Dopo la morte della moglie non era stato più lo stesso. S'era spento come una candela al termine del suo brillantare e non c'era stato più nulla che potesse veramente interessarlo. Più che vivere, insomma, sopravviveva. Sopravviveva soprattutto al dolore, con una forza grandiosa. Ma non era sempre stato così. Una volta era stato felice. Anche lui aveva gioito e s'era invaghito della vita e delle sue molteplici opportunità. Molto prima, però, che la moglie si ammalasse e se ne andasse per un male incurabile in meno di due anni. Molto prima che se ne andasse anche il primogenito, a causa di un incidente stradale nel lodigiano. Ora non gli rimaneva che un unico figlio che, però, viveva lontano, dalle parti di Ancona, e vedeva se andava bene una volta al mese. «Per me la vita è finita con la fine di Marco», soleva ripetere. Viveva la sua anzianità con totale rassegnazione, ma in modo distaccato, senza particolari ansie, come se le tristezze dell'esistenza gli avessero paradossalmente fornito un'arma in più per fronteggiare il domani, di qualunque domani si trattasse. Non gli importava più nulla né della vita, né della morte, un po' come dovrebbe accadere a ogni essere umano che, maturando, assimila come il sapore del pane, la precarietà del divenire, fino a superarne l'angoscia che spesso lo contraddistingue, percependo il respiro come un fenomeno naturale senza tanti se e ma. Era un fantasma: il fantasma di se stesso. Viveva la sua vita come un paradosso. Aveva suo malgrado la mente lucida e dopo la scomparsa della moglie aveva iniziato a porsi serie domande sul destino dell'uomo; come un filosofo. Non aveva una grande istruzione, ma trovava affascinanti alcune filosofie di pensiero incontrate per caso, negli anni, leggendo con rigore e meticolosità la Terza pagina del Corriere della Sera. Un qualcosa gli suggeriva che il suo pensiero fosse riconducibile agli esistenzialisti come Camus e Sartre. C'era qualcosa anche di Berdjaev ed Heidegger. I primi due li menzionava accuratamente, meno l'altra coppia di capostipiti del movimento, peraltro variegato e diversificato. E c'era un figura incontrata di recente, un tal Rudolf Steiner, padre della cosiddetta antroposofia che aveva solleticato non poco le sue meningi. In fondo l'uomo cos'è?, si domandava, cos'era?, che ci sta a fare in questo mondo a mo' di un semino gettato al vento? La verità è che non si capacitava del fatto che due fra i suoi più grandi amori di sempre – la moglie e il primogenito - se ne fossero andati; non sopportava che molti suoi amici non ci fossero più; e che, ormai, non avesse quasi più parenti, anche solo da contattare a Natale per fargli gli auguri. La verità è che era solo come un cane o, perlomeno, era lui a sentirsi tale. Ma quando il mondo non gli sembrava ancora così grigio e insignificante, si era attaccato a tutte le più grandi scemenze della terra, pur di sentirsi parte di qualcosa o qualcuno. Bastava che un condomino parcheggiasse la bicicletta in malomodo, o che le briciole di un vicino finissero sul suo balcone per escogitare le trame esistenziali più inusitate da vomitare addosso al primo malcapitato. Un giorno che aveva bevuto un po' più del solito se l'era presa perfino con la nebbia. S'era messo a parlare al cielo dicendo che la nebbia impediva di vedere la madonnina incastonata nel muro della corte del Forno, risalente a un centinaio di anni prima. Non si capacitava del fatto che quella statutetta prendesse tanta umidità. Qualcuno aveva pensato che fosse così solo, che perfino l'idea di poter parlare con un disegno di gesso potesse in qualche modo resuscitarlo dal torpore nel quale era precipitato. E andava avanti a chiedersi: perché erano morti tutti e lui no? Perché lui aveva avuto la fortuna (o la sfortuna) di campare a lungo, mentre i suoi cari erano scomparsi? Perché? Perché al posto del suo figliolo non se n'era andato lui? Suo figlio avrebbe avuto ancora tante cose da fare, lui, invece, la sua vita l'aveva vissuta... Qual era la logica di questa trovata meschina? Non ci credeva, non ci voleva credere. Spesso si fermava per strada a fissare il nulla, domandandogli ancora una volta: perché? Era o non era crudele il distaccamento definitivo da chi si ama e da chi ci ha amato? Ma, ovunque andasse a cercare, non c'erano spiegazioni. E neanche l'antroposofia poteva fare molto. E anche adesso che viveva in una sorta di limbo esistenziale, i perché rimanevano, benché facessero meno male. Sparire per sempre era un concetto che, alla fine, aveva incredibilmente metabolizzato. Senza contare che, ironia della sorte, lui stava benissimo di salute e sembrava una beffa tutto quel che intorno gli era capitato. Aveva appena ritirato le analisi dalle quali emergeva che era sano come un pesce. Fosse stato per lui gli esami non li avrebbe neanche fatti, ma aveva un conoscente dottore, che di tanto in tanto lo sollecitava a fare una visita. «Ruggero», gli diceva il medico. «È un po' che non ti fai dare una controllatina. Dai, passa dal mio studio appena puoi». Risultato. Sanissimo. Per uno della sua età, ormai prossimo agli ottant'anni, sembrava un miracolo. «Non ce ne sono tanti come te, dovresti ritenerti fortunato». «Mi riterrei fortunato di avere qualcuno con cui trascorrere il giorno e la notte; qualcuno con cui parlare veramente, con cui dividere un letto, ma basterebbe anche solo un nipote da prendere in braccio...». Un tempo aveva avuto qualche problema col colesterolo e i trigliceridi, proprio come sua madre, che a causa di un eccesso di grassi nel sangue soffriva costantemente di attacchi di angina pectoris, ma ora sembrava che anche quei parametri fossero andati a posto; benché da un elettrocardiogramma sotto sforzo effettuato due anni prima fossero emerse delle coronarie non del tutto pulite. Ma ora che i lipidi erano ok, non c'era proprio più nulla di che preoccuparsi. S'erano rimessi in carreggiata forse perché la sua alimentazione non era più quella di un tempo. Si offriva esclusivamente a pranzetti e cene frettolose, per cui la pinguetudine, nemica giurata del cuore, non avrebbe avuto senso di esistere. Non valeva la pena darsi da fare per preparare chissà quali piatti per una sola persona; peraltro fra i fornelli era sempre stato una frana. S'era sempre occupata sua moglie della cucina e della preparazione di succulenti pietanze ereditate dalla saporitissima cultura culinaria della Basilicata, da cui proveniva. Prendeva cibi preconfezionati, proprio quelli che mandano in tilt il metabolismo e che la medicina sconsigliava vivamente, anche se – nel 1986 - non si viveva nel salutismo esasperante dei giorni nostri, dove, stando a quel che dicono i medici, ogni dì ci si dovrebbe sottoporre a una visita di controllo per verificare questo o quell'altro “indice vitale”. Così non aveva di che dannarsi. In dieci minuti era già a posto. Poi si sedeva sul divano e sonnecchiava. Se non sonnecchiava, guardava la televisione, con, però, sempre meno convinzione. La seguiva, in pratica, passivamente, come passivamente si assiste alla fila di persone che si muove per ricevere l'eucarestia. I varietà lo annoiavano; la politica l'annoiava; i telegiornali lo annoiavano. L'unica cosa che gli andava a genio, il che rasenta la fantascienza, erano le previsioni del tempo. Aveva un debole per le previsioni del tempo. Duravano pochi minuti ed era come se ogni volta assistesse all'ultimo film di un regista di grido. Aveva provato a dire di preferirle addirittura ai lavori di John Ford, il suo cineasta preferito. Cosa ci trovasse nelle previsioni del tempo era un mistero per tutti coloro che lo avevano conosciuto. In ogni caso la cosa andava avanti fin dal giorno in cui, negli anni Sessanta, era venuto in possesso della sua prima televisione. Curiosamente, però, non era interessato al fatto che potesse o meno piovere, nevicare, far caldo o freddo, ma era attratto dalle dinamiche fisico-chimiche che innescano le perturbazioni, le ondate di gelo o siccità. Era una specie di metereologo mancato. Si struggeva davanti all'ipotesi che l'aria siberiana potesse in poche ore raggiungere l'Italia, o lo scirocco invadere la pianura padana scaldando anzitempo atmosfere e intenzioni. Per lui era come leggere una poesia di Montale o Carducci. In parte si spiegava questa sua passione col fatto che fosse un segno di aria: apparteneva al segno dei Gemelli e, per quanto razionale potesse essere, era convinto che in qualche modo l'astrologia potesse segnare il cammino dell'uomo. E influenzare le passioni e il modo di pensare. Se uno, quindi, nasceva Gemelli non poteva non amare l'aria, il vento, le correnti cicloniche e anticicloniche. Quando ancora leggeva il giornale tutti i giorni dedicava sempre un certo tempo ad esaminare con attenzione le isobare, le temperature medie, l'ora di levata e tramonto del sole. Era affascinato da tutte queste cose. Era. Perché ormai anche questa attitudine s'era affievolita. Era troppo stanco e non leggeva più il giornale da tempo. Nemmeno il vento più forte e misterioso o l'isobara più curvilinea lo rincuorava. Se proprio doveva dire cosa lo facesse in qualche modo stare bene, si riferiva ai tempi andati. A prima di conoscere l'amata moglie e mettere al mondo le sue due creature. I bei tempi andati. A come il tempo, in fondo, era trascorso in un battibaleno; nonostante le fatiche e le sofferenze del cuore. Ma poi tornava ai suoi soliti insormontabili interrogativi filosofici. «A cosa serve il dolore? Qual è il retroscena evolutivo in grado di spiegare il dolore?». Osservava che molti di quelli che conosceva e che si ponevano simili quesiti trovavano conforto nella religione, super specializzata nel dare risposte a questo tipo di problematiche esistenziali. Ma non lui, che non era mai stato un grande frequentatore di templi e chiese e che ultimamente si era del tutto distaccato da crocefissi e madonne. Riconosceva qualcosa di superiore, ma l'idea che ci fosse un Dio buono e magnanimo pronto a prendersi cura dell'uomo e che ascolta le sue preghiere, gli sembrava un'assurda scemenza. Quanta gente aveva conosciuto che pregava Dio in tutti i modi possibili, per poi trovarsi a patire le pene dell'inferno e perire come tutti gli altri, giustificando la propria sofferenza come una parafrasi della crocefissione. Sull'argomento era vivacemente tornato dopo aver incontrato Steiner, con le sue teorie sul Golgota e la figura di Cristo. Scemenze, erano tutte delle grandi scemenze. «Se c'è un Dio non vive in mezzo agli uomini», filosofeggiava senza tanti giri di parole. Nei momenti più felici ripensava a quando era giovane e viveva con la sua numerosa famiglia in Puglia. Era un bambino. Vivevano in una quarantina di persone in una gigantesca struttura dove calore, amore, e passione troneggiavano incondizionatamente. Era una casa d'altri tempi, un microcosmo perfettamente autosufficiente. Si lavoravano i campi. E tutto ciò che veniva consumato derivava direttamente dal lavoro manuale, giornaliero. «Eravamo poveri, non avevamo niente, ma non sono mai stato così bene come a quei tempi», raccontava ai suoi figli quand'erano piccini. «Avevamo tantissimi animali: le mucche, i conigli, i maiali, e perfino le api. Si faceva un miele davvero speciale che poi vendevamo ai mercatini in città». Col dopoguerra, però, le opportunità offerte dal lavoro agricolo erano calate, cosa che aveva spinto persone come il padre di Ruggero a fare i bagagli e puntare le prue verso nord, per conquistare l'agognato settentrione freddo e cinico, ma pieno di chance per chi aveva voglia di fare. Là sorgevano le fantomatiche fabbriche dove andare a proporsi per un posto al caldo di otto ore, non di più. C'era un paese chiamato Sesto San Giovanni che pareva la terra promessa. Sembrava un'idea meravigliosa. Il padre di Ruggero era partito con un entusiasmo che aveva contagiato l'intera famiglia, e con l'intenzione di tornare da signore al paese natio. Aveva ancora i genitori che l'avevano salutato come una matricola che parte per il fronte e non si sa se rivedrà mai la luce del proprio borgo. Era un uomo tuttofare, disposto anche ai lavori più umili e pesanti pur di regalare una dignità alla propria famiglia. Ed era una persona sempre gioiosa e speranzosa, il contrario di quella che sarebbe diventata suo figlio. Al nord, prima a Milano, poi in Brianza, Ruggero, s'era, dunque, fatto uomo, frequentando le ultime classi delle medie e in seguito prestandosi come apprendista in una cartiera di Muggiò. Gli andava bene perché guadagnava, ma il lavoro non era granché, al punto che aveva provato a rimpiangere le ore passate in campagna da bambino, anche sotto la pioggia o il vento che sferzava dallo Ionio. Passava quasi tutto il tempo a tagliuzzare cellulosa e a impiastrarsi le mani di un liquido colloso e puzzolente. Molti colleghi erano maldisposti nei suoi confronti. Un giorno che s'era vestito con un paio di pantaloni marroni e una giacchettina giallognola, un tal Brambilla non c'aveva messo molto a prenderlo spudoratamente per i fondelli: «Di giallo e marrone si veste solo il terrone». Dopo pochi mesi, però, aveva completamente cambiato mestiere impiegandosi nella Croce Rossa di Vimercate e infine divenendo il bidello della scuola elementare di Agrate Brianza. Non avrebbe mai immaginato di poter fare, un giorno, il bidello, ma contro ogni previsione s'era rivelato proprio il lavoro che faceva per lui. Seguiva il suo tran tran e non doveva rendere conto (quasi) a nessuno. Aveva le sue classi da curare e tenere pulite e buona parte del pomeriggio a disposizione per farsi gli affari suoi, tipo andare a pesca o soddisfare qualche paturnia della moglie. A scuola gli volevano tutti bene, era d'altronde sempre cordiale e disponibile. Con i ragazzi e con le maestre, non faceva distinzione: per lui erano tutte persone adulte e mature, persone a cui portare rispetto. Ci mancava che desse del lei anche ai bimbi di quinta elementare. Se c'era bisogno di qualcosa, tutti andavano a chiedere a Ruggero. Anche la preside. Pioveva? Dov'era Ruggero? C'era troppo caldo? Ruggero? Fa troppo freddo? Ruggero? Non importa se la scuola era piena di bidelli che potessero assolvere le sue stesse mansioni: c'era in Ruggero qualcosa di più, qualcosa di amorevole e famigliare tale per cui era sempre il custode più richiesto e benvoluto. Qualche ragazzino approfittava della sua tolleranza e lo prendeva in giro facendogli scherzi anche cattivi come tiragli addosso i bussolotti o i gessetti della lavagna ridotti a moccini di mezzo centimetro. Ma lui non ci faceva caso, nemmeno se ne rendeva conto. Per lui erano solo ragazzi, comprensibilmente bramosi di vita, scalmanati, desiderosi di divertirsi. Durante i primi anni di attività aveva incontrato Carmelina: s'erano visti per la prima volta davanti al Duomo di Monza e non si erano più mollati; entrambi a spasso per via di una gita organizzata dalla leva dei rispettivi paesi. Lei abitava a Rovello Porro, un budello del varesotto, con un fratello alcolizzato e una mamma che li aveva abbandonati da piccoli per riprenderseli ormai maggiorenni, quando probabilmente non aveva più nessuno a cui far riferimento. Una condizione famigliare piuttosto complicata che non aveva tardato a lasciarsi alle spalle, per andare a vivere con Ruggero nel supercondominio omatese. Erano stati fra i primi a prendere possesso di un appartamento del palazzone. Avevano scelto di comune accordo di andare ad abitare al quarto piano. Desideravano il terzo, ma essendo già tutto occupato, non s'erano certo dannati di poter rimirare la landa prospiciente due metri più in alto. L'importante era non abitare al primo, che attirava l'immondizia di tutti quelli che stanno di sopra ed era una specie di invito a banchettare per i topi di appartamento. Uno dopo l'altro erano poi nati i due figli della coppia, come un copione già scritto. Il primo, Marco, quello più taciturno e con l'aria sempre malinconica, simile al padre; il secondo, Giannantonio, quello più casinaro, che assomigliava alla madre e al nonno paterno. I primi anni a Omate erano stati belli, spensierati, goderecci. Vivevano pacificamente, senza patemi, ansie, non gli mancava niente, anche se c'era il mutuo da pagare, un conto che avrebbero risolto nel giro di circa quindici anni. Ma era la norma. Come si soleva dire (e ancor oggi si suol dire), mal comune mezzo gaudio; su per giù tutti quelli del supercondominio s'erano accollati una spesa simile per poter avere una casa propria. Per poter ambire a una proprietà personale, concetto in voga non da molti decenni, figlio del boom economico che aveva permesso a un numero sempre più alto di famiglie di abbracciare il paradigma del benessere. In una bassissima percentuale avevano potuto acquistare al volo il proprio nido; erano quasi tutte giovani coppie che non avevano sicuramente da parte chissà quali risparmi, ma che la continuità lavorativa e l'idea della pensione avevano dato loro un grande sostegno se non altro di natura psicologica. Dopo la scomparsa di moglie e figlio, e la partenza per Ancona di Giannantonio, Ruggero de Santis aveva avuto ben poche altre gioie. Una sola, per la verità: quella legata agli incontri settimanali con la signora Tresoldi del terzo piano, la madre di Marina. Provava del sentimento per quella signora, anche se non le aveva mai praticamente parlato; forse l'unica del palazzone, con la quale sentiva di potersi aprire, come raramente gli era capitato di supporre una volta rimasto solo. Erano i suoi occhi, la sua aria bonaria e al contempo un po' svampita a rinverdire le sue intenzioni. C'era, però, bisogno di un buon pretesto per attaccare bottone. S'era, dunque, messo ad aspettarla di nascosto in cantina, spiando il suo sopraggiungere da una piccola fessura; conosceva bene o male i suoi spostamenti e sapeva che poteva anticiparla per affiancarla in ascensore tutte le volte che rientrava dal panettiere, verso mezzogiorno, così da cogliere l'occasione per accendere qualche discorso. Prima erano stati solo dei timidi e cordiali “come sta?” e “come va?”, ma poi la signora Tresoldi, accortesi delle dolci e premurose attenzioni del vedovo, e percependo il compassionevole senso di trasporto nei suoi confronti, aveva provato a invitarlo per un tè. Da quel momento Ruggero era montato in groppa a un'astronave pronta per raggiungere la luna. Non si sentiva così pimpante da decenni. Ruggero s'era presentato in casa Tresoldi con un completo grigio, i capelli pieni di brillantina e una scatola di cioccolatini. Gli sembrava un sogno; provare qualcosa per qualcuno che non fosse un suo familiare non gli pareva possibile. Era come il primo incontro intimo della sua vita, benché di intimo non ci fosse nulla e benché nessuno dei due auspicasse a una simile evenienza, tanto scandalosa, quanto impensabile e decisamente fuori luogo. Non era solo il suo bene, ma anche quello della signora Tresoldi: pensava che tutti gli uomini avessero bisogno di essere amati, anche in tarda età e specialmente quando la solitudine diviene un mostro impossibile da placare; era solito ripetersi il monito di Thomas Merton, di cui aveva letto sempre sul Corsera, riferendosi alla sua morte assurda, per una scintilla scaturita da un ventilatore difettoso: diceva che “nessun un uomo è un'isola” e aveva ragione. Nessuno può vivere solo per sé e senza ricevere amore. Aveva anche pensato che la signora Tresoldi potesse provare per lui un sentimento vicino alla pena; in ogni caso era un sentimento assolutamente degno di essere corrisposto, assecondato e, perché no, lodato. Andava bene così. Alla prima visita Ruggero sudavano le mani, e non era stato molto loquace. Aveva mugugnato qualcosa sui vicini, sulla madonnina della corte del Forno, ma aveva soprattutto lasciato che fosse la sua interlocutrice a farsi avanti, a indovinare i suoi sogni infranti. Era una donna molto gentile, ora lo poteva dire con certezza. Lo sentiva fin dentro le ossa. Per certi aspetti le ricordava la sua amata moglie, anche se a livello fisico non aveva niente di lei. Era una donna molto religiosa, cosa che lui, come è noto, condivideva fino a un certo punto. Nelle intenzioni della signora Tresoldi c'era, dunque, far comprendere al vicino di casa il valore della fede, della compassione divina, del progetto divino che vuole tutti figli e protagonisti di un'unica luce eterna. Sentiva di doverlo catechizzare. Ma di fronte a simili argomenti scanditi con tanta enfasi, Ruggero si opponeva con un sorriso sardonico, tipico di chi intende pur subdolamente mostrare di avere già approfondito un dato argomento e di non avere, quindi, più nulla da dire a riguardo, perché semplicemente non c'è più nulla da dire; perché quando la vita ti riserva dei dolori impossibili da gestire, non c'è santo o benedizione che possa giustificare lo sbocciare di un nuovo fiore. Ma la lasciava fare, godendo sempre e in ogni caso del suo canticchiare dolce e persuasivo. «La nostra fortuna si chiama Gesù. Lui ha patito le pene dell'inferno, ma poi è risorto a nuova vita. Anche noi risorgeremo a nuova vita, vedrà, caro de Santis, vedrà...». Con un atteggiamento del genere avrebbe anche potuto sentirsi dire che era un coglione, il più grande coglione di questa terra, e non si sarebbe accorto di niente. Poteva solo esserle grato. Dopo il primo incontro le cose erano andate meglio. Ruggero s'era reso più sciolto e disinvolto. Non trattavano più solo temi amari, tristi e angosciosi, ma anche argomenti divertenti e leggeri. Per esempio, un pomeriggio, s'erano messi a discutere di una puntata della Corrida di Corrado, che seguivano entrambi da anni, dai rispettivi appartamenti. Il soggetto in esame era un tale in grado di fischiare in una ventina di modi diversi: con le mani, con le dita, senza dita, con i denti in fuori... La sua abilità andava di pari passo con la ridicolaggine suscitata dalle facce che faceva per soffiare aria attraverso la bocca. In una sembrava che imitasse un babbuino, in un'altra un destriero ubriaco, in un'altra ancora un cammello con qualche assurda protesi boccale. Ricordandola s'erano messi a ridere come accade solo fra chi s'è instaurato un affiatamento raro e puro. Ruggero de Santis aveva più volte supposto che la Tresoldi sarebbe potuta essere la donna giusta per lui; se solo l'avesse incontrata in un altro momento... peraltro la riteneva inadatta al marito con cui si accompagnava, rigido, quadrato, privo di ogni estemporaneità, alle prese con dogmi religiosi vetusti e i soliti quattro antipaticissimi amici altrettanto stereotipati del bar dell'oratorio, manco fosse una sotto-congrega di templari. Erano andati avanti a vedersi per un paio di anni, raggiungendo una grande confidenza e solidarietà. Avevano perfino battibeccato in un paio di occasioni, confermando – come accade nella maggior parte delle coppie – un rapporto più che rodato. Poi, però, di punto in bianco, senza una valida motivazione, Ruggero aveva iniziato a bigiare gli appuntamenti con la Tresoldi, incapace di dare una spiegazione al suo nuovo incomprensibile atteggiamento. La Tresoldi all'inizio non ci aveva fatto caso, ma dopo l'ennesima bidonata dell'amico, s'era allarmata; magari l'aveva ferito senza accorgersene. Poi, un giorno, incontrandosi per puro caso in ascensore – e non come le altre volte per un preciso disegno progettuale di Ruggero - aveva capito che il vecchio compagno di merende, se così si poteva chiamare, non era più lui: era come se si fosse spento definitivamente, con più nulla che potesse davvero allietarlo, tantomeno un pomeriggio con la sua confidente per eccellenza. Era come sefosse volato via, in altro tempo, in un'altra dimensione. Lui era stato vago, non sapeva nemmeno lui cosa dire. «Non so, da un po' non sto tanto bene. Non mi riconosco nemmeno io». «Cosa ti senti Ruggero? Forse è il caso che tu vada a farti visitare da un medico…». Ruggero aveva fatto una mezza smorfia. «I dottori non sono dei santi». «Ma non vieni più a bere il tè da me? Sono settimane che non ti fai vedere... Ho temuto di averti detto qualcosa che non andava...». Ruggero s'era immalinconito ancora di più. «Ma no, figurati, cosa c'entri tu? È che ormai...». «Ormai cosa? Non ti piace più chiacchierare con la tua vicina?». Ruggero aveva tirato un sospiro profondo. «Ormai sono troppo vecchio». E qui che la signora Tresoldi s'era laconicamente resa conto che lei non c'entrava proprio nulla con il cambiamento di Ruggero. La realtà era un'altra. Era come se avesse deciso di punto in bianco di rinunciare alla vita, compreso l'ultimo dileggio che gli era rimasto: spendere con lei settimanalmente qualche parola e in qualche modo affidarsi a una sorta di psicanalista che potesse sradicarlo da un cammino esistenziale impervio e assai poco indulgente. Il punto è che alla fine si era affezionata sinceramente a Ruggero e ora, vederlo così remissivo, gli provocava una sofferenza mal definita, ma cocciuta. Lo aveva, peraltro, trovato invecchiato dall'ultima volta che le aveva fatto visita, come se non fossero passate settimane dal loro ultimo tè, ma anni. Anche il colorito non era più lo stesso di un tempo: pareva cenerognolo, come chi sta patendo qualche severo malanno. «Non sei troppo vecchio Ruggero. Ma chi ti dice queste cose? Sei ancora in gamba, come te non ce ne sono molti». Ruggero aveva taciuto. «Dai, passa settimana prossima... Ho voglia di scambiare con te qualche parola...». «Va bene, va bene, verrò». Due giorni dopo l'incontro avuto in ascensore, scoppiava il reattore di Chernobyl. Ruggero come al solito era stato leggero, e all'ora del telegiornale aveva già finito di mangiare e di sistemare la cucina. S'era fatto un brodino senza tante pretese, con un dado che non sapeva bene da quanti giorni aveva nel frigo. Non guardava più le scadenze da quando era rimasto vedovo, ritenendo un cibo nutriente e innocuo finché il suo sapore non diveniva disgustoso. Non aveva tutti i torti, anche perché più volte aveva sentito dire che le date di scadenza erano ben poco attendibili, esibite più per facilitare il commercio di un prodotto che non per salvaguardare la salute delle persone. Ormai aveva una certa età, e non ci cascava più: giudicava il commercio e la medicina pilastri delle fandonie, macchine da guerra intenzionate solo a far soldi a discapito di ignari e stolti. Di secondo aveva mandato giù un paio di fette di prosciutto cotto. C'era parecchio grasso, non per caso: quando gli chiedevano che prosciutto volesse, rispondeva sempre quello che costava meno. Non aveva problemi economici, prendeva una bella pensione, ma al risparmio era abituato; per educazione, etica, puntava sempre a ciò che costava meno. Bastava poco, del resto, a dargli la sensazione di pienezza, comprese pietanze per nulla prelibate. Anche la frutta era un'optional in casa de Santis. Poteva stare settimane senza mangiare un frutto, ancora una volta in barba alle raccomandazioni dei medici che consigliavano vivamente il loro consumo giornaliero, per la gran quantità di vitamine e antiossidanti presenti. Dopo la frugale cena era per un attimo uscito sul balcone, dove fino a qualche anno prima amava rilassarsi fumando una sigaretta e soffermarsi sul via vai delle persone: gli piaceva fotografare l'andirivieni della gente, sopraffatto da un sentimento di amore universale, un magico momento in cui gli sembrava che tutti gli esseri umani si amassero e si volessero bene, senza rancori e prepotenze. Niente a che vedere con le ipotesi di Sartre. Il balcone era spoglio e misero. Da anni non coltivava più campanule e gerani, da anni non era profumato dagli aromi dei vasi di salvia e rosmarino; essenze che voleva la moglie, per insaporire i piatti, secondo le ricette imparate da bambina. Quella sera, però, la sera dell'emergenza nucleare di Chernobyl, dalla sua posizione di controllo sembrava che il mondo si fosse fermato: non aveva visto anima viva aggirarsi ai piedi del palazzone omatese, e ancora una volta era stato sopraffatto da un'acuta malinconia. Era rientrato in casa dopo una decina di minuti, sollecitato da un brivido di freddo; si era alzato un vento improvviso, anche se le foglie degli alberi parevano assolutamente immobili, come in un film di fantascienza. Sul divano aveva acceso la tv, con il solito fare passivo e rassegnato. Quello che compiva per sintonizzarsi sul telegiornale di Rai Uno era un movimento meccanico, quasi robotico; dopo dieci minuti di news era con il pensiero già da tutt'altra parte, sconvolto da un senso di solitudine opprimente e da uno strano formicolio al braccio. Per un istante aveva pensato alla signora Tresoldi e all'ultimo incontro avuto in ascensore; aveva riflettuto sulla promessa fatta che, sapeva bene, non avrebbe mantenuto. Non si trattava di volere o non volere compiere un'azione che fino a qualche settimana prima era assoluta routine; era un problema anche di natura metabolico: ogni cosa da fare gli pareva di una fatica insormontabile. Gli pesava tutto. In certi momenti gli pareva che anche il respiro potesse essergli di peso. Ma come si faceva a vivere senza respirare? Lo speaker blaterava di mondi e pericoli a lui totalmente estranei. L'Ucraina era un'idea di geografia che non comprendeva; a scuola non ne aveva mai sentito parlare, e sui libri o i giornali l'aveva incontrata di rado. Peraltro era un tipo che aveva viaggiato pochissimo. Aveva visto solo la Svizzera e la Francia. Si può quasi dire, quindi, che non sapesse nemmeno cosa fosse l'Ucraina. Così come l'energia nucleare. Per lui energia era la luce che illuminava la stanza in cui dormiva o il neon dei sotterranei delle scuole dove aveva lavorato per anni. Quella era l'energia luminosa, gli bastava, cosa si nascondesse dietro all'energia non era affar suo; teoremi appannaggio di altre generazioni, delle nuove generazioni. Il telecronista s'era messo poi a parlare di una fantomatica nube radioattiva diretta verso l'Italia. C'era la seria possibilità che potesse contaminare le falde acquifere, i campi e avvelenare boschi e radure. Ma ormai Ruggero era altrove, con un sorriso che da tempo non gli apparteneva.
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