12 agosto
81.
Il Marengo e il
Boffalora s'erano dati appuntamento nel palazzo del conte Trivulzio; il
quartier generale del paese, in procinto di trasformarsi nel vero e proprio
municipio del borgo. Lì venivano conservate e protette tutte le pratiche
comunali, i numerosi incartamenti relativi alle attività agricole dei paesani,
e varie mappe che consentivano di avere un controllo dettagliato del territorio.
Prima dell'arrivo di Raimondo s'era occupato di tutto questo pandemonio Attilio
Penati, severo podestà che aveva regnato sul buraghese per quasi tre decenni.
«Buongiorno Marengo», esordì
il Boffalora.
«Eccoci di nuovo».
«Eh già, questa storia
non finisce più».
Entrarono nel palazzo
nobiliare e raggiunsero la grande sala del “governo”, presso la quale erano
soliti fissare gli incontri con gli altri uomini del paese per risolvere le
faccende più spinose. L’ultima volta vi erano stati per decidere il punto più
strategico dove poter affissare i nuovi comunicati municipali, forgiati per la
prima volta con una stampante di nuova generazione che prometteva miracoli. Era
necessario un posto in cui tutti i cittadini potessero vedere bene quel che i
grandi capi ordinavano; spesso i diktat, peraltro, arrivavano direttamente da
Milano, o da Vimercate, e non potevano passare inosservati. Il posto ideale l'avevano
individuato a ridosso della curia, di fianco al grande olmo che da almeno un
paio di secoli faceva ombra sul cuore del villaggio. Qui avevano installato un
grande pannello di legno, dove, d’estate, per mancanza di notizie, venivano
appiccicati gli avvisi relativi a oggetti dimenticati in giro per qualche
contrada o qualche annuncio funebre.
«Dunque, la matassa si
sta sbrigliando», disse il Boffalora, con una punta di orgoglio.
Benché non avesse fatto
quasi nulla, si sentiva in qualche modo responsabile dell’attività
investigativa del Marengo.
«Così sembra», disse il
saggio della comunità.
«E’ incredibile quello
che abbiamo scoperto».
«Incredibile è dire
poco. C’è una parte di me che ha quasi paura a proseguire nelle indagini, per
il timore di scoprire chissà quale altra assurda verità».
«Don Filippo s’è
comportato in modo sconsiderato».
Il Marengo fece
spallucce.
«Un comportamento troppo
superficiale, da irresponsabile, da...».
«Non dica così
Boffalora, l'argomento è imbarazzante, ma non abbiamo il diritto di giudicare la
morale dei compaesani», sentenziò con aria grave il Marengo. «Io non me ne
intendo molto di sentimenti, ma penso che non sia stato facile per il prete e
che in qualche modo debba essere giustificato».
«Diamine, Marengo, ma
vuole scherzare?».
«Non sto scherzando».
«Come no, suvvia! Mica
si tratta di una donna qualunque, ma di una ragazzetta di quindici anni,
sedici... si rende conto? Una cosa del genere è degna di scomunica».
Alla parola “scomunica”
il Marengo perse il controllo e vergò un violento cazzotto sulla specie di
lungo mobile che aveva di fronte agli occhi. Ma si pentì quasi subito per il
gesto di stizza e chiese perdono.
«Mi deve scusare
Boffalora, ma le ultime ore sono state davvero molto pesanti. Avrei bisogno di
riposare un po’».
Il Boffalora comprese il
disagio e l'ansia del compaesano e assecondò il suo gesto collerico senza
dargli troppo peso.
«Non si preoccupi
Marengo, la posso capire».
«La ringrazio».
«Tuttavia penso non ci
sia nemmeno il tempo di riposare. Converrà con me che, a questo punto, è davvero
arrivato il momento di sferrare il colpo finale».
«Infatti, ci siamo quasi».
«Come pensa, quindi, di procedere?»,
domandò il sindaco.
«Eh, bella domanda».
«Ma un'idea ce l'avrà».
«Ce l'avrei… ma prima
dovremmo raccattare qua e là un po’ di volontari e tornare sul luogo del
delitto».
«Intende ritornare al
laghetto?».
«Intendo trovare qualche
prova in più… le prove non bastano mai e
non vorrei correre il rischio di raggiungere di nuovo i Greppi senza disporre
delle armi per stanarli definitivamente».
Il Boffalora si
abbandonò a un sorriso sterile, comunque convinto di seguire i suggerimenti del
saggio della comunità: le sue intuizioni, fino a questo punto, avevano fatto
tutte centro.
82.
Trovarono alcuni uomini
sparsi per la campagna e altri impegnati a dare una mano alle proprie donne a
sistemare le rispettive tenute. Il caldo sole degli ultimi giorni aveva
provocato non pochi problemi ai pollai e alle riserve di acqua piovana, trasformate
in otri di liquidi marcescenti. Molti animali non ce la facevano più ed erano
ridotti a pelle e ossa, disidratati e bisognosi di una bella rinfrescata. La
siccità continuava imperterrita per la sua strada e stava dando un violentissimo
colpo alla regione. C'era, per questo motivo, chi pensava che fosse necessario
costruire al più presto un nuovo pozzo, perché di lì a poco non ci sarebbe
stata abbastanza acqua per le abitazioni, e di sicuro anche l’irrigazione ne
avrebbe risentito. Per fortuna le acque del Molgora continuavano a scorrere felici
e beate, benedette dalle inesauribili sorgenti del torrente, poste molto più a
nord, che non dipendevano dai capricci del tempo.
D'altra parte, non era
la prima volta che un dramma simile si abbatteva sul buraghese. Anche fra i più
giovani c’era ancora chi si ricordava della terribile estate del ’45, di dieci
anni prima, in cui non aveva piovuto per tre mesi di fila e molte famiglie
erano finite sul lastrico. Numerose bestie erano morte, e a causa delle carni
marcescenti sparse un po’ in tutto il buraghese, era sorta una specie di
epidemia, che nessuno aveva saputo diagnosticare correttamente. Una trentina di
persone perirono per il misterioso morbo, dopo essersi riempite di bubboni su
mezzo corpo, finendo per assomigliare a dei malati di peste. Gandolfo
Brambillasca aveva fatto del suo meglio per curare i compaesani, ma anche lui
alla fine si era reso conto che qualunque medicina non avrebbe potuto fare
granché contro quella congiura divina. Si arrese e per quanto gli fu possibile sparì
per un po’ dalla circolazione, isolandosi dalla sensazione di morte che adombrava
l’intero abitato.
C’era un sacrosanto bisogno
di acqua, e il Molgora non poteva certo fare miracoli. Così Domenico Carimati,
il cugino del sindaco, solleticato da alcune donne che avevano cominciato a
dare in escandescenza aveva avuto la brillante idea di calarsi in uno dei pozzi
più importanti del paese per verificare il livello delle acque e per poco non
era morto soffocato. Dagli inferi aveva gridato che non ce la faceva più,
che l'aria era irrespirabile e che ai suoi piedi saltellavano minacciose
pantegane con denti da mammut. Grazie a Dio era stato legato a una rudimentale
imbracatura che aveva consentito a Dante Cereda di recuperarlo con uno sforzo
immane degli avambracci, che per poco non gli aveva fatto saltare le coronarie,
già compromesse dalle fatiche di una vita. All'arrivo dei due capi la scena
s'era appena conclusa, ma la discussione era ancora in pieno svolgimento.
«Diavolo di un cane»,
borbottò il Cereda, «se mi volevi morto, c’eri quasi riuscito».
«A me lo vieni a dire?
Dovevi esserci tu là in fondo. Sembrava di essere all'inferno», mugugnò
Domenico.
«Te l'avevo detto di non
andarci», gridò la Maria Casiraghi.
C’erano nei paraggi anche
il Giannino e l’Ambrogino con gli occhi sbarrati.
«Pensa se ci lasciava le
penne», sussurrò il Giannino all'amico.
«Ci mancava un altro
morto, giusto per stare in tema».
Risero sommessamente,
mentre il Marengo cominciò a spiegare il motivo della sua capatina.
«Dobbiamo tornare là?»,
domandò Luciano Brioschi.
«Prima lo facciamo,
meglio è», precisò il sindaco.
Si unirono a essi anche
Pinuccio Villa e Mario Porta e il gruppo fu completo.
«Pochi ma buoni»,
tartagliò il sindaco, in affanno.
«Bene, allora, possiamo
partire», disse il Marengo, inaugurando l'ennesima missione.
83.
«Sono già stato qui»,
disse l’Ambrogino, rituffandosi lungo il piccolo sentiero che circumnavigava il
laghetto.
«So bene come sono
andate le cose», replicò il Giannino.
«In realtà non mi riferivo
alla scoperta del cadavere».
«Cioè?».
Rise di gusto.
«Qui ci sono venuto una
volta con la Lina».
«Urca, la Lina».
«Quanto mi piace
quella ragazza».
Il Giannino rise sotto i
baffi e non nascose un vago imbarazzo.
«Vorrei ben vedere, con
le poppe che si ritrova».
«Non essere
sfacciato, la Lina me la porto all’altare».
«Te lo auguro amico mio,
spero anch’io di poter trovare una ragazza del genere».
Poi tornarono al motivo
per cui si trovavano in quel posto sperduto del buraghese.
«Certo che, senza di noi,
questi brancolerebbero ancora nel buio», disse l'Ambrogino con soddisfazione.
«Puoi dirlo forte»,
rispose l'amico, «io ho trovato il biglietto e tu il corpo...».
«Sarebbe ora che se ne
accorgesse anche il Marengo e ci facesse qualche complimento… pubblico».
Il compagno allargò le
braccia in segno di approvazione.
«Ma com’è che siamo
arrivati fino a questo punto?», domandò il Giannino.
«Non ne ho idea, ma
certo la chiacchierata fra il Marengo e l'Agnese deve avere cambiato non poco
le carte in tavola».
«Proprio non riesco a
immaginare cosa si siano detti. E poi cosa potrà mai c’entrare l'Agnese con
tutto sto casino?».
«Sei capace di tenere un
segreto?».
L’Ambrogino si morsicò
il labbro, ma ormai la frittata era fatta.
«Come no».
«Guarda che è un
segreto».
«E allora, ho capito».
«Insomma, c’è una cosa che
non sai e che probabilmente sta consentendo al Marengo di muoversi con maggiore
sicurezza e rapidità».
«Forza, ti diverti a
tenermi sulle spine?».
«Ma no, il punto è che
se salta fuori questa cosa il Marengo mi uccide. Ho la lingua lunga. E gli ho
promesso che non avrei spifferato parola».
«Cosa sai che io non
so?».
L’Ambrogino non seppe
più come contenere la curiosità del compaesano. E svuotò definitivamente il
sacco.
«L’altro giorno sono
andato con il Marengo a casa di don Filippo e abbiamo fatto una scoperta
sconvolgente».
«Che diamine mi stai
raccontando?».
«Abbiamo trovato una
lettera nella casa del don... ed era...».
«Cosa».
«Aspetta! Hai sentito
anche tu questo rumore?».
Il Giannino scese dal
pero.
«Ma quale rumore?».
«Tipo uno strano
sferragliare».
«Senti amico mio, sei
sicuro di stare bene? Qui non si sentono altro che uccelli gracchiare e rane
gracidare».
«Dimentichi i grilli».
«Tagliala corto con
questa pantomima e dimmi quel che mi stavi dicendo».
Il Giannino non aveva
abboccato.
«Di che lettera parli?».
«Era una lettera
d’amore».
«E allora?».
L’Ambrogino volse gli
occhi al cielo, come a voler chiedere un aiuto al padreterno; ma il sovrano dei
cieli o chi per lui, ancora una volta, non doveva essere molto attento ai bisogni
di buraghesi alle prese con un assurdo omicidio.
«Beh, la lettera d’amore
era stata scritta da Agnese, indirizzata a don Filippo».
«Stai scherzando?».
«Figurati».
Il Giannino impallidì.
«Voi dire che...».
Ma non si confidarono
altro per almeno mezz’ora.
84.
Si ritrovarono a girare
intorno a una delle zone più boscose che circondavano lo specchio lacustre; in
un posto dove nessuno dei due aveva mai messo piede, e forse non c’era mai
stata anima viva.
«Qui è impossibile
muoversi», disse il Giannino.
Rami, fogliame e
sterpaglie impedivano ogni sano movimento.
«Adesso salta fuori un
lupo e ci sbrana».
«Non credo che i lupi si
trovino a loro agio in simili posti».
«Non ne sappiamo nulla
dei lupi. Dicono che a Imbersago se ne vanno ancora in giro a seminare
terrore».
Si imbatterono in un
cespuglio diverso dagli altri; come se qualche animale, o persona, l’avesse
attraversato riducendolo in uno stato pietoso. Le foglie erano tutte mezze
tagliuzzate e la base del tronco era ripiegata su se stessa, dando
l’impressione che un gigante l’avesse appena calpestata.
«Lo noti anche tu?»,
domandò l’Ambrogino.
«Certo, è evidente che
qui ci sia già stato qualcuno».
«Ma potrebbe essere anche
passato un cinghiale».
«Siamo ai cinghiali,
adesso? Ora di sera abbiamo elencato tutti gli animali del creato».
Risero nervosamente, con
il cuore che, in realtà, non aveva molta voglia di scherzare. Stavano in fin
dei conti dando la caccia a un assassino; e l’idea che potesse nascondersi fra
una delle tante fronde che si trovavano a vincere, come i cercatori di un
tesoro perso in qualche lontana foresta equatoriale, non li faceva certo gioire.
Non se l’erano rivelati l’un l’altro, per non mostrare un’umanissima debolezza,
in antitesi al desiderio di farsi vedere sempre forti e invincibili, ma si
respirava un’aria sinistra ed entrambi se la stavano facendo sotto.
«Hai sentito anche tu
adesso?», chiese l’Ambrogino.
Questa volta non era un
gioco: s’era davvero udito uno strano borbottio e intuito il passaggio di
qualcosa o qualcuno.
«Madonna, parliamo a
bassa voce. Qui ci sono delle persone», bisbigliò affranto il Giannino.
«Pare proprio così,
avanziamo con cautela», sussurrò l’Ambrogino.
«Senti, non mi sembra il
caso di ficcarci in qualche pericolo, torniamo dal Marengo e poi vediamo».
Il Giannino fece per
andarsene ma l’amico lo trattenne per la camicia.
«Dove vai, vieni qui.
Potremmo scoprire qualcosa d'importante. Non arrendiamoci proprio adesso».
«Ah, ma siete voi, ci
stavamo prendendo un colpo».
Alle spalle dei ragazzi
si materializzarono il Marengo e il Boffalora, che probabilmente avevano
seguito un percorso analogo a quello dei due giovani.
«Marengo!», esclamò
sollevato il Giannino.
«Va tutto bene,
ragazzi», disse il Boffalora, «senza metterci d'accordo siamo arrivati nello
stesso punto».
E con l’ultima parola
pronunciata dal sindaco del paese, videro che, poco più in là del cespuglio
malmesso, c’era una casetta minuscola e diroccata, divorata dalla vegetazione,
che destò immediatamente la loro attenzione.
«Questa è bella»,
blaterò l’Ambrogino, «un cascinotto in mezzo alla boscaglia».
«A quanto sembra», arguì
il Marengo, «anche se non mi pare tanto un cascinotto, bensì un piccolo rifugio
per...».
«Forza, non ci resta che
visitare da vicino quel coso», tagliò corto il Boffalora.
85.
Si avvicinarono con fare
circospetto, temendo che da un momento all’altro potesse spuntare una belva o
addirittura l’assassino in carne ed ossa di don Filippo. Il Marengo fece
strada, tallonato dall’Ambrogino. Chiudeva la fila il Boffalora che cominciava
a non poterne più di spine e pungiglioni che gli si infilavano da tutte le
parti, facendolo sentire una specie di vittima di qualche astrusa tortura
medievale. Finirono per sbattere contro la facciata più lunga e ben modellata
del bugigattolo, dove una piccola finestrella guardava verso un orizzonte
inesistente. Fu facile per il Marengo puntare gli occhi al suo interno per
verificare cosa potesse custodire; ma la sua azione fu del tutto vana, poiché
la porta principale, ora potevano osservarlo con certezza, era stata
completamente abbattuta.
«Non c’è un fico secco»,
disse, deluso, l’Ambrogino.
«Ci avevo quasi
sperato», rettificò il Giannino.
Anche i due adulti si
guardarono delusi. Sembrava un inutile, sperduto e dimenticato quadrato di
mattoni, dove chissà cosa ci avevano fatto in passato.
«A cosa sarà servito un
coso del genere in piena foresta?», domandò l’Ambrogino.
«Vorrei tanto capirlo anch’io»,
blaterò il Boffalora.
«Non vorrei azzardare
con la fantasia, ma nei secoli passati da queste parti giravano i briganti. Ci
sono tante storie che ancora raccontano delle loro sortite. Non avevano pietà
per nessuno. Arrivavano dal nulla e nel nulla se ne andavano, saccheggiando
tutto ciò che gli capitava a tiro. Potrebbe essere una loro antica costruzione».
«Diamine, Marengo, mai
sentita una storia del genere», disse l’Ambrogino.
«Sei troppo giovane per
sapere certe cose... e il Boffalora, viene da troppo lontano».
Il sindaco fece una
smorfia, dissentendo della considerazione del Marengo: non era un brianzolo
puro del vimercatese, ma non è che venisse dall’Amazzonia.
«Oddio, guardate qua!».
Il grido giunse dal
Giannino che s’era momentaneamente staccato dal gruppo, più per il desiderio di
non dovere più stare a sentire i nuovi laconici commenti dei compaesani, che
per la reale consapevolezza di voler perlustrare il circondario: stava
indicando una specie di carretto, rovinato dall’usura, ma probabilmente ancora in
grado di cigolare.
«Giannino...», mugugnò
il Boffalora.
Cominciarono a ispezionarlo
da cima a fondo, come se si fossero trovati di fronte a una reliquia di
inestimabile valore. E per tutti fu immediatamente chiaro che la sua presenza
in quel punto fosse davvero fuori luogo e che non avesse nulla a che fare con
il minuscolo caseggiato, decisamente più vetusto. Qualcuno doveva, dunque,
averlo portato lì apposta, per farlo sparire, per non lasciare tracce.
«Sangue!», urlò
all’improvviso l’Ambrogino, «Marengo! Qui c’è del sangue!».
Il ragazzo stava
meticolosamente scandagliando la parte terminale del carretto, in
corrispondenza del punto in cui venivano caricate le merci o i materiali da
trasportare.
«Fa vedere», disse il
Marengo.
E di nuovo il silenzio
cadde come un macigno sul gruppo.
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