Era una francesina che non si vedeva mai e dava pochissima confidenza agli estranei. Si chiamava Delphine Boucherie. Trentacinquenne, si confrontava col mondo con un caratteristico nasino all’insù, due guance candide e gli occhi vivaci, veloci come quelli di un furetto. Indossava dei vestitini semplici e attillati, che in qualche modo ricordavano quelli indossati da Audrey Hepburn nei suoi numerosi film. Dava l’impressione di essere perennemente assorta in chissà quali pensieri e le sue risposte erano spesso evasive e impersonali. Forse per un’eccessiva timidezza, o perché l’italiano aveva sempre fatto fatica a masticarlo: rivolgendole la parola, capitava che tenesse la testa bassa, incapace di reggere per troppi secondi lo sguardo di un interlocutore. Era al contempo assai docile, vivace, gentile e i suoi movimenti graziati come raramente capitava di osservarne in giro, attitudine che veniva spesso valorizzata da chi la circondava, innalzandola al ruolo di beniamina della magnanimità, ma che la portava anche a vivere con eccessiva fatica il confronto con persone normalmente più arroganti e aggressive. Odiava l'aggressività e la prepotenza. Li riteneva requisiti dell'uomo primitivo. Un tempo, pensava, quando c'era da procurarsi il cibo a costo della vita, doveva aver senso prevaricare sull'altro in modo spiccio, usando la forza fisica e, perché no, la furbizia; ma con l'epoca moderna riteneva che dovessero essere altre le qualità a far grande un uomo, prime fra tutte l'onestà e l'altruismo. E invece erano sempre gli stronzi e i meschini a far valere le proprie ragioni e ad averla vinta sul prossimo. Lo vedeva quotidianamente sul posto di lavoro.
Aveva acquistato l’appartamento D del terzo piano un paio di anni prima l’esplosione di Chernobyl. Vi era arrivata in seguito a un trasferimento da Grenoble, sua città natale, a pochi chilometri dal confine italiano. Non era stato facile lasciare la terra natia, ma in qualche modo s'era resa conto che, se voleva combinare qualcosa nella vita, doveva trovare il coraggio di arrangiarsi da sola. A Omate però si respirava tutta un'altra aria. I cieli francesi, al confronto, erano il paradiso. Le persone più vitali: in Lombardia sembrava che avessero tutti la puzza sotto il naso, e che non aspirassero ad altro che aumentare il proprio conto in banca. Per questo motivo i rapporti con gli altri inquilini rasentavano lo zero assoluto. Di fatto non conosceva nessuno. I suoi orari si conciliavano difficilmente con la quotidianità dei brianzoli e gli incontri casuali erano piuttosto infrequenti. Aveva più volte notato Cinzia Gariboldi, la quarantenne del palazzo, che in qualche modo trovava le assomigliasse, con quel suo fare sempre pacato e silenzioso, ma difficilmente si fermavano a scambiare qualche battuta: si regalavano il solito inane sorriso e via, la pigrizia aveva il sopravvento. L'unico, forse, col quale poteva dire di avere avuto un minimo feeling era Fabiano, il batterista dell’appartamento B, che viveva sul suo stesso pianerottolo con una moglie che le appariva scontrosa e severa, e una bambinetta dolce e carina. Avevano avuto occasione di presentarsi e di scambiare due parole, un sabato pomeriggio in cui, facendo le pulizie, aveva momentaneamente lasciato la porta di casa aperta, consentendo alle note di un disco di Serge Gainsbourg di conquistare l’aere del pianerottolo, scialbo come un presepe senza i pastori.
«Difficile ascoltare certa musica dalle nostre parti».
Alle sue spalle si era materializzato uno spilungone dal sorriso amichevole: il vicino di casa che aveva già incrociato qualche volta, pur senza andare oltre il cordiale saluto. Era un tipo curioso, sicuramente molto più interessante di tutti gli italiani conosciuti fino a quel momento.
«Conosci Serge Gainsbourg?».
«Certamente. È fra i miei artisti preferiti».
«Mi fa piacere. Anch'io lo amo».
«Non lo conosce nessuno, a parte chi suona in giro…».
«Hai una band?».
«Già. Ma non facciamo niente di tutto ciò. Ci limitiamo a un rock piuttosto energico…».
«Amo il rock. Ho un amico che suona in un gruppo rock».
«Che suonano di bello?».
«Da un po' non li sento. Ma durante l'ultimo live a Grenoble hanno fatto dei pezzi dei Rolling Stones e... di Van Morrison, se non ricordo male».
«G.L.O.R.I.A...».
«Ecco! Esattamente, te ne intendi, eh?».
Fabiano era rimasto affascinato dalla soavità della francesina e presumibilmente avrebbe voluto rimanere a parlare con lei molto più a lungo. Tuttavia si rendeva conto che la moglie non doveva essere esattamente dello stesso avviso. Peraltro s'era ritrovata per caso nei pressi dell'uscio e non aveva potuto fare a meno di appoggiare l'orecchio alla porta di ingresso per sentire cosa avessero di tanto bello da raccontarsi; non era una spiona, ma da troppo tempo le cose con il marito non giravano più per il verso giusto, e temeva (si fa per dire) che da un momento all'altro potesse farle le corna, ammesso che non gliele avesse già fatte.
Nella periferia della ridente cittadina d’oltralpe aveva vissuto coi genitori e la sorella Marianne, in una casa tipicamente francese, con le finestre prive di tapparelle e i balconi pieni di fiori. Era, per la verità, un po' fuori dal centro, laddove le cime delle montagne facevano pendant con le prime idee di distese campestri. Conosceva molto bene le strade del circondario. Quella che conduce a Lione e a Clermont Ferrand l'aveva percorsa migliaia di volte. Ad Ambert, piccolo borgo di settemila anime, dove si produceva un ottimo formaggio, aveva degli zii che andava spesso a trovare quando aveva un po' di tempo libero. I Boucherie avevano anche un cagnolino, di nome Sebastien, che curavano con la massima attenzione, quasi fosse il maschietto di casa, il terzo figlio mai arrivato. I genitori erano due imprenditori da anni attivi nel campo della moda, benestanti da un paio di generazioni; la sorella, una dottoranda ormai prossima alla specializzazione in scienze delle comunicazioni, pronta a prendersi carico – a differenza della sorella - dell'attività familiare; aveva fatto la tesi con un professore di Lione, trent'anni più vecchio di lei, per il quale aveva preso una mezza cotta. Le origini della famiglia Boucherie risalivano a un piccolo centro bretone, dove il nonno di Delphine e Marianne s'era buttato negli affari praticamente dal nulla, povero in canna, allestendo uno studio fotografico di fortuna che, pian piano, aveva attirato sempre più clienti. La concorrenza, ai suoi tempi, era scarsa e c'era tutto lo spazio disponibile per farsi strada in un campo per certi versi ancora tutto da inventare. Erano così cominciati ad arrivare impresari della moda e direttori di giornali, fino a suggerirgli l'idea di mettere in piedi un'azienda a tutti gli effetti che potesse trarre frutto dalla sinergia fra le diverse discipline professionali fin lì incontrate, per un unico e specifico disegno imprenditoriale. Con uno stilista, due sarte, e un'agenzia pubblicitaria, il sogno era divenuto realtà e l'epopea dei Boucherie aveva avuto inizio.
A Grenoble, la primogenita dei Boucherie, lavorava presso gli stabilimenti dell’SGS, navigata azienda nel campo dell’elettronica. Non voleva, per il momento, entrare a far parte del mondo imprenditoriale dei genitori, desiderando dimostrare a se stessa di sapersi muovere con le proprie gambe; poi, un domani, eventualmente, avrebbe avuto tutto il tempo per tornare sui suoi passi. Il suo capo si chiamava Antoine Malraux: era un cinquantenne, pingue, pelato, divorziato e senza figli, con una passione malata per le anticaglie; poteva anche spendere palate di franchi per avere il pezzo che gli interessava. Aveva anche un certo debole per le giovani promesse al soldo dell'SGS, purché fossero di sesso femminile. Non era particolarmente viscido, ma spesso si prendeva a cuore una new entry e faceva di tutto per spianarle la strada, senza, apparentemente, volere nulla in cambio. Delphine era la sua prediletta. E per farle fare carriera, aveva pensato di spedirla ad Agrate Brianza, centro a pochi chilometri da Milano, per guidare una divisione in via di assestamento.
«Te la sentiresti?», le aveva chiesto un giorno bigio e piovoso, nel suo confusionario ufficio.
«Posso pensarci», aveva risposto Delphine.
«Mi mancherai, ma so che questo potrebbe segnare una svolta nel tuo avvenire, un avvenire al quale tengo. Avremo modo di vederci una volta al mese per fare il punto della situazione».
«Le farò sapere al più presto».
In due giorni aveva già deciso. Ad Agrate avrebbe lavorato per tre anni, il tempo minimo per decollare e prepararsi al gran rientro a Grenoble da manager. Le malelingue si erano sprecate. Si diceva che Antoine e Delphine avessero una relazione. Le prove non mancavano. Durante le riunioni lasciava a lei l'ultima parola e il compito di gestire i suoi affari personali. In un'occasione aveva perfino preso contatti con l'entourage di Francois Mitterand, presidente in carica dei francesi fino al 1988, per via di un'importante manifestazione a favore delle più significative realtà industriali del paese, legate al progresso tecnologico. L'SGS era giustamente in prima linea, essendo fra le società più avviate nel campo dei transistor e altre diavolerie elettroniche che molti, compresi i dipendenti, non sapevano nemmeno cosa fossero e a cosa servissero. Per poco non aveva parlato direttamente con la più alta carica dello Stato. Nemmeno alla segretaria personale di Malraux erano concessi tanti privilegi. Sicché Delphine era malvista da molte colleghe, che la consideravano non solo l'affair del grande capo, ma anche la “leccaculo” per eccellenza, benché lei, di fatto, non avesse fatto mai nulla per guadagnare le attenzioni del leader. Delphine, dell'odio che la circondava, ne soffriva parecchio, al punto di ammalarsi spesso di gastrite e ingolfarsi di cibi spazzatura per placare l'ansia; anche per questo aveva pensato che fosse meglio cambiare aria per un po'.
«Penso di andarmene fra un paio di mesi», aveva confidato all'unica amica che aveva in ambito lavorativo, Alphonsine Dubois, con la quale pranzava tutti i giorni, sotto gli occhi invidiosi delle colleghe.
«Mi dispiace non vederti più».
«Dispiace anche a me».
«Ma se questo può servire a farti stare meglio... e a farti fare un po' di esperienza... sono io la prima a gioirne».
«Potrai venire a trovarmi quando vuoi. A quanto pare si mangia molto bene da quelle parti».
Aveva preso casa a Omate, una frazione di Agrate, che prima di giungere in Italia non sapeva nemmeno esistesse. Non c'era nemmeno sulle cartine geografiche che aveva consultato. Aveva potuto contare su un budget di tutto riguardo maturato durante i primi dieci anni di lavoro, ma anche per via di una serie di risparmi accumulati dagli abbienti genitori, ben lieti di poter contribuire alla carriera della figlia. Una dimora in Italia avrebbe peraltro potuto far comodo alla stessa famiglia Boucherie, spesso in contatto con le realtà imprenditoriali milanesi, da sempre in prima linea nel campo della moda. In fondo la Brianza non era poi così distante da Grenoble. Si trattava di mettersi in viaggio per circa quattro, cinque ore, percorrendo su per giù quattrocento chilometri. Una distanza facilmente gestibile. Da bambina un paio di volte era stata a Milano col padre, e una volta a Verona, per vedere dove vivevano Giulietta e Romeo. Il padre amava Shakespeare e aveva raccontato alle figlie ogni trama dell'antico bardo anglosassone. I primi tempi viveva solo per il lavoro, sfruttando la casetta omatese quasi esclusivamente per dormire e cenare. Spesso si fermava in ufficio per più di dieci ore. L'attività professionale, del resto, le era congeniale e trovava i nuovi colleghi disponibili e affabili. Ma se qualcuno la invitava a uscire, declinava con garbo dicendo che aveva bisogno di riposare. Erano in molti a farle la corte, seppure in modo sottile e velato. Ma sembrava che non le importassero i ragazzi, o perlomeno le storie serie. Il suo unico amore pareva essere la lettura. Amava leggere, specialmente quando fuori faceva freddo, pioveva o l'umidità le attanagliava le ossa, impedendole di tornare a casa a trovare i suoi o di girovagare per le aree verdi della misteriosa Brianza. Amava sdraiarsi comodamente sul divano di velluto beige acquistato in un mobilificio di Lissone, su consiglio di un collega proveniente dal monzese, e sfogliare uno dei tanti libri selezionati prima di lasciare Grenoble dalla biblioteca paterna. S'era messa in testa di leggere I Miserabili di Victor Hugo. Pensava che se non lo avesse fatto ora, in trasferta sola e soletta per tre anni, non lo avrebbe fatto più, se non in pensione. Aveva provato anche a ordinare qualche testo in francese alla libreria Il Gabbiano di Vimercate, ma era troppo scomodo: tanto valeva farseli comprare dalla sorella e aspettare di vederla per poterli inaugurare. Con la bella stagione scopriva, invece, il piacere di muoversi in bicicletta. In Francia non lo faceva spesso: le strade cittadine non glielo permettevano, c'era troppo traffico e i rischi di un incidente non erano così aleatori. In Italia utilizzava la bici anche per andare al lavoro. Da Omate all'SGS, del resto, non ci voleva molto: un quarto d'ora. L'aria era pulita, fresca, rasserenante. Delphine godeva dei profumi e delle atmosfere della primavera; osservava con gioia fanciullesca il pullulare di fiori lungo i cordoli delle strade. Le riportavano alla mente i colori dei prati che attraversava in auto o in pullman per raggiungere i parenti di Ambert. Anche gli animali domestici la facevano sentire a casa: cani, gatti, capre, asini, cavalli, galline, le davano una forza atavica. La rincuorava inoltre notare in lontananza la sagoma del Monte Rosa, sempre coperto di neve, idealmente vicina ai parenti e al mondo che l'aveva ospitata fino alla maturità. Sicché era stata proprio una mattina che si stava recando al lavoro con la sua bicicletta verde pisello che aveva incontrato Filippo Mattioli, una specie di pittore che abitava a Colnago, nel cuore della campagna mezzaghese, non lontano dall'impervio scorrere dell'Adda. S'erano ritrovati in un punto in cui, ormai sotto la giurisdizione agratese, per via di una curva stretta, lungo una specie di scorciatoia di solito impiegata dai pedoni, uno dei due doveva necessariamente retrocedere per far spazio all'altro.
«A una bella signorina si cede sempre il passo», aveva detto Filippo, illuminato dallo charme della forestiera.
Lei lo aveva guardato in modo diverso da come aveva scrutato fino a quel momento le nuove persone incontrate. Aveva notato qualcosa di magico nei suoi occhi, in grado di interrompere il flusso dei suoi pensieri, per ragguagliarla in merito a una misteriosa scintilla appena scoccata nel suo cuore. Erano occhi profondi, bruni, per certi versi selvaggi, ma anche teneri e suadenti. Nemmeno in Fabiano e Cinzia, gli unici due omatesi che in qualche modo l'avevano colpita, aveva trovato qualcosa del genere.
«Molte grazie».
Aveva, quindi, cercato di passare senza troppo dar retta a quel senso di eccitazione improvvisa, ma il freno sinistro della sua bicicletta s'era infilato nel minuscolo foro creatosi fra il manubrio e il campanello della due ruote di Filippo, portando la ragazza a perdere l'equilibrio e a finire in pratica fra le braccia dello sconosciuto. Quando si suol dire il destino...
«Oddio, non ti sarai fatta male», aveva mormorato Filippo con una divertita apprensione.
«Tutto bene... tutto bene, e tu?».
Delphine ridacchiava.
«Anch'io, non ti preoccupare».
Filippo, stranito dalla situazione, con la folta chioma che si abbandonava a un colpo di vento più tenace degli altri, non aveva potuto fare a meno di stendere la mano alla stupefacente interlocutrice:
«Molto piacere, io sono Filippo Mattioli».
Delphine era imbarazzatissima, ma felice.
«Il piacere è mio».
Il ragazzo non aveva avuto difficoltà a comprendere di avere a che fare con una straniera, presumibilmente una...
«Francese?».
«Que pensez-vous?».
Delphine, di colpo intraprendente, s'era messa a rispondere nella sua lingua, mandando in solluchero Filippo che non capiva più niente quando sentiva qualcuno esprimersi con un qualunque idioma transalpino, parafrasi di mondi lontani, ambiti e rincorsi da tempo; credeva, infatti, l'Italia e, in particolare, la zona in cui viveva, marcia di provincialismo, e da sempre nutriva, pertanto, il sogno di poter lasciare lo Stivale per andare a vivere in Francia, Germania o Inghilterra. Era stato in giro per l'Europa con alcuni amici intorno ai vent'anni e le sensazioni vissute saltando da Parigi a Berlino, da Londra ad Amsterdam lo avevano definitivamente convinto che, dove viveva lui, si era ancora all'età della pietra. Sentiva, dunque, la necessità di muoversi al più presto, espatriare, imparare a parlare fluentemente una o due lingue… Sapeva a malapena lo spagnolo, che aveva imparato molti anni prima per via di un soggiorno con la famiglia a Barcellona, in seguito a una trasferta lavorativa del padre architetto. Filippo era incantato dalla soavità della ragazza che, non avendo ricevuto risposta era andata avanti a proporsi con quella specie di scioglilingua.
«Oui, monsieur. Et elle vient?».
«Come?!».
Erano scoppiati entrambi a ridere come due scolaretti delle medie, mentre una signorotta anziana chiedeva di poter occupare il passaggio, suggerendo agli improvvisati piccioncini che per discorrere allegramente potessero esserci molti altri posti dove andare. I saluti erano stati romantici e affettuosi, auspicando a un futuro incontro.
«Beh, ci vediamo», aveva detto Filippo, con un sorriso malizioso.
«Ok», aveva ribattuto timidamente Delphine.
«Tu passi spesso di qui?».
«Certo, lavoro all'SGS».
Sottintendeva che passava sempre da quel punto in quel preciso istante, cosa che non era sfuggita a Filippo che da quella mattina estiva del 1985, aveva cominciato a tallonare la francesina, sperando di poterla presto invitare per un'uscita. Alla fine le cose erano andate proprio come il pittore aveva previsto. S'erano dati appuntamento per una cena a lume di candela a Monza, in un localino romantico prospiciente il cammino del Lambro, e poco più tardi erano andati al cinema per assistere alla proiezione de “Il gioiello del Nilo”, con Michael Douglas e Kathleen Turner. Lì si erano baciati per la prima volta, decretando l'inizio ufficiale del loro amore: Delphine aveva trovato fantastico incontrare le labbra morbide e rubiconde del giovane, mentre Filippo aveva riflettuto sul fatto di non avere mai notato una ragazza baciare così bene. A tal punto i loro appuntamenti s'erano infittiti, fino a trascorrere spesso la notte insieme. Dopo Natale Delphine aveva, dunque, preso l'abitudine di pernottare a casa del ragazzo, soprattutto durante i weekend, dimenticandosi dell'appartamento di Omate, giudicato da entrambi meno confortevole della dependance di Filippo. Il ragazzo dimorava in un'affascinante e spaziosa mansarda sulla strada per Cornate d'Adda. Era di proprietà dei suoi che erano stati lieti di intestargliela alla fine degli studi. Filippo aveva studiato all'Accademia di Brera e ora collaborava con numerosi enti locali e strutture legate all'arte contemporanea. Aveva fondato il “gruppo dei neo-spazialisti”, col quale sovente esibiva le sue opere in occasione di mostre e kermesse regionali. Riprendeva le tematiche care al cosiddetto “movimento spazialista”, fondato nel 1950 da Lucio Fontana a Buenos Aires. Desiderava, pertanto, proprio come i suoi luminari, abbandonare i cliché pittorici incentrati sull'uso formale dei colori, per “costruire” realtà tridimensionali tali da offrire al pubblico una forma espressiva assolutamente originale. Ormai c'era la fotografia: il ritratto, il paesaggio, la natura morta, non avevano più senso di esistere. Fra i suoi artisti preferiti c'era Mario Delugi che incideva la tela grattandone il colore e creando con i suoi graffi fantasmagoriche nuvole di scintille, che prefiguravano i movimenti delle particelle della luce. C'era anche questo mondo a stuzzicarlo: il fecondo connubio fra arte e scienza. Delphine ne era affascinata ma non ci capiva molto. Ancora non si capacitava del fatto che un semplice taglio su una tela potesse essere definito un'opera d'arte.
«Je suis capable», diceva, solleticando gli umori di Filippo, che invece trovava così ovvia le espressività apparentemente banali di certe opere. Anche la sera dell'esplosione di Chernobyl erano insieme da lui. S'era occupato della cena il padrone di casa, avendo in serbo per l'amata una sorpresa.
«Tu riposati sul divano, quando è pronto ti chiamo io», le aveva detto.
Verso le otto di sera Delphine e Filippo s'erano accomodati al tavolo pronti per mangiare. Per la prima volta nella sua vita il ragazzo aveva dato il meglio di sé in ambito culinario, apparecchiando con le stoviglie migliori e preparando una cenetta da Mille e una Notte. Due posate per parte, due tovaglioli rosso sgargianti, due bicchieri di cristallo, uno per il vino e uno per l'acqua... Al centro del tavolo brillavano due candele rosse e per la stanza si respirava un gradevole profumo. Non ne sapeva molto di cucina, ma aveva chiesto informazioni alla madre, per anni al servizio di un ristorante chic nel cuore di Milano, il Bastione, dalle parti di via Manzoni. La cena romantica era servita: focaccia all'olio, riso con gamberi e verdure, insalata di carciofi e Asiago mezzano, carpaccio originale, gelato allo yogurt con salsa al cioccolato e fragole. Una squisitezza. Con la prima portata, Delphine, abituata a cene frugali anche in sua compagnia, era sbigottita:
«Ecco per lei, mia nobile signora, riso con gamberi e verdure», aveva detto Filippo imitando un servitore ottocentesco.
Filippo aveva consultato un dizionarietto italiano-francese per chiederle nella sua lingua se fosse di suo gradimento, conferendo ulteriore meraviglia alla serata:
«Que pensez-vous?».
Delphine aveva risposto che non credeva di aver conosciuto uno chef, mandando in delirio Filippo che per non deluderla aveva preferito tenere nascosto i suggerimenti della madre. Intanto la televisione, muta, trasmetteva delle immagini strane. Si intuiva la presenza di una gigantesca costruzione, circondata da edifici grigi e malandati. Non sembrava una località italiana; si percepiva uno stile architettonico filosovietico. Poteva essere una città della Bielorussia o la periferia di Mosca, o addirittura una metropoli affossata nella tundra siberiana come Irtkutsk. I tipici palazzoni severi, imponenti e per certi versi assai tristi, potevano provenire solo da quelle parti, dove leninismo e stalinismo avevano imperato per decenni, dettando mode e costumi. Se n'era accorta per prima Delphine che, però, troppo presa dalla situazione, non ci aveva badato più di tanto. Vedeva lo speaker blaterare, ma era come se stesse parlando di noccioline. Ma era comprensibile: cosa poteva esserci di più importante di ciò che si stava compiendo quella sera nel cuore della campagna mezzaghese? Con il carpaccio e l'insalata di carciofi, Filippo le aveva regalato un bacio sulla fronte, spingendo la ragazza a guardarlo con occhi ancora più indulgenti. Delphine, rabbrividita, avrebbe voluto pronunciare la fatidica frase, ti amo, ma qualcosa l'aveva trattenuta. Sentiva che non era quella l'occasione propizia. Lo avrebbe fatto al momento opportuno, il tempo non le mancava; non voleva sbagliare, trovarsi fuori luogo. Era una parola a cui dava grande peso, che nella sua vita aveva confidato a una sola persona: Michel Dupont, un ex ragazzo delle medie con cui era stata fidanzata per cinque anni, prima di diventare la pupilla di Malraux e accorgersi che il suo sentimento iniziale s'era trasformato in una semplice e benevola amicizia. Al momento del gelato Delphine s'era alzata da tavola per bighellonare per la cucina, sormontata da una felicità che, da quando era in Italia, non aveva ancora provato. Era la gioia vera, quella che si fa sentire fin dentro le ossa, facendo venire voglia di correre all'impazzata senza meta. Non ce la faceva più a stare seduta, doveva scaricare l'adrenalina, anche se un prelibato gelato aspettava di essere assaporato.
«Non hai più fame?», aveva domandato Filippo, vagamente preoccupato di averle dato troppo da mangiare.
Delphine gli aveva risposto con un sorriso dolcissimo, poggiando delicatamente le sue mani sui fianchi del ragazzo, prima di dargli un delicato bacio sulla guancia e mostrargli tutta la sua contentezza.
«Ora assaggio il gelato».
Filippo l'aveva lasciata per un attimo: il tempo di andare in camera a recuperare qualcosa che teneva nascosto già da qualche giorno. L'aveva adagiato con cura nell'ultimo cassetto del comodino, sotto una specie di fazzoletto piegato in due. Aveva anche colto l'occasione di fare una capatina in bagno per svuotare la vescica, particolarmente sensibile quando doveva affrontare compiti ardui o incontri particolarmente emozionanti. Come questo... Era la sorpresa della serata. Il segreto che si nascondeva dietro alla romantica serata preparata con grande accortezza e puntigliosità, vivendola come una favola di altri tempi. Non era stato facile appropriarsene, ma dopo vari consigli di amici aveva saputo quale fosse la strada da battere senza tentennamenti. Di ritorno dalla zona notte s'era accomodato al suo posto con un sorriso enigmatico. Il suo gelato s'era mezzo squagliato, ma non era un problema sul quale pensava fosse necessario soffermare la sua attenzione. C'erano ancora le fragole e, volendo, il caffè per riempire compiutamente lo stomaco.
«C'è qualcosa che non va?», gli aveva chiesto Delphine, vedendolo per la prima volta un po' impacciato nei movimenti.
Filippo non aveva proferito parola, ma aveva compiuto il semplice gesto di estrarre una scatoletta dalla tasca con un grande fiocco argentato, per poi appoggiarla di fianco al bicchiere del vino della spasimante. Delphine aveva strabuzzato gli occhi. Poteva essere solo un regalo, cosa che non si aspettava minimamente e che le aveva provocato una leggera tachicardia. Di colpo s'era fatta rossa come un peperone, benché non soffrisse in modo spiccato di eterotrofia. Le succedeva solo in casi estremi, come quella volta che, rientrando dal lavoro, un giorno che viveva ancora in Francia, s'era ritrovata in casa una ventina di amici pronta ad applaudirla e baciarla per il suo venticinquesimo compleanno. Era stata Marianne a organizzare la rimpatriata, conscia del fatto di poter fare alla sorella una sorpresa senza precedenti. Filippo, accorgendosi, per non esasperare la situazione e mettere in ulteriore difficoltà la francesina, aveva fatto finta di niente e meccanicamente era tornato al suo gelato. Il cucchiaio s'era riempito di un liquido dolciastro, ben lontano dal sapore che doveva avere all'origine. Aveva metafisicamente immaginato il piacere che avrebbero potuto provare le formiche che negli ultimi giorni avevano preso a bighellonare per il suo terrazzo e sulle quali s'era soffermato più volte indagando sulla loro curiosa biologia. In un certo senso provava per esse una simpatia genuina. E non si capacitava di quando, da piccino, con alcuni amici di scuola, aveva provato a dar fuoco a intere colonie. Le aveva immaginate come se fossero degli esseri evoluti, con un cervello e un sistema neuronale ben sviluppato, in grado di compiere ragionamenti compiuti. Sarebbero bastate poche gocce... C'era Delphine con gli occhi lucidi che era rimasta senza parole, con quella scatolina che non era ancora riuscita a prendere in mano.
«Per te», gli aveva sussurrato Filippo, sorridendole rilassato.
«Per me?».
«Per te».
Delphine aveva preso il cubetto e aveva iniziato a scartarlo in religioso silenzio. Filippo per dissipare la suspance aveva alzato il volume della televisione, inconsapevole della catastrofe di cui veniva data notizia. Sullo sfondo c'era ancora il monumentale reattore notato prima da Delphine. Sembrava che fosse accaduto qualcosa di molto grave, ma anche Filippo se n'era disinteressato, rapito dall'orgasmo dell'amata che proseguiva nella sua opera con le mani tremanti. Liberato l'involucro s'era ritrovata a tu per tu con un minuscolo corpo rigido, un cofanetto blu, elegante e vellutato, che chiedeva semplicemente di essere divaricato. Detto e fatto. Delphine aveva lentamente sollevato il piccolo gancio chiuso in un anellino dorato e strizzando gli occhi aveva finalmente compreso la realtà dell'oggetto che impugnava: un vero, autentico e preziosissimo anello di fidanzamento. Al suo centro brillava di soddisfazione uno zaffiro che Filippo aveva scelto basandosi sul fatto che ogni pietra ha un suo significato preciso, e che il significato di quest'ultimo era la “fedeltà”, prerogativa dell'intelletto umano a cui teneva con tutta la sua forza. Inoltre lo zaffiro era associato al segno zodiacale di Delphine, la vergine. Tutto quadrava. La ragazza stava per mettersi a piangere dall'emozione, ma era riuscita a trattenere le lacrime andando ad abbracciare il suo artista preferito e stampandogli un bacio sulla bocca con un'intensità infinita. Ora poteva dirlo con certezza: poche volte nella vita s'era sentita così bene, così a suo agio, così straordinariamente in pace con sé e con il mondo. Le sembrava di essere finita su un altro pianeta. Aveva anche pensato ai suoi, a Marianne, ad Alphonsine, ai parenti di Ambert, e perfino a Malraux. Sentiva, in fondo, di volere bene anche a lui; peraltro era merito suo se ora poteva abbracciare il ragazzo più meraviglioso che potesse capitarle. Alla fine, però, le erano mancate le parole per esprimere la gioia provata, al punto che Filippo era rimasto un po' titubante, e quasi timoroso del fatto che il regalo non le fosse piaciuto fino in fondo. La verità è che le era piaciuto troppo e che ora non sapeva come gestire tanta letizia. Delphine era rimasta in braccio a Filippo per cinque minuti buoni, senza fiatare, appoggiando la sua testa sulla spalla sinistra dell'amato. Respirava il profumo della sua pelle, come se si fosse trattato del paradiso. Poi si era ritratta con aria seria, fissandolo negli occhi e riuscendo finalmente a dirgli ciò che voleva:
«Je t'aime... je t'aime mon amour».
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