Antonello Grasso, vent'anni, per tutti semplicemente Nino. Era uno dei più screanzati fenomeni degli anni Ottanta omatesi. Alto, magro, con i nervi che parevano uscirgli anche dalla bocca e dagli occhi, la bionda coda dei capelli, raccolta come quella di un levriero, sapeva a malapena leggere e scrivere. Era cresciuto in una famiglia a dir poco disastrata, che abitava l'appartamento A, quarto piano, del palazzone omatese, sporco e immondo come poteva esserlo solo quello dei Vismara del primo piano. Viveva con la mamma, la sorellastra, Anita, il piccolo Mauro. La madre era una poco di buono che in gioventù si accompagnava ai primi che le capitavano per strada, finendo a letto con sconosciuti con una frequenza a dir poco esagerata e, dunque, rimanendo incinta senza sapere chi fosse di volta in volta il padre del nuovo nascituro. Altri due figli erano stati affidati dai servizi sociali a una famiglia adottiva, e un paio le erano mancati in tenerissima età per malattie del tutto banali. Sicché il destino di Antonello era un po' lo stesso che contraddistingueva Maurizio Meroni, del secondo piano, che, però, poteva contare su un imprinting affettivo ed educativo decisamente più consistente. Anche lui non aveva mai conosciuto il padre e non avrebbe avuto modo di sapere chi fosse: probabilmente non se lo immaginava nemmeno la madre. Antonello era da sempre stato abbandonato a se stesso, già a quattro anni girovagava per il paese con una bici malandata, le forcelle traballanti, alcuni raggi delle ruote trasformati in pericolosi uncini; sfilava, noncurante delle macchine che passavano, davanti agli occhi allibiti dei paesani, che non si capacitavano del fatto che ci fosse qualcuno che potesse mandare a spasso da solo un bimbo così piccolo. Il rendimento scolastico era stato tragico fin dall'inizio. I primi tentativi di lettura e scrittura li aveva consolidati solo in terza elementare, quando, ormai, tutti i suoi coetanei potevano dirsi gran maestri. Non si sa come, quindi, fosse riuscito ad arrivare alla fine delle medie, anche se aveva già compiuto sedici anni. Dopo la scuola era finito in un cantiere edile a lavorare come apprendista muratore. Non era stata una vita facile. A causa della sua giovane età, veniva obbligato ad assolvere tutti i compiti più umili e pesanti e alla fine rincasava devastato dalla stanchezza, con le mani rugose di un vecchio, ma anche con una rabbia che giorno dopo giorno si accumulava sempre più e prometteva di materializzarsi nell'ennesima bravata. Era la stessa rabbia e lo stesso disagio sociale che contraddistingueva anche i suoi comprimari, le uniche persone con le quali riusciva in qualche modo a sentirsi a suo agio: Flavio Galbiati e Roberto Musci. I tre rappresentavano la feccia di Omate e, verosimilmente, dell'intero vimercatese. Li conoscevano tutti per la loro aria da sbruffoni e per il timore che incutevano non solo alle nuove generazioni: potevano anche prendersela con uomini ben più grandi di loro, forti di una cattiveria che li portava a menare come degli ossessi, quasi indifferenti al dolore fisico. Recentemente avevano spaccato una bottiglia in testa a un pensionato che bazzicava al centro Aldo Moro di Agrate, e che aveva avuto l'insana idea di ridere della coda capelluta di Antonello:
«Sembri una donna», gli aveva detto, del tutto inconsapevole del rischio che stesse correndo.
Antonello s'era tuffato oltre il bancone del bar, impugnando una bottiglia di vetro, e blaterando al cameriere attonito di non spaventarsi se avesse visto un po' di sangue. Poi era corso dietro al vecchietto e l'aveva ammonito dicendogli che la prossima volta avrebbe dovuto farsi gli affari propri. L'uomo s'era abbandonato a una fragorosa risata, mentre il ragazzo gli frantumava sulla fronte l'oggetto vetroso. Una cascata di sangue aveva inondato il pavimento del bar, mentre la vittima crollava su se stessa e sotto i calci infuriati di Roberto Musci, che incurante dell'emorragia in corso e della già evidente sofferenza del malcapitato, godeva come una scimmia con un casco di banane fra le mani, all'idea di frantumare le costole del poveraccio. Non era servito a molto l'intervento delle forze dell'ordine, che, in buona sostanza, erano mezzi complici di Antonello e della sua banda; più che complici, si può dire che anch'essi, in qualche modo, temessero la furia del trio e preferissero, quindi, non infierire più di tanto sulla loro condotta (finché non ci scappava il morto... tutto era passabile); una strizzata d'occhio e la farsa dell'ammanettamento avevano messo tutti a tacere nel breve volgere di un quarto d'ora, mentre il disgraziato di turno raggiungeva a sirene spiegate il nosocomio di Vimercate.
Sicché, l'ultima smargiassata in ordine di tempo, i tre dell'Ave Maria l'avevano tenuta in serbo proprio per la sera di Chernobyl, in concomitanza con la notizia del disastro nucleare diffusa da tutti i telegiornali. Non sapevano alcunché della catastrofe ucraina, e non ne avrebbero saputo neanche nei giorni a venire - non gliene fregava niente, come non gliene fregava niente di tutto ciò che accadeva al di là delle loro scorribande – e se anche l'avessero saputo, l'avrebbero dimenticato nel giro di qualche minuto. Da ciò si intuisce quanto fosse piatta e povera la loro esistenza. Non c'era argomento sul quale amassero soffermarsi. Il punto è che non avevano argomenti. Le parole, i verbi, qualunque tipo di riflessione, sfuggiva alla loro quotidianità. Il loro QI poteva anche essere sufficientemente adeguato alla media nazionale, ma le faccende del mondo parevano non essere di loro competenza, qualunque cosa fossero. Al massimo potevano disquisire su qualche bella ragazza, soffermandosi pesantemente su affascinanti anatomie e ipotetici scenari erotici, aventi come protagonisti i loro stessi attributi. L'unica cosa di cui erano veri specialisti era la bestemmia. Sostituiva perfettamente qualunque concetto volessero esprimere. Con un bel porco D risolvevano ogni tentennamento. Non si fermavano davanti a nulla, tantomeno alle sacre scritture. Un giorno Antonello aveva letto su un foglietto inspiegabilmente finito su un tavolo del Ragno Verde, riportante il passo del Levitino che dice “chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare”. Era scoppiato a ridere, sfoderando una raffica di bestemmie, a dimostrare che, davvero, non ci fosse niente di più divertente che prendersi gioco della religiosità locale. Anche la famiglia di Antonello era poco interessata alle vicissitudini del mondo, tuttavia la mamma, la sorellastra e il fratellino di Antonello per l'ora di cena, erano sintonizzati proprio su Rai Uno, mentre lo speaker comunicava del disastro. In realtà seguivano con totale passività l'escalation sensazionalistica del notiziario, come se stessero raccontando di una crema per spianare le rughe. In fondo, alla famiglia Grasso non sarebbe importato di nulla, sennonché dell'ipotesi di poter vincere un bel gruzzolo di soldi canticchiando per qualche minuto un brano di un giovanissimo che si stava facendo strada nel mondo della canzone italiano, un tal Eros Ramazzotti.
La notte del patatrac di Chernobyl Antonello e i suoi due compari, tanto per cambiare, erano in giro per il paese a seminare zizzania; un bel po' alticci, dopo essersi riforniti di alcol al bar Passoni di Agrate, suscitando le ire del proprietario stanco di dargli credito. Lasciato il locale, s'erano incamminati verso via Ferrario, dove avrebbero dovuto incontrare Johnny Canela, un tipo strano, col quale s'erano messi in affare da qualche mese, spacciando quantità più o meno considerevoli di hashish e marijuana. Raggiunto il punto di incontro, davanti al vecchio ciclista, nella piazzetta Santa Maria, avevano preso a calci la cabina del telefono, vedendo che di Johnny non c'era traccia.
«Dove è finito quel figlio di puttana?», s'era messo a urlare Roberto, obbligando la Severina Brambilla della finestra di fronte ad abbassare anzitempo le tapparelle.
Saziatesi con una nuova raffica di bestemmie, avevano puntato la loro attenzione a una Fiat Ritmo parcheggiata col motore acceso poco più avanti, di fronte all'ingresso del fruttivendolo di Cira Amalfi. Al suo interno c'era Calogero Bellavia, un ventenne da poco inscrittosi alla facoltà di lettere antiche a Milano, elegantemente abbigliato con una giacchetta blu, la camicia bianca, un paio di jeans lindi e stirati e le mocassino della Timberland, acquistate da poco più di una settimana in un negozio dalle parti di Busnago, il cui proprietario era un amico di famiglia. I tre guappi avevano circondato l'automobile e s'erano messi a fissare con aria spiritata il giovanotto col chiaro intento di spaventarlo. Calogero conosceva di fama i tre disgraziati e aveva saputo di non trovarsi in una bella situazione, ma essendo in centro paese, s'era in qualche modo autoconvinto, rasserenandosi, che non avrebbe corso chissà quali pericoli. Quando Flavio, però, aveva tirato un violento pugno sul cofano s'era preso un colpo: il suo cuore aveva cominciato a sbatacchiare all'impazzata, mentre due dita della mano sinistra si incrociavano, sollecitando Dio o chi per esso a prendersi cura di lui. Ma gli spiriti, probabilmente, in quel frangente, avevano ben altro a cui pensare.
«Apri!», gli aveva intimato Antonello.
«Come?», aveva ribattuto Calogero, fingendosi su un altro pianeta.
«Apri, porco...».
Calogero era rabbrividito. Che cosa volevano da lui? Perché non lo lasciavano in pace? Aveva sentito dire in giro che quei tre erano capaci di tutto, compreso accanirsi contro qualcuno con un cricket in mano. Si diceva, infatti, che avessero aperto il cranio di un giovane, con il cricket. Con il cricket! Cose che sfuggivano al suo raziocinio, ma che ora gli facevano una dannata paura. E se avessero aperto anche il suo cranio? Le sue povere meningi... Il panico era dietro l'angolo.
«Apri Dio c...», aveva gridato come un pazzo Roberto Musci, con gli occhi iniettati di sangue.
Calogero aveva tirato giù il finestrino credendo, per un attimo, che potesse essere sufficiente a sedare la rabbia dei tre.
«Ti ho detto di aprire questa cazzo di porta!», gli aveva intimato Antonello, con fare ancora più aggressivo.
Calogero aveva tirato la leva della portiera, divaricando lo sportello e consentendo ad Antonello di insinuarsi fra la porta e il posto del guidatore; quest'ultimo aveva, quindi, afferrato per il bavero della giacca la vittima, scaraventandolo giù dal mezzo come un sacco di letame.
«Adesso guido io».
Calogero era passato nelle mani di Roberto, che lo aveva rialzato da terra, per poi obbligarlo a sedersi dietro, tallonato a vista da Flavio che per presentarsi gli aveva tirato uno sberlone sul coppino. Calogero era basito e angosciato. Non riusciva a capacitarsi di quello che stava avvenendo, si guardava intorno, sperando di intravedere qualche volto amico che potesse lanciare l'allarme. Ma nei paraggi tutto sembrava morto e deserto: proprio come il suo animo. Solo al semaforo di fronte alla STAR era riuscito a esprimere un mezzo verso per tentare di venire a capo dell'impasse.
«Sto aspettando la mia ragazza, vi prego...».
«Vi prego? Stai zitto merda», aveva detto Flavio.
Non aveva capito che ogni sua supplica sarebbe stata vana.
«Stai zitto, porco D...», aveva rincarato la dose Roberto, contorcendosi su se stesso per tirargli un altro ceffone. «Stai zitto, hai capito? Se apri ancora la bocca ti sfondo il muso».
Calogero tremava, mentre Antonello imboccava la via Lecco a tutta velocità, a quell'ora silenziosa come una radura sperduta delle pampa sudamericane. Stretto dal suo aguzzino aveva cominciato a sudare freddo, prima di ritrovare il coraggio di riformulare qualche parola:
«Portatemi a casa. Mi aspetta la mia tipa».
«La mia chi?». E via un altro ceffone sulla nuca. «La tua chi?», aveva insistito Flavio con un accanimento maniacale.
Arrivati a Vimercate, Antonello aveva curvato per raggiungere il centro, sorvolando come un missile su piazza Marconi. Il Termine li guardava con la sua aria sorniona, mentre dalla cima del suo terrazzo, una coppia di fidanzatini fumacchiava nascosta dai rispettivi genitori, dabbasso alle prese con il dessert. Erano le otto e mezza di sera e l'aria sapeva di estate, anche se mancavano ancora parecchi giorni alla bella stagione. Venere brillava sopra l'orizzonte, benedicendo il passaggio dell'ennesimo pullman mezzo vuoto che riguadagnava i filari della rimessa.
«Andiamo dal Riccio?», aveva blaterato Flavio, stordito da una canna che aveva, praticamente, divorato in cinque minuti, rischiando più volte di ustionare la cavia che stringeva al suo fianco.
Il Riccio era un locale che sorgeva in via Cavour, una delle contrade più antiche della città, nel cuore di Vimercate. Era riconoscibile dall'esterno per via di un'insegna luminosa che inondava mezza strada, e da una serie di vasi di fiori rinsecchiti. Ci andavano i poco di buono del circondario, in qualche modo assecondati dal proprietario, un napoletano con trascorsi nel campo della malavita campana, quand'era ancora un pischello alle prime armi desideroso di trasformarsi in un boss da servire e riverire. Le voci che circolavano intorno al locale erano piuttosto brutte. Si diceva che lo spaccio regnasse sovrano, ma non solo. Il riferimento era anche al gioco d'azzardo, al traffico d'armi e alla prostituzione. Ce n'era di tutti i colori e non passava mese senza che qualche ceffo del Riccio finisse fra le mani delle forze dell'ordine, dopo mesi di tallonamenti silenziosi. Era una routine di cui la cronaca locale non poteva che andare a nozze, tenuto conto del fatto che, nel vimercatese, le notizie bomba erano frequenti tanto quanto l'impatto di un asteroide con la Terra. All'interno era confusionario, disordinato, e sporco. Per terra potevano trovarsi le cicche delle sigarette, come le carte del gelato, o qualche avanzo di cibo. Non c'erano ancora dei controlli rigidi, tali per cui alcuni bar potessero non essere ritenuti idonei ad ospitare una propria clientela. Sicché, dal Riccio, la possibilità di beccarsi qualche epatite non era affatto scongiurabile. Personaggi come Antonello e i suoi amici erano i perfetti frequentatori del locale, dove trovavano tutto ciò di cui avevano bisogno e potevano sentirsi a casa loro, più che in ogni altra parte del mondo, comprese le proprie quattro mura.
Il Riccio era un uomo burbero e possente, che difficilmente dava confidenza; perfino i suoi più fedeli clienti non erano immuni da questa sua attitudine. Gestiva il locale da lontano, lasciando alla moglie Patrizia e alla figlia Carmela l'amministrazione del bancone. Lui si può dire che regnasse dall'alto, senza scendere a patti con i comuni mortali; ma fotografava ogni cosa: il Riccio vedeva tutti, senza essere visto da nessuno. Conosceva benissimo i tre scalmanati omatesi, benché non avesse praticamente mai scambiato con loro mezza parola. Li trovava, però, in qualche modo simpatici, per quanto la simpatia potesse essere un concetto ascrivibile alle sue corde sentimentali, ed era lieto di averli nel suo locale: dei delinquenti come lui, fatti della sua stessa pasta. Non escludeva un giorno di poterli assoldare per qualche sporco affare. La sera dell'esplosione di Chernobyl erano arrivati con un giovanotto col volto stravolto, con l'aria di voler essere da tutt'altra parte; e invece era lì, rapito da un'agonia inimmaginata, fra i tre più loschi ragazzi del vimercatese, in attesa di chissà quale sacrificio.
«Ciao Carmela», aveva blaterato Flavio, accomodandosi a uno dei tavoli del locale, seguito da Antonello e Roberto.
«Ciao belli. Siete in compagnia?».
«Abbiamo un ospite di riguardo... Si chiama Calogero. Calloggero, sembra sfigato, ma è un duro Calloggero».
«Dalla faccia non mi sembra tanto un duro...».
Erano scoppiati a ridere in coro, umiliando la povera vittima, sempre più persa in se stessa.
«Allora per festeggiare Calloggero oggi berremo il miglior vino della casa».
«Siete sicuri di avere i soldi?».
«Certo che li abbiamo: ce li ha Calloggero», aveva mugugnato Roberto. «Non è vero Calloggero?».
Calogero era sbiancato. Essendo un universitario sapeva la fatica che occorreva per racimolare qualche quattrino e ora l'idea di dover far fuori tutti i suoi risparmi per questa banda di scalmanati lo inquietava da morire. I tre guappi avevano cominciato a bere con foga, accendendosi e spegnendosi una sigaretta dopo l'altra.
«Bevi merda», aveva detto Flavio a Calogero, riempendogli il bicchiere fino all'orlo.
«No grazie, sono astemio», aveva detto il ragazzo con un filo di voce.
«Bevi merda, sennò ti uccido».
«Vi prego, lasciatemi in pace».
Calogero stava per avere una crisi di nervi. Gli veniva da piangere. Sentiva un groppo in gola come non gli succedeva dal primo giorno di scuola, alle elementari. Per un attimo aveva pensato alla fuga, ma si rendeva conto con tre dobermann alle calcagna non sarebbe andato tanto lontano.
«Hai sentito cos'ha detto il mio amico?», aveva domandato Antonello. «Nessuno può rifiutarsi di bere con noi. Se noi ti offriamo da bere, tu devi bere, capito?».
«Bevi merda!», aveva ribadito Roberto.
Calogero, sempre più piegato su se stesso, con un colorito cadaverico, aveva avvicinato il bicchiere alle labbra, mandando giù un piccolo sorso, frenato dalla netta sensazione di avere qualcosa in gola che gli impediva di deglutire comodamente: era l'ansia.
«Bevilo tutto, muoviti, bastardo», aveva rincarato la dose Flavio.
A questo punto Calogero non aveva più retto ed era scoppiato in un pianto liberatorio.
«Vi prego, portatemi a casa», aveva mugugnato.
«Ah, ah, piange la checca», aveva detto Flavio. «Vuoi la mammina?».
«Prima devi finire il tuo vino», aveva detto Roberto.
Calogero s'era fatto coraggio e con un guizzo aveva mandato giù tutto il contenuto del bicchiere. Intorno ad essi scalpitavano dei vecchiardi con le carte in mano, dall'accento meridionale. Il più grosso aveva una lunga cicatrice che gli copriva mezza faccia, incutendo ai consimili un timore reverenziale. Bevevano un alcolico casereccio, qualcosa di contrabbando, sui 40 gradi, probabilmente di origine orientale. Erano tutti piuttosto alticci. C'era un baccano assoluto. Al termine della bottiglia i tre desaparecidos ne avevano ordinata un'altra, obbligando, ancora una volta, il malcapitato a consumare la sua razione. Dopo mezz'ora Calogero aveva sentito i fumi dell'alcol sconvolgergli le meningi. Non era abituato ed era una sensazione che lo faceva stare malissimo: con la testa che girava, anche lo stomaco s'era messo a borbottare stranamente, provocandogli degli inusuali spasmi addominali. Anche i suoi aguzzini erano ormai oltre la soglia del bere moderato, ma evidentemente reggevano il vino con molta più disinvoltura e non si preoccupavano certo di un po' di sbandamenti. Dopo un paio d'ore era giunto il momento di cambiare aria: Antonello aveva preso sottobraccio Calogero sussurrandogli che Carmela lo stava aspettando alla cassa con le gambe aperte.
«Poi, magari, ti fai anche una bella scopata», gli aveva detto dolcemente.
«Non so se ho i soldi, davvero», aveva tartagliato Calogero, disperato davanti a questa calamità. Peraltro la nausea stava per avere il sopravvento.
«Falli saltare fuori in due minuti, sennò ti faccio vedere i sorci amari».
«Ma io studio all'università. Non ho la possibilità di saldare...».
«Ci siamo capiti».
Calogero non aveva avuto la forza di opporsi al comando del vessatore ed era, dunque, finito ai piedi del bancone con la faccia stravolta, per saldare il debito: 20mila lire.
«Ciao bellino», l'aveva salutato Carmela.
Aveva poi ripreso a supplicare i suoi torturatori di lasciarlo andare: era in uno stato a dir poco pietoso, lui, per natura, così precisino, sembrava che gli fossero passati sopra cinque camion della nettezza urbana. Gli si contorceva lo stomaco e non avrebbe voluto altro che potersi sdraiare su un letto e dimenticare la peggiore avventura della sua vita. Ma l'avventura non era affatto finita.
«Vi prego... vi prego... portatemi a casa», li supplicava. Ma i tre carnefici erano di tutt'altro avviso.
«Quanti soldi hai ancora?», gli aveva domandato Flavio.
«Non ho più nulla, vi scongiuro...».
«Tira fuori il portafogli, merda», gli aveva intimato Roberto.
Davanti alla titubanza di Calogero, Flavio lo aveva abbracciato, alitandogli in faccia e, palpeggiandogli in pratica il sedere, gli aveva strappato dalla tasca dei pantaloni il portafoglio: al suo interno c'erano ancora ottanta mila lire; pronte per essere spese.
«Adesso andiamo dal Principe, Dio c... Andiamo a divertirci con qualche puttana», aveva esultato Flavio.
Il Principe sorgeva a Concorezzo, di fronte al cimitero, lungo l'arteria che conduce a Monza e a Vimercate. Era un'altra location tipica degli scappati di casa della zona. Ospitava fra le sue mura parecchie donne consenzienti che venivano pagate per strusciarsi sui presenti, inducendoli a non esitare con le ordinazioni. Di fatto era una specie di night, nonché uno dei locali più frequentati in assoluto della realtà anni Ottanta brianzola. Non mancavano, anche qui, le retate delle forze dell'ordine, che di volta in volta si ritrovavano a imporre il rispetto della normativa che regolamentava il confine fra lo show piccante e l'indecenza più bieca. Per legge, le ragazze che prendevano parte agli spettacolini osé, non dovevano andare oltre certi limiti: non dovevano scoprire le parti intime, e tantomeno rimorchiare. Tuttavia al Principe ogni cosa era plausibile, comprese scenette pornografiche con relativo scambio di indirizzi per proseguire in un ambiente più intimo l'alcova. Sicché la prostituzione era di casa, lo sapevano tutti, ma l'omertà aveva la meglio sempre e comunque. Dal Riccio al Principe, Calogero aveva pregato, inneggiando a Maria e ai Santi del paradiso, perché potessero prendersi cura di lui, strappandolo da quell'agonia infernale. Stava pensando a un voto da fare alla Madonna, ma la sensazione di smarrimento era così penosa da impedirgli di ragionare efficacemente. Osservando la leva della portiera, gli era venuto in mente dell'amico che gli aveva raccontato di una ragazza che per fuggire a uno stupro s'era tuffata dalla macchina in movimento. Una bella idea, ma lui questo coraggio non l'aveva; peraltro sarebbe stata, forse, un'azione vana, visto che Flavio lo teneva immobilizzato come un'ascidia ancorata al substrato marino. Avrebbe voluto sparire. Ma come? E dove? La cenere della sigaretta di Flavio era caduta sul sedile provocando uno squarcio nel tessuto, circostanza che aveva mandato ulteriormente in tilt il povero studente di lettere, conscio del fatto che suo padre non gliel'avrebbe fatta passare liscia. Calogero stava seriamente per vomitare.
«Porco D... se mi vomiti addosso ti taglio la gola», aveva blaterato Flavio.
L'aguzzino gli aveva tirato un altro sberlone, facendolo sussultare e in qualche modo, incredibilmente, arrestandogli lo stimolo nauseabondo. A destinazione avevano parcheggiato nei pressi del cimitero. Calogero, a malapena, si reggeva in piedi.
«Sorridi pezzo di merda. Devi sorridere, hai capito? Stiamo andando a una festa, non a un funerale».
La porta del locale era semiaperta per il continuo via vai di clienti e per la necessità di far cambiare aria all'ambiente, saturo di fumo e anidride carbonica. S'erano imbattuti in una ragazza di pelle nera, in bikini, che strusciava il suo voluminoso seno sul volto di un ragazzetto imbarazzato. Calogero aveva avuto un mancamento, ma prontamente l'ennesimo ceffone di Flavio l'aveva rimesso in pista.
«Voglio andare a casa», aveva sussurrato.
«Stai zitto cacasotto», gli aveva detto Roberto. «La serata è appena iniziata».
«Che si ordina da bere?», aveva domandato Antonello.
«Facciamo ordinare al cacasotto», aveva blaterato Flavio.
«Dai, cacasotto, ordina una media a testa», aveva ribattuto Antonello.
Calogero, totalmente sotto sopra, s'era rivolto alla prima cameriera che gli era passata di fianco, una tipa secca come un'acciuga, col volto profondamente butterato, che lo aveva guardato come se avesse davanti un extraterrestre: con tutti i clienti che le passavano per le mani, non ne aveva mai visto uno così messo male. Aveva intuito che potesse essere stato soggetto alle angherie di qualche teppista locale, non sarebbe stata la prima volta, e quasi aveva provato per lui un sentimento di pietà; ma non avrebbe potuto fare molto, in un ambiente del genere, altruismo e carità erano concetti alquanto illusori. Arrivate le birre, una suadente moretta con un timido tanga azzurrognolo, e una treccia lunga fino al sedere, aveva preso ad accarezzare i pettorali di Antonello, felice come una Pasqua di poter tastare con le sue manone il fondoschiena dell'improvvisata amica.
«Sei la mia puttana», le aveva detto, facendo sì che la ragazza si gongolasse davanti ai numerosi occhi che la squadravano viscidamente.
«Sei bello, sei forte, sei il mio uomo».
Gli era venuta l'idea di portare a compimento l'opera altrove, soffiando spudoratamente agli amici i soldi rimasti nelle tasche di Calogero: per un servizio completo, lo sapeva per esperienza, bastavano 50mila lire; più volte aveva dedicato le sue serate a qualche avventura voyeuristica, in locali come il Principe, ma anche lungo il vialone delle Industrie. Ma alla fine, anche per via di un fastidioso mal di testa che lo stava attanagliando da una mezz'oretta, s'era limitato a soddisfare la sua libidine lasciando semplicemente che l'atipica e disponibile inserviente continuasse a giochicchiare come aveva fatto fino a quel momento. Anche questa volta avevano obbligato Calogero a bere controvoglia, costringendolo al senso di nausea patito fino a pochi istanti prima. Erano rimasti al Principe per un paio d'ore, lasciandosi rimbambire del tutto dalla musica assordante e dall'andirivieni di volti più o meno conosciuti, del tutto inconsapevoli della nube radioattiva che aveva cominciato la sua corsa verso l'Italia. Poi, verso l'una, con alle spalle almeno sei ore ininterrotte di baldoria, ritrovandosi con le pile scariche, avevano deciso che era ora di dare un taglio all'ennesima bravata, e disfarsi della cavia martoriata fin lì: Calogero Bellavia. L'avevano abbandonato nel parcheggio delle scuole medie, dopo una rabbrividente curva effettuata alla fine di via don Luigi Cantini, che per poco non li aveva fatti finire col muso nella vetrina della latteria dei Nava. Antonello lo aveva salutato con una spietatezza assoluta:
«Se dici a qualcuno quello che t'è successo stasera... ti uccido. Lo giuro».
E s'era avviato senza salutare nessuno, verso la sua squallida abitazione. Flavio e Roberto erano, invece, rimasti ancora un po' a tormentarlo. Flavio, in particolare, per fargli passare qualunque voglia di spifferare in giro ciò che gli era capitato, aveva estratto dalla tasca dei pantaloni un serramanico e gliel'aveva puntato alla carotide:
«Ti infilo questa lama nel collo la prossima volta che ti vedo... Hai capito brutta checca del cazzo?».
Calogero stava svenendo. Sentiva la puntura della lama sulla pelle che, affondando un po' di più, lo avrebbe potuto mandare al Creatore in pochi istanti. Gli sembrava il triste epilogo di un film horror.
«Ah, dimenticavo», aveva detto Roberto. «Che numero di scarpe hai?».
Calogero non era nemmeno riuscito a rispondere dal tanto che stava male.
«Che numero di scarpe hai?, ti ho chiesto, checca!».
Il sequestrato era riuscito a mugugnare «42».
Sicché Roberto lo aveva scaraventato a terra e con rabbia s'era impossessato delle sue scarpe.
«Sono belle e costano un mucchio di soldi. Tanto tu te ne puoi comprare un altro paio, brutta checca».
I due se n'erano andati ansimando come bestie in calore, salutandosi con una manata all'inizio di via Ugo Foscolo. Calogero era rimasto per almeno un'ora, immobile, accomodato al sedile di guida in stato di shock. Doveva metabolizzare... Ma era successo proprio a lui tutto ciò che era successo? O c'era la remota possibilità che per qualche strano gioco del destino si fosse sognato tutto? Brillava la pallida luce dei lampioni di fronte alle scuole, e l'aria s'era fatta frizzante; non c'era in giro un'anima viva e una parte di lui avrebbe voluto solo chiudere gli occhi e svegliarsi in un'altra dimensione. L'atmosfera lugubre era ulteriormente messa in risalto dalle facciate diroccate della Rosier, che da un paio di decenni spiavano il via vai frenetico di via Cesare Battisti. La macchina era un disastro. Puzzava di sudore e di fumo, sui sedili sembrava che fossero appena passati i maiali; il cambio ballava, e la frizione dava strani scatti. La cicca di una sigaretta era stata infilata nel mangiacassette. Erano cose che non sarebbero sfuggite al padre l'indomani, che di sicuro gli avrebbe chiesto cosa fosse accaduto. Ma lui non poteva spiaccicare parola; non aveva alternativa, se non quella di finire anzitempo all'inferno con un coltello infilato nella gola, un'idea che gli metteva, a dir poco, i brividi. Gli avrebbe detto che aveva fatto casino con la sua ragazza, per festeggiare qualcosa, qualcosa ancora da decifrare... ma se poi Anita fosse saltata fuori a dire che non si erano visti? E se già Anita aveva contattato i genitori per chiedere che fine avesse fatto il figlio? E se già i genitori avevano chiamato gli sbirri per comunicare la scomparsa di un giovane? La sua mente era andata in subbuglio totale, senza giungere a una soluzione convincente; il buio della mente e il buio della notte si erano fusi insieme, parafrasando la fine di un sogno, la fine della giovinezza, la vittoria del male sul bene. C'era il serio rischio che la cosa potesse venire a galla, ma quelli non erano né il luogo né il tempo per superare il problema. Chissà quando sarebbe arrivato il momento propizio. Alla fine solo le lacrime e l'amara consapevolezza di trovarsi a piedi nudi in pieno centro erano riusciti a farlo sfogare quel tanto da riuscire a rimettere mano al volante e proseguire fino a casa peggio di un cane bastonato a sangue. Non sapeva ancora nulla dell'esplosione di Chernobyl, ma la notte dell'esplosione del reattore di Chernobyl, non l'avrebbe dimenticata per il resto dei suoi giorni.
Nessun commento:
Posta un commento