mercoledì 30 luglio 2014

Ferragosto # 17


12 agosto

81.

Il Marengo e il Boffalora s'erano dati appuntamento nel palazzo del conte Trivulzio; il quartier generale del paese, in procinto di trasformarsi nel vero e proprio municipio del borgo. Lì venivano conservate e protette tutte le pratiche comunali, i numerosi incartamenti relativi alle attività agricole dei paesani, e varie mappe che consentivano di avere un controllo dettagliato del territorio. Prima dell'arrivo di Raimondo s'era occupato di tutto questo pandemonio Attilio Penati, severo podestà che aveva regnato sul buraghese per quasi tre decenni.  
«Buongiorno Marengo», esordì il Boffalora.
«Eccoci di nuovo».
«Eh già, questa storia non finisce più».
Entrarono nel palazzo nobiliare e raggiunsero la grande sala del “governo”, presso la quale erano soliti fissare gli incontri con gli altri uomini del paese per risolvere le faccende più spinose. L’ultima volta vi erano stati per decidere il punto più strategico dove poter affissare i nuovi comunicati municipali, forgiati per la prima volta con una stampante di nuova generazione che prometteva miracoli. Era necessario un posto in cui tutti i cittadini potessero vedere bene quel che i grandi capi ordinavano; spesso i diktat, peraltro, arrivavano direttamente da Milano, o da Vimercate, e non potevano passare inosservati. Il posto ideale l'avevano individuato a ridosso della curia, di fianco al grande olmo che da almeno un paio di secoli faceva ombra sul cuore del villaggio. Qui avevano installato un grande pannello di legno, dove, d’estate, per mancanza di notizie, venivano appiccicati gli avvisi relativi a oggetti dimenticati in giro per qualche contrada o qualche annuncio funebre.
«Dunque, la matassa si sta sbrigliando», disse il Boffalora, con una punta di orgoglio.
Benché non avesse fatto quasi nulla, si sentiva in qualche modo responsabile dell’attività investigativa del Marengo.
«Così sembra», disse il saggio della comunità.
«E’ incredibile quello che abbiamo scoperto».
«Incredibile è dire poco. C’è una parte di me che ha quasi paura a proseguire nelle indagini, per il timore di scoprire chissà quale altra assurda verità».
«Don Filippo s’è comportato in modo sconsiderato».
Il Marengo fece spallucce.
«Un comportamento troppo superficiale, da irresponsabile, da...».
«Non dica così Boffalora, l'argomento è imbarazzante, ma non abbiamo il diritto di giudicare la morale dei compaesani», sentenziò con aria grave il Marengo. «Io non me ne intendo molto di sentimenti, ma penso che non sia stato facile per il prete e che in qualche modo debba essere giustificato».
«Diamine, Marengo, ma vuole scherzare?».
«Non sto scherzando».
«Come no, suvvia! Mica si tratta di una donna qualunque, ma di una ragazzetta di quindici anni, sedici... si rende conto? Una cosa del genere è degna di scomunica».
Alla parola “scomunica” il Marengo perse il controllo e vergò un violento cazzotto sulla specie di lungo mobile che aveva di fronte agli occhi. Ma si pentì quasi subito per il gesto di stizza e chiese perdono.
«Mi deve scusare Boffalora, ma le ultime ore sono state davvero molto pesanti. Avrei bisogno di riposare un po’».
Il Boffalora comprese il disagio e l'ansia del compaesano e assecondò il suo gesto collerico senza dargli troppo peso.
«Non si preoccupi Marengo, la posso capire».
«La ringrazio».
«Tuttavia penso non ci sia nemmeno il tempo di riposare. Converrà con me che, a questo punto, è davvero arrivato il momento di sferrare il colpo finale».
«Infatti, ci siamo quasi».
«Come pensa, quindi, di procedere?», domandò il sindaco.
«Eh, bella domanda».
«Ma un'idea ce l'avrà».
«Ce l'avrei… ma prima dovremmo raccattare qua e là un po’ di volontari e tornare sul luogo del delitto».
«Intende ritornare al laghetto?».
«Intendo trovare qualche prova in più…  le prove non bastano mai e non vorrei correre il rischio di raggiungere di nuovo i Greppi senza disporre delle armi per stanarli definitivamente».  
Il Boffalora si abbandonò a un sorriso sterile, comunque convinto di seguire i suggerimenti del saggio della comunità: le sue intuizioni, fino a questo punto, avevano fatto tutte centro.

82.

Trovarono alcuni uomini sparsi per la campagna e altri impegnati a dare una mano alle proprie donne a sistemare le rispettive tenute. Il caldo sole degli ultimi giorni aveva provocato non pochi problemi ai pollai e alle riserve di acqua piovana, trasformate in otri di liquidi marcescenti. Molti animali non ce la facevano più ed erano ridotti a pelle e ossa, disidratati e bisognosi di una bella rinfrescata. La siccità continuava imperterrita per la sua strada e stava dando un violentissimo colpo alla regione. C'era, per questo motivo, chi pensava che fosse necessario costruire al più presto un nuovo pozzo, perché di lì a poco non ci sarebbe stata abbastanza acqua per le abitazioni, e di sicuro anche l’irrigazione ne avrebbe risentito. Per fortuna le acque del Molgora continuavano a scorrere felici e beate, benedette dalle inesauribili sorgenti del torrente, poste molto più a nord, che non dipendevano dai capricci del tempo.
D'altra parte, non era la prima volta che un dramma simile si abbatteva sul buraghese. Anche fra i più giovani c’era ancora chi si ricordava della terribile estate del ’45, di dieci anni prima, in cui non aveva piovuto per tre mesi di fila e molte famiglie erano finite sul lastrico. Numerose bestie erano morte, e a causa delle carni marcescenti sparse un po’ in tutto il buraghese, era sorta una specie di epidemia, che nessuno aveva saputo diagnosticare correttamente. Una trentina di persone perirono per il misterioso morbo, dopo essersi riempite di bubboni su mezzo corpo, finendo per assomigliare a dei malati di peste. Gandolfo Brambillasca aveva fatto del suo meglio per curare i compaesani, ma anche lui alla fine si era reso conto che qualunque medicina non avrebbe potuto fare granché contro quella congiura divina. Si arrese e per quanto gli fu possibile sparì per un po’ dalla circolazione, isolandosi dalla sensazione di morte che adombrava l’intero abitato.
C’era un sacrosanto bisogno di acqua, e il Molgora non poteva certo fare miracoli. Così Domenico Carimati, il cugino del sindaco, solleticato da alcune donne che avevano cominciato a dare in escandescenza aveva avuto la brillante idea di calarsi in uno dei pozzi più importanti del paese per verificare il livello delle acque e per poco non era morto soffocato. Dagli inferi aveva gridato che non ce la faceva più, che l'aria era irrespirabile e che ai suoi piedi saltellavano minacciose pantegane con denti da mammut. Grazie a Dio era stato legato a una rudimentale imbracatura che aveva consentito a Dante Cereda di recuperarlo con uno sforzo immane degli avambracci, che per poco non gli aveva fatto saltare le coronarie, già compromesse dalle fatiche di una vita. All'arrivo dei due capi la scena s'era appena conclusa, ma la discussione era ancora in pieno svolgimento.
«Diavolo di un cane», borbottò il Cereda, «se mi volevi morto, c’eri quasi riuscito».
«A me lo vieni a dire? Dovevi esserci tu là in fondo. Sembrava di essere all'inferno», mugugnò Domenico.
«Te l'avevo detto di non andarci», gridò la Maria Casiraghi.
C’erano nei paraggi anche il Giannino e l’Ambrogino con gli occhi sbarrati.
«Pensa se ci lasciava le penne», sussurrò il Giannino all'amico.
«Ci mancava un altro morto, giusto per stare in tema».
Risero sommessamente, mentre il Marengo cominciò a spiegare il motivo della sua capatina.
«Dobbiamo tornare là?», domandò Luciano Brioschi.
«Prima lo facciamo, meglio è», precisò il sindaco.
Si unirono a essi anche Pinuccio Villa e Mario Porta e il gruppo fu completo.
«Pochi ma buoni», tartagliò il sindaco, in affanno.
«Bene, allora, possiamo partire», disse il Marengo, inaugurando l'ennesima missione.

83.

«Sono già stato qui», disse l’Ambrogino, rituffandosi lungo il piccolo sentiero che circumnavigava il laghetto.
«So bene come sono andate le cose», replicò il Giannino.
«In realtà non mi riferivo alla scoperta del cadavere».
«Cioè?».
Rise di gusto.
«Qui ci sono venuto una volta con la Lina».
«Urca, la Lina».
«Quanto mi piace quella ragazza».
Il Giannino rise sotto i baffi e non nascose un vago imbarazzo.
«Vorrei ben vedere, con le poppe che si ritrova».
«Non essere sfacciato, la Lina me la porto all’altare».
«Te lo auguro amico mio, spero anch’io di poter trovare una ragazza del genere».
Poi tornarono al motivo per cui si trovavano in quel posto sperduto del buraghese.
«Certo che, senza di noi, questi brancolerebbero ancora nel buio», disse l'Ambrogino con soddisfazione.
«Puoi dirlo forte», rispose l'amico, «io ho trovato il biglietto e tu il corpo...».
«Sarebbe ora che se ne accorgesse anche il Marengo e ci facesse qualche complimento… pubblico».
Il compagno allargò le braccia in segno di approvazione.  
«Ma com’è che siamo arrivati fino a questo punto?», domandò il Giannino.
«Non ne ho idea, ma certo la chiacchierata fra il Marengo e l'Agnese deve avere cambiato non poco le carte in tavola».
«Proprio non riesco a immaginare cosa si siano detti. E poi cosa potrà mai c’entrare l'Agnese con tutto sto casino?».
«Sei capace di tenere un segreto?». 
L’Ambrogino si morsicò il labbro, ma ormai la frittata era fatta.
«Come no».
«Guarda che è un segreto».
«E allora, ho capito».
«Insomma, c’è una cosa che non sai e che probabilmente sta consentendo al Marengo di muoversi con maggiore sicurezza e rapidità».
«Forza, ti diverti a tenermi sulle spine?».
«Ma no, il punto è che se salta fuori questa cosa il Marengo mi uccide. Ho la lingua lunga. E gli ho promesso che non avrei spifferato parola».
«Cosa sai che io non so?».
L’Ambrogino non seppe più come contenere la curiosità del compaesano. E svuotò definitivamente il sacco.
«L’altro giorno sono andato con il Marengo a casa di don Filippo e abbiamo fatto una scoperta sconvolgente».
«Che diamine mi stai raccontando?».
«Abbiamo trovato una lettera nella casa del don... ed era...».
«Cosa».
«Aspetta! Hai sentito anche tu questo rumore?».
Il Giannino scese dal pero.
«Ma quale rumore?».
«Tipo uno strano sferragliare».
«Senti amico mio, sei sicuro di stare bene? Qui non si sentono altro che uccelli gracchiare e rane gracidare».
«Dimentichi i grilli».
«Tagliala corto con questa pantomima e dimmi quel che mi stavi dicendo».
Il Giannino non aveva abboccato.
«Di che lettera parli?».
«Era una lettera d’amore».
«E allora?».
L’Ambrogino volse gli occhi al cielo, come a voler chiedere un aiuto al padreterno; ma il sovrano dei cieli o chi per lui, ancora una volta, non doveva essere molto attento ai bisogni di buraghesi alle prese con un assurdo omicidio.
«Beh, la lettera d’amore era stata scritta da Agnese, indirizzata a don Filippo».
«Stai scherzando?».
«Figurati».
Il Giannino impallidì.
«Voi dire che...».
Ma non si confidarono altro per almeno mezz’ora.

84.

Si ritrovarono a girare intorno a una delle zone più boscose che circondavano lo specchio lacustre; in un posto dove nessuno dei due aveva mai messo piede, e forse non c’era mai stata anima viva.
«Qui è impossibile muoversi», disse il Giannino.
Rami, fogliame e sterpaglie impedivano ogni sano movimento.
«Adesso salta fuori un lupo e ci sbrana».
«Non credo che i lupi si trovino a loro agio in simili posti».
«Non ne sappiamo nulla dei lupi. Dicono che a Imbersago se ne vanno ancora in giro a seminare terrore».
Si imbatterono in un cespuglio diverso dagli altri; come se qualche animale, o persona, l’avesse attraversato riducendolo in uno stato pietoso. Le foglie erano tutte mezze tagliuzzate e la base del tronco era ripiegata su se stessa, dando l’impressione che un gigante l’avesse appena calpestata.
«Lo noti anche tu?», domandò l’Ambrogino.
«Certo, è evidente che qui ci sia già stato qualcuno».
«Ma potrebbe essere anche passato un cinghiale».
«Siamo ai cinghiali, adesso? Ora di sera abbiamo elencato tutti gli animali del creato».
Risero nervosamente, con il cuore che, in realtà, non aveva molta voglia di scherzare. Stavano in fin dei conti dando la caccia a un assassino; e l’idea che potesse nascondersi fra una delle tante fronde che si trovavano a vincere, come i cercatori di un tesoro perso in qualche lontana foresta equatoriale, non li faceva certo gioire. Non se l’erano rivelati l’un l’altro, per non mostrare un’umanissima debolezza, in antitesi al desiderio di farsi vedere sempre forti e invincibili, ma si respirava un’aria sinistra ed entrambi se la stavano facendo sotto.
«Hai sentito anche tu adesso?», chiese l’Ambrogino.
Questa volta non era un gioco: s’era davvero udito uno strano borbottio e intuito il passaggio di qualcosa o qualcuno.
«Madonna, parliamo a bassa voce. Qui ci sono delle persone», bisbigliò affranto il Giannino.
«Pare proprio così, avanziamo con cautela», sussurrò l’Ambrogino.
«Senti, non mi sembra il caso di ficcarci in qualche pericolo, torniamo dal Marengo e poi vediamo».
Il Giannino fece per andarsene ma l’amico lo trattenne per la camicia.
«Dove vai, vieni qui. Potremmo scoprire qualcosa d'importante. Non arrendiamoci proprio adesso».
«Ah, ma siete voi, ci stavamo prendendo un colpo».
Alle spalle dei ragazzi si materializzarono il Marengo e il Boffalora, che probabilmente avevano seguito un percorso analogo a quello dei due giovani.
«Marengo!», esclamò sollevato il Giannino. 
«Va tutto bene, ragazzi», disse il Boffalora, «senza metterci d'accordo siamo arrivati nello stesso punto».
E con l’ultima parola pronunciata dal sindaco del paese, videro che, poco più in là del cespuglio malmesso, c’era una casetta minuscola e diroccata, divorata dalla vegetazione, che destò immediatamente la loro attenzione.
«Questa è bella», blaterò l’Ambrogino, «un cascinotto in mezzo alla boscaglia».
«A quanto sembra», arguì il Marengo, «anche se non mi pare tanto un cascinotto, bensì un piccolo rifugio per...».
«Forza, non ci resta che visitare da vicino quel coso», tagliò corto il Boffalora.

85.

Si avvicinarono con fare circospetto, temendo che da un momento all’altro potesse spuntare una belva o addirittura l’assassino in carne ed ossa di don Filippo. Il Marengo fece strada, tallonato dall’Ambrogino. Chiudeva la fila il Boffalora che cominciava a non poterne più di spine e pungiglioni che gli si infilavano da tutte le parti, facendolo sentire una specie di vittima di qualche astrusa tortura medievale. Finirono per sbattere contro la facciata più lunga e ben modellata del bugigattolo, dove una piccola finestrella guardava verso un orizzonte inesistente. Fu facile per il Marengo puntare gli occhi al suo interno per verificare cosa potesse custodire; ma la sua azione fu del tutto vana, poiché la porta principale, ora potevano osservarlo con certezza, era stata completamente abbattuta.
«Non c’è un fico secco», disse, deluso, l’Ambrogino.
«Ci avevo quasi sperato», rettificò il Giannino.
Anche i due adulti si guardarono delusi. Sembrava un inutile, sperduto e dimenticato quadrato di mattoni, dove chissà cosa ci avevano fatto in passato.
«A cosa sarà servito un coso del genere in piena foresta?», domandò l’Ambrogino.
«Vorrei tanto capirlo anch’io», blaterò il Boffalora.
«Non vorrei azzardare con la fantasia, ma nei secoli passati da queste parti giravano i briganti. Ci sono tante storie che ancora raccontano delle loro sortite. Non avevano pietà per nessuno. Arrivavano dal nulla e nel nulla se ne andavano, saccheggiando tutto ciò che gli capitava a tiro. Potrebbe essere una loro antica costruzione».
«Diamine, Marengo, mai sentita una storia del genere», disse l’Ambrogino.
«Sei troppo giovane per sapere certe cose... e il Boffalora, viene da troppo lontano».
Il sindaco fece una smorfia, dissentendo della considerazione del Marengo: non era un brianzolo puro del vimercatese, ma non è che venisse dall’Amazzonia.
«Oddio, guardate qua!».
Il grido giunse dal Giannino che s’era momentaneamente staccato dal gruppo, più per il desiderio di non dovere più stare a sentire i nuovi laconici commenti dei compaesani, che per la reale consapevolezza di voler perlustrare il circondario: stava indicando una specie di carretto, rovinato dall’usura, ma probabilmente ancora in grado di cigolare.
«Giannino...», mugugnò il Boffalora.
Cominciarono a ispezionarlo da cima a fondo, come se si fossero trovati di fronte a una reliquia di inestimabile valore. E per tutti fu immediatamente chiaro che la sua presenza in quel punto fosse davvero fuori luogo e che non avesse nulla a che fare con il minuscolo caseggiato, decisamente più vetusto. Qualcuno doveva, dunque, averlo portato lì apposta, per farlo sparire, per non lasciare tracce.
«Sangue!», urlò all’improvviso l’Ambrogino, «Marengo! Qui c’è del sangue!».
Il ragazzo stava meticolosamente scandagliando la parte terminale del carretto, in corrispondenza del punto in cui venivano caricate le merci o i materiali da trasportare.
«Fa vedere», disse il Marengo.
E di nuovo il silenzio cadde come un macigno sul gruppo.

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