Amava i bambini ma non poteva averne. E così concentrava tutte le sue attenzioni sui piccoli che teneva all'asilo nido presso l'appartamento A del settimo piano. Era come un mega alloggio trasformato in un mondo variopinto di pupazzi, marionette e palloncini gonfiati. Le pareti pitturate di azzurro, i sanitari blu, i mobili rossi, gialli e verdi... Non ci potevano stare molti bambini, al massimo cinque, ma erano seguiti con grande attenzione, cosa che non accadeva negli asili nido normali e che spingeva, quindi, varie famiglie a prendere in considerazione quest'opportunità. Ovviamente i costi erano tutt'altro che lusinghieri. Quasi una rata del mutuo. Perciò riguardava solo i più abbienti del circondario, ossessionati dall'idea di voler crescere il proprio piccolo, se non in una campana di vetro, in un posto che potesse in qualche modo rincorrere la sciccheria del proprio background esistenziale. Si prendeva cura della struttura Vanessa Romilde, una biondina frizzante e allegra, chioma bionda e fianchi da epopea mussoliniana. La neosposina, originaria di Vimercate, aveva studiato per diventare una professoressa di lettere, ma si era presto resa conto che la sua vocazione era quella di dedicare la vita ai più piccoli. Diceva di avere fatto esperienza durante i primi anni di università, prestandosi come educatrice presso la scuola estiva di Usmate. Una volta ottenuta la laurea presso la statale di Milano, aveva, dunque, preso in gestione il grande spazio presente in cima al palazzone omatese, di fianco allo studio Cinque degli architetti Tarcisio Cornolti e Gaspare Flaminio. Erano due grandi spazi, ideati fin dal principio per ospitare realtà associative, uffici o enti privati, e non nuclei familiari. Appartenevano a un imprenditore di Novara che era solito acquistare immobili in Lombardia da offrire poi in affitto; si diceva che gestisse i suoi possedimenti in modo non sempre lucido, imboscandosi di tanto in tanto quote che non gli competevano (come se ne avesse avuto bisogno!), tuttavia non aveva mai avuto guai con la giustizia. Vanessa aveva preso la palla al balzo, potendo contare sull'appoggio dei genitori, che le erano andati incontro per sostenere soprattutto le spese relative all'arredamento e all'allestimento delle infrastrutture necessarie ad accogliere adeguatamente tante pesti scatenate. In seguito aveva ripagato lo sforzo dei genitori, mostrando di essere davvero all'altezza della situazione e di meritare il posto ottenuto; aveva messo in campo tutta la sua amorevolezza e docilità con i bimbi, avviando un'attività che aveva dato subito buoni frutti. Tutto sommato, non aveva neanche fatto fatica. Le veniva naturale lavorare coi bimbi. Anche nelle situazioni più difficili sapeva sempre come cavarsela. Se i bambini piangevano tutti assieme, si metteva a saltare come un clown e nel giro di pochi secondi riusciva a catturare la loro attenzione ripristinando l'ordine; aveva appositamente acquistato una maschera da clown dal Carrera di via Madonnina, ad Agrate, per risolvere al meglio questa impellenza. Era meglio di Mary Poppins. Così, qualcuno, aveva cominciato a chiamarla. Sicché, per via di questa sua attitudine naturale alla custodia dei più piccoli, in molti si chiedevano come mai proprio a lei fosse capitata l'ingiustizia di non potere avere figli; per quale scherzo del destino quasi tutte le sue amiche erano mamme felici, mentre lei, che sarebbe potuta essere la migliore, non aveva ancora potuto godere le gioie della maternità.
«I misteri della vita», blaterava la mamma di Sangalli.
«È una brava ragazza. Le manca solo un bel bambino. E pensare che tutti i giorni ha a che fare con così tanti frugoletti...», sentenziava la moglie di Zanetti.
Ma Vanessa non si lasciava sopraffare dalla tristezza, né dello sgomento. Certo, il responso dei medici era stato tutt'altro che benevolo, ma lei ancora ci credeva: viveva nell'assoluta convinzione che anche lei un giorno sarebbe potuta diventare mamma e avrebbe potuto appendere fuori dalla porta un bel fiocco azzurro o rosa. Rosa, l'avrebbe preferito... le piaceva il nome Martina. Filippa. E Gaia. Le piacevano i nomi rari, che si sentivano poco in giro. Qualche medico l'aveva congedata compassionevolmente, notando il rammarico nel profondo dei suoi occhi. Ma lei non si era arresa. Era anche per via della sua profonda fede, ereditata dai genitori, assidui frequentatori della parrocchia, amici dei Tresoldi. Pensava e ripensava alla storia di Abramo; e a Sara, che aveva concepito Isacco solo in tarda età, dopo la notte fedifraga del patriarca con Agar, che gli avrebbe dato Ismaele. Se era successo a Sara di avere Isacco, quando ormai nessuno l'avrebbe creduto, e la fisiologia umana non avrebbe dovuto permetterlo, perché non sarebbe potuto accadere anche a lei? L'asilo nido e la costante vicinanza al mondo dei più piccoli era stato, dunque, un buon pretesto per continuare a credere in questo sogno, anche se agli occhi dell'unanimità era come credere nelle fate e nei folletti. C'era peraltro il presupposto relativo al fatto che, chi si circonda di bambini, per un imprescindibile meccanismo esoterico, doveva essere portato a viverli in prima persona, nel ruolo di padre o madre. Era stato soprattutto il dottor Mino Garrone, un amico di famiglia, a dissuaderla da questa del tutto lecita ambizione, che, se non si fosse realizzata, l'avrebbe potuta gettare nella prostrazione più totale. Aveva già avuto numerose esperienze di pazienti che, convinte presto o tardi di rimanere incinte, erano poi psicologicamente crollate quando, superati i quarant'anni, s'erano rese conto che nemmeno la santa Vergine in persona avrebbe potuto allietare il loro divenire.
«Dottore mi dica la percentuale», aveva chiesto Vanessa, nel corso di una delle ultime visite.
«Non posso stabilire dei numeri, la medicina non è una scienza esatta».
«La prego».
Garrone aveva aggrottato le sopracciglia, rincorrendo una risposta che non avrebbe mai voluto dare, e che, in cuor suo, sapeva peccasse in ottimismo.
«Direi che non ha più del 5 percento di possibilità di rimanere incinta».
La prima mazzata, però, l'aveva superata in fretta e dopo qualche mese era tornata di nuovo a credere di poter diventare mamma. Non era solo la fede a convincerla. Glielo suggerivano anche vari fatti di cronaca, coi quali spesso si confrontava, compreso l'ultimo che aveva sentito poche settimane prima dell'esplosione di Chernobyl. Riguardava l'amica di un'amica, ormai prossima alla menopausa, che s'era ritrovata con un bimbo nella pancia dopo vent'anni di tentativi andati in fumo. Non ci poteva credere. Dopo la prima ecografia era stata colta da una mezza crisi isterica, a metà strada fra la gioia più incontenibile, e lo sfogo rabbioso di un dolore rimasto imprigionato per troppi lustri. Non era l'unica. Negli ultimi tempi, anche una donna di Ornago che aveva atteso per tanto di diventare mamma era rimasta incinta; così una neomamma di Bernareggio con già in mano il biglietto per un giro del mondo in nave, promessa che s'era fatta quando aveva saputo con certezza che non avrebbe più avuto chance di concepire. Rifletteva poi con passione sulla vicenda di Louise Brown, passata alla storia come la prima bambina “in provetta”, nata grazie alla fecondazione in vitro. Non ne sapeva nulla della fecondazione in vitro, eppure era convinta che un giorno tutte le donne avrebbero potuto avere figli senza problemi: dove non sarebbe arrivata la fede, avrebbe vinto la medicina. Vanessa andava, dunque, avanti per la sua strada, con i suoi pensieri e le sue idee strampalate, anche se il mondo ruotava dalla parte opposta e ogni nuova visita conferiva sempre meno speranze. Perfino il marito aveva deciso di darci un taglio e rassegnarsi al destino di non poter mai diventare padre. Ettore Giravolta aveva altresì cercato di convincere la moglie a comportarsi nello stesso modo, ma Vanessa era sorda. E come se niente fosse continuava imperturbabile a costringerlo a rapporti cadenzati e periodici, osservando il ciclo lunare e quello mestruale, la temperatura basale e tutti gli accorgimenti necessari a facilitare un concepimento. Da un punto di vista fisiologico, il problema di Vanessa era legato a un'anatomia bizzarra delle sue tube uterine, tali per cui il seme maschile doveva compiere uno strano e assurdo tragitto prima ci colpire il bersaglio. Non era stato facile arrivare a questa diagnosi. Erano occorsi esami su esami. Per un anno intero era stata in ballo con un dottore di Cavenago, convinto che Vanessa soffrisse di una rara malattia, la sindrome di Kallmann, in grado nelle donne di creare seri danni a livello ormonale, da cui tutto parte per una sana e potenziale gravidanza. Poi era subentrata l'endometriosi. Un medico di Casatenovo era, infatti, convinto che i dolori periodici che la ragazza accusava al basso ventre fossero imputabili a questo. Inoltre soffriva spesso di perdite abbondanti e dolorose, altro parametro in linea con questa tragica supposizione. Infine le cose erano state viste correttamente da un luminare del San Gerardo di Monza, che aveva suggerito a Vanessa un intervento, tentando l'ultima carta per dare alla luce un figlio. In realtà l'intervento non era servito a molto, se non a provocarle una dolorosa fase post operatoria, a confermare le ipotesi iniziali e la triste verità che Vanessa non potesse avere bambini.
«È una situazione complessa», aveva detto Marino Marini, ginecologo del San Gerardo, «non capitano spesso casi come questi. È un problema a livello organico, genetico. Si porta dietro quest'anomalia dalla nascita e non è facile venirne a capo. Anche la medicina, talvolta, deve arrendersi davanti alla natura».
Marito e moglie seguivano le parole dello specialista con un sorriso mogio e perduto.
«In pratica le tube di Falloppio seguono un percorso irregolare, così da impedire il normale flusso spermatico... quando gli spermatozoi arrivano a percorrere l'ultimo tratto, si trovano di fronte una specie di sbarramento e si bloccano...».
Il dottore gli aveva fatto vedere cosa succedeva alle tube di Vanessa abbozzando un disegnino prossimale, con due “tubetti” che si accartocciavano fra loro, e mettendo in luce con un tratto più marcato, il cammino di piccole macchinine con una testa arrotondata.
«È molto grave, vero dottore?», aveva chiesto Vanessa.
«Signorina, non stiamo valutando la gravità della prerogativa anatomica in sé... che certamente non ha ritorni sulla sua salute generale; consideriamo, però, quelle che possono essere, in tutta onestà, le sue potenzialità riproduttive. E a questo proposito mentirei se non le dicessi che la sua situazione è molto complicata...».
Ettore, pur ricordando la vecchia tesi di Garrone, era tornato a parlare di percentuali.
«Si può fare una stima?».
«Volete sapere quante percentuali avete di...».
«Esattamente».
Vanessa era trepidante.
«Se devo proprio essere sincero... le vostre chance sono inferiori all'1 percento».
Vanessa ed Ettore s'erano guardati affranti, come forse - dacché condividevano lo stesso letto - non s'erano mai guardati. Sembrava allo stesso tempo un traguardo, tristissimo, e un nuovo punto di partenza, verso, però, realtà ben diverse da quelle che avevano supposto regalandosi il loro sì sull'altare di Vimercate. Sapevano che Marini era l'ultima loro spiaggia. Se anche lui aveva sentenziato una simile condanna, c'era ben poco da appellarsi a santi e madonne. O tentare nuove visite specialistiche. C'era una sola cosa saggia da fare: mettersi l'anima in pace. I due se n'erano andati in silenzio e nel mutismo più assoluto erano rincasati, sapendo che ogni commento sarebbe stato vano. Guardavano fuori dal finestrino come se stessero osservando un vecchio e malinconico film, senza più nulla da dire. I mesi successivi erano stati altrettanto deprimenti. Li avevano passati fra alti e bassi, fra la consapevolezza sempre più netta che non sarebbero mai diventati genitori e l'assurdo rovescio della medaglia tale per cui, non diventando genitori, si sarebbero almeno potuti godere la vita, nel senso più frugale del termine, magari viaggiando. A entrambi piaceva l'idea di poter visitare un giorno la Cina, un popolo tanto misterioso, quanto invitante e pieno di fascino. Avevano conosciuto un tale che viveva a Pechino da dieci anni e che gli aveva vivamente consigliato il paese orientale. A detta dell'amico era un paese in pieno fermento. Vincenzo Murra s'era laureato a pieni voti in economia e commercio a ventitré anni; era migrato in Cina subito dopo gli studi, e nel giro di pochi anni aveva costruito un impero. Vanessa lo adorava, mentre Ettore lo riteneva un tipo un po' troppo pieno di sé, borioso e saccente. Quando lo vedeva arrivare, sbuffava. Diceva, da veggente quale poi si sarebbe rivelato, che sarebbero stati ancora lontani i tempi del boom economico cinese, ma qualcosa stava già accadendo, in funzione di un pil in progressiva crescita, che avrebbe presto surclassato tutti quelli degli altri paesi. A Pechino era diventato un boss, e frequentava l'elite del paese, avendo velocemente imparato la lingua ed essendosi fidanzato addirittura con una parente della famiglia reale. Il giorno dell'esplosione di Chernobyl, Vanessa aveva, dunque, pensato proprio a lui, all'amico cinese. L'aveva rivisto perfino in chiave maliziosa, accarezzando una passione erotica, che col marito, dopo l'ennesimo verdetto negativo, era andata un po' smorzandosi. Il vero scopo, però, era contattarlo proprio per indagare, per un futuro prossimo, la fattibilità di un viaggio in estremo oriente. A un certo punto aveva iniziato a fare i conti con se stessa. Ormai, nonostante le fervide speranze nelle quali aveva sempre riposto, era davvero arrivato il momento di riflettere sul fatto che, quasi sicuramente, non sarebbe mai diventata mamma e che si sarebbe potuta, quindi, dedicare – almeno durante le vacanze - al turismo internazionale. Peraltro la sua professione le offriva l'opportunità di congedarsi dal lavoro per due mesi abbondanti, quelli estivi, appunto, in cui i piccoli vanno via con i genitori o i nonni. Non era una fortuna che capitava a tutti. Certo, non avrebbe compensato la mancanza di figli, ma in qualche modo le avrebbe consentito di vivere con dignità e soddisfazione. Era tornata a rimuginare sulla fede e la religione, senza però particolari rancori; evidentemente il Signore aveva preferito così. In realtà, aveva pensato al cinese perché non aveva avuto altro da fare per quasi tutto il giorno. I mestieri li avevano risolti due giorni prima, il raid per la spesa settimanale pure; da sempre andavano all'Esselunga tutti venerdì pomeriggio, sul tardi, prima della chiusura e si rifornivano per una o due settimane. Era rimasta in casa l'intero dì - sul confine fra Agrate e Omate, in prossimità della curva di via Dante, un bilocale senza tante pretese - per via di un senso di stanchezza che già da un po' di giorni la perseguitava. Le cedevano le gambe e le si chiudevano gli occhi, con le palpebre pesanti e l'incapacità ad assolvere qualunque lavoro.
«Per fortuna è arrivato il fine settimana», aveva confidato a Ettore, venerdì sera, prima di addormentarsi.
«Forse avresti bisogno di qualche ricostituente».
«Non parlare come tua madre», aveva ribattuto seccamente.
Aveva dato la colpa ai primi caldi. Le succedeva spesso con l'arrivo della bella stagione. La pressione le scendeva sotto le scarpe e non c'era modo di poterla vedere arzilla e attiva, com'era tipicamente durante i rigori invernali. E come tutti, del resto, la conoscevano. In mattinata, Ettore era rimasto al suo fianco, prima di uscire per una capatina dal panettiere e dal giornalaio, i classici movimenti del sabato mattina. Prima di salutarsi con un bacio sbrigativo sulla porta di casa, s'erano ricordati che sarebbero stati leggeri a pranzo. Si sarebbero rifatti in serata, avendo già in programma da qualche giorno di preparare qualcosa di più succulento, tenuto conto del fatto che, con ogni probabilità, sarebbero arrivati a fargli visita i genitori di Vanessa. Più tardi, invece, s'erano accordati per andare al cinema. Sarebbero voluti andare a vedere "Il colore viola", l'ultimo lungometraggio di Steven Spielberg. Veniva classificato come un romanzo epistolare imperniato sull'amore fra due sorelle di colore e sui loro differenti destini dal 1908 al 1937, preso da un lavoro di Alice Walker, premio Pulitzer 1983. Queste le previsioni. Poi, però, le cose erano andate in modo completamente diverso. Il papà di Vanessa, infatti, durante il pomeriggio del 26, aveva avuto un attacco di dissenteria acuta e aveva detto alla moglie che non sarebbe stato il caso di uscire per cena. Anche a lui erano mancate all'improvviso le forze e non si sarebbe schiodato da casa, nemmeno a pagarlo.
«Mi sento come se mi fosse passato sopra un tir», aveva confidato alla moglie».
Vanessa non l'aveva presa bene. Aveva proprio voglia di circondarsi delle persone che aveva più care, in un momento di stanca come quello che stava passando, forse – cominciava a pensare – dovuto a una larvata depressione. Aveva, perciò, insistito con mamma al telefono.
«Tira giù dal divano l'orso di papà, che gli fa bene muoversi un po'».
«Tesoro, tuo padre è veramente ko. Non credo riusciremo a venire. Ha già detto che rimarrà incollato alla tv tutto il giorno...».
«Ma dai, siamo in casa, mica in capo al mondo... Al limite può stare leggero... Ettore ha già pensato cosa cucinare...».
«Lo sai com'è tuo padre. Basta poco a stenderlo. Ha già detto che se voglio posso venire io, ma lui non si muove. Inutile insistere, poi diventa una iena».
Così s'era dovuta rassegnare all'idea di una normalissima serata col marito, con la capatina al Metropol di Monza, quale ciliegina sulla torta. Verso il tardo pomeriggio, però, aveva cominciato ad accusare strani dolori allo stomaco. A raggiera. Partivano dal basso e raggiungevano la bocca dello stomaco, fino a sfiorare lo sterno. Ma analizzando con più attenzione il problema, s'era resa conto che gli spasmi non erano legati alla dissenteria, né al nervosismo, bensì alla nausea. Proprio lei che non aveva mai sofferto di nausea in vita sua. Sentiva che cavalcava il suo esofago, facendole sussultare la parte alta del corpo come se si fosse trovata su qualche giostra. Con la nausea era sopraggiunta anche la necessità di continuare ad andare in bagno a fare pipì: percepiva lo stimolo, ma poi non faceva che un rigagnolo di ammoniaca dorata, come se la sua vescica avesse perso la naturale capacità di spurgare secondo i dettami di madre natura.
«Non so se riusciremo ad andare al cinema. Se mi devo alzare ogni due minuti per andare in bagno...».
«Non ti preoccupare. Più tardi vediamo. Il cinema non scappa».
I sintomi erano simili a quelli della cistite, ma, in questo caso, non provava alcun bruciore, né dolore. Era solo l'impellenza di urinare, come se avesse avuto in pancia un gatto che le graffiava le interiora in cerca di una via di uscita. Ettore le era stato accanto per buona parte del pomeriggio, cercando di lasciarla riposare il più possibile. In cuor suo era un po' preoccupato, benché non le avesse confidato apertamente questo suo sentimento per non darle inutili pene. Il punto è che trovava strana questa sua stanchezza e non comprendeva che legame potesse esserci con la nausea. Già altre volte aveva saputo della sua mancanza di energie, ma gli suonava decisamente strano che dovesse passare un intero pomeriggio sdraiata sul divano con l'unico obiettivo di arrivare presto a sera per dover andare a letto a dormire. Stava pensando, quindi, che se fosse andata avanti così, l'avrebbe convinta a rivolgersi al medico per fare qualche esame. Anche se, negli ultimi tempi, di analisi ne aveva fatte di tutti i colori; ma forse non quelle veramente necessarie a valutare certi parametri vitali. Verso le 17.00, le si era avvicinato accarezzandole il volto, per chiederle se aveva voglia di mettere qualcosa sotto ai denti.
«Non so nemmeno io», aveva detto con aria abbacchiata.
«Se ti va ti preparo un tè...».
Ma non aveva finito la frase perché giungendo ad accarezzarle la spalla sinistra e l'avambraccio, s'era accorto che c'era qualcosa che non andava alle sue braccia; braccia che conosceva a menadito e che chissà quante volte aveva esplorato da cima a fondo, spesso in funzione di un lungo e romantico approccio sessuale. Non che fossero ammalate, o mostrassero qualche strana manifestazione a livello epidermico. Semplicemente era come se si fossero trasformate, fossero cambiate, avessero cambiato morfologia, si fossero irrobustite, come se fossero diventate più... cicciotte. Soprattutto fra l'omero e il cinto scapolare, parevano essersi formati due cuscinetti di carne che prima d'ora non s'erano mai visti nella responsabile dell'asilo nido del condominio omatese. Li aveva palpati con diletto, sincerandosi di un fatto alquanto strano del quale, la stessa Vanessa, probabilmente, ne era del tutto all'oscuro. Peraltro, aveva riflettuto, negli ultimi mesi, la moglie aveva perso un paio di chili e non sembrava proprio che stesse ingrassando. Ettore aveva continuato a rimuginare su questi segni enigmatici dell'amata, anche mentre le preparava il tè e con lo sguardo meditabondo scrutava il veleggiare delle foglie della quercia rossa che cresceva rigogliosa sulla curva di via Dante. Mosso da questa serie di pensieri, s'era versato una tazza di tè anche per lui, prima di chiedere alla moglie il permesso per fare un salto in biblioteca, dove doveva consegnare un libro scaduto da un paio di settimane. Per Vanessa non c'era stato problema.
«Vai pure tesoro, ma non fare tardi… oggi non mi va di rimanere sola…».
Ettore era corso in via don Minzoni, presso la biblioteca agratese, non tanto per consegnare il testo scaduto, quanto per consultare il libro di medicina che già altre volte aveva sfogliato, per risolvere il mistero di particolari evidenze morbose, accorse a lui o a qualche parente: l'ultima volta, per esempio, s'era documentato sulla natura dello streptococco che a un'amica aveva provocato un danno al cuore. Aveva così scoperto che un banale mal di gola, se trascurato, può interferire con il normale funzionamento delle valvole cardiache, creando seri problemi. Al cospetto di Isabella Montenegro, la bibliotecaria del paese, aveva, dunque, chiesto la possibilità di scendere dabbasso dove risiedevano le enciclopedie e il volume, appunto, che andava cercando. Isabella gli aveva fatto un cenno di sì col capo, sapendo benissimo chi fosse Ettore e che fosse uno fra i pochi utenti che periodicamente si avventuravano al di là dei confini canonici della biblioteca. Aveva percorso con soddisfazione le irte scale che conducevano nel piano sotterraneo, come un bambino a caccia di un tesoro nascosto. Gli piaceva l'odore di muffa e il sapore di stantio che si respirava in quell'angolo della struttura comunale. E dove, al contrario della parte soprastante, non c'era mai nessuno. Inoltre, per ogni tipo di ricerca, sapeva perfettamente dove andare a parare, essendo un frequentatore abituale della biblioteca. Al termine “stanchezza”, però, non aveva saputo che pesci pigliare. La “stanchezza”, infatti, era legata a un numero spropositato di malattie, dalle più banali alle più serie. Non esisteva una valida possibilità di discernimento. Poteva volere dire tutto e niente. Così era finito col consultare la voce “nausea”, e qui gli si era accesa una scintilla nella mente. Legata alla nausea, infatti, risultava anche un fenomeno che non aveva nulla a che vedere con le malattie, essendo un aspetto dell'umanità del tutto normale: la gravidanza. La gravidanza? La gravidanza… Il suo cervello era andato in escandescenza, e immediatamente aveva collegato il tutto al fatto che una decina di giorni prima, lui e la moglie avevano fatto l'amore con particolare trasporto; sapendo che Vanessa era proprio nel mezzo del ciclo. È vero, era già successo qualcosa del genere anche in altre occasioni, ma poi non si era verificata nessuna nausea, né altri sintomi sospetti. Da qui s'era fiondato alla voce “gravidanza” e quindi al sottotitolo “segni della gravidanza”. Per poco non gli prendeva un colpo. I primi quattro segni della gravidanza nelle primissime fasi erano: stanchezza, nausea, bisogno di fare pipì e un generico irrobustimento delle braccia e delle spalle. Aveva chiuso il libro di medicina fissando il soffitto con il cuore entrato in leggera tachicardia.
«Cazzo!», aveva esclamato a voce alta. «Cazzo, non ci posso credere. Allora è vero che Dio esiste, allora è vero… Non posso crederci, non posso crederci!!».
E invece non aveva potuto far altro che crederci. C'erano tutti i segni della gravidanza e nessun'altra manifestazione organica dava simili risultati, se non... se non, appunto… Vanessa era incinta? Vanessa era incinta? Continuava a domandarselo, come un robot, mentre fissava come un ebete il libro che aveva appena letto. Un libro che d'ora innanzi avrebbe consultato con un accuratezza malata. Il libro della verità, era il libro della verità, la sua Bibbia, così l'aveva battezzato risalendo le scale, con un sorriso che gli arrivava fin dietro la nuca. Isabella l'aveva osservato andarsene come chi ha appena saputo di aver vinto il totocalcio, notando che, al suo arrivo, non era stato altrettanto euforico; cosa gli fosse successo non avrebbe mai potuto immaginarlo, ma era evidente che qualcosa doveva averlo scombussolato, toccato nell'intimo, nella mezz'oretta in cui s'era intrattenuto nell'antro bibliotecario. Qualcuno le aveva detto che aveva qualche problema ad avere i bimbi, ma certo non si aspettava che il motivo della sua gioia improvvisa potesse essere riconducibile a quello. Lungo la strada del ritorno, Ettore era così contento che per via della disattenzione, per poco, non era finito a terra, in almeno un paio di occasioni; saltando con troppa foga su un marciapiedi nei pressi delle elementari e superando con eccessiva disinvoltura un fossetto lungo la via Dante. A casa era corso ansimante da Vanessa, ancora sdraiata sul divano, intenta a seguire un documentario sulla natura del Borneo su Rai Tre, per dirle che non vedeva l'ora di cucinare qualcosa di buono per lei. Vanessa era sbalordita. Sapeva che il marito spesso si dedicava alla cucina - come peraltro vi si sarebbe dovuto dedicare quella sera stessa, in occasione dell'arrivo dei suoceri - ma era l'entusiasmo che lo distingueva in modo così manifesto a suscitarle qualche dubbio. Gli occhi gli uscivano dalle orbite.
«Cosa ti prende? Non mi sembri tanto normale... hai incontrato qualcuno...».
Ettore le era andato incontro baciandola sulla fronte con vivo trasporto, del tutto indifferente da ciò che gli aveva appena detto. L'aveva fissata negli occhi come se la vedesse per la prima volta.
«Ti amo amore mio, e vorrei ringraziarti per avere scelto proprio me. È un onore poterti stare accanto. E poterlo ancora fare per il resto dei miei giorni… l'unica cosa che chiederei, se dovessi tornare indietro, sarebbe poterti conoscere ancor prima…».
Vanessa s'era commossa. Non era la prima volta che Ettore esprimeva in modo così esplicito i suoi sentimenti, tuttavia in quest'occasione, c'era qualcosa che strideva. Qualcosa che non riusciva a mettere a fuoco. C'era per forza qualcosa che Ettore aveva fatto o aveva saputo che l'aveva reso tanto contento; non poteva essere solo il frutto di un'improvvisa ed estemporanea letizia. Ma non c'era stato modo di cavarglielo. All'ora di cena i due s'erano ritrovati uno di fronte all'altro, come accadeva tutte le sere, con la televisione sintonizzata su Rai Uno. C'era uno speaker vestito a puntino, con l'aria sbattuta, che annunciava un fatto di cronaca, di quelli che fanno davvero notizia: era saltata per aria una centrale nucleare in Ucraina, sul confine con la Bielorussia. La coppia era sbigottita, ma mentre Vanessa aveva avuto un sussulto di tristezza, Ettore - scordata la meraviglia iniziale - sembrava del tutto insensibile alla tragedia che si stava consumando. Vanessa era rimasta infastidita dall'atteggiamento superficiale del marito e non aveva potuto fare a meno di redarguirlo.
«Ma ti rendi conto di ciò che è successo?».
«Mi rendo conto benissimo».
«Dal tuo atteggiamento non si direbbe».
Ettore era zittito. Aveva notato il disappunto della moglie, ma non aveva trovato modo di riuscire a vincere la contentezza che l'aveva contagiato dal rientro dalla biblioteca.
«Quel che non mi spiego è come tu possa trovare il coraggio di discuterne col sorriso sulle labbra…».
Ettore aveva cercato di farsi serio, più per esaudire il malcontento della moglie che non per la reale volontà di raddrizzare il tiro.
«Beh, l'Ucraina è tanto lontana da noi… non vedo che rischi potremmo correre…».
«E alle persone che vivono là? Non ci pensi? A tutte le famiglie che dovranno abbandonare le loro case…».
Ettore s'era abbandonato a un'espressione di sufficienza, come chi intende dimostrare una certa superiorità. Era del resto troppo felice per poter farsi carico di un dolore così lontano e impalpabile. Lui, ormai, ne era convinto: sarebbe diventato papà. C'erano i sintomi. I quattro sintomi chiave della gravidanza riportati dal libro della biblioteca, erano proprio quelli accusati dalla moglie.
«A volte non ti capisco».
«Amore, non c'è nulla da capire».
«Sei sempre così presente... ma a volte ti comporti proprio come un bambino…».
Ettore non stava più nella pelle, ma voleva resistere.
«Un bambino, appunto… Come va la nausea?».
«Ma che c'entra?», aveva chiesto stizzita Vanessa.
«Mi rispondi?».
«Va un po' meglio... ma la sento ancora, purtroppo. Spero mi passi in fretta».
«E la pipì?».
Vanessa l'aveva guardato con commiserazione.
«Certo che oggi sei proprio strano... stiamo mangiando, per favore, non potresti cambiare argomento?».
A Ettore erano luccicati gli occhi. Avrebbe voluto aprire il sacco, ma… non sapeva nemmeno lui perché alla fine aveva preferito temporeggiare. In ogni caso le avrebbe detto tutto l'indomani, al risveglio, sperando in una felice e indimenticabile domenica di sole.