sabato 18 febbraio 2012

Affari condominiali: terzo piano, appartamento C


Sentendo dello scoppio del reattore nucleare di Chernobyl, Glauco Zanetti non aveva fatto una piega, a differenza della moglie, Carlotta Bordignon, che non riusciva a distogliere lo sguardo dallo schermo, come rapita da un'estasi; ma nell'uno e nell'altro caso, una catastrofe del genere, non l'avevano mai sentita, se si escludono le vicende belliche di cui portavano ancora memoria, già ventenni al momento del conflitto; avevano però ben chiaro dove si trovasse l'Ucraina, visitata un paio di anni prima in occasione di una gita a Kiev organizzata dalla leva: era una terra lontana, nuda e cruda, con inverni rigidissimi ed estati colorate da sterminati campi di girasole. Ma non vi erano finiti per caso: c'era di mezzo, infatti, un gemellaggio fra Omate e un piccolo borgo ucraino, Bilohorodka, sulla strada per Fastiv, mai andato a buon fine, che si stava cercando di ufficializzare a metà anni Ottanta.
«Dio mio, ti rendi conto di quel che è successo?».
«Cosa è successo?».
«Sei sordo per caso? Non senti il telegiornale?».
«Non sarà mica una centrale nucleare che salta in aria in Ucraina a creare problemi agli italiani...».
«E tu cosa ne sai? Dicono che la nube radioattiva potrebbe raggiungere le nostre regioni in pochissimo tempo».
«La tv racconta sempre un mucchio di scemenze».
Erano i due coniugi dell'appartamento C, al terzo piano del palazzone omatese, sopra il covo solitario di Daniele Bettini, il giornalista politologo. Lui un ex operaio della Dimag, un'azienda di Carugate che costruiva escavatori e ruspe, con la barba, la pancia e gli occhiali perennemente calati sul naso; lei un'ex impiegata della Lodi Macherio, una ditta che produceva componenti per l'industria elettronica, bionda ossigenata, con le guance cadenti e una rabbiosa escrescenza epidermica sul sopracciglio destro. Erano in pensione da vari anni, e gestivano le loro giornate senza particolari scossoni, com'era tipico di tutte le coppie di una certa età dell'epoca, ancorate ad abitudini casalinghe e per nulla mondane: non c'erano ancora i centri commerciali e le sale da ballo erano quasi viste come luoghi della perdizione. Sicché, la mattina, uscivano per comprare pane, latte e giornale, frequentando i pittoreschi negozi che si rincorrevano lungo l'unica contrada significativa della frazione, via Cavour, dove tutti erano mezzi imparentati; il pomeriggio lo trascorrevano al bar, per un caffè o una bibita. Qualche volta, col tempo propizio, si recavano in bicicletta ad Agrate, dove, durante il periodo estivo, si fermavano al Ragno Verde, per mangiare il gelato di Luigi e Mariuccia, ritenuto fra i migliori della zona. Non davano grande confidenza ai condomini, coi quali più di una volta erano entrati in combutta per equivoci legati allo smaltimento dei rifiuti o ai parcheggi “comunitari” prospicienti il palazzone. C'era gente che parcheggiava dove non avrebbe dovuto, creando disagi ai pedoni che dovevano transitare per raggiungere l'atrio dell'ascensore. Glauco, però, non disdegnava la compagnia del Vismara del primo piano, sì e no della sua età, col quale settimanalmente si tratteneva per parlare di sport. Entrambi tifavano Milan, con un accanimento ai limiti del buoncostume. Durante le partite del Milan, tutti e due gridavano come ossessi, obbligando, in pratica, i vicini a prendere parte alla kermesse calcistica. Poco prima del patatrac ucraino, per esempio, s'erano confrontati sulla cocente sconfitta subita nel derby: odiavano gli interisti e l'ultimo risultato del 6 aprile 1986 – 1-0 per i cugini - con goal di Minaudo al 77esimo, era stato un boccone assai amaro da digerire.
«C'era da aspettarselo», aveva commentato il Vismara.
«Ma dove vogliamo andare con una difesa del genere?».
«Nuciari, Terraneo e Vettore, dovrebbero giocare in serie B».
«È una squadra senza futuro. Anche l'attacco fa pena. Potessi condurre io la campagna acquisti. Ci vorrebbe un regista alla Rivera, cazzo, quelli sì che erano bei tempi».
«Dovremmo ripartire daccapo con Baresi e Tassotti e tutti gli altri... via».
«Prendere un gol da un esordiente, è il massimo».
«Ma chi cazzo è sto Minaudo?».
Carlotta non amava la moglie del Vismara, che giudicava troppo grezza, ma si trovava qualche volta con Ada Villa, del secondo piano, per pettegolare e ricamare; dalla vicina, provetta sarta, cercava di imparare i trucchi per muoversi con agilità con ago e filo, con l'uncinetto o la macchina da cucire. Dopo un po' di lezioni informali era diventata una specialista nella lavorazione dei maglioni di lana, che produceva con celerità e buongusto, e che distribuiva agli omatesi che lusingavano il suo operato. Negli ultimi tempi, però, i loro incontri s'erano diradati. Era per via della comparsa di una nuova figura maschile in casa Villa: era un tarchiatello di nome Angelo, in vena di romanticherie piuttosto scontate, che dedicava a gran parte delle donne che incontrava sul suo cammino. Tuttavia le due amiche non s'erano mai soffermate sull'argomento. E Carlotta, di ciò, ne era indispettita. Da una parte voleva saperne di più per compensare l'inconscia, benché risaputa unanimemente curiosità femminile di farsi gli affari degli altri; dall'altra non le andava il fatto che Ada potesse non ritenerla sufficientemente degna di venire a conoscenza delle sue tresche, pensando che dovesse averne una, davvero molto piccante.
«Che amiche siamo se non ci diciamo tutto?», le aveva buttato lì un giorno, sollecitandola subliminalmente a rivelarle il mistero della new entry.
«Ma noi ci diciamo tutto».
Carlotta aveva sorriso.
«Non so se ci diciamo tutto, ma io, se avessi delle novità, di sicuro te le confiderei».
Ada non aveva abboccato e, abbassando lo sguardo, aveva messo definitivamente la cosa a tacere.
Glauco e Carlotta vivevano insieme da quasi quarant'anni, essendosi sposati nell'ormai lontano 1948. Era un gelido giorno di inverno, con la chiesa occupata da una quarantina di persone, tutti parenti stretti. C'erano parecchi bambini, agghindati come damerini dell'Ottocento, con lo sguardo attento e vivace. Con i rispettivi genitori, severamente protetti da abiti neri, e un atteggiamento quasi più funereo che non matrimoniale. Ma era così che si accompagnavano a quei tempi all'altare molti figli della Grande guerra, ancora angosciati dalle vicende belliche da poco conclusesi: il 6 agosto 1945 il quadrimotore B-29 Enola Gay aveva sganciato una bomba atomica su Hiroshima, sancendo, di fatto, la resa dei giapponesi e la fine della Seconda guerra mondiale, dopo sei anni di supplizi e 71 milioni di morti. Certo, dalle loro parti, in piena campagna, gli sconquassamenti delle bombe non s'erano fatti sentire, tuttavia con la moltitudine di persone partite per il fronte, sarebbe stato impossibile non patire i brividi dell'apocalisse procurati dalle ire hitleriane. Avevano entrambi da poco compiuto i 25 anni, la giusta età per convolare a nozze prima dei Cinquanta; qualcuno vi arrivava anche prima dei venti, ma erano comprensibilmente mosche bianche. Provenivano da due famiglie di origine veneta. I genitori facevano gli agricoltori: lavoravano due poderi del trevigiano, a pochi chilometri l'uno dall'altro, dimorando in un caseggiato a due piani, costruito in fretta e furia per ospitare più famiglie possibili e agevolare al meglio il lavoro nei campi.
«Una vita da cani», ricordava spesso Glauco, quando si confidava con qualche amico.
In effetti, da piccoli, avevano patito una moltitudine di stenti, arrivando perfino a soffrire la fame e il freddo. Alcuni fratelli erano addirittura morti per i rigori invernali e la mancanza di provvigioni idonee alla crescita dei più piccini. Non c'era il riscaldamento e durante le notti di dicembre e gennaio la temperatura scendeva spesso sotto lo zero, creando non pochi disagi ai contadini. L'unica bella parentesi era rappresentata dai fantasmagorici ricami di ghiaccio che si imprimevano sui vetri e facevano dire a qualche adulto fantasioso che erano passate le fate, rallegrando il cuore dei bimbi. Ma si soffriva anche per la mancanza di affetto e amore. Mamme e papà non andavano al di là delle normali attività parentali, legate all'allevamento dei figli, e perpetrate da chissà quanti lustri, parafrasando l'innatismo animale. Un bacio o un abbraccio erano rari come le precipitazioni nevose in Algeria. E se qualcuno stava male, non erano certo le coccole a favorirne la guarigione, quanto gli sguardi duri e spietati che volevano dire una sola cosa: «Levati presto da quel giaciglio che è ora di darsi da fare». Peraltro s'era sviluppato una sorta di atteggiamento cinico verso i neonati, tale per cui era meglio non affezionarsi troppo ai più piccoli, consci del fatto che se ne sarebbero potuti andare in fretta, lasciandosi dietro nient'altro che una scia di prostrazione. Se è per questo anche gli altri legami non erano granché solidi. Più che la scomparsa di un coniuge, tanto per dire, si piangeva quella di una mucca. Dalla scomparsa di una moglie ci si riprendeva velocemente, ma dalla morte di un bovino, non ci si poteva riprendere più: al suo decesso, infatti, poteva prevedibilmente seguire quello del padrone, che periva per la mancanza di latte e carne da esso forniti. Questa estrema povertà era percepibile in tutta la zona dell'est italiano, comprendente le campagne del vicentino, trevisano, rovighese, e i tanti centri del friulano. In molte famiglie la morte era vissuta come una benedizione e, nel caso di eclissi improvvise, si ringraziava Dio per aver risparmiato ulteriori lacrime. È per questo motivo che molti si sposavano in fretta, per fuggire da quel che veniva ritenuto all'unanimità un inferno, e raggiungere i lidi più felici, che cominciavano a essere decantati dai giornali e dai pochi libri che circolavano, in virtù dei nuovi paradisi consumistici conseguenti la fine della Seconda guerra mondiale e l'imminente boom economico.
Glauco e Carlotta si conoscevano fin da bambini, ma non s'erano mai parlati. Si vedevano perlopiù a messa, o nel corso di qualche festeggiamento locale. Ma una sera, alla fine delle celebrazioni per Ferragosto, dopo essersi scambiati un paio di sorrisi maliziosi, erano finiti fra i campi di Comugna Larga, nei pressi di Annone Veneto, dove avevano consumato la loro prima notte di amore. Non erano servite le parole, il loro lessico era assai povero, non essendo andati oltre la quinta elementare, bastavano i fatti; peraltro non era mancato l'imbarazzo a frenare le loro indefinite voluttà. Sicché era evidente a loro stessi e al mondo intero e che si sarebbero presto sposati, a mo' di una fuitina alla siciliana, per poi puntare le loro prue verso ovest, dove le opportunità di lavoro parevano più vantaggiose. I genitori non s'erano pronunciati più di tanto sulla novità. Sapevano che le cose sarebbero andate così, come se fossero già state scritte. In fondo, non facevano che imitare l'iter comportamentale delle nuove generazioni che con le miserie dei vecchi non volevano più avere a che fare, in nome di un avvenire ghiotto e sereno che si celava ben al di là dei confini della propria malfamata regione. Sennonché erano felici di avere una bocca in meno da sfamare, ma nell'intimo si dannavano per il progressivo depauperamento della forza lavoro. La verità è che, col sopraggiungere del dopoguerra, e la comodità delle otto ore lavorative al caldo, in qualche fabbrica o azienda in via di sviluppo, nessuno più voleva saperne di lavorare la terra. Così era iniziata l'emorragia di migranti dalle campagne alle città. E così Glauco e Carlotta erano alfine approdati in Brianza, dove alcuni parenti del giovane avevano già preso dimora, a Monza, in vecchie case di ringhiera affittabili a prezzi stracciati.
I mesi e gli anni erano, poi, passati in fretta. In un lampo. E, dunque, dopo tanti anni di matrimonio la passione fra i due coniugi era completamente svanita; tuttavia dipendevano così tanto l'uno dall'altro da non poter nemmeno immaginare un futuro da single o al fianco di altri parenti (benché, di parenti, ne avessero ben pochi). I figli li avevano cercati per un po', ma, poi, vedendo che non arrivavano, si erano messi l'anima in pace, senza particolari ansie. «I figli possono anche essere una scocciatura», soleva ripetere Carlotta, auto-convincendosi del fatto che lei non aveva nulla da recriminarsi. «In fondo non ne abbiamo mai sentito la mancanza e adesso che siamo in pensione, anziché badare ai nipotini, pensiamo a goderci la vita».
C'era un po' di cinismo e rassegnazione nelle sue parole, ma era anche per via dell'ambiente in cui erano cresciuti, nel quale non c'era da porsi troppe domande, bisognando accettare la vita per quella che era, con i suoi accadimenti spesso ingiusti e incomprensibili. Era, in pratica, lo stesso fatalismo che contraddistingueva i propri avi, consci di vivere appesi a un filo, dal primo giorno in cui avevano messo fuori il becco oltre i villi dell'involucro placentare. Ma nonostante il destino gli avesse precluso le gioie paternali e maternali, a modo loro continuavano ad amarsi come il giorno della festa di Ferragosto. Litigavano tutti i giorni, per i motivi più banali, tipo quello di aver lasciato per troppo tempo spalancata la finestra della camera, ma mai in modo brutale; si mandavano vivacemente a quel paese, ma poi, nel giro di un quarto d'ora, tutto tornava come prima. Anche il giorno dell'esplosione del reattore di Chernobyl avevano avuto un diverbio relativo allo scaldabagno che aveva smesso di erogare acqua calda. Glauco era andato su tutte le furie perché diceva che spettava alla moglie chiamare l'idraulico; mentre Carlotta era convinta che se ne dovesse occupare il marito. L'uomo di casa, raggiungendo il bagno per farsi una doccia, aveva constatato che l'acqua era ancora fredda e s'era inalberato non poco, dando della poco di buono alla dolce metà.
«Sei lì tutto il giorno a guardare la televisione, come se avessi già ottant'anni».
«Potevi pensarci tu».
«Devo sempre pensare a tutto io».
Ma il disinteresse di Glauco per la catastrofe ucraina, non era per via del battibecco avuto durante il pomeriggio con la moglie, bensì per una faccenda che da giorni lo torturava, un pensiero fisso che s'era insinuato nella sua mente, e non gli lasciava tregua. Il presupposto concerneva il fatto che, prima di rincoglionirsi del tutto, così come vedeva sempre più spesso accadere a chi aveva una decina di anni in più di lui, avrebbe voluto conoscere i retroscena della sua storia familiare, in particolare quella del nonno materno, avvolta nel mistero più assoluto. Fin da piccino gli avevano, infatti, detto che il nonno non aveva avuto una mamma e papà come tutti gli altri, ma dei genitori adottivi. Quand'era piccolino non capiva bene cosa significasse “adottivi”, benché avesse intuito che non doveva trattarsi di una bella parola. Poi, crescendo, i dettagli erano aumentati, fino a fargli comprendere che la vera mamma del nonno l'aveva, in pratica, abbandonato appena nato in un orfanotrofio di Venezia, il Santa Maria della Pietà. Era uno degli orfanotrofi più vecchi d'Italia, aperto fin dal 1346 per volere di Petruccio d'Assisi, un francescano che aveva iniziato a prendersi cura degli orfani del veneziano, affidandoli alla protezione dei vari benestanti presenti in regione; da qui, poi, s'era fatto avanti per proporre una struttura sociale a tutti gli effetti preposta alla salvaguardia dei piccoli più sfortunati. Nei secoli, il Santa Maria della Pietà aveva, dunque, ospitato innumerevoli trovatelli e trovatelle, che in qualche modo erano riusciti a farsi strada nella vita; e uno di questi era proprio il nonno di Glauco. L'omatese di adozione ci aveva rimuginato per un po' e alla fine aveva deciso di mettersi in contatto con l'orfanotrofio. Gli aveva risposto una voce flebile e delicata, quella della signorina Filomena Mazzon:
«Gentile signore, la pregherei di mandarmi una lettera indirizzata al brefotrofio, con riportate le generalità di suo nonno, in particolare nome e cognome e data di nascita, dopodiché vedremo cosa sarà possibile fare».
Brefotrofio era una parola che non aveva mai sentito nominare, ma era stato grato alla dipendente del Santa Maria della Pietà:
«Oh, bene, la ringrazio molto per le sue indicazioni. Le invierò una lettera quanto prima».
Glauco s'era così dato rapidamente da fare per venire a capo della faccenda ricercando le informazioni richieste da Filomena. Ciò che sapeva con certezza è che il nonno si chiamava Vittorio Canestrini, ma non aveva idea del suo giorno di nascita. A chi avrebbe potuto chiedere? Sua madre era morta da tempo... Ma c'era la sorella più piccola di mamma, Assunta Canestrini, che non sentiva da una vita, abitava a Pramaggiore, e doveva avere un'ottantina di anni: forse lei avrebbe potuto dargli qualche ragguaglio in merito. Aveva chiamato Assunta con i primi tepori primaverili, circa due mesi prima del disastro in Ucraina.
«Ciao zia, sono io».
«Oh, meno male che ogni tanto ti fai sentire», l'aveva rimproverato la zia. «Allora come stai? Come va la tua famiglia? I bimbi stanno bene?».
«Zia, guarda che io non ho figli».
«E la piccolina?».
«Zia, guarda che io non ho figli».
«Ma non sei il Luciano?».
«Zia, io sono il Glauco, il figlio dell'altra tua sorella...».
«Oh, il Glauco, quanti anni, quanto tempo che non ci sentiamo... Allora come stai? Come va la tua famiglia? I bimbi stanno bene?».
A questo punto s'era impossessata della cornetta del telefono la badante di Filomena, al suo fianco già da un paio di anni, da quando aveva cominciato a dare segni di squilibrio, forse dovuti a una forma di demenza senile; anche se, nel 1986, erano ancora in molti a credere che la progressiva perdita di memoria fosse semplicemente figlia del normale invecchiamento fisiologico; di fattori come l'arteriosclerosi che, a onor del vero, con la smemoratezza, non c'entravano quasi nulla, essendo il problema perlopiù dovuto all'accumulo di una pericolosa proteina, la beta amiloide, indipendente dal restringimento dei vasi arteriosi del cervello.
«Pronto, chi parla?».
«Sono Glauco, il nipote di Filomena. C'è qualcosa che non va?».
«Non sa che sua zia non è più autosufficiente?».
«È un po' che non la sento».
«Capisco. Ma sua zia non sta bene da tempo».
Glauco aveva storto la bocca, vinto da una sensazione di smarrimento.
«Sua zia mi è stata affidata dalla figlia nell'estate del 1984, dopo averla trovata senza vestiti per strada a parlare coi piccioni. Se vuole informazioni migliori dovrebbe contattare sua cugina».
Glauco era caduto dal pero. È vero che non sentiva i parenti di Pramaggiore da anni, ma non avrebbe mai creduto che le cose potessero essere precipitate a tal punto. Tuttavia gli era bastato poco a riflettere sul fatto che non gli sarebbe giovato granché chiamare la cugina Cleonice; di sicuro non gli sarebbe stata d'aiuto e di sentirla solo per chiederle come andava la madre, gli sembrava, francamente, un atteggiamento abbastanza ipocrita, visto che della zia, in fondo, non gli importava nulla; mentre era evidente che, se le avesse veramente voluto bene, non avrebbe aspettato tanto tempo per impugnare la cornetta e mettersi in contatto con lei, sangue del suo sangue. Sicché s'era rassegnato a scrivere all'orfanotrofio di Venezia basandosi sui pochi dati che aveva a disposizione: suo nonno si chiamava Vittorio Canestrini ed era nato in un imprecisato giorno del 1800; su quest'ultima cifra poteva essere certo visto che lui era del 1923, sua madre del 1899 e suo nonno, verosimilmente, di una data compresa fra il 1879 e il 1859, considerando che di solito i figli si concepiscono fra i 20 e i 40 anni. La speranza, a questo punto, era che le informazioni potessero essere comunque sufficienti a risalire alle origini del nonno. Dopo poche settimane dall'invio della missiva era arrivata la risposta:
«Gentile Signor Zanetti, le comunichiamo che la persona da lei ricercata è vissuta presso il nostro istituto dal 1870 al 1882 e risponde al nome di Vittorio Canestrini, nato a Venezia il 3 giugno 1870. Dai nostri incartamenti risulta figlio di nn. Sperando di esserle stati utili, la salutiamo cordialmente».
Nn? Erano bastate queste due lettere a mandarlo in solluchero e a farlo girare per casa con i capelli all'aria per una decina di minuti, davanti agli occhi esterrefatti della moglie. Cosa volevano dire? Cosa si nascondeva dietro a questa meravigliosa sigla? Si stava già pregustando chissà quali fantomatiche ascendenze quando, recandosi ad Agrate in via don Minzoni, dove sorgeva la biblioteca comunale, aveva scoperto che era tutto molto più spiccio: nn stava semplicemente per nomen nescio, un'espressione latina indicante genericamente l'anonimato di qualcuno, tradotto spesso dall'immaginario collettivo in “bastardo”, significato tutt'altro che nobile. S'era dunque reso conto che le sue ricerche non erano valse a molto: in più rispetto a ciò che gli avevano sempre raccontato, aveva solo una data precisa di nascita, e la certezza che qualcuno avesse abbandonato suo nonno, cose perfettamente intuibili anche senza alcuna ricerca araldica; quindi magre consolazioni. Ma chi erano i suoi veri genitori? E perché avevano deciso di rinnegarlo? Era a questi quesiti che desiderava rispondere, sollecitato dall'ipotesi mai tramontata che dietro a tutto ciò potesse nascondersi qualche incredibile trama: magari quella inerente un altolocato che, in seguito a un rapporto fedifrago, aveva deciso di allontanare il figlio del peccato; la storia di una promessa sposa, rimasta incinta di un amore segreto, non condiviso dalla sua famiglia; la tesi riguardante una migrazione dall'est, dovuta alle persecuzioni patite da un'etnia misteriosa, un tempo ascrivibile al potente regno dei Traci, noti per le loro inestimabili ricchezze. Ne aveva di fantasia Glauco, peraltro rinfocolata da una passione per la storia che non aveva mai coltivato, ma che di tanto in tanto tornava a solleticare la sua scontata quotidianità. Aveva così scritto una nuova lettera indirizzata alla cordiale Filomena - che con sempre maggiore clangore andava chiedendosi che aspetto avesse, identificandola con un affetto da tenere taciuto - nella quale chiedeva esplicitamente qualche notizia più dettagliata relativa ai natali del nonno. Ma anche questa risposta non era stata molto felice:
Gentile Signor Zanetti, dai nostri incartamenti risulta che suo nonno sia stato accompagnato all'istituto da una levatrice di nome Gigliola Punzecchi; la donna che, con ogni probabilità, ha ricevuto il piccolo dalla vera madre, convinta di disfarsene al più presto, per motivi che noi non possiamo conoscere. All'epoca non erano infrequenti le donne che prestavano il loro servizio ad altre signore, si prendevano cura dei figli altrui, prima di recapitarli presso qualche centro comunale o in qualche famiglia disposti ad adottarli. Sperando, nuovamente, di esserle stati di aiuto, le porgiamo i nostri più vivi saluti”.
«Puttana troia», erano le uniche parole che Glauco era riuscito a pronunciare dopo aver finito di leggere la lettera. «E chi sarebbe questa Gigliola Punzecchi?».
Il rebus pareva infittirsi e a questo punto si rendeva conto che solo una persona avrebbe potuto realmente fornirgli indicazioni sui suoi veri bisnonni: Gigliola Punzecchi. Doveva, dunque, assolutamente mettersi in contatto con lei. Ma l'entusiasmo per essere venuto a capo, in parte, di un dilemma che sembrava irrisolvibile era presto svanito, rendendosi conto che, la donna in questione, per ovvi motivi anagrafici, doveva essere da tempo passata al Creatore. Il suo ragionamento non lasciava dubbi. Se Gigliola aveva preso in cura il nonno appena nato dalla sua vera bisnonna, significava che doveva avere più o meno l'età della parente che aveva deciso di disfarsi del suo piccolo. Perciò se il nonno era nato nel 1870, suggeriva che sua madre dovesse essere nata intorno al 1845, sì e no l'età della levatrice. Quindi tirando le somme, nel 1986, Gigliola Punzecchi avrebbe dovuto avere circa 140 anni. Un'età non plausibile. A Glauco erano venute le lacrime agli occhi. Ma forse aveva ancora una carta giocare: contattare i figli o i nipoti di Gigliola, che, magari, avevano saputo qualcosa della storia della sua famiglia... E per fare ciò s'era rimesso in contatto con Filomena. Questa volta, però, impugnando direttamente il telefono, poche ore dopo l'esplosione di Chernobyl, e poco prima che la notizia venisse dipanata dai telegiornali italiani.
«Buonasera signor Glauco».
«Mi perdoni signora Filomena, ma in base agli ultimi dati venuti in mio possesso mi sono chiesto se non ci sarebbe la possibilità di mettersi in contatto con i discendenti di Gigliola Punzecchi...».
Filomena aveva dovuto rimettere testa alla situazione, sconsolata da tanta insistenza.
«Mi faccia riprendere in mano i documenti che le abbiamo girato... Sa, ci contattano in molti...».
Dopo un rapido consulto s'era così capacitata dell'assurdità della richiesta. La signora Punzecchi era verosimilmente morta da almeno una sessantina d'anni e l'istituto non poteva possedere documenti relativi a una persona che, in pratica, non aveva fatto altro che “traghettare” un bimbo nato più di un secolo prima dalla sua vera famiglia alle gelide braccia di un istituto, probabilmente, per racimolare un po' di soldi e sparire il prima possibile.
«Mi spiace signor Glauco, ma non abbiamo dati relativi alla levatrice. Non possiamo nemmeno sapere quanti figli avesse e se sono ancora in vita. Quando veniva affidato all'istituto un bimbo, si pensava solo a regolarizzare burocraticamente il suo avvenire, non di certo quello di chi si faceva carico di portarlo qui. Pensi che, in molti casi, gli accompagnatori non si vedevano neanche: molte volte i piccoli abbandonati venivano trovati in fasce davanti alle porte dell'orfanotrofio, senza nemmeno una lettera di accompagnamento…».
Glauco c'era rimasto davvero male, conscio del fatto che davanti a quest'ultima sentenza, le chance di risolvere i suoi dubbi rasentavano lo zero. La tristezza l'aveva adombrato con tutto il suo fragore, percependo l'inutilità delle domande che, in ogni caso, continuava a porsi: come poteva trovare i discendenti della levatrice? E ammesso di poterli trovare, cosa potevano oggettivamente sapere di uno fra i tanti bimbi allevati dalla madre quando loro, magari, non erano ancora venuti al mondo? Poteva solo rassegnarsi. Sicché, Filomena, interpretando l'abbattimento dell'interlocutore, gli aveva offerto ulteriori delucidazioni, cercando, in qualche modo, di compiacere la sua sete di verità: «Vede signor Glauco, al tempo, erano molti i bimbi che finivano in orfanotrofio, ma il più delle volte non erano che la conseguenza di situazioni familiari disastrose, niente di straordinario. Le tante persone che ci contattano pensano che dietro a questi abbandoni si celino tesori o ingenti eredità. Ma nella stragrande maggioranza dei casi sono solo...». Piccoli e poveri bastardi.
Glauco, con un bolo alimentare che da vari minuti gli ballonzolava fra i denti, non aveva dato retta alle parole dello speaker: nella testa seguitavano ad accavallarsi le ultime parole di Filomena. Si riferivano al fatto che a cavallo dell'Ottocento molte famiglie erano così povere da non poter permettersi un altro figlio e che, quindi, in seguito all'ennesima gravidanza, per campare, non avevano altre soluzioni se non quella di abbandonare il nascituro. All'epoca gli anti-concezionali era come se non esistessero, e dunque le cicogne potevano accavallarsi una dietro l'altra senza tregua, mandando severamente sul lastrico le già provate famiglie dell'Italia orientale. Così c'era chi alleggeriva i nuclei familiari usufruendo di qualche istituto di carità o addirittura vendendo i piccoli indesiderati a qualche altolocato. «Un altro scenario era quello rappresentato da giovanissime o anzianissime donne che per motivi diversi non potevano allevare il proprio bambino», aveva concluso la dolce Filomena. «Una giovanissima donna, in caso di gravidanza indesiderata, poteva andare incontro a gravi problemi di natura sociale; c'erano donne che venivano emarginate e bollate alla stregue di prostitute per un concepimento al di fuori del matrimonio e che poi non riuscivano più a costruirsi una degna esistenza, perché nessuno le voleva; una donna in là con l'età, d'altro canto, avrebbe potuto avere gravi difficoltà a tirare grande un bimbo, dal punto di vista psicologico, ma soprattutto fisico. Le donne di cento anni fa erano molto più provate di quelle di oggi, e a trent'anni potevano già essere considerate vecchie».
Di fatto è presumibile supporre che anche il nonno di Glauco non fosse stato altro che l'ennesimo figlio di una poverissima famiglia, che era stata costretta ad affidarsi a un orfanotrofio per sopravvivere. Così erano quasi sicuramente andare le cose. Ma Glauco non voleva crederci, aveva sperato troppo di poter scoprire chi fossero i suoi veri bisnonni: era diventata una specie di sfida con se stesso e contro il tempo. Le immagini dell'apocalisse ucraina scorrevano sullo schermo, mostrando un reattore squarciato da quella che doveva essere davvero stata una tremenda deflagrazione, con la moglie incollata alla tv come un post-it; ma la sua mente era altrove e s'era messa a viaggiare per confini che non aveva mai esplorato. Ed è qui che, come per magia, aveva incontrato la vera mamma di Vittorio Canestrini: era la figlia sedicenne di un principe dell'impero austroungarico, già promessa sposa di un altro principe, innamoratesi di un pescatore triestino, padre del futuro papà della stirpe materna dell'omatese di adozione. Era, dunque, stata la nobile famiglia austroungarica, in procinto di ampliare il suo areale imprenditoriale in Bosnia-Erzegovina, affiancata dalla potenza tedesca, a obbligare con forza la bisnonna di Glauco a consegnare il bimbo nelle mani di una fidata levatrice veneziana, che – strapagata - non avrebbe fatto parola con nessuno della vera identità della giovane madre. Era un giorno grigio e umido, con una pioggerellina appiccicosa e insistente, che si mischiava alle lacrime di un dolore infinito: la neomamma non avrebbe chiesto altro che poter sposare l'umile popolano di origine carsica, che amava con tutto il suo cuore, e rimanere accanto al suo bimbo per il resto dei suoi giorni.

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