio era un patito di Neil Young, Flaminio dei Pink Floyd. A entrambi andavano i Fleetwood Mac e Bob Dylan. Maria grazia non faceva testo: si piegava al volere dei principali senza mai controbattere, anche perché i suoi gusti erano di un’altra galassia. L’unica reale aggiunta degli ultimi tempi era stato il televisore, che era stato posizionato all’ingresso del superufficio, davanti al divano per gli ospiti e i clienti più in vista. Grazie a esso avevano potuto assistere in diretta alla notizia del patatrac ucraino. Era partita la sigla delle 20.00, mentre i tre stavano compiendo le ultime operazioni prima di far ritorno a casa. Ma lo sguardo funereo dello speaker, e la frase “disastro nucleare”, aveva bloccato tutti. Flaminio aveva rimesso la ventiquattro ore sulla poltrona; Tarcisio aveva indossato di nuovo gli occhiali del lavoro; Maria Grazia s’era lasciata alle spalle l’idea di dover correre dall’amica del cuore, Katia Riccobono, per dedicare tutta se stessa a quella che sembrava una notizia a dir poco inusuale. Per i primi dieci minuti non aveva fiatato nessuno, ritrovandosi impotenti davanti alla sciagura. Non ricordavano di avere mai assistito a uno scempio del genere nel corso della propria vita.
“E’ pazzesco”, aveva sibilato Tarcisio.
“Scandaloso”, aveva ribattuto il socio.
“Dal dopoguerra credo che non si sia mai verificato un evento di questa portata”.
“E se escludiamo le bombe atomiche...”.
Maria Grazia era la più spaventata.
“Speriamo di non finire contaminati dalla nube di veleno. Le onde radioattive possono uccidere in pochi secondi...”.
Tarcisio e Flaminio s’erano guardati strabuzzando gli occhi. Forse la loro subalterna stava un po’ esagerando; ma era una donna, si poteva capire.
“Non credo ci siano i presupposti perché la nube tossica possa giungere fino a noi”, aveva detto Flaminio.
“In effetti, l’Ucraina non è proprio dietro l’angolo”, gli aveva dato man forte Tarcisio.
“Non è così lontana”, aveva detto Maria Grazia. “Sarà né più, né meno, come andare a Palermo”.
Non aveva tutti i torti. Ma i due soci non le avevano dato retta.
“Puttana Eva”, era stato l’unico altro commento rilasciato dal duo di architetti. Poi, però, insieme avevano riflettuto sul fatto che, per dei figli della guerra quali erano, non sarebbe stato il caso di preoccuparsi oltre il dovuto. Loro erano ancora piccoli, ma si ricordavano molto bene, quando a Milano dovevano fuggire nelle cantine per salvarsi dai bombardamenti. I grandi piangevano disperati, e pregavano tutti i santi del paradiso per scampare agli attacchi dal cielo. Se erano scampati alle bombe dei tedeschi, voleva dire che sarebbero scampati a ogni altra cosa. Per Flaminio la cosa era finita lì e nel giro di pochi minuti aveva già riacquistato il sorriso, pronto a riabbracciare le strade di Omate per il rientro. Ma per Tarcisio non era stato lo stesso. L’esplosione di Chernobyl l’aveva stuzzicato nel profondo, lasciandolo per un attimo senza aria. La sua mente, stanca per la giornata lavorativa, era ritornata attiva, per ragionare sulla caducità umana, e sul fatto che basta un niente, un pulsante pigiato innocentemente, per ridurre in briciole ogni cosa. S’era messo a pensare al suo futuro sempre più risicato, al tempo che passa come un siluro, alle stagioni che se ne vanno, alle belle stagioni che non tornano più... Di fatto, ormai, non erano più dei ragazzini. Non lo erano già da parecchio tempo. Aveva l’impressione di avere vissuto più vite. Il passato non era più il passato, ma una dimensione parallela. Come se da qualche altra parte nel cosmo, nell’etere?, il passato avesse potuto continuare a essere passato, sottoforma, però, di presente. Un’ipotesi suggestiva, ma la realtà era ben diversa. Non erano più i leoni di una volta, forti, sicuri, decisi, come quando avevano incontrato il novarese (che nel frattempo era scomparso e aveva lasciato tutto in eredità ai figli), dando vita a un’esperienza professionale invidiabile. Aveva anche lui i suoi acciacchi, come prima di lui li avevano avuti suo padre e suo nonno.
“E’ una ruota che gira”, diceva sempre il vecchio di casa.
E ora, dunque, era arrivato il suo turno. L’uomo, sopraffatto dalla malinconia, s’era accomodato sul divano per dedicare la massima attenzione alla notizia. Voleva capire dal punto di vista tecnico come una centrale nucleare potesse saltare in aria all’improvviso; quali fossero i presupposti perché un reattore non funzionasse più come si deve, al punto da provocare un danno di simile portata, con l’emissione di ondate di atomi radioattivi. Voleva capire se il circuito di un reattore atomico potesse concettualmente essere assimilato alle coronarie del suo cuore; se, in entrambi i casi, sarebbe bastato così poco per...Voleva capire, ma non capiva, forse perché non c’era molto da capire... o ce n’era fin troppo; come troppo era interrogarsi su qualunque mistero riguardante la vita e l’universo, misteri per i quali non ci sarà mai risposta o, semplicemente, per i quali i nostri cervelli non sono tarati. Più prosaicamente domandava a se stesso perché a un certo punto le cose, come le persone, perdono la loro funzionalità e non ripartono più come prima. Chi si nascondeva dietro agli ingranaggi di una centrale nucleare e chi dietro a quelli di un banale respiro? Dopotutto anche l’uomo era una specie di macchina, una specie di... centrale nucleare. A un certo punto faceva “clic”, e saltava per aria. Non era una prospettiva così accattivante. Chernobyl diventava così la metafora della vita degli uomini, della sua stessa vita. Flaminio, però, sembrava del tutto lontano da simili ragionamenti. D’altronde lui non s’era mai preoccupato veramente di certi aspetti filosofici dell’esistenza. Era una mente brillante come quella del socio, ma molto meno propensa a fantasticare su sogni così lontani e impalpabili. S’era quindi congedato dall’amico di sempre e dalla segretaria con uno sbrigativo, quanto drammatico, commento:
“Beh, ragazzi, io vi saluto. Spero di non beccarmi un’ondata di radiazioni...”.
Maria Grazia, invece, nonostante la seria possibilità che l’amica Riccobono per via dell’attesa la potesse mandare a quel paese, aveva deciso di rimanere ancora un po’, per tentare di alleviare l’agonia del suo capo preferito. Gli si era seduta accanto fissandolo di traverso, cercando di capire se fosse il caso o meno di stringergli affettuosamente la mano. Alla fine aveva lasciato perdere. Arrivati alla loro età... Non voleva essere fraintesa o addirittura fraintendere se stessa. Erano rimasti a guardare la tv per tutto il tempo dedicato alla notizia su Chernobyl: lo speaker aveva spiegato che i russi avevano fatto di tutto per ridimensionare il problema, ma le indagini satellitari condotte anche dagli americani non lasciavano dubbi sulla drammaticità dell’accaduto. Alla fine Tarcisio, apparentemente indifferente alla presenza di Maria Grazia, aveva abbandonato il sofà per raggiungere l’immenso finestrone che si apriva sul vimercatese, offrendo una specie di spettacolo cinematografico a tre dimensioni. Tarcisio aveva l’aria pensierosa, mentre fissava la radura del principe Trivulzio e il verde che con stoicismo ammantava il corso del Molgora. Maria Grazia, ancora una volta, l’aveva raggiunto per vedere se poteva essergli di conforto. Ma l’uomo era, visibilmente, altrove.
“Signor Tarcisio, va tutto bene?”.
L’architetto non aveva risposto subito, volendo prima finire il ragionamento sul quale si era inerpicato. Si stava domandando chi sarebbe stato se non fosse diventato il ricco e intraprendente professionista che tutti conoscevano. In pratica, per la prima volta in vita sua, si stava guardando dentro per scoprire se si piaceva veramente o se si era semplicemente innamorato dell’idea che gli altri s’erano fatti di lui. Crescere circondato da persone dalla lusinga facile e gratuita, del resto, non doveva essere stata sempre una buona cosa. Poteva essere finito col credere in una realtà fittizia, costruita ad arte da individui intenti solo a ricavare il proprio tornaconto. Era così dalla notte dei tempi, sarebbe potuto essere così anche per lui. Peraltro le cose gli erano sempre andate bene, era sempre stato fortunato, aveva sempre avuto tutti i soldi che voleva e non aveva mai sofferto di problemi di salute. Davanti a tanta benevolenza poteva non essere lontano il rischio di precipitare dall’oggi al domani, senza più avere i mezzi per rialzarsi; giacché l’esperienza insegnava che questi stratagemmi potevano essere a esclusivo appannaggio di chi la vita l’aveva sempre subita, nelle ristrettezze, o in condizioni familiari o salutari penose. Era, dunque, possibilissimo che lui non fosse il grande uomo che tutti immaginavano e in cui lui stesso credeva; così come era del tutto plausibile che, ormai entrato nella terza età, fosse davvero giunto il momento di dover fare i conti con la provvisorietà umana e col fatto che, in fondo, ogni cosa, compresa la più bella opera d’arte, compresi i più intriganti progetti dello Studio Cinque, non fossero che un minuscolo e velleitario tentativo di strappare alle stelle un barlume di eternità. Alla fine, però, rimirando il verde trivulziano e ormai dimentico del motivo che l’aveva spinto fin lì, si era dovuto arrendere, conscio del fatto che non sarebbe mai riuscito a dare un senso a certe elucubrazioni.  Ma avrebbe almeno trovato il coraggio di rivelare a Maria Grazia un segreto che da sempre teneva in serbo e che solo ora, davanti alla tragedia di Chernobyl, perdeva la sua aria compromettente. 
“Sa che non le ho mai confidato una cosa...”, aveva attaccato.
Maria Grazia l’aveva guardato con aria compassionevole.
“Di che si tratta architetto?”.
“Da quanti anni è che lavoriamo insieme?”.
“Parecchi anni. Temo di aver perso il conto... non ho mai fatto il conto...”.
“Non ha importanza... ma lo sa che da quando s’è presentata nel nostro ufficio...”.
Tarcisio aveva ritratto lo sguardo dall’orizzonte del vimercatese, ponendolo con vivido coinvolgimento sul volto della dipendente.
“Da quando s’è presentato nel nostro ufficio non ho mai smesso di desiderarla”.
Maria Grazia aveva tirato un grosso sospiro e per sedare l’imbarazzo s’era sistemata la gonna con una manata goffa. Aveva gli occhi lucidi, ma non per quel che le era appena stato rivelato, bensì per il fatto che anche per lei era sempre stata la stessa cosa. Anche lei, infatti, l’aveva da sempre amato in silenzio e nel riserbo più totale. Anche lei avrebbe mille e mille volte voluto fermarsi da sola con lui, per inventarsi una nuova storia d’amore, e immaginarsi un avvenire diverso da quello previsto: completamente dedito alla famiglia e al marito, per il quale ormai non provava che semplice affetto, alla stregua di quello nutrito per il fratello che abitava in meridione e che a costo di migrare al nord, come aveva fatto la sorella, si sarebbe fatto accoltellare dal primo malavitoso incontrato per strada.
“Io e mio marito ci siamo messi insieme quando eravamo ancora ragazzini”, era partita Maria Grazia, abbandonando la sua postazione e mettendosi a camminare avanti e indietro di fronte al divano, lasciando intuire che il racconto non sarebbe stato breve. “Mi veniva a prendere in motorino a scuola. Aveva solo un paio d’anni più di me, ma mi sembrava così grande e così sicuro di sé. Me ne innamorai all’istante. Ci siamo sposati che avevo appena compiuto diciannove anni. Al matrimonio c’erano più di duecento persone, per i tempi, un vero record. La tavolata dei miei parenti era quella più casinista. Mio padre, alla fine della cerimonia, era completamente ubriaco, e con lui, tutti i suoi fratelli: erano in dieci. Mio marito mi guardava colmo di gioia, e anche a me sembrava di vivere il giorno più bello della mia vita. Non avevo mai ricevuto così tante attenzioni e vestivo uno degli abiti più belli che si potesse immaginare. Ero al settimo cielo. Ma ero giovane, troppo giovane”.
Tarcisio la inseguiva con curiosità, del tutto impreparato a quella replica verbosa. Non capiva cosa c’entrasse tutto ciò con la dichiarazione che le aveva appena fatto. Ma non avrebbe dovuto aspettare molto per capire.
“Da lì a poco abbiamo avuto Simone e nei tre anni successivi, gli altri due, Aristide e Calimero. Non è stata una scelta. Sono capitati. Evidentemente era giusto che capitassero. Facevano tutti così. Si sposavano, mettevano al mondo due o tre pargoli, e stop. La vita finiva. Ma io non volevo che finisse, avevo ancora tante energie e tanta voglia di... divertirmi. Ma mi sono ritrovata vecchia senza nemmeno accorgermi e, a tal punto, lo spazio per recuperare il tempo andato non c’era più. Erano passati gli anni del divertimento. Sarei stata ridicola mettermi a fare quello che non avevo fatto quand’ero giovane: prima erano stati i pannolini, i ciucci, i seggioloni, il passeggino... poi le borse della spesa, i quaderni di scuola, le corse in farmacia, il bucato, la messa della domenica... finché non ha iniziato a prendere consistenza nel mio animo la convinzione, il rammarico, di essere stata defraudata, derubata... derubata della mia giovinezza, delle corse in bicicletta con le cugine, delle gite al parco con le amiche, delle letture femministe con le compagne di scuola: da bambina ero diventata donna, senza mai essere stata una ragazza. Avevo completamente saltato una fase dell’esistenza. E il colmo... il colmo era che non potevo incolpare nessuno, se non me stessa. Nessuno mi aveva obbligato a sposare Sandro; nessuno mi aveva obbligata a mettere al mondo tre figli. Le cose potevano andare diversamente, ma io non ho fatto nulla per contrastare il destino. Ho subito. Ho subito l’esistenza... finché non ho incontrato lei”.
Maria Grazia aveva alzato gli occhi al soffitto, mimando un’espressione di beatitudine.
“Finché non ho incontrato lei...”.
“Me?”, aveva domandato eccitato Tarcisio.
“Lei non si è mai accorto di nulla, ma... è proprio lavorando al suo fianco che ho ritrovato quella ragazza che non sono mai stata. Amandola in silenzio, nel riserbo più assoluto, non vedendo l’ora che arrivasse il lunedì mattina per tornare in ufficio, osservando le tante camicie che alternava, commentando fra me e me quelle che le stavano meglio, odorando il suo profumo ogni volta che mi affiancava per un lavoro, immaginando... immaginando come sarebbe stata la mia vita al fianco di un uomo come lei, forte e sicuro, ma altrettanto dolce e profondo. Con lei sono ridiventata ragazza, vestendo i panni di una giovane timida che non trova il coraggio di confessare il suo amore al compagno di scuola; e che per questo motivo soffre, romanticamente, nel mutismo più assoluto, e sogna, sogna di poter stare tutta la vita col suo principe azzurro, di andare a letto con lui, di accarezzarlo, curarlo, lavargli i vestiti... Grazie a lei sono stata quella che non ero mai riuscita a essere”.
Tarcisio era allibito dal fatto di non essersi mai accorto di niente. Aveva notato, sì, qualche volta, delle attenzioni nei suoi riguardi, più di quanto non capitasse con il socio, ma da qui a pensare che Maria Grazia potesse essersi innamorata di lui... gli pareva pura follia. E invece era quel che era accaduto. Si sentiva da una parte orgoglioso e felice, ma dall’altra si chiedeva se non si fosse perso qualcosa di davvero importante. Per lui Maria Grazia aveva soprattutto un valore di natura carnale; l’aveva sempre apprezzata come donna, segretaria: era gentile, affabile, intelligente; ma Tarcisio amava sua moglie e i suoi figli, non li avrebbe sostituiti con nessun altra. Per Maria Grazia nutriva un sentimento perlopiù di natura fisica: insomma, ci sarebbe andato a letto più che volentieri, era questo in fin dei conti ciò che le aveva appena confidato; pur senza aggiungere che nei suoi sogni più intimi l’evento si fosse già verificato innumerevoli volte. Però non si capacitava del fatto che questo ardore reciproco potesse essere rimasto in sordina per così tanti anni. Non gli pareva credibile. Con tutte le cose che avevano fatto insieme, con tutte le volte che avevano fatto tardi uno di fianco all’altro... con tutte le volte che lui l’aveva accompagnata a casa. Porca miseria: l’aveva accompagnata a casa un mucchio di volte!
“Perché non mi ha mai detto niente?”, aveva domandato.
“Forse per lo stesso motivo per cui lei non ha mai confidato a me il suo desiderio”.
Per un attimo era calato il silenzio, più o meno in corrispondenza con la fine del telegiornale e i saluti laconici dello speaker. I loro pensieri non avevano più nulla da spartire con il disastro ucraino, che ormai era finito nel dimenticatoio. Le loro vite avevano avuto il sopravvento. Erano entrambi sbalorditi per ciò che si erano appena confidati. Erano rimasti per anni e anni innamorati l’uno dell’altro - seppur in modo diverso, con diverse finalità - senza, però, avere mai avuto il coraggio di aprirsi, farsi avanti per tentare di risolvere una situazione oggettivamente imbarazzante. Solo ora avevano chiarito ogni cosa, e c’era voluto un disastro nucleare e la percezione della provvisorietà umana a gettare la carne sul fuoco. Ma non era stato un caso. Solo ora, infatti, potevano ritenersi al sicuro; sicuri che non ci sarebbe stato più alcun pericolo di innescare chissà quali tumulti del cuore. I bei tempi, per entrambi, erano finiti: iniziare alla loro età una storia fedifraga avrebbe fatto soltanto ridere e non sarebbe valsa la pena disintegrare in pochi istanti tutto ciò che, nel bene e nel male, era stato costruito fino a quel momento; era un'accettazione palese, come palese era l’annuale palio degli asini a Omate, con la sfida delle quattro contrade e la necessità di trovare all’ultimo dei fantini disposti a gareggiare e farsi prendere in giro da migliaia di persone. Tarcisio continuava a fissare la sua interlocutrice che, nel frattempo, aveva smesso di agitarsi come una tarantolata ed era tornata ad accomodarsi sul divano; la osservava con un piglio diverso dal solito: un misto fra gioia, malinconia... e commiserazione. L’aveva trovata ancora bellissima, proprio come il primo giorno che s’era presentata per il colloquio di lavoro. Certamente non era più una giovinetta, aveva messo su diversi chili, i fianchi e le caviglie erano tutt’altro che filiformi, sulle mani cominciava ad avere le tipiche macchie scure della senilità; ma il suo viso sensuale era sempre lo stesso, dolce, espressivo, con la pelle liscia e chiara di una ventenne. Aveva fatto caso anche al seno prosperoso sul quale, col socio, ironicamente, tante volte s’era soffermato in privato, sottolineando che senza “quel bel panorama” i clienti sarebbero stati la metà. Quel giorno, peraltro, era messo particolarmente in risalto per via di un bel vestito a fiori che dal busto scendeva fino ai piedi, conferendole un fascino naif, gitano. Non era la prima volta che lo indossava e ogni volta che gli dava sfoggio, era per l’architetto come ascoltare una musica fresca e sconosciuta. Ancora, quindi, era tornato allo stupore di non essersi mai accorto che la donna che aveva avuto di fianco tutti i giorni potesse amarlo. E che se avesse pertanto voluto andare a letto con lei, non avrebbe dovuto far altro che schioccare le dita. Come aveva fatto a essere cieco fino a quel punto? In fondo ne aveva avute tante di donne che gli avevano fatto la corte, non tutte in modo plateale; sapeva quando una donna voleva qualcosa da lui, indipendentemente dall’atteggiamento... Ma s’era sorpreso a ragionare sul fatto che, tutto sommato, era un bene che fosse andata a finire così. Se avessero ceduto alle tentazioni della carne, poi cosa sarebbe accaduto? Dove sarebbero finiti? Quanto e come avrebbero patito e rispettivi partner? E i figli? Era stato bello così...
“Mi viene da pensare che gli amori platonici possano essere i migliori... lei non crede?”.
“Non so”.
“Io dico di sì”.
“Può essere architetto, può essere...”.
Tarcisio s'era mangiucchiato il labbro inferiore.  
“Ormai quel che è stato è stato...”, aveva detto Maria Grazia, “io, certo, non rinnego nulla, ma se potessi tornare indietro...”.
“Cosa?”.
“Non so se mi risposerei”.
“L’avevo intuito dal suo discorso di prima... però ha tre bei ragazzi”.
“Sono tutta la mia vita, è vero, ma... non è stato facile”.
“Non lo è stato neanche per me”.
Maria Grazia e Tarcisio s’erano guardati con le lacrime agli occhi, ma una contentezza nell’intimo che raramente avevano provato. Entrambi avevano i brividi e tremavano come dei teenager alla loro prima uscita. Tarcisio era addirittura agitato e non sapeva bene come sistemare le mani, muovendosi goffamente. Non si capacitavano di poter provare ancora certe emozioni alla loro età. E invece era stato proprio in quel frangente che si erano resi conto dell’inganno del trascorrere delle stagioni: i sentimenti, le gioie e probabilmente anche i dolori, non dipendevano in nessun caso dal trascorrere del tempo, ma solo dalla predisposizione dell’animo, dai singoli approcci esistenziali. Per quanto banale potesse sembrare, si poteva essere molto più giovani a ottanta anni che non a venti. O si poteva essere allo stesso tempo bambini e adulti. La segretaria s’era alzata dal divano, s’era ravviata i capelli come una scolaretta, e dopo aver raccolto la borsetta, s’era avviata alla porta, sperando ancora una volta che il lunedì potesse arrivare in fretta. Una minuscola parte di Tarcisio avrebbe voluto sbarrarle la strada, per stamparle un meraviglioso bacio sulla bocca; poi, però, ancora una volta, il raziocinio aveva avuto il sopravvento su un desiderio tutt’altro che sopito. Per quanto difficile fosse stato, per quanto difficile fosse, sarebbe stato un amore platonico anche dopo quel giorno di luce, il giorno in cui le tenebre calarono su Chernobyl.

giovedì 28 giugno 2012

colori divisi


il redattore finì diviso in due
per colpa di un grafico disattento
ma fu soprattutto la parte centrale
a esprimersi al meglio
per via dei colori
che la contraddistinguevano

martedì 26 giugno 2012

Il disertore


IL MIO PATRIOTTISMO
RASENTA LO ZERO
SE SCOPPIA LA GUERRA
IO DISERTO
PERCHE' DOVREI COMBATTERE
PER UN PAESE CHE NON ESISTE?
IO SONO UNO SLAVO
MICA UN COGLIONE

lunedì 25 giugno 2012

Affari condominiali: settimo piano, appartamento A


Amava i bambini ma non poteva averne. E così concentrava tutte le sue attenzioni sui piccoli che teneva all'asilo nido presso l'appartamento A del settimo piano. Era come un mega alloggio trasformato in un mondo variopinto di pupazzi, marionette e palloncini gonfiati. Le pareti pitturate di azzurro, i sanitari blu, i mobili rossi, gialli e verdi... Non ci potevano stare molti bambini, al massimo cinque, ma erano seguiti con grande attenzione, cosa che non accadeva negli asili nido normali e che spingeva, quindi, varie famiglie a prendere in considerazione quest'opportunità. Ovviamente i costi erano tutt'altro che lusinghieri. Quasi una rata del mutuo. Perciò riguardava solo i più abbienti del circondario, ossessionati dall'idea di voler crescere il proprio piccolo, se non in una campana di vetro, in un posto che potesse in qualche modo rincorrere la sciccheria del proprio background esistenziale. Si prendeva cura della struttura Vanessa Romilde, una biondina frizzante e allegra, chioma bionda e fianchi da epopea mussoliniana. La neosposina, originaria di Vimercate, aveva studiato per diventare una professoressa di lettere, ma si era presto resa conto che la sua vocazione era quella di dedicare la vita ai più piccoli. Diceva di avere fatto esperienza durante i primi anni di università, prestandosi come educatrice presso la scuola estiva di Usmate. Una volta ottenuta la laurea presso la statale di Milano, aveva, dunque, preso in gestione il grande spazio presente in cima al palazzone omatese, di fianco allo studio Cinque degli architetti Tarcisio Cornolti e Gaspare Flaminio. Erano due grandi spazi, ideati fin dal principio per ospitare realtà associative, uffici o enti privati, e non nuclei familiari. Appartenevano a un imprenditore di Novara che era solito acquistare immobili in Lombardia da offrire poi in affitto; si diceva che gestisse i suoi possedimenti in modo non sempre lucido, imboscandosi di tanto in tanto quote che non gli competevano (come se ne avesse avuto bisogno!), tuttavia non aveva mai avuto guai con la giustizia. Vanessa aveva preso la palla al balzo, potendo contare sull'appoggio dei genitori, che le erano andati incontro per sostenere soprattutto le spese relative all'arredamento e all'allestimento delle infrastrutture necessarie ad accogliere adeguatamente tante pesti scatenate. In seguito aveva ripagato lo sforzo dei genitori, mostrando di essere davvero all'altezza della situazione e di meritare il posto ottenuto; aveva messo in campo tutta la sua amorevolezza e docilità con i bimbi, avviando un'attività che aveva dato subito buoni frutti. Tutto sommato, non aveva neanche fatto fatica. Le veniva naturale lavorare coi bimbi. Anche nelle situazioni più difficili sapeva sempre come cavarsela.  Se i bambini piangevano tutti assieme, si metteva a saltare come un clown e nel giro di pochi secondi riusciva a catturare la loro attenzione ripristinando l'ordine; aveva appositamente acquistato una maschera da clown dal Carrera di via Madonnina, ad Agrate, per risolvere al meglio questa impellenza. Era meglio di Mary Poppins. Così, qualcuno, aveva cominciato a chiamarla. Sicché, per via di questa sua attitudine naturale alla custodia dei più piccoli, in molti si chiedevano come mai proprio a lei fosse capitata l'ingiustizia di non potere avere figli; per quale scherzo del destino quasi tutte le sue amiche erano mamme felici, mentre lei, che sarebbe potuta essere la migliore, non aveva ancora potuto godere le gioie della maternità.
«I misteri della vita», blaterava la mamma di Sangalli.
«È una brava ragazza. Le manca solo un bel bambino. E pensare che tutti i giorni ha a che fare con così tanti frugoletti...», sentenziava la moglie di Zanetti.
Ma Vanessa non si lasciava sopraffare dalla tristezza, né dello sgomento. Certo, il responso dei medici era stato tutt'altro che benevolo, ma lei ancora ci credeva: viveva nell'assoluta convinzione che anche lei un giorno sarebbe potuta diventare mamma e avrebbe potuto appendere fuori dalla porta un bel fiocco azzurro o rosa. Rosa, l'avrebbe preferito... le piaceva il nome Martina. Filippa. E Gaia. Le piacevano i nomi rari, che si sentivano poco in giro. Qualche medico l'aveva congedata compassionevolmente, notando il rammarico nel profondo dei suoi occhi. Ma lei non si era arresa. Era anche per via della sua profonda fede, ereditata dai genitori, assidui frequentatori della parrocchia, amici dei Tresoldi. Pensava e ripensava alla storia di Abramo; e a Sara, che aveva concepito Isacco solo in tarda età, dopo la notte fedifraga del patriarca con Agar, che gli avrebbe dato Ismaele. Se era successo a Sara di avere Isacco, quando ormai nessuno l'avrebbe creduto, e la fisiologia umana non avrebbe dovuto permetterlo, perché non sarebbe potuto accadere anche a lei? L'asilo nido e la costante vicinanza al mondo dei più piccoli era stato, dunque, un buon pretesto per continuare a credere in questo sogno, anche se agli occhi dell'unanimità era come credere nelle fate e nei folletti. C'era peraltro il presupposto relativo al fatto che, chi si circonda di bambini, per un imprescindibile meccanismo esoterico, doveva essere portato a viverli in prima persona, nel ruolo di padre o madre. Era stato soprattutto il dottor Mino Garrone, un amico di famiglia, a dissuaderla da questa del tutto lecita ambizione, che, se non si fosse realizzata, l'avrebbe potuta gettare nella prostrazione più totale. Aveva già avuto numerose esperienze di pazienti che, convinte presto o tardi di rimanere incinte, erano poi psicologicamente crollate quando, superati i quarant'anni, s'erano rese conto che nemmeno la santa Vergine in persona avrebbe potuto allietare il loro divenire.
«Dottore mi dica la percentuale», aveva chiesto Vanessa, nel corso di una delle ultime visite.
«Non posso stabilire dei numeri, la medicina non è una scienza esatta».
«La prego».
Garrone aveva aggrottato le sopracciglia, rincorrendo una risposta che non avrebbe mai voluto dare, e che, in cuor suo, sapeva peccasse in ottimismo.
«Direi che non ha più del 5 percento di possibilità di rimanere incinta».
La prima mazzata, però, l'aveva superata in fretta e dopo qualche mese era tornata di nuovo a credere di poter diventare mamma. Non era solo la fede a convincerla. Glielo suggerivano anche vari fatti di cronaca, coi quali spesso si confrontava, compreso l'ultimo che aveva sentito poche settimane prima dell'esplosione di Chernobyl. Riguardava l'amica di un'amica, ormai prossima alla menopausa, che s'era ritrovata con un bimbo nella pancia dopo vent'anni di tentativi andati in fumo. Non ci poteva credere. Dopo la prima ecografia era stata colta da una mezza crisi isterica, a metà strada fra la gioia più incontenibile, e lo sfogo rabbioso di un dolore rimasto imprigionato per troppi lustri. Non era l'unica. Negli ultimi tempi, anche una donna di Ornago che aveva atteso per tanto di diventare mamma era rimasta incinta; così una neomamma di Bernareggio con già in mano il biglietto per un giro del mondo in nave, promessa che s'era fatta quando aveva saputo con certezza che non avrebbe più avuto chance di concepire. Rifletteva poi con passione sulla vicenda di Louise Brown, passata alla storia come la prima bambina “in provetta”, nata grazie alla fecondazione in vitro. Non ne sapeva nulla della fecondazione in vitro, eppure era convinta che un giorno tutte le donne avrebbero potuto avere figli senza problemi: dove non sarebbe arrivata la fede, avrebbe vinto la medicina. Vanessa andava, dunque, avanti per la sua strada, con i suoi pensieri e le sue idee strampalate, anche se il mondo ruotava dalla parte opposta e ogni nuova visita conferiva sempre meno speranze. Perfino il marito aveva deciso di darci un taglio e rassegnarsi al destino di non poter mai diventare padre. Ettore Giravolta aveva altresì cercato di convincere la moglie a comportarsi nello stesso modo, ma Vanessa era sorda. E come se niente fosse continuava imperturbabile a costringerlo a rapporti cadenzati e periodici, osservando il ciclo lunare e quello mestruale, la temperatura basale e tutti gli accorgimenti necessari a facilitare un concepimento. Da un punto di vista fisiologico, il problema di Vanessa era legato a un'anatomia bizzarra delle sue tube uterine, tali per cui il seme maschile doveva compiere uno strano e assurdo tragitto prima ci colpire il bersaglio. Non era stato facile arrivare a questa diagnosi. Erano occorsi esami su esami. Per un anno intero era stata in ballo con un dottore di Cavenago, convinto che Vanessa soffrisse di una rara malattia, la sindrome di Kallmann, in grado nelle donne di creare seri danni a livello ormonale, da cui tutto parte per una sana e potenziale gravidanza. Poi era subentrata l'endometriosi. Un medico di Casatenovo era, infatti, convinto che i dolori periodici che la ragazza accusava al basso ventre fossero imputabili a questo. Inoltre soffriva spesso di perdite abbondanti e dolorose, altro parametro in linea con questa tragica supposizione. Infine le cose erano state viste correttamente da un luminare del San Gerardo di Monza, che aveva suggerito a Vanessa un intervento, tentando l'ultima carta per dare alla luce un figlio. In realtà l'intervento non era servito a molto, se non a provocarle una dolorosa fase post operatoria, a confermare le ipotesi iniziali e la triste verità che Vanessa non potesse avere bambini.
«È una situazione complessa», aveva detto Marino Marini, ginecologo del San Gerardo, «non capitano spesso casi come questi. È un problema a livello organico, genetico. Si porta dietro quest'anomalia dalla nascita e non è facile venirne a capo. Anche la medicina, talvolta, deve arrendersi davanti alla natura».
Marito e moglie seguivano le parole dello specialista con un sorriso mogio e perduto.
«In pratica le tube di Falloppio seguono un percorso irregolare, così da impedire il normale flusso spermatico... quando gli spermatozoi arrivano a percorrere l'ultimo tratto, si trovano di fronte una specie di sbarramento e si bloccano...».
Il dottore gli aveva fatto vedere cosa succedeva alle tube di Vanessa abbozzando un disegnino prossimale, con due “tubetti” che si accartocciavano fra loro, e mettendo in luce con un tratto più marcato, il cammino di piccole macchinine con una testa arrotondata.
«È molto grave, vero dottore?», aveva chiesto Vanessa.
«Signorina, non stiamo valutando la gravità della prerogativa anatomica in sé... che certamente non ha ritorni sulla sua salute generale; consideriamo, però, quelle che possono essere, in tutta onestà, le sue potenzialità riproduttive. E a questo proposito mentirei se non le dicessi che la sua situazione è molto complicata...».
Ettore, pur ricordando la vecchia tesi di Garrone, era tornato a parlare di percentuali.
«Si può fare una stima?».
«Volete sapere quante percentuali avete di...».
«Esattamente».
Vanessa era trepidante.
«Se devo proprio essere sincero... le vostre chance sono inferiori all'1 percento».
Vanessa ed Ettore s'erano guardati affranti, come forse - dacché condividevano lo stesso letto - non s'erano mai guardati. Sembrava allo stesso tempo un traguardo, tristissimo, e un nuovo punto di partenza, verso, però, realtà ben diverse da quelle che avevano supposto regalandosi il loro sì sull'altare di Vimercate. Sapevano che Marini era l'ultima loro spiaggia. Se anche lui aveva sentenziato una simile condanna, c'era ben poco da appellarsi a santi e madonne. O tentare nuove visite specialistiche. C'era una sola cosa saggia da fare: mettersi l'anima in pace. I due se n'erano andati in silenzio e nel mutismo più assoluto erano rincasati, sapendo che ogni commento sarebbe stato vano. Guardavano fuori dal finestrino come se stessero osservando un vecchio e malinconico film, senza più nulla da dire. I mesi successivi erano stati altrettanto deprimenti. Li avevano passati fra alti e bassi, fra la consapevolezza sempre più netta che non sarebbero mai diventati genitori e l'assurdo rovescio della medaglia tale per cui, non diventando genitori, si sarebbero almeno potuti godere la vita, nel senso più frugale del termine, magari viaggiando. A entrambi piaceva l'idea di poter visitare un giorno la Cina, un popolo tanto misterioso, quanto invitante e pieno di fascino. Avevano conosciuto un tale che viveva a Pechino da dieci anni e che gli aveva vivamente consigliato il paese orientale. A detta dell'amico era un paese in pieno fermento. Vincenzo Murra s'era laureato a pieni voti in economia e commercio a ventitré anni; era migrato in Cina subito dopo gli studi, e nel giro di pochi anni aveva costruito un impero. Vanessa lo adorava, mentre Ettore lo riteneva un tipo un po' troppo pieno di sé, borioso e saccente. Quando lo vedeva arrivare, sbuffava. Diceva, da veggente quale poi si sarebbe rivelato, che sarebbero stati ancora lontani i tempi del boom economico cinese, ma qualcosa stava già accadendo, in funzione di un pil in progressiva crescita, che avrebbe presto surclassato tutti quelli degli altri paesi. A Pechino era diventato un boss, e frequentava l'elite del paese, avendo velocemente imparato la lingua ed essendosi fidanzato addirittura con una parente della famiglia reale. Il giorno dell'esplosione di Chernobyl, Vanessa aveva, dunque, pensato proprio a lui, all'amico cinese. L'aveva rivisto perfino in chiave maliziosa, accarezzando una passione erotica, che col marito, dopo l'ennesimo verdetto negativo, era andata un po' smorzandosi. Il vero scopo, però, era contattarlo proprio per indagare, per un futuro prossimo, la fattibilità di un viaggio in estremo oriente. A un certo punto aveva iniziato a fare i conti con se stessa. Ormai, nonostante le fervide speranze nelle quali aveva sempre riposto, era davvero arrivato il momento di riflettere sul fatto che, quasi sicuramente, non sarebbe mai diventata mamma e che si sarebbe potuta, quindi, dedicare – almeno durante le vacanze - al turismo internazionale. Peraltro la sua professione le offriva l'opportunità di congedarsi dal lavoro per due mesi abbondanti, quelli estivi, appunto, in cui i piccoli vanno via con i genitori o i nonni. Non era una fortuna che capitava a tutti. Certo, non avrebbe compensato la mancanza di figli, ma in qualche modo le avrebbe consentito di vivere con dignità e soddisfazione. Era tornata a rimuginare sulla fede e la religione, senza però particolari rancori; evidentemente il Signore aveva preferito così. In realtà, aveva pensato al cinese perché non aveva avuto altro da fare per quasi tutto il giorno. I mestieri li avevano risolti due giorni prima, il raid per la spesa settimanale pure; da sempre andavano all'Esselunga tutti venerdì pomeriggio, sul tardi, prima della chiusura e si rifornivano per una o due settimane. Era rimasta in casa l'intero dì - sul confine fra Agrate e Omate, in prossimità della curva di via Dante, un bilocale senza tante pretese - per via di un senso di stanchezza che già da un po' di giorni la perseguitava. Le cedevano le gambe e le si chiudevano gli occhi, con le palpebre pesanti e l'incapacità ad assolvere qualunque lavoro.
«Per fortuna è arrivato il fine settimana», aveva confidato a Ettore, venerdì sera, prima di addormentarsi.
«Forse avresti bisogno di qualche ricostituente».
«Non parlare come tua madre», aveva ribattuto seccamente.
Aveva dato la colpa ai primi caldi. Le succedeva spesso con l'arrivo della bella stagione. La pressione le scendeva sotto le scarpe e non c'era modo di poterla vedere arzilla e attiva, com'era tipicamente durante i rigori invernali. E come tutti, del resto, la conoscevano. In mattinata, Ettore era rimasto al suo fianco, prima di uscire per una capatina dal panettiere e dal giornalaio, i classici movimenti del sabato mattina. Prima di salutarsi con un bacio sbrigativo sulla porta di casa, s'erano ricordati che sarebbero stati leggeri a pranzo. Si sarebbero rifatti in serata, avendo già in programma da qualche giorno di preparare qualcosa di più succulento, tenuto conto del fatto che, con ogni probabilità, sarebbero arrivati a fargli visita i genitori di Vanessa. Più tardi, invece, s'erano accordati per andare al cinema. Sarebbero voluti andare a vedere "Il colore viola", l'ultimo lungometraggio di Steven Spielberg. Veniva classificato come un romanzo epistolare imperniato sull'amore fra due sorelle di colore e sui loro differenti destini dal 1908 al 1937, preso da un lavoro di Alice Walker, premio Pulitzer 1983. Queste le previsioni. Poi, però, le cose erano andate in modo completamente diverso. Il papà di Vanessa, infatti, durante il pomeriggio del 26, aveva avuto un attacco di dissenteria acuta e aveva detto alla moglie che non sarebbe stato il caso di uscire per cena. Anche a lui erano mancate all'improvviso le forze e non si sarebbe schiodato da casa, nemmeno a pagarlo.
«Mi sento come se mi fosse passato sopra un tir», aveva confidato alla moglie».
Vanessa non l'aveva presa bene. Aveva proprio voglia di circondarsi delle persone che aveva più care, in un momento di stanca come quello che stava passando, forse – cominciava a pensare – dovuto a una larvata depressione. Aveva, perciò, insistito con mamma al telefono.
«Tira giù dal divano l'orso di papà, che gli fa bene muoversi un po'».
«Tesoro, tuo padre è veramente ko. Non credo riusciremo a venire. Ha già detto che rimarrà incollato alla tv tutto il giorno...».
«Ma dai, siamo in casa, mica in capo al mondo... Al limite può stare leggero... Ettore ha già pensato cosa cucinare...».
«Lo sai com'è tuo padre. Basta poco a stenderlo. Ha già detto che se voglio posso venire io, ma lui non si muove. Inutile insistere, poi diventa una iena».
Così s'era dovuta rassegnare all'idea di una normalissima serata col marito, con la capatina al Metropol di Monza, quale ciliegina sulla torta. Verso il tardo pomeriggio, però, aveva cominciato ad accusare strani dolori allo stomaco. A raggiera. Partivano dal basso e raggiungevano la bocca dello stomaco, fino a sfiorare lo sterno. Ma analizzando con più attenzione il problema, s'era resa conto che gli spasmi non erano legati alla dissenteria, né al nervosismo, bensì alla nausea. Proprio lei che non aveva mai sofferto di nausea in vita sua. Sentiva che cavalcava il suo esofago, facendole sussultare la parte alta del corpo come se si fosse trovata su qualche giostra. Con la nausea era sopraggiunta anche la necessità di continuare ad andare in bagno a fare pipì: percepiva lo stimolo, ma poi non faceva che un rigagnolo di ammoniaca dorata, come se la sua vescica avesse perso la naturale capacità di spurgare secondo i dettami di madre natura.
«Non so se riusciremo ad andare al cinema. Se mi devo alzare ogni due minuti per andare in bagno...».
«Non ti preoccupare. Più tardi vediamo. Il cinema non scappa».
I sintomi erano simili a quelli della cistite, ma, in questo caso, non provava alcun bruciore, né dolore. Era solo l'impellenza di urinare, come se avesse avuto in pancia un gatto che le graffiava le interiora in cerca di una via di uscita. Ettore le era stato accanto per buona parte del pomeriggio, cercando di lasciarla riposare il più possibile. In cuor suo era un po' preoccupato, benché non le avesse confidato apertamente questo suo sentimento per non darle inutili pene. Il punto è che trovava strana questa sua stanchezza e non comprendeva che legame potesse esserci con la nausea. Già altre volte aveva saputo della sua mancanza di energie, ma gli suonava decisamente strano che dovesse passare un intero pomeriggio sdraiata sul divano con l'unico obiettivo di arrivare presto a sera per dover andare a letto a dormire. Stava pensando, quindi, che se fosse andata avanti così, l'avrebbe convinta a rivolgersi al medico per fare qualche esame. Anche se, negli ultimi tempi, di analisi ne aveva fatte di tutti i colori; ma forse non quelle veramente necessarie a valutare certi parametri vitali. Verso le 17.00, le si era avvicinato accarezzandole il volto, per chiederle se aveva voglia di mettere qualcosa sotto ai denti.
«Non so nemmeno io», aveva detto con aria abbacchiata.
«Se ti va ti preparo un tè...».
Ma non aveva finito la frase perché giungendo ad accarezzarle la spalla sinistra e l'avambraccio, s'era accorto che c'era qualcosa che non andava alle sue braccia; braccia che conosceva a menadito e che chissà quante volte aveva esplorato da cima a fondo, spesso in funzione di un lungo e romantico approccio sessuale. Non che fossero ammalate, o mostrassero qualche strana manifestazione a livello epidermico. Semplicemente era come se si fossero trasformate, fossero cambiate, avessero cambiato morfologia, si fossero irrobustite, come se fossero diventate più... cicciotte. Soprattutto fra l'omero e il cinto scapolare, parevano essersi formati due cuscinetti di carne che prima d'ora non s'erano mai visti nella responsabile dell'asilo nido del condominio omatese. Li aveva palpati con diletto, sincerandosi di un fatto alquanto strano del quale, la stessa Vanessa, probabilmente, ne era del tutto all'oscuro. Peraltro, aveva riflettuto, negli ultimi mesi, la moglie aveva perso un paio di chili e non sembrava proprio che stesse ingrassando. Ettore aveva continuato a rimuginare su questi segni enigmatici dell'amata, anche mentre le preparava il tè e con lo sguardo meditabondo scrutava il veleggiare delle foglie della quercia rossa che cresceva rigogliosa sulla curva di via Dante. Mosso da questa serie di pensieri, s'era versato una tazza di tè anche per lui, prima di chiedere alla moglie il permesso per fare un salto in biblioteca, dove doveva consegnare un libro scaduto da un paio di settimane. Per Vanessa non c'era stato problema.
«Vai pure tesoro, ma non fare tardi… oggi non mi va di rimanere sola…».
Ettore era corso in via don Minzoni, presso la biblioteca agratese, non tanto per consegnare il testo scaduto, quanto per consultare il libro di medicina che già altre volte aveva sfogliato, per risolvere il mistero di particolari evidenze morbose, accorse a lui o a qualche parente: l'ultima volta, per esempio, s'era documentato sulla natura dello streptococco che a un'amica aveva provocato un danno al cuore. Aveva così scoperto che un banale mal di gola, se trascurato, può interferire con il normale funzionamento delle valvole cardiache, creando seri problemi. Al cospetto di Isabella Montenegro, la bibliotecaria del paese, aveva, dunque, chiesto la possibilità di scendere dabbasso dove risiedevano le enciclopedie e il volume, appunto, che andava cercando. Isabella gli aveva fatto un cenno di sì col capo, sapendo benissimo chi fosse Ettore e che fosse uno fra i pochi utenti che periodicamente si avventuravano al di là dei confini canonici della biblioteca. Aveva percorso con soddisfazione le irte scale che conducevano nel piano sotterraneo, come un bambino a caccia di un tesoro nascosto. Gli piaceva l'odore di muffa e il sapore di stantio che si respirava in quell'angolo della struttura comunale. E dove, al contrario della parte soprastante, non c'era mai nessuno. Inoltre, per ogni tipo di ricerca, sapeva perfettamente dove andare a parare, essendo un frequentatore abituale della biblioteca. Al termine “stanchezza”, però, non aveva saputo che pesci pigliare. La “stanchezza”, infatti, era legata a un numero spropositato di malattie, dalle più banali alle più serie. Non esisteva una valida possibilità di discernimento. Poteva volere dire tutto e niente. Così era finito col consultare la voce “nausea”, e qui gli si era accesa una scintilla nella mente. Legata alla nausea, infatti, risultava anche un fenomeno che non aveva nulla a che vedere con le malattie, essendo un aspetto dell'umanità del tutto normale: la gravidanza. La gravidanza? La gravidanza… Il suo cervello era andato in escandescenza, e immediatamente aveva collegato il tutto al fatto che una decina di giorni prima, lui e la moglie avevano fatto l'amore con particolare trasporto; sapendo che Vanessa era proprio nel mezzo del ciclo. È vero, era già successo qualcosa del genere anche in altre occasioni, ma poi non si era verificata nessuna nausea, né altri sintomi sospetti. Da qui s'era fiondato alla voce “gravidanza” e quindi al sottotitolo “segni della gravidanza”. Per poco non gli prendeva un colpo. I primi quattro segni della gravidanza nelle primissime fasi erano: stanchezza, nausea, bisogno di fare pipì e un generico irrobustimento delle braccia e delle spalle. Aveva chiuso il libro di medicina fissando il soffitto con il cuore entrato in leggera tachicardia.
«Cazzo!», aveva esclamato a voce alta. «Cazzo, non ci posso credere. Allora è vero che Dio esiste, allora è vero… Non posso crederci, non posso crederci!!».
E invece non aveva potuto far altro che crederci. C'erano tutti i segni della gravidanza e nessun'altra manifestazione organica dava simili risultati, se non... se non, appunto… Vanessa era incinta? Vanessa era incinta? Continuava a domandarselo, come un robot, mentre fissava come un ebete il libro che aveva appena letto. Un libro che d'ora innanzi avrebbe consultato con un accuratezza malata. Il libro della verità, era il libro della verità, la sua Bibbia, così l'aveva battezzato risalendo le scale, con un sorriso che gli arrivava fin dietro la nuca. Isabella l'aveva osservato andarsene come chi ha appena saputo di aver vinto il totocalcio, notando che, al suo arrivo, non era stato altrettanto euforico; cosa gli fosse successo non avrebbe mai potuto immaginarlo, ma era evidente che qualcosa doveva averlo scombussolato, toccato nell'intimo, nella mezz'oretta in cui s'era intrattenuto nell'antro bibliotecario. Qualcuno le aveva detto che aveva qualche problema ad avere i bimbi, ma certo non si aspettava che il motivo della sua gioia improvvisa potesse essere riconducibile a quello. Lungo la strada del ritorno, Ettore era così contento che per via della disattenzione, per poco, non era finito a terra, in almeno un paio di occasioni; saltando con troppa foga su un marciapiedi nei pressi delle elementari e superando con eccessiva disinvoltura un fossetto lungo la via Dante. A casa era corso ansimante da Vanessa, ancora sdraiata sul divano, intenta a seguire un documentario sulla natura del Borneo su Rai Tre, per dirle che non vedeva l'ora di cucinare qualcosa di buono per lei. Vanessa era sbalordita. Sapeva che il marito spesso si dedicava alla cucina - come peraltro vi si sarebbe dovuto dedicare quella sera stessa, in occasione dell'arrivo dei suoceri - ma era l'entusiasmo che lo distingueva in modo così manifesto a suscitarle qualche dubbio. Gli occhi gli uscivano dalle orbite.
«Cosa ti prende? Non mi sembri tanto normale... hai incontrato qualcuno...».
Ettore le era andato incontro baciandola sulla fronte con vivo trasporto, del tutto indifferente da ciò che gli aveva appena detto. L'aveva fissata negli occhi come se la vedesse per la prima volta.
«Ti amo amore mio, e vorrei ringraziarti per avere scelto proprio me. È un onore poterti stare accanto. E poterlo ancora fare per il resto dei miei giorni… l'unica cosa che chiederei, se dovessi tornare indietro, sarebbe poterti conoscere ancor prima…».
Vanessa s'era commossa. Non era la prima volta che Ettore esprimeva in modo così esplicito i suoi sentimenti, tuttavia in quest'occasione, c'era qualcosa che strideva. Qualcosa che non riusciva a mettere a fuoco. C'era per forza qualcosa che Ettore aveva fatto o aveva saputo che l'aveva reso tanto contento; non poteva essere solo il frutto di un'improvvisa ed estemporanea letizia. Ma non c'era stato modo di cavarglielo. All'ora di cena i due s'erano ritrovati uno di fronte all'altro, come accadeva tutte le sere, con la televisione sintonizzata su Rai Uno. C'era uno speaker vestito a puntino, con l'aria sbattuta, che annunciava un fatto di cronaca, di quelli che fanno davvero notizia: era saltata per aria una centrale nucleare in Ucraina, sul confine con la Bielorussia. La coppia era sbigottita, ma mentre Vanessa aveva avuto un sussulto di tristezza, Ettore - scordata la meraviglia iniziale - sembrava del tutto insensibile alla tragedia che si stava consumando. Vanessa era rimasta infastidita dall'atteggiamento superficiale del marito e non aveva potuto fare a meno di redarguirlo.
«Ma ti rendi conto di ciò che è successo?».
«Mi rendo conto benissimo».
«Dal tuo atteggiamento non si direbbe».
Ettore era zittito. Aveva notato il disappunto della moglie, ma non aveva trovato modo di riuscire a vincere la contentezza che l'aveva contagiato dal rientro dalla biblioteca.
«Quel che non mi spiego è come tu possa trovare il coraggio di discuterne col sorriso sulle labbra…».
Ettore aveva cercato di farsi serio, più per esaudire il malcontento della moglie che non per la reale volontà di raddrizzare il tiro. 
«Beh, l'Ucraina è tanto lontana da noi… non vedo che rischi potremmo correre…».
«E alle persone che vivono là? Non ci pensi? A tutte le famiglie che dovranno abbandonare le loro case…».
Ettore s'era abbandonato a un'espressione di sufficienza, come chi intende dimostrare una certa superiorità. Era del resto troppo felice per poter farsi carico di un dolore così lontano e impalpabile. Lui, ormai, ne era convinto: sarebbe diventato papà. C'erano i sintomi. I quattro sintomi chiave della gravidanza riportati dal libro della biblioteca, erano proprio quelli accusati dalla moglie.
«A volte non ti capisco».
«Amore, non c'è nulla da capire».
«Sei sempre così presente... ma a volte ti comporti proprio come un bambino…».
Ettore non stava più nella pelle, ma voleva resistere.
«Un bambino, appunto… Come va la nausea?».
«Ma che c'entra?», aveva chiesto stizzita Vanessa.
«Mi rispondi?».
«Va un po' meglio... ma la sento ancora, purtroppo. Spero mi passi in fretta».
«E la pipì?».
Vanessa l'aveva guardato con commiserazione.
«Certo che oggi sei proprio strano... stiamo mangiando, per favore, non potresti cambiare argomento?».
A Ettore erano luccicati gli occhi. Avrebbe voluto aprire il sacco, ma… non sapeva nemmeno lui perché alla fine aveva preferito temporeggiare. In ogni caso le avrebbe detto tutto l'indomani, al risveglio, sperando in una felice e indimenticabile domenica di sole.